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Suggestioni e batticuori: ideologia e politica staliniana in forma di canzone [*]

di Gian Piero Piretto

Squillanti come uccelli, una dopo l'altra,
Volano le canzoni sul paese sovietico,
Allegro è il ritornello nelle città e nei campi:
Vivere è diventato più bello,
Vivere è diventato più allegro!

V. Lebdev-Kumač, Vivere è diventato più bello

Potrebbe essere sufficiente il testo di una sola fra le tante canzoni che hanno segnato la vita dei cittadini sovietici negli anni Trenta staliniani per capire lo spirito che ne regolava la composizione, la circolazione e il funzionamento in quel preciso momento di vita sovietica: il testo di quella citata nell'exergo di questo articolo, per esempio [testo 1] [audio 1], ispirata a un passaggio di un discorso di Stalin pronunciato in occasione di un raduno di stacanovisti, estrapolato dal contesto, isolato, caricato di significato e trasformato in motto, slogan, proverbio che raccoglieva in sé, secondo modalità ridotte e semplificate, il senso di un discorso lungo, magari complesso e articolato, troppo complesso per essere capito dal popolo.

Per indagare situazioni e sfumature emotive che costituivano la base del sofisticato discorso propagandistico, solo convenzionalmente definibile totalitario nel senso riduttivo del concetto [1], è opportuno e necessario affrontare il problema in maniera più sottile e articolata [2].

Le canzoni aiutavano il cittadino sovietico prima di tutto a sapere che cosa dovesse desiderare.

Suggerivano le emozioni che si sarebbero dovute provare nell'organizzazione del momento in cui il radioso avvenire sarebbe stato raggiunto, e lo facevano, passando con progressiva accelerazione da uno stato di prudente immaginazione a uno più deciso di simulazione di realtà, fornendo tutte le coordinate perché chi fruiva della canzone percepisse come già attuale ciò che fattualmente altro non era che un'ipotesi. «Fantasia non significa che, quando desidero una torta alle fragole e non posso ottenerla nella realtà, immagino di mangiarla. Il problema è piuttosto: come faccio a sapere che desidero una torta alle fragole oltre ogni altra cosa?» [3].

Stalin e la sua politica culturale avevano risolto questo problema. La costruzione dell'iper-realtà staliniana si basava proprio su questo binomio: fornire allo stesso tempo l'idea del desiderio e la rappresentazione del suo appagamento. Si può desiderare solo ciò che gli altri (Stalin) desiderano per me. [fig. 1]

L'individualità veniva progressivamente schiacciata, assecondando un atteggiamento di sottomissione e riconoscimento nel volere e potere del leader che era endemico per il popolo russo [4].

Attraverso la canzone di massa, anche attraverso la canzone di massa, si intendeva riforgiare la coscienza popolare collettiva [5]. Non solo rispetto al passato zarista-borghese del paese, ma anche in relazione allo spirito che aveva caratterizzato gli anni Venti sovietici: sperimentazione, avanguardia, formalismo. Ogni campagna, ogni epopea, ogni evento storico-politico o sociale avrebbe trovato negli anni Trenta un riscontro emotivo in una canzone o in una serie di canzoni. Queste diventavano una sorta di riassunto lirico-emozionale e sintetico di quanto politica ed economia producevano, con l'aggiunta di ritmo e melodia per ottenere il giusto e necessario pathos. A questa fase seguiva, o procedeva parallelamente, la costruzione dell'opera d'arte totale, il riscontro di quella stessa emozione trasposta in altre componenti del discorso culturale: iconografia, cinema, architettura, letteratura ecc. La manipolazione delle emozioni attraverso un articolato e ben congegnato uso dell'empatia portò a quel misterioso consenso, ancora difficile da interpretare e giustificare per chi russo non sia e non abbia in prima persona sperimentato l'inquietante fascinazione di Stalin e l'effetto delle sue sofisticate operazioni strategiche, quello stesso consenso che sarebbe stato denunciato e attaccato da Chruščëv nei tardi anni Cinquanta come “culto della personalità”, per essere, dagli anni Settanta in poi, decostruito dagli artisti del movimento detto sots-art. [fig. 2] [fig. 3]

