Andrea Garbuglia ha scritto una scheda della Filosofia della musica che è esemplare per la sua completezza e per la sua capacità di realizzare una sintesi che riesce a toccare i punti salienti di questo volume rendendoli chiaramente comprensibili al lettore. Il testo seguente si trova anche in Yumpu.

Andrea Garbuglia

Docente presso l'Università di Macerata, di Andrea Garbuglia  va  segnalato il volume

La comunicazione multimediale e la musica
Presupposti teorici e proposte analitiche
Prefazione di János Sándor Petőfi
Postfazione di Marco de Natale

©2008 eum edizioni università di macerata

 

 

INTRODUZIONE
1. Il nuovo come elemento caratteristico e fondamentale della musica del ventesimo secolo. Esso consiste nel superamento del linguaggio tonale e nell’assimilazione di generi musicali diversi, comela musica africana, orientale o della tradizione popolare. La novità è basata anche sulla ricerca della sonorità inusitata, del suono mai sentito prima, o meglio, mai usato come materiale musicale (è il caso dei suoni della vita quotidiana). Questa ricerca del mai udito porta ad un superamento degli strumenti musicali tradizionali (umani) sotto due aspetti: rivalutazione di strumenti cheprima erano sottovalutati (percussioni), adozione di computer e amplificazioni.

2. Si potrebbe dire che la musica manca di una sua essenza. Spesso, con riferimento ad essa, si usa il termine linguaggio in un’accezione metaforica che si basa essenzialmente sul concetto di convenzione, visto come principio fondante del linguaggio parlato. La distinzione tra suono e rumore è proprio il frutto di questa convenzionalità. Nel presente lavoro, infatti, Piana sceglie di usare il termine generico di suono per indicare qualsiasi manifestazione fisico-acustica. Dunque i concetto di maggiore e minore, di consonanza e di dissonanza hanno una valenza puramente intralinguistica.
 

Ogni pezzo musicale è un «oggetto culturale» e il materiale sonoro è di per sé amorfo. La prospettiva che viene adottata è quella semiologica. Il senso della musica è un elemento estrinseco ad essa, come del resto accade per il linguaggio verbale, e la sua comprensione è determinata dalle abitudini.

3. L’uso del termine ‘linguaggio’ con riferimento alla musica può avere dei vantaggi ma anche degli svantaggi: non è possibile ad esempio ritrovare nella musica lo stesso rapporto designativo tra nome e oggetto, dato che in musica non esistono i nomi. Ma il termine linguaggio può essere usatoanche in un altro senso: non si usa più la sua immagine, legata all’idea del linguaggio verbale, ma il suo concetto. La musica è in questo senso un linguaggio al pari del linguaggio verbale ma con caratteristiche diverse. Si assume come concetto in genere che i linguaggi sono dei sistemi segnici (prospettiva semiologica).

4. La risoluzione della dissonanza nella consonanza è un gioco intralinguistico: tra esse no esiste una relazione intrinseca ma semplicemente una relazione di contingenza. La frequenza della ripetizionedella risoluzione della dissonanza nella consonanza genera un’attesa: si ha quindiun’abitudine uditiva. L’insieme delle abitudini legate ad un certo tipo di linguaggi musicale generano il sentimento di quel determinato linguaggio (i.e. sentimento della tonalità). Dissonanza e consonanza sono fisicamente diverse ma non c’è nessuna regola che le lega in un rapporto determinato di risoluzione (potrebbe essere che la consonanza si risolva nella dissonanza, se avessimo questa abitudine). Non è possibile avere due abitudini opposte.

