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Etica deontologica e animalità [*]

di Piero Giordanetti

Sebbene il kantismo costituisca il punto di riferimento fondamentale delle correnti del dibattito contemporaneo sull'etica che sostengono la necessità di stabilire principi passibili di universalizzazione, è stato sottolineato da più parti come la posizione kantiana nella sua formulazione storica ben difficilmente possa valere come “attuale”. Il legame istituito da Kant tra l'imperativo categorico e il problema posto dall'esistenza di animali diversi dall'essere umano è stato spesso interpretato come una soluzione di carattere antropocentrico che crea serie difficoltà alla fondazione di un'etica che includa in sé anche il mondo degli animali.

Le teorie contemporanee muovono in generale dal presupposto che i problemi morali si pongono esclusivamente nell'ambito di soggetti dotati di linguaggio e capaci di agire, poiché, come membri di una comunità di esseri umani, ci rapportiamo e non possiamo fare a meno di rapportarci alla collaborazione e al consenso con altri. È stato però notato da più parti che i nostri sentimenti, i nostri giudizi, le nostre azioni non si riferiscono solo a soggetti dotati di linguaggio e in grado di agire, ma anche agli animali. Günther Patzig, ad esempio, dedica grande attenzione ai problemi del rispetto degli animali e dell'ecologia, della conservazione delle specie, ravvisando la necessità di mantenersi entro i confini di un'etica senza metafisica. Esiste, dunque, una responsabilità nei confronti della natura che sia indipendente dalla responsabilità nei riguardi dell'umanità attuale e futura? Un'etica fondata su di un ristretto antropocentrismo, quale quella proposta da Kant, si trova in imbarazzo nel caso di una fondazione filosofica della difesa degli animali. «Che cosa accade con l'estensione dell'ambito di validità delle nostre obbligazioni morali al di là della cerchia dell'umanità, a tutti gli esseri viventi che sono in grado di avere sensazioni di dolore e di piacere? È evidente che qui vi è un limite […] poiché gli animali non possono stabilire con noi un rapporto di fondamentale reciprocità, quale è quello che determina il nostro comportamento nei confronti degli esseri umani» [1].

Anche Jürgen Habermas ha recentemente affermato che il problema posto alla riflessione etica dall'esistenza degli animali non può essere risolto appellandosi a Kant; egli ha sì riconosciuto, prosegue Habermas, che l'umanità ha doveri nei confronti degli animali, ma ha anche completamente trascurato il fatto che si danno doveri non solo “in rapporto agli animali”, ma anche “nei loro confronti”; gli animali ci si impongono come creature che dobbiamo rispettare nella loro integrità fisica per se stessi. In ciò si rivelano anche per Habermas le conseguenze di un concetto ristretto della morale; l'istanza antropocentrica sembra rendere non solo la teoria di Kant ma anche le attuali teorie “di tipo kantiano” cieche in linea di principio in relazione a problemi che derivano dalla responsabilità morale dell'essere umano nei confronti dell'ambiente non umano che lo circonda [2].

Hans Jonas si muove nella medesima direzione quando propone di spostare il centro dell'etica dal principio della giustizia, pensato per una costruzione simmetrica e antropocentrica, al principio della responsabilità, il cui punto fondamentale è proprio la sua adeguatezza a costellazioni fondamentali asimmetriche, eticamente rilevanti, come la responsabilità nei confronti dell'ambiente e degli animali. È essenziale che l'obbligazione a certe azioni o al loro contrario non si fondi sul riconoscimento delle esigenze sollevate dalla controparte, come esigenze in via di principio altrettanto giustificate quanto le nostre. Qui non vi sono anzi esigenze o rivendicazioni della controparte, in quanto essa non parla. Non si deve ascoltarla, ma semplicemente dirigere lo sguardo su di essa: il mero essere di un ente onticamente semplice contiene in modo immanente ed evidente un dovere per gli altri; è sufficiente rivolgere lo sguardo a ciò che è perché sorga il sapere [3].

Ursula Wolff ha sviluppato una teoria morale “libera dalla metafisica”, imperniata sul concetto della “compassione generalizzata” che segue a una critica delle posizioni essenziali della filosofia morale e riprende elementi ricavati da Schopenhauer, da Kant, dall'aristotelismo e dall'utilitarismo. Richiamandosi a Schopenhauer, considera la compassione come fondamento motivazionale adeguato dell'agire morale, in quanto esso pone la capacità individuale di soffrire al centro della morale. Inoltre, essa è un atteggiamento basato su di un affetto naturale ed è già elemento costitutivo della morale quotidiana. «La compassione è il movente morale dal quale derivano le due virtù cardinali della giustizia e della filantropia». Il rimprovero a Kant è formulato con decisione: grazie alla sua etica categorica nella quale individui dotati di ragione hanno un valore assoluto, egli è in grado di rendere comprensibile per la morale quotidiana perché gli individui costituiscono il limite dell'azione altrui. Wolff si chiede, però, quale fondazione abbia la tesi che si debba agire moralmente proprio nei confronti di quegli esseri che sono dotati di ragione; la critica di Wolff è soprattutto che l'etica antropocentrica di Kant stabilisce il rapporto tra uomo e animale come una dicotomia che oppone “persona” a “cosa” e prosegue così la tradizione della filosofia del diritto europea. Il carattere di valore assoluto che Kant attribuisce alla ragione si dimostra in ultima istanza un'assunzione metafisica che non si è costretti a condividere [4].

Diversa in parte la posizione di Otfried Höffe, che prospetta teorie che si muovono all'interno dell'alveo del kantismo. Egli sottolinea in difesa di Kant che «il privilegio del quale l'essere umano si gloria non si presenta come diritto particolare, ma piuttosto come un'obbligazione particolare». L'essere umano ha dunque una superiorità nei confronti degli animali, ma essa è morale e implica l'essere sottoposti alla legge: tra i doveri dell'essere umano vi è il dovere di rispettare gli animali, e questo è un dovere verso se stesso. Höffe afferma anche che ciò avviene «proprio al culmine dell'illuminismo europeo e al tempo stesso del pensiero antropocentrico, proprio in Kant» [5]. Tuttavia, neppure Höffe condivide completamente la posizione kantiana. Nell'Antropologia pragmatica, ricorda, è svolta un'attenta apologia della sensibilità, che però è limitata alla facoltà conoscitiva, a scopi teoretici, né pratici né morali; accanto a essa si colloca anche un'analisi del piacere sensibile rilevante per la prassi; purtroppo è assente un tema che pure dovrebbe necessariamente imporsi in un'antropologia: la capacità di soffrire comune a esseri umani e animali. Al contrario, già il primo paragrafo dell'opera discorre dell'«animale privo di ragione» e soggiunge, come già Tommaso d'Aquino e Spinoza, che dell'animale si può «disporre ad arbitrio». Certo, in tal modo Kant non propone un “antropocentrismo dispotico”, ma piuttosto prende posizione espressamente in favore della difesa degli animali; poiché essi, in quanto privi di ragione, non possono beneficiare direttamente di obbligazioni morali, la loro difesa rientra nei doveri dell'essere umano nei confronti di se stesso. Su questo punto Kant segue, in modo secondo Höffe un po' frettoloso, l'idea già presente nel diritto romano secondo la quale tutto ciò che non è persona è cosa [6].

Neppure Allen W. Wood, che pur si ispira a Kant, ne accetta il principio della distinzione tra persona e cosa; ciò significa a suo avviso negare il principio che permette di dividere tutti i doveri in doveri verso se stessi e doveri verso gli altri, ma apre anche la strada alla possibilità di riconoscere sulla sola base del “logocentrismo”, e senza introdurre alcun valore che esuli dalla natura razionale, doveri nei confronti di esseri non-razionali che non sono basati né derivati da doveri verso esseri razionali. Secondo Wood questa proposta è decisiva per la fondazione dei doveri nei confronti degli animali e permette di superare il principio della persona e quindi la derivazione per via indiretta dei doveri verso gli animali dai doveri dell'essere umano verso se stesso. Infatti, sebbene gli animali non umani non possiedano una natura razionale, ne possiedono però frammenti ben riconoscibili. Hanno facoltà che potremmo considerare l'infrastruttura della natura razionale. Hanno desideri e sperimentano piacere e dolore. Opporsi ai loro desideri oppure causare loro volutamente dolore significa trattare con disprezzo quella parte di natura razionale che gli animali condividono con gli esseri umani. Molti animali hanno ciò che Tom Regan chiama preference autonomy: ovvero essi hanno preferenze e anche l'abilità di dare inizio ad azioni volte a soddisfarle [7]. Preference autonomy non equivale all'autonomia razionale su cui si fonda l'etica di Kant, ma è una condizione necessaria dell'autonomia razionale ed è parte della sua struttura [8].

Se il kantismo etico nella sua elaborazione originaria si potesse ricondurre interamente e senza problemi a questo quadro, presenterebbe innegabilmente notevoli lacune, che sembrerebbero renderne necessaria una decisa trasformazione. Il problema che ora si pone è se esso sia effettivamente riconducibile alle tesi di cui sopra, oppure se presenti una complessità dalla quale emergono spunti che indirizzano in una direzione diversa e potrebbero essere valorizzati in un'ottica di ripensamento e modificazione teorica. Il presente articolo non persegue intenti apologetici miranti a caratterizzare l'etica kantiana come etica animale di carattere non-antropocentrico (sia essa metafisica come vorrebbe ad esempio Joans oppure non-metafisica come richiesto da Habermas e Patzig) o a dimostrare che la sua interpretazione è stata dominata da gravi fraintendimenti; intende piuttosto cercare di riportare alla luce la ricchezza della sua proposta, evidenziandone contenuti e soluzioni che potrebbero essere ripresi e utilizzati in tutta la complessità della loro articolazione teoretica.

Le pagine che seguono si soffermeranno su due aspetti: la valutazione dell'animalità entro il contesto di una critica della ragion pratica empirica e la rivalutazione della sensibilità in una critica della ragion pura pratica. Il punto di riferimento sarà costituito dalla Critica della ragion pratica.

1. Animalità e ragion pratica empirica

1.1 L'abitudine di Hume

La “Prefazione” alla Critica della ragion pratica assume una posizione di netta contrapposizione nei confronti di coloro i quali ritengono di aver compiuto l'inattesa scoperta «che non vi è in nessun luogo, né vi può essere, conoscenza a priori» [9]. Costoro assegnano all'abitudine, necessità soggettiva, il compito di sostituire il concetto di causa e di dichiararlo falso e semplice illusione; se si è constatato che sempre a uno stato ne è conseguito un altro, si potrà dire che anche in futuro si sarà legittimati ad attendersi il ripresentarsi di casi analoghi. L'obiezione di Kant è che, se si accettasse questa concezione, si sarebbe costretti ad ammettere che tra l'essere umano e l'animale non sussiste alcuna differenza; gli animali, infatti, non possiedono alcun tipo di conoscenza a priori, ma procedono unicamente sulla base dell'esperienza. I teorici della derivazione di ogni conoscenza dall'esperienza descrivono dunque non già la conoscenza umana, ma quella animale. Kant non può ammettere che la scienza sia ricondotta all'animalità e al principio soggettivo dell'abitudine. Coloro che operano in tal modo pretendono di dimostrare mediante la ragione che non vi è ragione; conoscenza razionale e conoscenza a priori sono infatti identiche: diciamo di conoscere qualcosa mediante la ragione solo se sappiamo che avremmo potuto conoscere un oggetto anche a prescindere dal suo presentarsi come fenomeno nell'esperienza. È un procedimento autenticamente contraddittorio assegnare necessità a una proposizione empirica e pretendere che in ciò consista la vera universalità del giudizio. Al contrario, necessità e universalità del giudizio soltanto rendono possibile un Vernunftschluß e quindi anche uno Schluß aus der Analogie, poiché l'analogia è universalità e necessità soggettiva almeno presunta e quindi non può darsi se non presupponendo universalità e necessità oggettive.