Il primo precetto da rispettare perché l'emozione provata fosse politicamente corretta, e non facesse incorrere in sanzioni di portata anche grave e seria, era la partecipazione attiva alla fruizione della canzone: ascoltare e basta non era previsto dal cerimoniale del galateo staliniano. Il passo successivo sarebbe costituito nel trasformare in attività produttiva e operativa l'emozione trasmessa e ricevuta dalla canzone. La canzone di massa sovietica era «espressione ritmata e rimata di dottrina» [6], pensata per coinvolgere il popolo emotivamente, non solo sul fronte didascalico-ideologico o banalmente sentimentale. Doveva sostituire alle passioni decadenti d'inizio secolo e alle già anacronistiche affermazioni rigorose e categoriche degli anni Venti le alternative positive che permettessero di usare l'abilità trasformativa dell'emozione per ideologizzare i sentimenti [7]. Per codificarli e orientarli, secondo i dettami del momento e le esigenze staliniane di organizzazione e gerarchizzazione del paese e dei suoi abitanti. Cantare significava celebrare, unirsi metaforicamente e fisicamente al coro, sfilare, memorizzare testi e melodie, tradurli in pratica quotidiana e saper riconoscere e applicare il messaggio ideologico di cui la canzone si faceva portatrice. Non soltanto il significato banalmente contenuto nei suoi versi e nella sua musica, ma quello più assoluto e complesso, nascosto dietro e sotto ritmi apparentemente facili e coinvolgenti: l'esito emotivo-operativo dell'operazione canzone che da scontata colonna sonora di film e situazioni frivole e giocose passava a connotarsi come sostrato dell'esistenza e modello comportamentale per ogni sfera dell'attività.

Una delle condizioni essenziali per chi componeva testi e musica era di rispettare la consegna della semplicità. Quella semplicità apparente, che risultasse tale agli occhi, alle orecchie e alle sensibilità della massa, ma il cui funzionamento, abbinato a tutte le altre componenti del discorso culturale, confluisse nel complesso e sofisticato esito finale. A differenza di quanto aveva concepito e realizzato l'avanguardia, che svelava i meccanismi dell'influenza e della propaganda, il realismo socialista avrebbe nascosto le manipolazioni, gli artifici dei formalisti, mirando al massimo effetto, tralasciando di evidenziare e mettere in mostra l'attenzione per il procedimento [8]. Per comprendere a fondo la strategia di queste operazioni è necessario chiarire un concetto estetico-formale che sta alla base della politica delle emozioni nella Russia di quegli anni. Il concetto di pesennost', in russo sostantivo astratto di difficile se non impossibile traduzione, che può essere reso artificiosamente in italiano con un neologismo tipo “canzonità” o “canzonitudine”, ma interpretato in tutta la sua pregnanza come trasposizione del ritmo, del registro, dell'emotività tipica di una canzone nella pratica sociale, politica, culturale, insomma ideologica, visto che il capolavoro massimo dell'opera d'arte totale dello stalinismo altro non era che il paese stesso e che gli apparenti osservatori-fruitori erano chiamati e tenuti a diventarne protagonisti-responsabili, con tutti i rischi e le retro facce della medaglia che la situazione comportava.

Pesennost' era soprattutto attenzione per modulazione, semplicità di forme, accessibilità [9], coinvolgimento emotivo. In altre parole, tutte le categorie che portano a riconoscere il kitsch, ma non solo. L'applicazione della pesennost' a ogni ambito della cultura e della vita, la costruzione del discorso emotivo su queste basi, avrebbero portato a elevare la canzone, di massa ben inteso, a elemento fondamentale dell'esistenza, attribuendole il massimo grado di responsabilità, affidabilità e investimento. Il punto più estremo a cui la produzione musicale sovietico-staliniana si sarebbe spinto in questa direzione avrebbe portato a una tautologica Pesnja o pesne (Canzone sulla canzone), in cui non è certo difficile riconoscere una nemmeno troppo criptica citazione, operazione ricorrente nella costruzione del discorso culturale sovietico, del Pesn' pesnej (Cantico dei cantici).