È interessante sottolineare come Kant ammetta la presenza di un elemento animale nella scienza del fenomeno: l'abitudine, purché essa sia ricondotta al suo fondamento, al principio a priori della causalità. Sotto il profilo teoretico-speculativo si offre infatti la possibilità di fondare il procedimento empirico dell'associazione di idee sui cui si fonda l'abitudine su leggi a priori di natura causale e di ricondurre ciò che pare identificarsi con l'istinto animale sul piano della ragione a priori. Il fine di questa critica all'empirismo universale non è però, dato il contesto, di natura teoretica, ma riveste significato pratico: ciò che colpisce Kant è che la posizione di Hume, che identifica ragione e istinto, ragionamento per abitudine e animalità, sfocia nella negazione della libertà, dell'immortalità e di Dio. La Prefazione offre quindi una prima valutazione dell'animalità come ciò che si oppone al procedere della ragione umana e separa nettamente ragione istinto. Già in questa distinzione emerge però un interesse per il modo di procedere dell'animale sulla base del mero principio dell'associazione di idee per abitudine, che costituisce l'oggetto di una critica della ragion pura empirica.

1.2. Felicità, istinto e ragione

Questa attenzione all'animalità sotto il profilo empirico riaffiora nei paragrafi 2 e 3. i quali elaborano un'analisi delle massime e del sentimento che ne rappresenta l'origine secondo i criteri di un'antropologia o psicologia empirica analoga a quella che l'autore presenta contemporaneamente agli studenti nelle sue lezioni universitarie. Questo aspetto empirico non designa solo un bersaglio polemico che è compito del filosofo morale debellare, ma illumina anche il contenuto di un'antropologia che una Critica della ragion pratica non giudica negativamente in se stessa, ma solo quando se ne traggano principi per la fondazione della morale.

Il paragrafo 3 riconduce tutti i principi materiali all'amor proprio, ovvero alla felicità individuale. Come base per attaccare alla radice la teoria di Wolff e Baumgarten di una separazione puramente graduale fra facoltà di desiderare superiore e facoltà di desiderare inferiore, lo scolio I al paragrafo 3 offre una caratterizzazione empirica e antropologica del piacere. Sotto il profilo dell'osservazione empirica la facoltà di desiderare è una facoltà determinata dal sentimento del piacere, la cui natura non muta per il fatto di avere origine nei sensi piuttosto che nell'intelletto. Il sentimento del piacere è sempre identico a se stesso e non può essere suddiviso in specie diverse a seconda delle rappresentazioni da cui deriva. Due sono i motivi di questa peculiarità del piacere: innanzitutto essa è riconducibile alla sua empiricità, al fatto che il piacere può essere conosciuto soltanto a posteriori e deve quindi necessariamente precedere il desiderio come sua materia. In secondo luogo dipende dall'unitarietà e unicità della forza vitale sulla quale esercita la sua azione. L'organo con il quale il piacere è percepito è sempre il senso interno del singolo individuo, ed esso prescinde del tutto dall'origine delle rappresentazioni che lo colpiscono, poiché è passivo e atto a recepire impressioni provenienti dagli oggetti, dalla materia del desiderare e non si interroga sulla loro origine, ma ne sente unicamente l'effetto.

Se è quindi da escludersi una differenza qualitativa fra i piaceri del senso e quelli dell'intelletto, non si può però trascurare che fra essi sussiste un divario relativo al grado, alla quantità del piacere che producono, alla capacità di agire con più forza sul sentimento vitale. Intensità, lunghezza, facilità e possibilità di essere ripetuto sono le caratteristiche che permettono di porre una differenza a livello del piacere animale che colpisce la forza vitale. È lecito separare le gioie e i piaceri più squisiti, come quelli che ci derivano dalla coscienza della nostra forza d'animo nel superare gli ostacoli che si oppongono all'ottenimento della materia del desiderio, oppure dal coltivar le doti dello spirito, che non si affievoliscono, ma rinvigoriscono il sentimento vitale e, oltre a dilettare, educano. Quando il nostro scopo non sia quello di rintracciare il criterio e il principio della moralità, ma quello di svolgere un'analisi empirica e antropologica della natura del sentimento del piacere, queste osservazioni possiedono un loro rigore e una loro cogenza. È innegabile che in ciò trovi espressione l'apprezzamento per Epicuro. Egli ha perfettamente ragione, dice Kant, se ci manteniamo sul piano di una critica della ragion pratica empirica, ad asserire che il piacere [Vergnügen] determina la volontà all'azione e che, quale che ne sia l'origine, è sempre identico a se stesso, né è possibile stabilire una differenza qualitativa fra i diversi tipi di piacere; si parli del piacere intellettuale oppure di quello empirico si dovrà sempre constatare l'analogia che regna fra essi. Il piacere che può derivare e anzi coincidere con la virtù non presenta differenze di sorta rispetto al piacere che ha la sua origine nei sensi, se ci muoviamo in un orizzonte qualitativo. La natura dei due piaceri è omogenea e la loro differenza è legata esclusivamente al grado, alla maggiore o minore grossolanità o raffinatezza. «Se con Epicuro noi stabiliamo che nella virtù ciò che determina la volontà sia il semplice piacere che essa promette, non possiamo poi disapprovarlo perché egli ritiene questo piacere omogeneo con quello dei sensi più grossolani; non si ha infatti motivo di fargli carico di aver attribuito unicamente ai sensi corporali le rappresentazioni mediante le quali vien prodotto in noi questo piacere. Per quanto si può indovinare, di molte di queste rappresentazioni egli ricercò l'origine appunto nell'uso della facoltà superiore della conoscenza; ma ciò non gl'impedì, e non gli poteva impedire di ritenere, secondo il principio citato, affatto omogeneo con gli altri il piacere stesso che quelle rappresentazioni magari intellettuali ci procurano, e per il quale soltanto esse possono essere motivi determinanti della volontà» [10]. La Critica della ragion pratica esprime parere favorevole sulla dottrina epicurea del piacere [11]. Ciò che non è lecito è che «uomini, per altro acuti» stabiliscano la differenza fra la facoltà di desiderare superiore e la facoltà di desiderare inferiore in base alle rappresentazioni cui è legato il sentimento del piacere: la facoltà di desiderare inferiore si fonda su rappresentazioni che hanno la loro origine nel sentimento, la facoltà di desiderare superiore deriva da rappresentazioni dell'intelletto. Questa differenziazione fra le due facoltà mediante le rappresentazioni poggia sull'identificazione dei motivi determinanti del desiderio con il mero piacere. Baumgarten è, afferma Kant, come gli «ignoranti che si immischiano di metafisica». Dapprima stabilisce un unico principio dell'azione: il sentimento, poi afferma che al suo interno ci sono delle differenze che non ci sono fra intelletto e sentimento.

Lo scolio II al paragrafo 3 prosegue con una determinazione del concetto di felicità empirica e si articola in due considerazioni. Innanzitutto, il principio della felicità riguarda l'uomo, come essere razionale finito, in quanto sia oggetto di una considerazione empirica. Così come si presenta all'osservazione, la facoltà di desiderare umana è necessariamente e inevitabilmente spinta dalla sua stessa natura a ricercare la felicità, poiché la sua finitezza implica che la contentezza riferita all'intera esistenza, la felicità appunto, non sia un possesso originario. L'uomo è contraddistinto da bisogni che mirano a conseguire un determinato oggetto, una materia verso cui sono attratti dal sentimento di piacere e dispiacere. È quest'ultimo a porsi fra la materia e la facoltà di desiderare e a indirizzare e guidare il desiderio in modo tale che esso permetta all'uomo di essere contento del proprio stato. Contentezza per la propria intera esistenza, contentezza per il proprio stato sono sinonimi di felicità empirica e possono essere localizzati al livello del piacere e del dolore cui l'essere umano aspira non in quanto essere razionale, ma in quanto essere finito e animale. La beatitudine degli esseri razionali non finiti, che è al contempo coscienza della propria autosufficienza e indipendenza può essere qui chiamata in causa, onde rivelare per contrasto la felicità cui aspira il genere umano. Si può ipotizzare che il principio della felicità possa ottenere un'unanimità e che esso sia dappertutto presente, laddove si tratta di stabilire la relazione degli oggetti con la facoltà di desiderare. Tutti gli esseri umani aspirano alla felicità, si potrebbe obiettare, e quindi alla felicità si deve ascrivere universalità. Se la si osserva da vicino, però, questa pretesa unanimità rimane a sua volta accidentale e si potrebbe correttamente designare una necessità fisica.

La nota II al paragrafo 8 afferma che il principio della felicità può dare massime che mai possono valere come leggi del volere, neppure se si assumesse come suo oggetto la felicità universale. Questa conoscenza infatti dipenderebbe da dati dell'esperienza, perché il giudizio di ognuno sulla felicità dipende strettamente dalle opinioni individuali, le quali a loro volta sono notevolmente mutevoli; vi possono essere regole generali, ma non regole universali, ovvero regole che si rivelano adatte il più delle volte, ma non regole che devono essere sempre e necessariamente valide; sulla felicità non si possono fondare leggi. Sebbene tutti parlino di felicità, ciò che ognuno desidera con questo termine non si può identificare con la volontà degli altri, se non empiricamente. La massima dell'egoismo “consiglia”, non “comanda”. È evidente l'analogia con la Critica della ragion pura e con i Prolegomeni nei quali è ammessa la possibilità di regole generali, ma non universali per i giudizi di percezione, derivanti dal principio empirico dell'associazione di idee.

Per questo motivo, determinare che cosa si debba fare quando ci si affida alla massima della felicità è molto difficile e oscuro e richiede conoscenza del mondo; che cosa porti un vantaggio vero, duraturo è sempre difficile stabilire se questo vantaggio si riferisce all'intera esistenza; si richiede a questo fine molta prudenza [Klugheit] per adattare la regola pratica agli scopi della vita in modo sopportabile, facendo adeguate eccezioni. Inoltre, solo raramente è possibile realizzare in modo soddisfacente la prescrizione empiricamente condizionata della felicità; questa realizzazione della felicità non può prescindere dalle forze e dalla capacità fisica di realizzare l'oggetto che si desidera. Il divenire partecipi della felicità non è compatibile con il concetto della punizione; sebbene colui che infligge la pena possa avere la benevola intenzione di mirare alla felicità, essa deve essere giustificata dapprima come pena, come male fisico, di per se stessa, in modo tale che colui al quale è inflitta ammetta di essersela meritata.

Considerazioni che identificano l'essere umano con l'animale sono presenti anche laddove l'opera mira a determinare i concetti del bene e del male derivandoli dalla legge morale pura. Nella valutazione della nostra ragione pratica il bene e il male fisici rivestono molta importanza; nella nostra natura di esseri sensibili la nostra felicità è il fattore unico ed essenziale, se essa è valutata non in base alla sensazione che la precede, ma come è richiesto dalla ragione, secondo l'influsso che questa casualità, ovvero la sensazione, esercita sulla nostra intera esistenza e sulla soddisfazione [Zufriedenheit] di essa. La felicità non è tuttavia un elemento determinante in senso assoluto, ovvero non lo è in relazione alla ragione pratica nella sua purezza. In quanto appartiene al mondo sensibile l'essere umano è contrassegnato da bisogni e la sua ragione non può sottrarsi al compito di preoccuparsi dell'interesse della sensibilità e di formulare massime pratiche, non morali, relative alla felicità dell'essere umano non solo nella vita presente ma anche in quella futura. La ragione è strumento per la soddisfazione dei bisogni dell'essere umano come essere sensibile e il fatto di possedere una ragione sottomessa a questi bisogni colloca l'essere umano nell'ambito dell'animalità. Non vi è infatti alcuna differenza fra gli animali e l'essere umano dal punto di vista della felicità: le disposizioni della natura assegnano agli animali l'istinto e agli esseri umani la ragione, ma lo scopo che essi intendono raggiungere è il medesimo. L'essere umano ha quindi bisogno, in base a questa sua disposizione naturale, della ragione per prendere in considerazione sempre il suo bene e il suo male fisico; è dotato però della ragione anche per un compito superiore, ovvero non solo per prendere in considerazione la valutazione del bene e del male morali indipendentemente dall'interesse sensibile, ma anche per separare completamente fra loro questi due tipi di valutazione e per fare della ragione a priori la condizione suprema della valutazione del bene e del male in sé.

1.3. Propensione, amore, ammirazione, paura

Nel capitolo sui moventi si chiarisce che il sentimento morale del rispetto non riguarda oggetti o cose del mondo naturale, ma esclusivamente la legge morale e le persone che ne danno un'esemplificazione concreta. Le cose possono originare propensione, paura, oppure, in quanto animali, l'amore: «Il rispetto si riferisce sempre soltanto alle persone, non mai alle cose. Le cose possono far nascere in noi la propensione; e, se sono animali (per es. cavalli, cani ecc.), perfino l'amore; o anche la paura, come il mare, un vulcano, una bestia feroce; ma non mai il rispetto» [12]. Il rispetto, dunque, esclude il riferimento ad altro dalla legge morale e dalle persone. Agli animali si addicono però la propensione, l'amore, la paura. L'ammirazione, in quanto assuma la forma di un affetto, dello stupore può esser riferita «a cose, per es. […] alla forza e alla velocità di parecchi animali, ecc.» [13]. Anche gli affetti riguardano la sfera del sentimento di piacere e dispiacere e non la facoltà di desiderare, come Kant sottolinea riprendendo Hutcheson, e, inoltre, sono solamente empirici.

Questa teoria compare immutata nella Conclusione della Critica della ragion pratica.

«Due cose colmano l'animo di ammirazione [Bewunderung] e riverenza [Ehrfurcht] sempre nuova e crescente, quanto più spesso e assiduamente sono oggetto di riflessione: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Entrambi non posso cercarli e meramente congetturarli come se fossero avvolti nelle tenebre, oppure come se oltrepassassero il mio orizzonte; io li vedo davanti a me e li congiungo immediatamente con la consapevolezza della mia esistenza. Il primo inizia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed amplia la connessione in cui mi trovo, con mondi su mondi, e sistemi di sistemi, incommensurabilmente, per giunta nei tempi illimitati dei loro movimenti periodici, delle loro origini e della loro durata» [14]. L'argomentazione si articola in due parti: dapprima è esposta la legge morale come oggetto sublime della filosofia morale il quale può essere “visto” anche dall'essere umano comune; in un secondo momento è elaborato il procedimento di una filosofia morale che intende essere adeguata alla sublimità del suo oggetto. In un'analisi della ragion pratica empirica si inserisce la prima parte nella quale l'autore è semplicemente uomo tra gli uomini, mentre nella seconda prende la parola in qualità di filosofo. La prima parte non presuppone riflessione e ricerca, ma presenta la sublimità di oggetti come il cielo stellato e la legge morale come premessa e incentivo della ricerca. I termini del dualismo sono la vita finita e la vita infinita, entrambe intese come coscienza dell'esistenza, la connessione casuale e la connessione necessaria, la vita animale e la vita spirituale. Né l'esistenza del primo né l'esistenza del secondo sono frutto e risultato di mera ipotesi, poiché non appartengono all'ambito del trascendente né sono al di fuori dell'orizzonte dell'uomo, ma sono immediatamente connessi con la coscienza dell'esistenza.

Non si può sollevare alcun dubbio sulla realtà della legge morale, la quale è altrettanto certa e connessa in modo immediato con la coscienza della mia stessa esistenza quanto il cielo stellato. Per quest'ultimo proviamo, però, ammirazione [Bewunderung], mentre per la legge morale nutriamo un sentimento di venerazione [Ehrfurcht] e rispetto [Achtung]. La riflessione della quale è capace ogni essere umano è accompagnata da un sentimento, a prescindere dal fatto che il suo oggetto sia posto nel mondo sensibile o nel mondo sovrasensibile. Mondo sensibile e mondo sovrasensibile, il cielo stellato e la legge morale sono oggetti del sentimento, di un sentimento il quale accresce la sua intensità quanto più la riflessione se ne occupa. Nell'essere umano comune anche la natura può essere oggetto di un sentimento; Kant descrive qui un sentimento originario che precede la scienza, afferma che sia la ricerca della scienza della natura sia la ricerca sulla ragion pratica hanno la loro origine nei sentimenti dell'ammirazione e della venerazione e nella sublimità del loro oggetto.

Il sublime naturale è dunque descritto empiricamente: esso vernichtet, distrugge; questo è il suo unico effetto: distrugge l'essere umano nel suo aspetto fisico e animale ed è relativo al solo uomo sensibile senza riguardare la sua natura intelligibile; è dunque un sentimento soggettivo di timore, non un sentimento oggettivo che abbia a fondamento l'idea morale della libertà. Non vi è quindi alcun nesso fra il sublime naturale e il sublime morale. La Critica della ragion pratica non contiene la fondazione a priori del sentimento del sublime naturale mediante l'idea della libertà e l'attribuzione della libertà al mondo naturale; già il capitolo sui moventi ha mostrato del resto che il sentimento del rispetto a priori può essere fatto valere solo per la legge morale, non per oggetti naturali.

Per una valutazione del concetto di animalità e vita animale è essenziale sottolineare come nel capitolo sui moventi la separazione netta tra il sentimento del rispetto a priori, movente della moralità, e la felicità individuale fondata su diletto e dolore non implichi una concezione ascetica la quale richiede il sacrificio delle inclinazioni e della vita sensibile come condizione di possibilità della moralità. Vi è un passo in cui si mette espressamente in evidenza come con il rispetto puro si possano accordare le “attrattive” e gli “agi della vita”, che un epicureo il quale riflettesse sul massimo benessere della vita volesse perseguire; anzi, Kant si spinge sino ad affermare che può anche esser consigliabile collegare questa prospettiva di un lieto godimento con il rispetto. Tuttavia si deve al contempo chiarire quale significato si debba accordare a questa unificazione di rispetto e piacere corporeo epicureo: l'incremento della vita animale che quest'ultimo comporta potrebbe «controbilanciare le lusinghe che il vizio non manca di far balenare dalla parte opposta», ma mai diventare movente dell'azione [15].

1.4. Automaton spirituale

Determinante è il fatto che nella Dilucidazione critica della Critica della ragion pratica si affermi che l'animale, sia esso umano o non umano, può essere definito automaton spirituale, mentre questa qualifica non si addice certo alla “persona”. Quando nelle Lezioni di metafisica Kant si sofferma su questo concetto che desume dalla filosofia di Leibniz, di Baumgarten, Meier e Reimarus, egli intende chiarire in una prospettiva empirica che l'animale non è macchina, né semplice materia, ma ha un'anima, ovvero agisce attraverso rappresentazioni [16]. Egli non accetta la teoria di Descartes che le azioni di tutti gli animali si possano spiegare in base al mero meccanismo, senza attribuire loro l'anima, la vita, la sensazione o la rappresentazione; che gli animali sarebbero macchine prive di vita, dotate però di una disposizione mirabilmente impressa in loro dal Creatore a ricevere movimento dall'azione dell'impressione esterna della luce, dell'aria e del suono sulle loro membra, che noi consideriamo erroneamente azioni volontarie compiute da creature viventi [17]. Per Kant, certo, la necessità degli eventi che si susseguono nel tempo secondo la legge naturale della causalità si può chiamare meccanismo; ma con questa definizione egli non intende affermare che le cose soggette a questa normatività siano vere e proprie macchine dal punto di vista della materia di cui sono costituite. La necessità naturale indica esclusivamente la connessione degli eventi in una serie temporale: ecco perché il soggetto in cui avviene questo flusso si può chiamare automaton materiale, quando l'essere meccanico è mosso mediante la materia, oppure, con Leibniz, contro Descartes, spirituale, quando è mosso da rappresentazioni [18]. Gli animali non sono macchine, neppure se li si designa come “automi”, in quanto appunto essi hanno la capacità, che proviene dalla loro anima, di determinare il proprio movimento in base a rappresentazioni. Ciò non significa però che possa essere loro attribuita la libertà, la quale è propria, in senso trascendentale, solo dell'essere umano che abbia coscienza razionale della legge morale e provi per essa un sentimento a priori di rispetto.