Per meglio esemplificare questi concetti e la loro applicazione propongo un documento sonoro, dapprima senza commento né traduzione, per verificarne l'impatto acustico ed emozionale. Canzone non nel senso stretto, ma operazione procacciatrice di emozioni staliniananamente intese secondo i principi della pesennost' più pura. Si tratta di un discorso pronunciato in una delle tante occasioni pubblico-collettive, con un lessico sgrammaticato, una sintassi precaria, un trasporto emozionale grandissimo [testo 2] [audio 2]. Il contenuto del testo è scontato e retorico, ma apparentemente spontaneo e immediato. Passa da una veemente esternazione di gratitudine per Stalin e il partito a una non meno irrefrenabile e travolgente carica di odio per i portatori del male, coloro che al momento era considerati nemici del popolo: Trotskij, Bucharin, Rykov, concentrando in pochi minuti una carica emotiva che tocca uno stupefacente arco di emozioni. Non meno spicciolo ma di effetto per chi non vada troppo per il sottile di quanto lo siano odierni interventi televisivi, dall'imbonimento aggressivo e feroce di una Vanna Marchi o alle multiformi commozioni di Maria De Filippi e dei suoi ospiti. Ciò che colpisce in maniera particolare è che questo documento sia giunto a noi con un titolo ben preciso: Discorso di una semplice donna sovietica. Ribadisco anche in questo caso l'importanza di quell'aggettivo, “semplice”, fondamento base sulla cui valenza ho già fatto riferimento in precedenza, a cui è affidata la più grande responsabilità: far credere alla spontaneità e alla verità.

La canzone o qualsivoglia documento sonoro, come l'emozione e lo stimolo ad agire che ne sarebbe derivato, non dovevano connotarsi come sequenza fonica astratta, bensì apparire emotivamente ricche, sostanziose per esprimere con chiarezza qualsiasi sfumatura contenutistica: potenza, forza, lirismo, riflessione [10]. Le emozioni che il “cantare” avendo introiettato e applicato il concetto di pesennost' e di adesione alla causa politico-ideologica suscitava, non erano semplicemente false. Per quanto il vero se stesso non le sentisse, queste diventavano in un certo senso “vere” [11], in nome dell'adesione al discorso ideologico, dell'empatia suscitata dalla costruzione e dalle pratiche culturali, senza che il cittadino assumesse un'identità fittizia, semplicemente adeguandosi al procedimento che lo voleva far cosa gradita al leader, alla guida-amico-maestro nei cui desideri e nelle cui ambizioni si identificava convinto di essere parte essenziale nella loro realizzazione e conseguente, per quanto solo virtuale, fruizione, dalla cui effettiva determinazione delle regole restava comunque escluso.

Non si trattava solo di interpassività, non si osservava l'Altro emozionarsi al proprio posto, demandandogli risate e lacrime, ma si investiva tutto nell'illusione di attiva interazione con lui e partecipazione alla conduzione della res publica. Il realismo socialista avrebbe fatto in modo che anche risate, lacrime, brividi, risposte viscerali che vanno al di là del controllo umano venissero orientate, incanalate, controllate. In altre parole avrebbe eliminato progressivamente il senso carnevalesco della cultura popolare, privandolo di quanto di autentico o pruriginoso potesse contenere. Stalin, ho cercato di dimostrarlo altrove [12], immobile e inespressivo si limitava a un sorriso di circostanza e a un sobrio e ridotto gesto della mano, osservando il proprio popolo che sfilava davanti a lui e per lui cantava, danzava, mimava attività e posture in linea con il discourse, sicuro, per tutti gli anni Trenta, di avere sufficientemente investito nella tattica promozionale e di potersi concedere un rilassato ruolo di osservatore. La sola mutazione di atteggiamento era l'immancabile unirsi all'applauso finale, anche quando apparentemente l'inevitabile ovazione sembrava sommergerlo. Questo partecipare, commenta Slavoj Žižek, indica l'obbligo del leader sovietico, a differenza di quello nazista, a rivolgere l'applauso al Grande Altro della Storia, quello di cui lui è solo l'umile strumento [13]. Il popolo rispondeva con l'affetto, l'aspetto dimostrativo dell'emozione, l'affetto per colui che, secondo l'antica tradizione russa, avendo ricevuto l'investitura divina che lo rendeva non necessariamente buono, ma senza dubbio alcuno giusto, lo guidava, opprimeva, organizzava e sapeva anticipare i suoi desideri, non concedendo nemmeno un istante di tempo libero perché ci si potesse interrogare sulle troppo straordinarie realizzazioni, molte delle quali erano state indiscutibilmente compiute anche se i prezzi pagati quasi sempre venivano taciuti, di cui anche le canzoni contribuivano a confermare l'esistenza e la bontà. Quello stesso leader-batjuška (caro padre) che, sulla base del già citato principio, sapeva e doveva anche punire e lo faceva offrendo al popolo un'abbondante percentuale di colpevoli (i famigerati e indefinibili “nemici del popolo”) contro cui scagliare, grande investimento emotivo, i propri risentimenti e il proprio astio. Come è noto Stalin arruolava nella polizia segreta agenti di origini proletarie, che potessero di conseguenza esprimere e investire il proprio odio per la nomenklatura torturando e accanendosi contro i burocrati [14]. Rimarcando anche in questo modo l'idealità della causa rivoluzionaria e la necessità di colpire chi ne tradisse gli ideali.

La falsità del testo artistico, iconografico, letterario o musicale che fosse, veniva accettata proprio in nome di questa idealità. La realtà, virtuale o iper-realtà che vogliamo definirla, cercata e realizzata da Stalin per il suo popolo, non era solo beffardo inganno. La verità trasmessa attraverso le canzoni o i milioni di copie di un manifesto propagandistico diventava la sua autenticità in nome della verità ideale che è contenuta anche nella falsità. La conditio sine qua non era che il prodotto fosse riconoscibile, condivisibile, ripetitivo per far sì che le certezze empiriche si rafforzassero a ogni singola esperienza. L'empatia fu il sentire dominante e basilare per tutta l'era staliniana, almeno fino all'inizio della guerra. Grande e tragica assente per tutti questi anni, l'ironia.

La retorica della canzone non si poneva il problema del vero o del falso, ma quello dell'efficacia del funzionamento. Nessuna aura benjaminiana veniva uccisa dalla riproducibilità tecnica nel realismo socialista, anzi, il canone prevedeva che la riproduzione e non l'originale fosse la vera opera d'arte. La tela era solo la base di partenza per la riproduzione [15]. La dittatura estetica diventava dittatura politica. Il fatto che il discorso della “semplice donna sovietica” non fosse un originale, un momento unico e irripetibile, ma fosse stato commissionato e registrato e diffuso in forma di disco o di intervento radiofonico conferma queste teorie e ci riporta a casi analoghi dei nostri tempi, uno fra mille il discorso “della luna” o “della carezza ai bambini” di Papa Giovanni XXIII la sera dell'inaugurazione del Concilio Vaticano II, che oggi, ampiamente inquinato e inflazionato, non ci si stupirebbe di sentire addirittura come suoneria di un telefono cellulare particolarmente pio. Sarebbe necessario introdurre e verificare il discorso sull'originalità dell'impatto estetico e sul suo sviluppo nel tempo, ma sono costretto a rimandarlo ad altra occasione.

Le canzoni narravano in termini e sensibilità di pesennost' gli aspetti più superficiali ed esteriori dei maggiori eventi, ma con la pretesa di rappresentarli in toto, aggiungendo alla storia un pathos tutto propagandistico, procurando al paese piacere, divertimento, benessere (virtuale), passione ed emozione.

Una tra le più ricorrenti opposizioni semplificate e coinvolgenti era quella tra il my (noi) e i variamente definiti “altri”. La tendenza era verso il lirismo più che verso l'epica: mancavano trama e azione in favore di ritratti e tratti saturi di emozioni patriottiche [16]. Come nelle fiabe il costante e ricorrente riferimento alla semplicità della favola, alla mancata resistenza dell'ambiente nei confronti dell'eroe, stava alla base dei testi e delle imprese eroiche lanciate attraverso il canto. Alla russi(rossi)ficazione del folklore iniziata negli anni Venti seguiva la variante real socialista: al timor panico suscitato dalla grandiosità della natura russa nella tradizione folklorica si sostituiva l'orgasmico appagamento per il conquistato dominio sulla natura stessa. Alla toska po prostoru (angoscia-struggimento provocato dall'immensità sconfinata del territorio) dava il cambio la superiorità dell'uomo sovietico sulle forze primordiali:

Мы рождены, чтоб сказку сделать былью,
Преодолеть пространство и простор,
Нам разум дал стальные руки–крылья,
А вместо сердца – пламенный мотор. [17]

По полюсу гордо шагает,
Меняет движение рек,
Высокие горы сдвигает
Советский простой человек.
[…]
И звезды сильней заблистали,
И кровь ускоряет свой бег,
И смотрит с улыбкою Сталин –
Советский простой человек. [18]