1.5. Illusione del senso interno

Epicuro ha conferito alla felicità derivante dalla coscienza della virtù che si può acquisire nella vita nel mondo sensibile valore superiore a qualsiasi altra cosa; questa felicità non era mero godimento dei sensi, non era voluttà, puntualizza Kant; il filosofo annoverava il compimento disinteressato del bene fra i modi in cui si può godere della gioia più intima; la moderazione e il dominio delle inclinazioni rientravano nel concetto del piacere [Vergnügen] che egli intendeva come cuore colmo di gioia [das stets fröhliche Herz] e movente dell'azione. Quale il fondamento di questa concezione della connessione tra felicità e virtù? In primo luogo, obietta Kant, benché non si possa negare che fosse virtuoso, si deve notare che egli non aveva sufficientemente riflettuto sui princìpi della sua filosofia morale. Epicuro rimase vittima dell'errore di presupporre l'intenzione morale nelle persone nelle quali voleva indicare il movente della virtù; egli non si è posto la domanda relativa a ciò che rende possibile l'intenzione morale, ma ha dato per presupposta la presenza di un sentimento come elemento originario. Egli è rimasto vittima dell'illusione del senso interno che confonde il movente morale, l'elemento soggettivo della determinatezza della volontà attraverso la legge con un impulso sensibile, con l'azione di un sentimento sensibile. Per Kant è “sublime” il fatto che l'azione soggettiva della determinazione della volontà sia ritenuta un sentimento patologico. L'ammirazione di Kant non può certo riferirsi all'illusione, poiché in essa egli non coglie un fattore a priori, ma deve riguardare il fenomeno da cui può trarre origine. La volontà dell'essere umano condizionato empiricamente è, per il filosofo trascendentale, determinata direttamente dalla legge morale. Questa azione della legge morale sulla sensibilità empirica, sull'uomo affetto patologicamente, la determinazione immediata della volontà nel suo rapporto con la facoltà di desiderare, produce il medesimo effetto del sentimento di piacere. Questo influsso scaturisce però da una fonte non empirica, ovvero dalla ragione. La determinazione mediante la legge morale agisce, quindi, anche sul senso interno del soggetto empirico, il quale esiste nella dimensione temporale: ciò costituisce la base dell'inganno del senso interno. Se la legge morale non agisse in modo immediato attraverso la determinazione della volontà sul senso interno del soggetto dell'azione, non potrebbe verificarsi alcuna illusione del senso interno; questo effetto è necessariamente connesso con il lato soggettivo della determinazione della volontà e non può essere facilmente eliminato. Qualsiasi tipo di influsso sul sentimento è necessariamente patologico e il sentimento sensibile, fondamento di tutte le nostre inclinazioni, è la condizione di un sentimento non empirico. L'errore dei filosofi morali che prospettano il sentimento fisico come fondamento, come Epicuro, oppure si appellano al sentimento morale, come Hutcheson e Shaftesbury, consiste nel confondere, a partire dall'esperienza psicologica interna, l'azione della legge morale sul soggetto con un sentimento originariamente posto in esso. Il risultato dell'azione della legge morale è così interpretato come se ne fosse la fonte. Anche in questo caso è significativo il fatto che Kant non valuti negativamente la moralità di Epicuro, anzi attribuisca a quel filosofo il compimento disinteressato del bene, la moderazione delle passioni e delle inclinazioni; ciò che non ne condivide è la teoria morale, mentre non ha alcun dubbio sulla moralità della sua persona. Con l'illusione del senso interno la Critica della ragion pratica ha arrichito ulteriormente l'esame empirico dell'animalità.

1.6. Premi e castighi come Maschinenwerk

Nella Dottrina del metodo è posto il seguente quesito: che cosa succederebbe se il sentimento morale non fosse realmente dato nel cuore dell'individuo? Se la legge morale non avesse forza sull'animo non vi sarebbe modo alcuno di produrre la moralità, né mediante minacce né mediante ammonimenti o raccomandazioni ad agire secondo il bene; le azioni si trasformerebbero nell'esteriorità della funzione, la legge sarebbe oggetto di odio e di disprezzo e sarebbe osservata solo per amore del proprio vantaggio; in una parola, la legalità, la lettera della legge sostituirebbe la moralità, il suo spirito nelle nostre intenzioni. Alla vittoria della legalità farebbe da contrappeso la ricerca del diletto che si riterrebbe prescritto da una legge naturale o divina, la quale agirebbe mediante il meccanismo della propria polizia; questa legge si regolerebbe secondo ciò che si fa, non secondo i motivi determinanti per cui ciò si fa. Obiettivo della polemica sono sia il modo di agire degli esseri umani comuni che non rispettano la legge morale, sia le teorie filosofiche; entrambi sono paragonabili a un meccanismo di polizia impostato in base a criteri del tutto empirici, a posteriori, ben diversi dalle norme intese come motivi determinanti. È del tutto irrilevante, considerato sotto questo aspetto, il fatto che alcuni si appellino a leggi naturali e altri a leggi divine; il risultato è il medesimo, poiché tutti elevano il diletto a criterio dell'agire fondandolo empiricamente. Kant ha preso visione delle diverse teorie morali a partire dall'antichità: ha stabilito differenze tra epicureismo, stoicismo, cinismo e, nell'età moderna, tra le morali di Montaigne, di Hobbes, Spinoza e Mandeville, di Shaftesbury e Hutcheson e infine di Wolff e di Crusius. Le differenze tra questi sistemi scompaiono completamente non appena li si commisuri alla concezione che Kant intende proporre; valutati dall'interno del suo sistema tutti, in ultima analisi, si possono ricondurre al principio empirico della felicità e della Selbstliebe. Inoltre, tutti possono essere denominati “fatalismo” in quanto il loro risultato finale è l'eliminazione totale della libertà. A essi si devono aggiungere tanto Leibniz, Baumgarten, Wolff e Mendelssohn quanto Priestley, Ehlers e Schulz; tutta la storia della filosofia morale non fa quindi altro che introdurre un “meccanismo di polizia” fondato su diletto e dolore, premi e castighi, siano essi decisi secondo una legge naturale oppure secondo la legge divina. In ultima analisi il movente in tutti questi sistemi è esterno alla volontà del soggetto e completamente fondato sull'animalità; è qui ribadita la condanna morale del principio della felicità e al tempo stesso è anche offerto un esame del principio della felicità empirica come Maschinenwerk fondato su premi e castighi che agisce sulla vita animale. In tal modo diviene comprensibile anche quale sia l'origine degli errati sistemi filosofici e delle errate leggi stabilite e adottate dagli esseri umani: un'erronea opinione scambia in modo surrettizio l'origine del tribunale del giudizio morale nella ragione con leggi naturali o leggi divine completamente esteriori. L'incredulità morale sarebbe dunque l'esito finale di tutte le azioni e di tutte le filosofie, se si ammettesse che la virtù non ha la forza e la potenza di un movente puro. Si dovrebbe dare ragione così ad Aristippo, Hofstede, Helvétius e Lamettrie e ammettere che gli esseri umani sono solo automi di Vaucanson. È ripresa qui la spiegazione di quel procedimento designato come “illusione del senso interno”.

Tuttavia, nel caso di un animo ancora incolto oppure diventato selvaggio sotto il profilo morale, l'azione del motivo determinante [Bewegungsgrund] morale si presenta necessariamente connessa in un primo momento con alcuni esercizi propedeutici volti a ricondurre l'animo sul sentiero del bene morale con l'attrattiva del vantaggio e con la minaccia del danno che potrebbero derivare dalla sua accettazione o dal suo rifiuto; Kant non elimina completamente il ricorso all'uso della rappresentazione di premi e castighi di natura esterna, ma avverte che essi sono necessari solo all'inizio, e solo per anime che ancora non siano state educate al bene oppure abbiano tralignato da esso. Premi e castighi sono e rimangono un Maschinenwerk, un Gängelband, un “meccanismo di polizia”, ma la loro valutazione non è completamente negativa, poiché sono un metodo valido per anime ancora rozze e incolte sotto il profilo morale oppure degenerate.

2. Animalità, sensibilità e critica della ragion pura pratica

2.1. Dio come ideale della ragion pura pratica

Abbandoniamo ora la critica della ragion pratica empirica nella quale si manifesta un interesse per la sfera dell'animalità, anche di quella umana, che già rivela una posizione molto più articolata rispetto al quadro che ne viene tracciato da molte parti. Cerchiamo di addentrarci nella valutazione morale dell'animalità in generale e degli animali in particolare, attingendo non solo alla Critica della ragion pratica, ma anche alla Metafisica dei costumi. Il primo quesito che si impone è se il kantismo etico si possa giudicare “antropocentrico” o “logocentrico”. Emergerà come questa definizione sia difficilmente applicabile a una teoria che propone l'ideale evangelico della santità come prototipo e modello della moralità umana. Ciò che è rilevante è che l'ideale della santità non compaia soltanto a partire dalla Dialettica trascendentale il cui scopo è proprio quello di giustificare la possibilità di una corrispondenza tra moralità e virtù, ma sia già presente nelle parti precedenti, il cui scopo consiste nello stabilire il principio supremo della moralità, nel derivare da esso il concetto del bene, e nel determinare su che cosa si fondi l'interesse dell'essere umano, dotato di ragione ma anche di sensibilità, per la legge morale. Già il paragrafo 7 dà grande rilievo al concetto della santità divina che viene a porsi come il punto di partenza e di riferimento dell'indagine; questo concetto cardine del Cristianesimo è in più punti contrapposto all'idea della virtù stoica come moralità che, elevandosi al di sopra di ogni affetto, passione, sentimento e in generale della natura sensibile e animale dell'essere umano, è premio a se stessa. Al saggio stoico è contrapposto il Santo del Vangelo. Dio è intelligenza completamente sufficiente a se stessa nella quale il libero arbitrio è rappresentato come non capace di nessuna massima che non possa essere al tempo stesso una legge oggettiva in modo assoluto; designare Dio con l'attributo della “santità” non significa porlo al di sopra della legge morale pura, ma implica distinguerne nettamente la natura dalle leggi morali restrittive, dall'obbligo e dal dovere. Questi ultimi, infatti, riguardano gli esseri finiti, dotati di ragione e di volontà, mentre Dio è intelligenza suprema.

Come si può caratterizzare la santità divina osservandola dal punto di vista finito dell'essere umano, il quale non rappresenta dunque e non può rappresentare proprio per la sua finitezza il fondamento dell'etica? La santità è un'idea pratica, che deve necessariamente servire come “prototipo”, come modello; avvicinarsi a essa in un processo che si protrae all'infinito è l'unico scopo di tutti gli esseri razionali finiti; questa idea tiene loro sempre e giustamente davanti agli occhi la legge morale pura, che perciò si chiama anch'essa santa. La certezza suprema cui la ragion pratica finita possa giungere è la coscienza del progresso all'infinito delle proprie massime e dell'immutabilità di esse nel progresso costante, la virtù. Tuttavia, ribadisce Kant contro gli stoici, come potere acquisito naturalmente la virtù non può mai esser perfetta, perché la sicurezza in tal caso non diventa mai certezza apodittica, e, come persuasione, è molto pericolosa [19]. Ma l'idea pratica è completamente pura e nulla le impedisce di essere considerata tale, neppure il fatto che l'essere umano agisca in virtù della sua animalità, come abbiamo visto, in base a sentimenti individuali. La finitezza non è di ostacolo alla purezza, il riferimento alla sensibilità può coesistere con la santità della ragion pura pratica che si identifica con la legge morale, ovvero con Dio. Così Kant elabora l'idea di Dio nello scolio al paragrafo 7 nel quale è enunciata la legge fondamentale della ragion pura pratica: «Nell'intelligenza affatto sufficiente a se stessa il libero arbitrio vien rappresentato a ragione come non capace di nessuna massima che nello stesso tempo non possa essere una legge oggettiva; e il concetto della santità, che perciò le conviene, non la pone invero al di sopra di tutte le leggi pratiche, ma al di sopra di tutte le leggi praticamente restrittive, e quindi al di sopra dell'obbligo e del dovere» [20].