Il nemico nelle canzoni veniva dall'esterno, era l'occidente, sempre rappresentato con toni apocalittici che servivano ovviamente a rafforzare il solido benessere della controparte sovietica, e in quasi ogni canzone frivola, spensierata e gioiosa, faceva capolino un verso in cui si ricordava al “cattivo” che il popolo sovietico era sì giocoso e rilassato, ma costantemente all'erta e pronto a insorgere se e quando ce ne fosse bisogno. La guerra rivelerà la tragica infondatezza di queste sicurezze da operetta e segnalerà la totale mancanza di credibilità di quelle strofe e della realtà storica a cui facevano coro.

Над страной весенний ветер веет.
С каждым днем все радостнее жить,
И никто на свете не умеет
Лучше нас смеяться и любить.

Но сурово брови мы насупим,
Если враг захочет нас сломать,
Как невесту, Родину мы любим,
Бережем, как ласковую мать. [19]

L'eroe, come quello delle fiabe, si lanciava alla riscossa e tornava invariabilmente vincitore. Facendo leva sulla psicologia russa popolare, restituendo al repertorio musicale quel fondo di anima popolare che gli anni Venti avevano sopito per dare spazio alla politica, Stalin avrebbe conquistato il suo popolo. La canzone promuoveva e automaticamente garantiva una monolitica unità delle file, un totale affiatamento nell'azione e una grande coerenza interiore [20].

Tre esempi concreti per concludere. Tre canzoni, capisaldi della cultura di quegli anni, i cui testi si connotarono subliminalmente come una serie di comandamenti, al tempo stesso precetti dettati dall'alto e garanzie della loro stessa attendibilità e successo.

La Marcia dell'allegra compagnia [testo 3] fu colonna sonora di un fortunatissimo film, Vesëlye rebjata, 1934 (L'allegra compagnia, noto in Italia come Tutto il mondo ride) e costituisce un inno alla canzone e ai suoi poteri taumaturgici [audio 3].

La Marcia degli entusiasti [testo 4] sposta il registro sul fronte più seriamente ideologico e coinvolge tecnica e messianesimo del popolo russo sovietizzato [audio 4].

La Canzone della patria [testo 5] [audio 5], ancora una volta colonna sonora di un popolarissimo film del 1936, Cirk (Il circo), divenne addirittura un inno nazionale apocrifo, sostituendosi nel cuore e nella mente dei cittadini alla troppo politica Internazionale. Nella scena finale che propongo alla vostra attenzione un bimbo mulatto viene restituito alla madre, americana ma ormai sovietizzata, che un cattivo malintenzionato voleva denunciare per la colpa di avere concepito un figlio bastardo con un negro. Gli spettatori sovietici del circo in cui la donna lavora non solo non si scandalizzano, ma accolgono il piccolo passandolo di braccia in braccia per salvarlo dalla violenza razzista del perfido, il cui inequivocabile accento tedesco lo connota e denuncia senza bisogno di ulteriori commenti. Immancabile arriva la canzone: una dolcissima ninna nanna cantata dagli spettatori in molte lingue dell'unione, a simboleggiarne l'unitarietà e l'apertura mentale. L'emozione privata della protagonista ha breve durata. Si trasforma immediatamente in emozione pubblica e il collettivo trova la sua giusta soddisfazione, l'atteso stimolo e il giusto registro per applicare nella pratica di vita ciò che ha visto al cinema. Ancora una volta l'arco emotivo spazia dalla commozione (prima, seconda e addirittura terza lacrima della più pura emozione kitsch), al compiacimento per la straordinaria unità e compattezza del popolo sovietico, lasciando spazio a una sfumatura di condanna e risentimento per il cattivo di turno, giustamente punito e sbeffeggiato, a brevi intermezzi comico-grotteschi che abbassino per un istante la tensione e sdrammatizzino, per culminare nella trionfale celebrazione che assomma in sé tutte le emozioni precedenti e manda a casa gli spettatori più convinti che mai che, come recita un verso della canzone colonna sonora, «non si conosca altro paese in cui l'uomo respiri tanto liberamente come in URSS». Lascio la parola alle immagini e alla musica, trasportando tutti sulla piazza Rossa per la parata del 1 maggio 1936, al cospetto di Stalin (mai inquadrato ma a cui si fa riferimento con un cenno del capo e un volgere di sguardo verso destra delle protagoniste mentre sfilano marciando), tra una folla festosa, coinvolta, convinta, emozionata.

Concludo ricordando solo che questo stato di cose sarebbe stato rimosso dalla storia stessa, dalla guerra che, e lo dico con un concetto che devo a un recente intervento di Maddalena Mazzocut-Mis, avrebbe d'autorità spazzato via le facile emozioni per ridare spazio ai sentimenti, quelli che negli anni del cosiddetto alto stalinismo erano stati sopiti, nascosti, ma che la tragicità della situazione bellica avrebbe fatto prepotentemente tornate a galla, restituendo il debito valore all'autenticità, all'originalità dell'emozione, prima che una retorica e roboante celebrazione di una non facile vittoria facesse tornare in auge modalità bassamente real socialiste ancora oggi non del tutto risolte e chiarite.


[*] Questo saggio è stato presentato al convegno La via dell'emozione, organizzato da Maddalena Mazzocut-Mis e Gianfranco Mormino, e svoltosi presso l'Università degli Studi di Milano il 5 maggio 2005.


[1] Cfr. C. Gjunter, “Totalitarnoe gosudarstvo kak sintez iskusstv”, in C. Gjunter, E. Dobrenko (a cura di), Socrealstičeskij kanon, Akademičeskij proekt, Sankt-Peterburg 2000, pp. 7-15; B. Groys, Lo stalinismo ovvero l'opera d'arte totale, Garzanti, Milano 1992.

[2] L'attenzione per questo fenomeno ha radici lontane e ha dato luogo a un interessante e articolato dibattito. Tra i molti contributi ne cito alcuni tra i fondamentali che si aggiungono a quelli espressamente citati nel mio articolo: A. Bočarov, Sovetskaja massovaja pesnja, Moskva 1956; A. Sochor, Russkaja sovetskaja pesnja, Leningrad 1956; V. Skvoznikov, “Po povodu odnogo obzaca. (O massovoj pesne 30-ch godov)”, Voprosy Literatury, avgust 1990, pp. 3-27; J. Mineralov, “Kontury stilja epochi. (Eščë raz o massovoj pesne 30-ch godov)”, Voprosy Literatury, ijul' 1991, pp. 3-37; G.S. Smith, Songs to Seven Strings. Russian Guitar Poetry and Soviet “Mass Song”, Indiana U.P., Bloomington 1984.

[3] S. Žižek, Il godimento come fattore politico, R. Cortina, Milano 2001, p. 20.

[4] Cfr. G.P. Piretto, “Il popolo russo e il sacrificio: martirio, eroismo o masochismo?”, in R. Ago (a cura di), Il sacrificio, Biblink, Napoli 2004, pp. 49-75.

[5] J. Mineralov, Tak govorila deržava. XX vek i russkaja pesnja, Literaturnyj Institut im. Gor'kogo, Moskva 1995, p. 52. Disponibile in rete all'indirizzo http://loi.sscc.ru/ sn/ td/ DERGAV.doc.

[6] D. MacFayden, Red Stars, Songs for Fat People. Affect, Emotion, and Celebrity in the Russian Popular Song, 1900-1955, McGill-Queen's U.P., Montreal & Kingston, London, Ithaca 2002, p. 254.

[7] Ibid., p. 260.

[8] Cfr. B. Groys, “Utopian Mass Culture”, in B. Groys, M. Hollein (a cura di), Dream Factory Communism. The Visual Culture of the Stalin Era, Schirn Kunsthalle-Hatje Cantz, Frankfurt 2003, pp. 20-38.

[9] F. Roziner, “Socrealizm v sovetskoj muzyke”, in C. Gjunter, E. Dobrenko (a cura di), op. cit., p. 167.

[10] Ibid., p. 177.

[11] S. Žižek, op. cit., pp. 36-37.

[12] Cfr. G.P. Piretto, “Visioni e rappresentazioni di un non-flâneur sovietico: lo sguardo del e sul compagno Stalin”, Culture. Annali del Dipartimento di Lingue e Culture Contemporanee della Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Milano, 17, 2003, pp. 71-86. Disponibile in rete all'indirizzo http://www.club.it/ culture/ culture2003/ gian.piero.piretto/ corpo.tx.piretto.html.