Anche nel capitolo sui moventi l'ideale pratico, il quale implica necessariamente il riferimento a sentimenti empirici, è assunto a oggetto di un'impostazione trascendentale e considerato completamente puro. Se l'idea pura pratica è l'idea della santità, l'ideale pratico riguarda sempre e soltanto la sfera pratica: è il santo del Vangelo, la figura di Gesù. «Ma con ciò si accorda benissimo la possibilità di un comandamento come questo: Ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo tuo come te stesso. Come comandamento infatti esige il rispetto per una legge che comanda l'amore, e non lascia alla scelta arbitraria il farci di questo amore un principio […] Dunque è semplicemente l'amore pratico che viene inteso in quel nucleo di tutte le leggi. Amar Dio, in questo senso, vuol dire eseguir volentieri i suoi comandamenti; amare il prossimo vuol dire metter in pratica volentieri tutti i doveri verso di esso […]. Quella legge di tutte le leggi presenta dunque, come tutti i precetti morali del Vangelo, l'intenzione morale nella sua intera perfezione come un ideale di santità non raggiungibile da nessuna creatura, e che tuttavia è l'esemplare a cui dobbiamo procurare di avvicinarci e diventare pari in un progersso ininterrotto, ma infinito» [21]. Se ritorniamo ora all'idea della santità cristiana esposta nel paragrafo 7 riusciamo a comprendere come la predilezione per l'ideale cristiano coincida perfettamente con la scoperta di un movente a priori fondato sul sentimento: la purezza del principio morale evangelico e il fatto che esso sia proporzionato alla natura degli esseri finiti corrispondono all'unificazione di purezza e sentimento che si opera nel rispetto. La sensibilità non deve più essere bandita ma può essere accettata e coniugata con l'idea della santità. All'idea del saggio stoico e alle invenzioni dei romanzieri e dei pedagoghi morali si muove il rimprovero di aver eliminato completamente la sensibilità dall'etica e di aver proposto l'ideale di una perfezione irraggiungibile all'uomo che non tien conto della sua finitezza e della presenza in lui delle inclinazioni sensibili. «Se è così, non solo i romanzieri e i pedagoghi sentimentali (benché inveiscano ancor tanto contro la sensibilità affettata), ma persino i filosofi, anzi i più rigidi di tutti, gli stoici, hanno introdotto il fanatismo morale, invece della fredda, ma saggia disciplina dei costumi, ancorché il fanatismo degli ultimi fosse più eroico, e quello dei primi di carattere più insipido e più tenero; e si può, senza ipocrisia, con tutta verità ripetere della dottrina morale del Vangelo, che essa, anzitutto, mediante la purezza del principio morale, ma nello stesso tempo mediante la proporzione di esso ai limiti degli esseri finiti, ha assoggettato ogni buona condotta dell'uomo alla disciplina di un dovere posto davanti ai suoi occhi, che non lascia vaneggiare in perfezioni morali immaginarie, e ha posto i confini dell'umiltà (cioè della conoscenza di sé) alla presunzione, e così pure all'amor proprio, entrambi i quali ignorano volentieri i loro limiti» [22].

Nella “Dialettica trascendentale” il concetto morale del sommo bene conferisce realtà a Dio che nella filosofia speculativa compare come “ideale trascendentale”. Dal rispetto per la legge morale scaturisce la prospettiva necessaria del sommo bene e il presupposto che ne risulta della sua realtà oggettiva. Il sommo bene conferisce significato dal punto di vista pratico, come condizione di possibilità dell'oggetto di una volontà determinata dalla legge a ciò che la ragione speculativa può sì pensare, ma è costretta a lasciare indeterminato come mero ideale trascendentale: il concetto teologico dell'essere originario. Esso diviene il principio supremo di un mondo intelligibile del quale è legislatore morale.

3. Rivalutazione della sensibilità nell'essere umano: rispetto, soddisfazione, compassione, immortalità ed esigenza

3.1. Rispetto

Nel capitolo sui moventi il sentimento del rispetto, in quanto sentimento di piacere che segue alla legge morale, non può essere pensato se non come successivo, dal punto di vista logico, al dolore generato dall'abbattimento della presunzione e delle inclinazioni sensibili. Vi è infatti la necessità, secondo Kant, di una precedenza del dolore: se la volontà di un essere sensibile come l'uomo deve essere determinata dalla legge morale e solo mediante essa come volontà libera, non solo i moventi sensibili non possono concorrere a questa determinazione, ma essi devono anche essere completamente esclusi, e tutte le inclinazioni della sensibilità che non sono che sentimenti patologici devono subire un danno da parte della legge; questo effetto negativo della legge morale è appunto un sentimento di dolore; il sentimento sensibile, o meglio, la sua negazione è dunque la condizione del rispetto e non vi può essere alcun piacere legato al rispetto se questo non è preceduto da un dolore. L'essere umano deve essere consapevole della sua esistenza sensibile e della dipendenza che vi è connessa dalla sua natura affetta in modo patologico affinché la legge morale pura possa causare il rispetto per la sua superiore determinazione. Ciò che di per sé sarebbe oggetto della psicologia empirica, diventa, in una Critica della ragion pura pratica orientata in modo trascendentale, condizione dell'a priori. Il sentimento sensibile che giace a fondamento di tutte le nostre inclinazioni è la condizione di quella sensazione che chiamiamo rispetto, sebbene non sia la causa della determinazione di essa, la quale è la ragione pura pratica; il rispetto non può certo essere patologico quanto alla sua origine, ma deve essere agito in modo pratico. Come il rispetto è un effetto sul sentimento, sulla sensibilità di un essere razionale, così esso presuppone questa sensibilità, e quindi la finitezza di questi esseri; un essere supremo, oppure un essere libero da ogni sensibilità, per il quale la sensibilità non può essere un ostacolo per la ragione pratica non può provare rispetto.

Sulla base di questa dottrina, che costituisce un novum nel percorso del pensiero kantiano ed era ancora assente nella seconda edizione della Critica della ragion pura, è formulata un'integrazione alla concezione del dovere, ora considerato anche dal punto di vista del sentimento morale e della sua connotazione soggettiva e non solo in riferimento alla natura formale della legge morale: il dovere non è più analizzato a partire dall'idea sovrasensibile della legge morale, ma è posto in rapporto con l'azione del soggetto morale in generale e con il suo sentimento di piacere. Mentre nel paragrafo 7 il dovere era una “costrizione” [Nötigung] morale che implicava necessariamente la presenza di elementi empirici, mentre quindi doveva per definizione presupporre, in quanto costrizione, datità empiriche, ora il concetto stesso della “costrizione”, intesa come morale e non come patologica, ha ottenuto un'integrazione. Soggettivamente il dovere può essere puro in quanto si identifica con il rispetto, con un sentimento, quindi. Nella morale vi è quindi la possibilità di un movente di carattere non empirico e anche di un concetto puro e non empirico del sentimento. Sebbene il riferimento in negativo alla sensibilità permanga, né si possa certo dire che, una volta trovato un sentimento a priori, l'uomo sia capace della santità su questa terra, il sentimento che deriva dalla costrizione e dall'obbligo morale non è più soggettivo, né patologico, ma è un sentimento di dolore a priori. Con questo si è operato un mutamento decisivo nell'intera impostazione del problema: il concetto del dolore prodotto a priori, che nello sviluppo del pensiero kantiano si impone come un elemento di radicale novità, permette di eliminare i residui empirici che concorrono a costituire l'idea del dovere; anche soggettivamente il dovere si presenta ora come elemento puro e, sebbene implichi il nesso con un sentimento, non è questo un motivo sufficiente ad escluderlo dalla filosofia trascendentale. Ecco il passo decisivo in questo senso: «Il concetto del dovere richiede dunque nell'azione, oggettivamente, l'accordo con la legge, ma nella massima di essa, soggettivamente, il rispetto alla legge, come il solo modo di determinazione della volontà mediante la legge. E in ciò consiste la differenza fra la coscienza di aver agito conformemente al dovere e quella d'aver agito per il dovere, cioè pel rispetto alla legge: il primo caso (la legalità) è possibile anche se semplicemente le inclinazioni siano state i motivi determinanti della volontà; il secondo caso (la moralità), il valore morale, dev'esser posto invece soltanto in ciò che l'azione avvenga pel dovere, cioè semplicemente per la legge» [23]. Può anche darsi, ammette Kant, che il dovere non acquisti sempre osservanza, proprio perché a esso si oppongono le inclinazioni. Tuttavia, non si può negare che a esso corrisponda nell'animo il sentimento della “venerazione” e che quindi nella definizione a priori del dovere le inclinazioni sensibili siano eliminate e permanga solo il riferimento alla sensibilità pura. Le inclinazioni, in questo concetto puro del dovere, “ammutoliscono”. “Di nascosto”, ovvero a livello empirico, esse possono reagire alla costrizione della legge morale ma, entro un orizzonte trascendentale, la “venerazione” le costringe ad ammutolire. «Dovere! Nome sublime e grande, che non contieni niente di piacevole che implichi lusinga, ma chiedi la sommissione; che, tuttavia, non minacci niente donde nasca nell'animo naturale ripugnanza e spavento che muova la volontà, ma esponi soltanto una legge che da sé trova adito nell'animo, e anche contro la volontà si acquista venerazione (se non sempre osservanza); innanzi alla quale tutte le inclinazioni ammutoliscono, benché di nascosto reagiscano ad essa» [24]. Il dovere è dunque anch'esso movente come il rispetto? Rispetto e dovere coincidono? Il passo citato ci obbliga a identificare il dovere con il rispetto a livello soggettivo, e le considerazioni precedenti ci impediscono di considerare il rispetto come movente dell'azione empirica e materiale del soggetto.

3.2 Soddisfazione

La riabilitazione della sensibilità non è limitata all'individuazione del movente puro, ma si estende anche all'esame del problema della felicità nella Dialettica della ragion pura pratica; essa chiede se sia possibile che alla moralità si accompagni la felicità. Kant ritiene che la ragione pratica, quando è abbandonata a un principio eteronomo, possa dar luogo a contraddizioni. Questo errore è l'“illusione del senso interno”: il senso interno, psicologico, di cui è dotato ogni singolo individuo percepisce la presenza, nella sua anima, di un principio che la spinge ad agire. Il senso interno compie, però, l'errore di identificare questo movente con “sensazioni”. Kant crede, al contrario, che la coscienza della legge morale non sia una sensazione del senso interno, ma un'attività razionale. Senza la Dialettica l'etica sarebbe puramente “chimerica”, non avrebbe una realtà concreta, ma rimarrebbe confinata nel campo delle pure invenzioni del pensiero astratto, sarebbe in una parola una “chimera”. Kant ritiene di poter dare risposta affermativa al problema della felicità: essa è prodotta mediante la coscienza della virtù, e si presenta come un sentimento di piacere che non si può chiamare propriamente né felicità empirica, come sottomissione alle inclinazioni e ai bisogni, né beatitudine, ovvero indipendenza completa dalle inclinazioni e dai bisogni, ma “soddisfazione”. Un legame necessario fra moralità e felicità è, dunque, possibile. La scontentezza è inevitabilmente connessa con le inclinazioni e riguarda il nostro stato [Zustand]; come nel capitolo sui moventi il sentimento del dolore empirico è condizione di possibilità di un sentimento di dolore a priori, così ora il sentimento della scontentezza [Unzufriedenheit] è condizione di possibilità di una scontentezza a priori. Quest'ultima, a sua volta, dà luogo a una contentezza a priori relativa non al nostro “stato” fisico, animale, ma alla nostra persona morale, spirituale. In modo indiretto sia dolore fisico, sia la scontentezza fisica diventano in un secondo momento condizione di possibilità di un elemento a priori; se la legge morale non agisse sulla sensibilità empirica, non nascerebbero né un movente puro, né una felicità pura. Un essere il quale non fosse dotato di sensibilità non solo non potrebbe provare alcun sentimento empirico, ma neppure alcun sentimento a priori. Dio e gli esseri angelici, essendo privi di qualsiasi commistione con il mondo sensibile ed empirico, non possono provare alcun sentimento a priori; e neppure ne necessitano, in quanto la loro volontà già è santa. «Ma non v'è una parola, capace di designare, non un godimento come quello della felicità, ma una contentezza della propria esistenza, un analogo della felicità, che deve necessariamente accompagnare la coscienza della virtù? Sì! Questa parola è soddisfazione di sé, che nel suo significato particolare indica sempre soltanto una contentezza negativa della propria esistenza, in cui si è consci di non aver bisogno di niente. La libertà, e la coscienza di essa come di una facoltà di seguire con intenzione predominante la legge morale, è indipendenza dalle inclinazioni, almeno come cause determinanti (se non come cause affettive) del nostro desiderio; e, in quanto io sono conscio di questa indipendenza nell'osservanza delle mie massime morali, essa è l'unica sorgente di una soddisfazione immutabile necessariamente legata con essa, che non si fonda su nessun sentimento particolare; e questa soddisfazione si può chiamare intellettuale» [25]. Il passaggio dalla possibilità di questo legame alla sua realtà oggettiva da un punto di vista pratico è garantito poi dall'esistenza di Dio come sommo bene e ideale della ragion pratica e dell'immortalità dell'anima che rendono possibile il processo infinito di avvicinamento alla santità.