[13] S. Žižek, op. cit., p. 86.

[14] Ibid., p. 89.

[15] E. Dëgot, “The Collectivization of Modernism”, in B. Groys, M. Hollein (a cura di), op. cit., pp. 85-105, qui p. 93.

[16] H. Günther, “‘Broad is my Motherland’. The Mother Archetype and Space in the Soviet Mass Song”, in E. Dobrenko, E. Naiman (a cura di), The Landscape of Stalinism. The Art and Ideology of Soviet Space, University of Washington Press, Seattle and London 2003, pp. 77-95, qui p. 82.

[17] «Noi siamo nati per trasformare le favole in realtà / sopraffare gli spazi e le immensità. / L'ingegno ci ha forniti di braccia-ali d'acciaio / e al posto del cuore abbiamo un motore ardente» (P. German, Ju. Chajta, Marš stalinskoj aviacii [Marcia dell'aviazione staliniana], all'indirizzo http://www.sovmusic.ru).

[18] «Marcia orgogliosamente per il polo, / Cambia corso ai fiumi. / Sposta le più alte montagne / Un semplice uomo sovietico. […] E le stelle si sono messe a brillare con più intensità, / E il sangue ha accelerato la sua marcia, / E osserva con un sorriso Stalin, / Semplice uomo sovietico» (V. Lebdev-Kumač, Sovetskij prostoj čelovek [Un semplice uomo sovietico], 1937, all'indirizzo http://www.sovmusic.ru).

[19] «Sul paese soffia un vento primaverile, / Di giorno in giorno vivere diventa più giocoso, / E nessuno al mondo è capace / di ridere e amare meglio di noi. / Ma severi aggrotteremmo le ciglia / Se il nemico ci volesse distruggere. / Amiamo la Patria come una sposa, / La difendiamo come una dolce madre» (V. Lebedev-Kumač, Pesnja o rodine [Canzone della patria] all'indirizzo http://www.sovmusic.ru).

[20] J. Mineralov, Tak govorila deržava. XX vek i russkaja pesnja, cit., p. 63.


Testi

[file audio] Vivere è diventato più bello, vivere è diventato più allegro, 1935

(Testo di V. Lebdev-Kumač; Musica di A. Aleksandrov)

Squillanti come uccelli, una dopo l'altra
Volano le canzoni sul paese sovietico,
Allegro è il ritornello nelle città e nei campi:
Vivere è diventato più bello,
Vivere è diventato più allegro!
Il paese cresce e canta in amicizia,
Forgia una nuova felicità con una canzone.
Guardi il sole, e il sole è più luminoso.
Vivere è diventato più bello,
Vivere è diventato più allegro!
Sappi, Vorošilov, che stiamo all'erta,
Non cederemo al nemico nemmeno un centimetro di terra.
Allegro è il ritornello di campi e città:
Vivere è diventato più bello,
Vivere è diventato più allegro!
Tutto l'immenso paese desidera gridare a Stalin:
“Grazie, caro e amato!”
Allegro è il ritornello di campi e città:
Vivere è diventato più bello,
Vivere è diventato più allegro!
Squillanti come uccelli, una dopo l'altra
Volano le canzoni sul paese sovietico,
Allegro è il ritornello nelle città e nei campi:
Vivere è diventato più bello,
Vivere è diventato più allegro!

[file audio] Discorso di una semplice donna sovietica (anni Trenta)

Compagni, avremmo mai pensato che i nostri figli, che i nostri nipoti avrebbero potuto andare nei giardini d'infanzia, negli asili, in villeggiatura, in colonia? E mica solo i bambini, ma anche noi in villeggiatura, in casa di cura, in pensionato… Compagni, tutto per noi, tutto ha fatto, grazie a te Grande Stalin, grazie partito nostro… (OVAZIONI) Compagni, sappiamo bene in che condizioni difficili abbiamo ottenuto questa vittoria! Sappiamo che degli schifosi, spregevoli, mascalzoni, traditori, trotskisti, bucharinisti, rykovisti, tutti quei mascal… quella banda di gentaglia voleva vendere la nostra patria socialista che ci siamo conquistati! Ma hanno sbagliato i conti; il nostro partito, il nostro Grande Stalin, il nostro comitato popolare, Nikolaj Ivanovic Ežov, la proteggono fortemente… (OVAZIONI TEMPESTOSE) … la proteggono fortemente la nostra vita felice, gioiosa, agiata!