3.3. Compassione

Per quanto concerne la compassione, Kant è noto in genere come colui il quale ha completamente eliminato questo sentimento dall'etica e si è opposto a esso risalendo alle teorie degli Stoici. Determinante a questo proposito la critica di Schopenhauer nello scritto Sul fondamento della morale, e ancora più decisiva la ripresa di questa polemica da parte di Scheler in Essenza e forme della simpatia. Come si è visto, non vi può essere alcun sentimento che preceda la riflessione sul dovere e si trasformi in motivo determinante: neppure i sentimenti della simpatia e della compassione possono quindi essere interpretati in questo senso, neppure a essi si può attribuire un valore positivo qualora precedano la determinazione della volontà attraverso la ragione. Le parole di Kant non lasciano adito a dubbi. Egli anzi pare in più punti delle sue opere seguire le parole di Epitteto: «Quando tu vedi alcuno che pianga o per morte di alcun suo congiunto o per lontananza di un figliuolo o perdita della roba, guarda che l'apparenza non ti trasporti in guisa che tu pensi che questo tale, a cagione delle cose estrinseche, patisca alcun male vero. Ma tu distinguerai teco stesso subitamente e dirai: questi è tribolato e afflitto, non dall'accaduto, poiché questo medesimo non dà niuna tribolazione a un altro, ma dal concetto che egli ha dell'accaduto. Ciò nonostante tu non farai difficoltà di secondare il suo dolore in parole, ed anco, e occorre, di sospirare insieme seco; ma guarda che tu non sospirassi però di cuore» [26].

E tuttavia, proprio nel sottolineare che i sentimenti della compassione e della tenera simpatia non devono precedere la ragione e il sentimento del dovere, proprio nell'affermare che essi assumono connotazioni negative quando ciò accada, l'autore lascia aperta la possibilità che il sentimento della compassione abbia un valore positivo quando si ammetta la precedenza della ragione pratica, della determinazione della volontà e solo su di esse si fondi un sentimento della compassione. Si deve quindi sottolineare come Kant compia il tentativo di conferire valore positivo ad alcune inclinazioni, di dimostrare che, sebbene abbiano origine nel sentimento individuale, nella materia della volontà, non è possibile disconoscerne il rapporto con la forma pura della legge morale. I veri sentimenti morali non sono in contraddizione con la fondazione sulla ragione pratica, sono anzi con essa compatibili e meritano di essere coltivati e rafforzati nel singolo individuo. Non solo il sentimento morale, ma anche le vere e proprie inclinazioni, escluse dai principi determinanti dell'azione, sono oggetto di apprezzamento: un'inclinazione a ciò che è conforme al dovere, ad esempio la benevolenza, la simpatia e la compassione possono facilitare in misura rilevante l'efficacia dei criteri morali, sebbene non ne producano alcuno [27].

3.4. Immortalità

La costrizione della volontà, il dovere, non rientra necessariamente in un orizzonte empirico o in un ambito di concetti a priori non-puri. Che la costrizione riguardi una volontà affetta patologicamente [pathologisch affizierte Willkür] non implica che essa non possa essere oggetto di una “deduzione trascendentale” del sommo bene, quale quella che viene sviluppata dalla Dialettica nell'intento di mostrare come alla virtù corrisponda a priori e in modo necessario la felicità. «Poiché per altro questo legame è conosciuto come a priori, quindi praticamente necessario, e perciò non come derivato dall'esperienza, onde la possibilità del sommo bene non si fonda su nessun principio empirico, la deduzione di questo concetto dovrà essere trascendentale. È necessario a priori (moralmente) produrre il sommo bene mediante la libertà della volontà; dunque anche la condizione della possibilità di esso deve fondarsi soltanto su principi della conoscenza a priori» [28]. A priori è la necessità morale, il dovere di promuovere il sommo bene con la libertà del volere; a priori è anche la deduzione di questa necessità, la prova stessa che la condizione di possibilità del sommo bene si fonda su principi a priori. Sebbene la perfezione morale rimanga preclusa all'uomo nel corso della sua esistenza terrena, in quanto quest'ultima implica sempre una lotta e un'opposizione alle inclinazioni che derivano dai sentimenti empirici, proprio questa è la condizione che ci permette di giungere all'idea di un mondo sovrasensibile e all'immortalità dell'anima. Grazie al sentimento puro del rispetto e all'idea del dovere la creatura finita, mortale, può accedere al progresso infinito verso la santità.

3.5. Esigenza

Sull'intenzione morale di cui si è determinato il carattere come coscienza razionale e sentimento a priori si innesta l'“esigenza della ragion pura pratica”. Essa ha il suo fondamento non nelle inclinazioni, ma nel dovere di fare dell'unione di virtù e felicità l'oggetto della volontà e conduce ad affermare: “io voglio che vi sia un Dio”, voglio che vi sia una garanzia dell'unione inscindibile fra moralità e felicità nella vita futura. L'oggetto dell'esigenza della ragione pura pratica è l'ideale. Immortalità dell'anima ed esistenza di Dio sono postulati della ragione pratica, proposizioni indimostrabili sotto il profilo teoretico che però ineriscono a una legge pratica che ha un valore incondizionato a priori. «Questa è dunque un'esigenza in un senso assolutamente necessario, e giustifica la sua supposizione non semplicemente come ipotesi lecita, ma come postulato nel rispetto pratico; e, ammesso che la legge pura morale obblighi inflessibilmente ciascuno come comandamento (non come regola di prudenza), l'uomo onesto può ben dire: io voglio che vi sia un Dio; che la mia esistenza in questo mondo, anche fuori della connessione naturale, sia ancora un'esistenza in un mondo puro dell'intelletto; e finalmente, anche che la mia durata sia senza fine; io persisto in ciò e non mi lascio togliere questa fede; essendo questo l'unico caso in cui il mio interesse, che io non posso trascurare in niente, determina inevitabilmente il mio giudizio, senza badare alle sofisticherie, per quanto poco io sia capace di rispondervi o di contrapporne delle più speciose» [29].

3.6. Il cuore come principio delle risoluzioni etiche

La Dottrina del metodo ritorna ancora una volta sul problema della sensibilità umana e chiarsce che solo grazie al fatto che la rappresentazione della legge ha forza sull'animo umano e produce risoluzioni più energiche degli allettamenti del diletto e delle minacce del male si può produrre la moralità dell'intenzione. In tal modo è garantita la funzione di questa parte che, ben lungi dall'essere una parte accessoria della teoria, la conclude, ed essa soltanto, insieme alle argomentazioni che la precedono, rende possibile la fondazione della moralità delle intenzioni. L'ipotesi di un'eventuale vittoria della legalità sulla moralità non costituisce però l'ultima parola dell'autore; tutti i tentativi di sottrarsi alla moralità dimostrano soltanto che nonostante tutti i nostri sforzi non potremmo mai liberarci completamente della ragione, la quale anzi sarebbe sempre presente e pronuncerebbe il suo giudizio come un tribunale interiore: esso ci farebbe apparire ai nostri stessi occhi inevitabilmente come esseri indegni e abbietti. Il tentativo di sfuggire al giudizio del tribunale della ragione, attuato sia dall'essere umano comune sia dai filosofi con le loro teorie, ne dimostra quindi la realtà ineliminabile.

Certo, sull'esistenza reale di questo movente unico, di questo interesse morale puro e della sua presenza come forza motrice del cuore si potrebbero pur sempre sollevare dubbi. Nelle proposizioni iniziali si afferma che a un primo sguardo la potenza della rappresentazione pura della virtù e la sua superiorità sul movente della felicità non risultano né chiare né verosimili. Ora, però, si ribadisce, con l'aggiunta di ulteriori spiegazioni, che questo movente puro esiste; si dice anche che di esso si può dare una dimostrazione grazie a osservazioni che ogni essere umano, anche coloro che non siano abituati a filosofare, può compiere. È però necessario chiarire bene il significato di questo tipo di dimostrazione: si deve infatti stabilire una distinzione chiara tra la realtà del sentimento morale puro e la realtà del progresso morale che ne risulta. Questa dimostrazione mediante l'osservazione è sottoposta a una limitazione: può darsi che essa dimostri solo la realtà effettiva di quel sentimento morale puro, ma non il progresso morale che ne consegue. Quale il motivo di questo limite? Ciò ha una motivazione ben precisa e facilmente individuabile: nessuno ha ancora compiuto il tentativo di porre in essere il metodo che qui sarà proposto, e quindi neppure l'esperienza potrà dimostrare ancora il successo del metodo stesso. Cogliendo questo limite, Kant non nega pertanto l'esistenza di un movente morale puro, ma richiama l'attenzione sulla novità del metodo da lui proposto per la fondazione e lo sviluppo dell'affettibilità, del sentimento di interesse per il bene; sinora nessuno ha ancora adottato questo metodo e sarebbe quindi ingiustificato pretendere di rintracciarne gli effetti positivi nell'esperienza, questa la sua argomentazione.

Risuonano in questa constatazione le riflessioni già esposte nella Fondazione della metafisica dei costumi; vi si fa sentire l'eco di alcune obiezioni che effettivamente furono mosse a Kant, la risposta alle quali egli aveva affidato a una lettera a Johann Georg Sulzer. «Ho una lettera del compianto Sulzer», scriveva, «in cui egli mi domanda quale sia la causa per cui le dottrine della virtù, per quanta forza di persuasione abbiano per la ragione, pure in effetti ottengano così poco. La mia risposta, nei preparativi per darla completa, fu ritardata. Non ve n'è altra se non che gli stessi dottrinari non hanno ridotto a purezza i loro concetti, e, volendo fare troppo bene, coll'andar ricercando d'ogni parte cause che muovano al bene morale, perdono il medicamento nel renderlo troppo efficace. Giacché la più comune osservazione insegna che un'azione proba, rappresentata come scissa da ogni mira a un qualche vantaggio in questo o nell'altro mondo, nel suo essere compiuta con animo fermo anche sotto le più grandi tentazioni del bisogno o della lusinga, lascia molto dietro di sé e oscura ogni altra azione, che le somigli ma che sia, pur in minima parte, affetta da stimolo estraneo: quell'azione eleva l'animo e suscita il desiderio di poter agire così. Anche i fanciulli di media età sentono questa impressione; i doveri non dovrebbero essere presentati loro mai in altro modo» [30].