[file audio] Marcia dell'allegra compagnia, 1936

(Testo di V. Lebedev-Kumač; Musica di I. Dunaevskij)

Alleggerisce il cuore una canzone allegra,
Fa sì che non ci annoi mai.
Paesi e villaggi amano le canzoni,
E anche le grandi città amano le canzoni.
La canzone ci aiuta a costruire e a vivere,
Come un amico ci chiama e ci guida.
E chi cammina per la vita in compagnia di una canzone,
Non fallirà mai e da nessuna parte!
Noi sappiamo cantare e ridere come bambini,
Tra la lotta tenace e il lavoro,
Siamo venuti al mondo fatti così,
Non ci arrendiamo mai e in nessuna occasione.
La canzone ci aiuta a costruire e a vivere,
Come un amico ci chiama e ci guida.
E chi cammina per la vita in compagnia di una canzone,
Non fallirà mai e da nessuna parte!

[file audio] Marcia degli entusiasti, 1936

(Testo di A. D'Aktil'; Musica di I. Dunaevskij)

Nei giorni di grandi edificazioni,
Tra rombi allegri, fuochi e suoni,
Salve, paese di eroi,
Paese di sognatori, paese di scienziati!
Tu per la steppa, tu per il bosco,
Tu per i sentieri, tu verso il polo
Ti sei esteso, paese natio, inabbracciabile con lo sguardo,
Incrollabile paese mio.
Per noi non esistono confini né in mare né sulla terra ferma,
Non ci fanno paura né i ghiacci né le nuvole.
La fiamma della nostra anima, il vessillo del nostro paese, trasporteremo nei mondi e nei secoli!
Dovremmo forse segnare il passo?
Abbiamo sempre ragione nel nostro ardimento.
Il nostro lavoro è questione d'onore,
Questione di valore e impresa eroica di gloria.
Che ci si chini su un telaio,
O che ci si arrampichi su una roccia,
Un sogno meraviglioso, ancora non del tutto chiaro,
Già ci sta chiamando perché si proceda avanti.
Ritornello
Il nostro mondo è stato creato per la gloria.
Nel giro di anni abbiamo realizzato imprese di secoli,
La felicità ci tocca di diritto,
E amiamo con calore, e cantiamo come bambini,
E le nostre stelle purpuree brillano come mai viste prima
Su ogni paese, sugli oceani,
Come un sogno che si è fatto realtà.
Ritornello

[file audio] Canzone della patria, 1936

(Testo di V. Lebedev-Kumač; Musica di I. Dunaevskij)

Vasta è la terra mia natia,
Quanti i suoi boschi, campi, fiumi!
Non conosco altro paese,
In cui l'uomo respiri altrettanto liberamente.
Da Mosca alle più lontane province,
Dalle terre meridionali ai mari del nord,
L'uomo procede da padrone
Della sua inabbracciabile patria.
Dovunque la vita libera e grandiosa,
Scorre come il Volga colmo d'acqua.
I giovani da noi trovano aperte le strade,
I vecchi trovano ovunque rispetto.
Ritornello
Con uno sguardo non si abbracciano i nostri campi di grano,
Si fa fatica a ricordare tutte le nostre città,
La nostra parola di cui siamo più fieri: compagno,
Ci è più cara di tutte le altre parole.
Con questa parola ci sentiamo a casa dappertutto.
Per noi non esistono né neri, né di altri colori.
Questa parola è nota a chiunque,
E grazie a lei troviamo amici dovunque.
Ritornello
A tavola nessuno è di troppo,
Tutti vengono ricompensati per i servizi che compiono,
A lettere d'oro scriviamo
La legge Staliniana nazionale.
Ritornello
Sul paese soffia un vento primaverile,
Di giorno in giorno vivere diventa più giocoso,
E nessuno al mondo è capace
Di ridere e amare meglio di noi.
Ma severi aggrotteremmo le ciglia
Se il nemico ci volesse distruggere.
Amiamo la Patria come una sposa,
La difendiamo come una dolce madre.
Ritornello


Figure

Figura 1
Lavorare in modo che il compagno Stalin dica grazie!
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Figura 2
Leonid Sokov, Marilyn and Joseph at the table, 1992
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Figura 3
Komar e Melamid, Stalin e le muse, 1982
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