Anche nell'attacco polemico contro gli educatori della gioventù, i quali hanno fatto ricorso a un “catechismo” in cui si propongono esempi di azioni nobili o supererogatorie, si rivela una valutazione positiva. Gli scritti sentimentali sono prodighi di quel catechismo e producono solo eroi da romanzo, i quali, vantandosi del loro sentimento per la grandezza trascendente, si dispensano dal seguire l'obbligazione comune, che par loro meschinamente piccola. Nei romanzi si esprimono le azioni di un'intenzione e di un'umanità grande, disinteressata, fondata sul sentimento della simpatia, che eleva l'anima in modo incostante e transitorio, in quanto implica solo emozioni. Kant non esclude, però, che sia lecito lodare azioni dalle quali traspaiono un'intenzione e un'umanità grande, disinteressata e simpatetica, anzi afferma che ciò è consigliabile; quando si apprezzano queste azioni non si deve però badare all'elevazione dell'anima [Seelenerhebung] poiché essa è transeunte e passeggera, ma alla sottomissione del cuore al dovere, dalla quale ci si può attendere un'impressione più durevole essendo essa connessa con principi, non con Aufwallungen.

A conclusione di questo rapido percorso all'interno della “critica della ragion pratica empirica e pura” incentrato sull'esame dell'animalità e della sensibilità è necessario sottolineare come l'intento dell'opera sia non quello di formulare un sistema articolato di doveri, ma quello di compiere la fondazione dell'etica. Il capoverso conclusivo della Dottrina del metodo permette di rispondere a un'obiezione che molto spesso è stata elaborata: Kant non avrebbe saputo stabilire una netta linea di demarcazione tra la problematica relativa alla fondazione delle norme e la tematica della loro applicazione concreta; avrebbe unificato fondazione e applicazione e la sua teoria sarebbe incapace di separare la conoscenza di norme valide dalla decisione concreta in una situazione singola; avrebbe dimenticato che l'applicazione richiede informazioni e principi diversi dalla fondazione e deriverebbe l'applicazione dalla fondazione secondo un procedimento deduttivo insensibile al contesto delle varie situazioni, e alle conseguenze dell'azione. Ecco la risposta di Kant nella Dottrina del metodo: questa parte contiene esclusivamente le massime più universali di un'educazione e di una pratica morali; la molteplicità dei doveri che ne derivano richiede determinazioni particolari per ogni specie di essi, il che esige un lavoro esteso, ben diverso dai tratti fondamentali elaborati dalla Critica della ragion pratica che è opera solo preliminare. La consapevolezza della difficoltà della determinazione dei singoli doveri e della differenza di questa operazione dal compito della Critica della ragion pratica emerge dunque a chiare lettere; la teoria si pone il problema del passaggio dalla norma all'applicazione, sebbene lo rinvii ad altro scritto. Certo, la formulazione kantiana è ben diversa dalla riformulazione di Habermas, che condivide l'obiezione di cui sopra: Kant parla di differenza tra i tratti fondamentali del metodo di un'educazione e di una pratica morale e l'articolazione del sistema dei singoli doveri, Habermas introduce, sulla traccia di Apel, la differenza tra discorsi relativi alla fondazione e discorsi relativi all'applicazione. La critica di Habermas sarebbe accettabile qualora consistesse nell'affermazione che Kant non svolge un'etica del discorso e che, per questo motivo, egli non si interessa della differenza tra discorsi fondativi e discorsi applicativi; non è invece giustificata se valutata dall'interno della teoria kantiana.

4. L'animale oggetto della teleologia

Colpisce chi si occupi di etica animale un passo della Dottrina del metodo della Critica della ragion pura nel quale è riferito un aneddoto biografico relativo a Gottfried Wilhelm Leibniz. «Un osservatore della natura finisce per amare oggetti che in principio offendono i suoi sensi, se egli vi scorge la grande finalità della loro organizzazione, e così pasce la sua ragione nella loro considerazione; e Leibniz ripose delicatamente sulla foglia un insetto che aveva considerato accuratamente col microscopio, perché si era trovato istruito vedendolo, e aveva goduto da lui, per così dire un beneficio». Kant si riferisce a un aneddoto narrato da Carl Günther Ludovici: «È straordinario che il sig. Leibnitz non abbia mai ucciso una mosca, neppure quando essa gli arrecava grande fastidio. Alla domanda per quale motivo avesse riserve nel commettere questo delitto permesso in base ai diritti civili egli si prese cura di rispondere: sarebbe errato distruggere una macchina così artificiale. Il famoso signor Christian Breithaupt riferisce questo aneddoto […]. Breithaupt non dice dove abbia ricavato questa informazione sul signor Leibnitz» [31]. Non siamo qui però in presenza di una considerazione di carattere morale, quanto piuttosto di una tesi che si inserisce nella teleologia, nella dottrina della finalità degli organismi naturali. L'interesse di Leibniz per la bellezza dell'organismo di insetti che sulle prime possono apparire fastidiosi e non certo belli ai sensi, esprime l'idea di un piacere disinteressato di natura conoscitiva che sfocia in un certo amore per il suo oggetto. Amore o interesse gettano le radici nell'incremento di una facoltà conoscitiva, nell'incremento della ragione che presiede alla facoltà di giudizio (Urteilskraft).

5. Conclusioni sull'animalità non-umana

Nel corso di lezioni sulla filosofia morale tenuto all'università di Königsberg intorno al 1775 Kant spiega con queste parole ai suoi giovani uditori i “doveri verso gli animali”: «Baumgarten discute qui dei suoi doveri verso esseri inferiori e superiori a noi. Per quel che riguarda gli animali, essendo dei semplici mezzi, privi di una coscienza di sé, e l'uomo essendo invece il fine, per cui non si può porre la domanda perché vi sia l'uomo, domanda al contrario lecita nei riguardi degli animali, non vi sono verso di essi doveri diretti, ma solo doveri che sono doveri indiretti verso l'umanità. Poiché gli animali posseggono una natura analoga a quella degli uomini, osservando dei doveri verso di essi osserviamo dei doveri verso l'umanità, promuovendo con ciò i doveri che la riguardano. Per esempio, se un cane ha servito a lungo e fedelmente il suo padrone, ciò costituisce qualcosa di analogo a un'azione meritevole e perciò richiede la nostra lode e, quando non sarà più in grado di renderci i suoi servizi, noi dovremo trattenere la bestia presso di noi fino alla morte. Infatti, noi promuoviamo i nostri doveri verso l'umanità laddove ci troviamo obbligati a compierne. Essendo, dunque, gli atti degli animali analoghi a quelli umani e derivando dagli stessi principi, in tanto noi abbiamo dei doveri verso di essi in quanto, osservando questi, noi promuoviamo quelli verso l'umanità. Chi perciò facesse uccidere il proprio cane, non essendo questo più in grado di guadagnarsi il pane, non agirebbe affatto contro i doveri riguardanti i cani, i quali sono sprovvisti di giudizio, ma lederebbe nella loro intrinseca natura quella socievolezza e umanità, che occorre rispettare nella pratica dei doveri verso il genere umano. Per non distruggerla, l'uomo deve mostrare bontà di cuore già verso gli animali, perché chi usa essere crudele verso di essi è altrettanto insensibile verso gli uomini. Si può conoscere il cuore di un uomo già dal modo in cui egli tratta le bestie. Hogarth ha raffigurato in una sua incisione l'inizio della crudeltà, quando i bambini la praticano già verso gli animali, comprimendo la coda ai cani e ai gatti; in un'altra incisione egli rappresenta l'evolvere della crudeltà con un assassinio, mostrando così in modo tremendo il prezzo della crudeltà [32]. Ciò contiene ottimi insegnamenti per i bambini. Quanto più ci si dedica all'osservazione degli animali e del loro comportamento, tanto più si prova amore per essi, al vedere quante cure essi riservino ai loro piccoli. Si può allora concludere di non essere crudeli neppure verso un lupo. Leibniz, servendosi d'un foglio, riportava sull'albero il piccolo verme, su cui aveva compiuto le sue osservazioni, affinché per sua colpa non gliene venisse alcun danno. Distruggere questa piccola creatura senza ragione non avrebbe potuto non turbare un uomo [33]. È questo un genere di dolcezza destinato poi ad acquistare come suo termine l'uomo. In Inghilterra, in una giuria, non sono ammessi né macellai, né chirurghi, né medici, per la loro insensibilità verso la morte. Quando gli anatomici si servono di animali vivi per i loro esperimenti, ciò è senza dubbio crudele, sebbene sia fatto in vista di qualcosa di buono. Si può ammettere che gli animali siano considerati come strumenti dell'uomo; ma è assolutamente inaccettabile che essi ne costituiscano il gioco. Un padrone che scacci via il suo asino o il suo cane, perché ormai inservibili, rivela un animo meschino. A questo proposito il pensiero dei Greci era nobile, come mostra la favola dell'asino che aveva tirato casualmente la campana dell'ingratitudine. In conclusione, i nostri doveri verso gli animali sono indirettamente doveri verso l'umanità» [34].

Nella Critica della facoltà di giudizio, contrapponendosi a Descartes e a Malebranche, Kant afferma che anche gli animali agiscono secondo rappresentazioni e non sono sono quindi macchine e, se si prescinde dalla loro differenza specifica, l'istinto che è ben diverso dalla ragione, sono identici agli esseri umani secondo il genere, in quanto anch'essi sono esseri viventi. Nel paragrafo 17 della Metafisica dei costumi ribadisce che gli animali sono sì privi di ragione sebbene dotati di istinto, ma che essi sono comunque esseri viventi, anzi creature di Dio; la violenza e la crudeltà nei loro confronti è, sotto il profilo morale, in netto contrasto con l'imperativo categorico; non si possono accettare esperimenti su animali vivi al solo scopo di mettere alla prova teorie scientifiche; la legge morale prescrive doveri verso se stessi nei quali rientrano appunto i doveri verso gli animali. La motivazione di questa tesi risiede nel fatto che crudeltà e violenza soffocano la compassione per il dolore animale e di conseguenza si indebolisce e piano piano si elimina una disposizione naturale particolarmente utile alla moralità anche nel rapporto con gli altri uomini. La gratitudine nei confronti di un cavallo o di un cane che ci hanno servito fedelmente per molto tempo, fino a diventare parte della nostra stessa famiglia, rientra in modo indiretto tra i doveri dell'essere umano nei confronti degli animali, mentre è direttamente sempre e soltanto dovere dell'essere umano verso se stesso. Il paragrafo 34 della Metafisica dei costumi chiarisce anche che la simpatia è un dovere e al contempo è una sensazione. Simpatia [Mitfreude] e compassione [Mitleid], in latino sympathia moralis, sono definiti entrambi sentimenti sensibili, e per questo “estetici”, in quanto legati alla sensibilità, di piacere oppure dispiacere. Questi sentimenti sensibili si indirizzano sulla condizione [Zustand] di piacere e di dolore di altri e sono stati posti come affettibilità nell'uomo dalla natura stessa. Sentimenti sensibili, dunque, non sentimenti a priori; ma essi devono essere coltivati dal punto di vista morale.

Mi pare si possa concludere che, con l'inclusione dei doveri verso gli animali fra i doveri dell'essere umano verso se stesso, Kant richiama l'attenzione sul fatto che i doveri verso se stessi sono stati considerati da tutte le teorie morali che lo hanno preceduto un elemento secondario, da esaminare solo al termine come supplemento della morale, nella convinzione che l'essere umano possa occuparsi di sé solo da ultimo, dopo aver adempiuto tutti i suoi doveri nei confronti degli esseri naturali, degli animali e degli esseri puramente spirituali come Dio e gli angeli. Kant scrive: «Merita appena qui ricordare Gellert, il quale non si perita mai di parlare dei doveri verso se stessi: egli discorre sempre e soltanto di benevolenza e carità […]; da ultimo si occupa anche di sé, per non dimenticarsene proprio del tutto, come un oste che, dopo aver sfamato i suoi avventori, pensi alla fine anche a sé. Lo stesso accade per Hutcheson» [35]. Valutare i doveri nei confronti degli animali come doveri nei confronti di se stessi, come doveri indiretti e non come doveri diretti, e affermare che ciò è possibile in quanto essi si fondano sul principio della compassione non significa dunque rinchiudere l'etica entro un limitato orizzonte antropocentrico o antropocratico. I doveri nei confronti degli animali sono certo doveri indiretti, che presuppongono i doveri diretti nei confronti dell'essere umano, ma sono appunto doveri. E il termine “dovere” si è rivelato ben diverso dalla pura astrazione di una legge costrittiva ed estrinseca cui si debba sacrificare tutto; è emerso come fondato su di una necessaria cooperazione tra ragione e sensibilità pura, la quale soltanto, unendosi alla coscienza razionale, può dare la garanzia che l'imperativo categorico è concretamente applicabile e realizzabile. Contro il pericolo di una fondazione dei doveri verso gli animali sul principio di una sdolcinata benevolenza e compassione priva di principi, e quindi sul principio della felicità egoistica e individuale, Kant innalza il valore morale dei doveri verso gli animali considerandoli doveri dell'umanità verso se stessa. Evita l'antropocentrismo, sia esso dispotico o liberale, istituendo il concetto di una legge santa con cui l'essere supremo Dio e le intelligenze angeliche sono per loro stessa natura in armonia e proponendolo come legge morale all'essere umano.


[*] Questo saggio è stato presentato al convegno Animalità. Etica ed estetica animale, organizzato da Maddalena Mazzocut-Mis e svoltosi presso l'Università degli Studi di Milano il 13 e 18 Dicembre 2002.


[1] G. Patzig, “Ökologische Ethik - innerhalb der Grenzen bloßer Vernunft”, in H.J. Elster (a cura di), Umweltschutz: Herausforderung unserer Generation, Hase & Köhler, Mainz 1984, p. 67. Si veda anche Id., Ethik ohne Metaphysik,Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1983, nel quale Patzig assume una posizione kantiana in cui confluiscono argomentazioni di carattere utilitaristico; infine G. Patzig, “Der wissenschaftliche Tierversuch unter ethischen Aspekten”, in W. Hardegg, G. Preiser (a cura di), Tierversuch und medizinische Ethik. Beiträge zu einem Heidelberger Symposion, Olms Weidmann, Hildesheim 1986, p. 77. Sugli sviluppi dell'etica degli animali si veda ad es. S. Castiglione (a cura di), I diritti degli animali. Prospettive bioetiche e giuridiche, Il Mulino, Bologna 1985; P. Cavalieri, P. Singer (a cura di), Il progetto grande scimmia. Eguaglianza oltre i confini della specie umana, Theoria, Roma-Napoli 1994.

[2] J. Habermas, Erläuterungen zur Diskursethik, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1981, pp. 219-226. Si vedano anche sul tema D. Birnbacher, “Sind wir für die Natur verantwortlich?”, in Ökologie und Ethik, Reclam, Stuttgart 1980; J. Feinberg, Die Rechte der Tiere und zukünftiger Generationen, in D. Birnbacher, op. cit., pp. 141 sgg.

[3] H. Jonas, Il principio responsabilità: un'etica per la civiltà tecnologica, a cura di P.P. Portinaro, Einaudi, Torino 1993.

[4] U. Wolff, Das Tier in der Moral, Klostermann, Frankfurt a.M. 1990.

[5] O. Höffe, Moral als Preis der Moderne. Ein Versuch über Wissenschaft, Technik und Umwelt, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1993, p. 214.

[6] Ibid., pp. 215-216.

[7] T. Regan, The Case for Animal Rights, University of California Press, Berkeley 1983, pp. 84-86.

[8] A. Wood, “Kant on Duties Regarding Nonrational Nature”, in Proceedings of the Aristotelian Society, Supplement, LXXII, 1998. Sulle etiche animali si veda l'antologia a cura di G. Barreca, Animali non umani: responsabilità e diritti. Un percorso storico-filosofico, Unicopli, Milano 2003.

[9] I. Kant, Critica della ragion pratica, tr. it. di F. Capra, “Introduzione” di S. Landucci, Laterza, Roma-Bari 1997 (d'ora in poi citato con la sigla CRP), p. 21.

[10] Ibid., pp. 47-49.

[11] Per lo più si insiste sulla critica di Kant a Epicuro e alla sua teoria del “sentimento fisico” e non si sottolinea il nesso fra i due pensatori né la dimensione antropologica entro la quale è elaborato. Schink si limita a notare: «Quando Epicuro dice che il piacere [Lust] e il desiderio di felicità sono un fatto universalmente riconosciuto, un dato di fatto primigenio innegabile, Kant non lo contraddice affatto» (W. Schink, “Kant und Epikur”, Archiv für Geschichte der Philosophie, n. 27, 1914, pp. 257-272, qui p. 269). Questa considerazione non è però ulteriormente sviluppata.

[12] CRP, p. 167.

[13] Ibid.

[14] Ibid., p. 353.

[15] Ibid., p. 197.

[16] G.W. Leibniz, Essais de Théodicée, sur la bonté de Dieu, la liberté de l'homme et l'origine du mal, Amsterdam 1710, § 403; Id., Des Freyherrn von Leibnitz Kleinere Philosophische Schriften; Théodicée […], Hannover-Leipzig 1763 (cfr. "Riflessione 3855”, in I. Kant, Kants Gesammelte Schriften, + voll., Berlin 1901 sgg. (d'ora in poi citato con la sigla AA), vol. XVII, pp. 313 sgg.; vol. XXVIII, p. 96); A.G. Baumgarten, Metaphysica, Halle 1757, § 705 (ristampa in AA, vol. XVII, p. 131): «Si automaton dicatur se ipsum mutans, anima erit automaton» (cfr. AA, vol. XVII, p. 313; vol. XXVIII, p. 96); Id., Metaphysica, Psychologia rationalis, Sectio VI: Animae Brutorum, §§ 792-795, ristampa in AA, vol. XVII, pp. 155 sgg. (cfr. AA, vol. XXIX, p. 906); G.F. Meier, Versuch eines neuen Lehrgebäudes von den Seelen der Thiere, 1749 (cfr. AA, vol. II, p. 311; vol. XXIX, pp. 881, 906); H.S. Reimarus, Allgemeine Betrachtungen über die Triere der Thiere, insbesondere über ihre Kunstriebe. Zum Erkenntnis des Zusammenhanges der Welt, Gott und unserer selber, 2. Aufl., Hamburg, 1762, §§ 1 e 19 (pp. 1, 31): «Tutto è solo oscuro e confuso, ma tuttavia molto vivo. L'impressione che essi infatti ricevono direttamente dalle cose […] è loro insegnata dalla rappresentazione di ciò che è presente, grazie ai loro raffinati organi di senso»; p. 305: «perciò è possibile che alcune specie animali abbiano uno o più sensi che non sono compresi tra i cinque sensi che ci sono noti». Si veda anche AA, vol. XXVII, pp. 85-86, 459-460; vol. XXVIII, pp. 1097, 1185, 1199.

[17] H.S. Reimarus, op. cit., p. 211. Kant attacca anche Nicolas Malebranche, De la recherche de la vérité, Livre IV, chap. XI (cfr. AA, vol. XXVIII, pp. 115-116, 274, 900). Sul rapporto con Reimarus si veda C. Ferrini, “Kant, H.S. Reimarus e il problema degli aloga zoa”, Studi Kantiani, n. 15, 2002, pp. 37-63.

[18] CRP, pp. 211-213.

[19] Ibid., p. 42.

[20] Ibid., pp. 69-71.

[21] Ibid., pp. 181-183.

[22] Ibid., pp. 187-189.

[23] Ibid., p. 177.

[24] Ibid., p. 189.

[25] Ibid., p. 259.

[26] Epitteto, Manuale, tr. it. di G. Leopardi, “Introduzione” di G. De Ruggiero, Mursia, Milano 1971, pp. 56-57. Si veda anche The Spectator (nella traduzione tedesca del 1742, Der Zuschauer, 6. Theil, 397. Stück, p. 9): «Come i saggi stoici debellavano tutte le passioni, così essi non permettevano al saggio neppure la compassione per il dolore altrui. Se vedi il tuo amico in preda all'angoscia, scrive Epitteto, mostra pure un volto afflitto e compiangilo; ma evita che il tuo dolore diventi autentico. I più rigorosi di questa setta non vollero neppure permettere l'apparenza esterna dell'afflizione, ma quando si raccontava loro una tragedia accaduta talvolta perfino a uno dei loro parenti più prossimi, essi chiedevano: in che senso mi riguarda? Se si proseguiva nella descrizione particolareggiata della disgrazia e si mostrava come da un male ne fosse scaturito un altro, essi dicevano: tutto ciò può essere vero, ma come mi può riguardare?» (cfr. AA, vol. XXV, p. 407, 1091-1092).

[27] CRP, pp. 257-259.

[28] Ibid., p. 138.

[29] Ibid., p. 249.

[30] I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, a cura di A. Vigorelli, Bruno Mondadori, Milano 1995, p. 57, nota.

[31] [Ludewig], Ausführlicher Entwurff einer vollständigen Historie der Leibnitzschen Philosophie. Zum Gebrauch seiner Zuhörer, 2 voll., Leipzig 1737, vol. II, p. 230 sgg.

[32] Il riferimento è all'opera di W. Hogarth, The Four Stages of Cruelty, 1751.

[33] «Leibniz riponeva cautamente sulla foglia i vermi da lui osservati, e ognuno ama ciò che è in lui occasione di riflessioni». Cfr. anche AA, vol. XXIII, p. 441 e vol. XXVII, p. 459. «Leibniz ripose il verme che aveva osservato sulla foglia dell'albero affinché non morisse per colpa sua. All'uomo dispiace distruggere senza ragione una siffatta creatura…» (AA, vol. XXVII, p. 459). Qui l'esempio viene utilizzato non per soffermarsi sulla natura della contemplazione della struttura meravigliosa dell'insetto e sulle sue conseguenze per il sentimento di piacere e di ammirazione disinteressata, ma per illustrare la tesi dei doveri verso gli animali. Si veda AA, vol. XXIII, p. 411; vol. XXV, p. 12; vol. XXVII, p. 459.

[34] I. Kant, Lezioni di etica, a cura di A. Guerra, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 273-274.

[35] Ibid.


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