5. Non è possibile giudicare la musica di un’altra cultura (p.e. quella esquimese) sulla base della cultura europea e dire che essa è qualcosa di meno progredito: è semplicemente diversa. Non è possibile comprendere a pieno una musica albanese (come l’albanese non comprende la Nona Sinfonia di Beethoven) ma forse non è neppure possibile farlo con la Nona Sinfonia di Beethoven.La cultura ci condizione nelle nostre abitudini uditive ma questo non vuol dire che ciò che udiamo non sia effettivamente presente nell’opera: p.e. la nona è troppo semplice, se vista dal punto ritmico, quindi io posso far mio e, in un certo senso capire, il giudizio di un albanese. 6. Idea che il senso nasca componendo un materiale che è di per se amorfo è errata. L’interpretazione è inseparabile dall’oggetto interpretato. Ma tale inseparabilità non significa che non è possibile fare la distinzione tra le due cose, anzi proprio tale possibilità ci permette di affermare la loro inseparabilità, altrimenti non sarebbe possibile neppure dire cosa è inseparabile da cosa. L’interpretazione non è puramente proiettiva ma ha bisogno di presupposti sia dal punto di vista soggettivo che da quello oggettivo. La necessità di un apprendimento non implica l’amorfità del materiale. Gli argomenti relativisti mettono solo in evidenza la presenza della molteplicità. Limitarsi a prendere atto dell’esistenza della molteplicità non ci dice nulla sui motivi dellasua esistenza. Ad esempio le espressioni facciali sono acquisite ma non sono delle smorfie deltutto scollegate con i sentimenti che esprimono. Il riso sardonico non è semplicemente un modo con cui i Sardoni accompagnavano l’uccisione dei loro vecchi ma era un atto di pietà: il riso trasformava il delitto nella nascita di una nuova vita.

7. Il materiale sonoro, così come gli oggetti che compongono qualsiasi altro elemento artistico, ha in se una «molteplice latenza espressiva» e acquista un senso determinato quando entra in rapporto con la potenza dell’abitudine di un individuo. Distinzione tra piano linguistico e piano prelinguistico:viene utilizzato nuovamente in senso metaforico il termine “linguaggio”. Il punto di partenza di una filosofia della musica è relativo al piano prelinguistico cioè il suono (materiale sonoro). Il senso è dato dall’incontro del tempo, cioè della cultura (intesa nel senso di appartenenza etnica), delle conoscenze, delle aspettative del soggetto interprete-ascoltatore, e la struttura stessa del pezzo. In sostanza quando l’albanese dice “Bello, ma troppo semplice” riferendosi alla Nona Sinfonia di Beethoven, non da un giudizio che cade al di fuori della struttura dell’opera: se consideriamo solo l’aspetto ritmico anche noi potremmo dire che la Nona è troppo semplice.

8. Un musicista del Novecento non è meno libero da pregiudizi di uno del Seicento o del Settecento,solo per il fatto che utilizza suoni diversi. È semplicemente che in epoche diverse sono state fatte scelte diverse, su uno stesso materiale sonoro. Nella musica del Novecento si è andati sempre più verso il prelinguistico: al suono costruito e voluto è stato sostituito quello trovato e casuale

MATERIA
 

1. La materia della musica è il suono, ma che cos’è il suono? Come definirlo? Piana fa l’esempio di un foglio di carta che viene tagliato da una lama: la superficie uniforme del foglio è il silenzio che viene rotto, lacerato, dal suono. Ma il silenzio è una pura assenza di suono, o è qualcos’altro? Piana distingue tra due tipi di silenzio: a) il silenzio brulicante, dato da un’infinità di suoni che sono
tra la presenza cosciente e quella incosciente; b) silenzio profondo (detto anche silenzio mortale). La differenza tra i due tipi di silenzio può essere esemplificata dal seguente esempio: io sto scrivendo su di un foglio, la mia penna produce nell’atto di scrivere un suono dato dal suo sfregamento con la carta, ma io non sono cosciente della sua presenza (silenzio brulicante), se ad un tratto la penna cessasse di far rumore pur non cessando di sfregare sulla carta io mi accorgerei
della sua assenza (silenzio profondo). Il silenzio profondo si ha quindi quando lo sfondo viene spostato e reso non percepibile dall’orecchio umano (gli ultrasuoni, pur essendo fisicamente presenti non sono da noi percepiti; sono silenzio).
 

2. Se prestiamo più attenzione al silenzio che ci circonda compaiono dei suoni; è la scoperta del silenzio brulicante: io odo dei suoni intorno a me. Ma attenzione tra questi suoni c’è anche la mia voce della quale ho un’esperienza particolare. Io non posso oggettivizzare la mia voce perché essa è l’espressione della mia soggettività: quando emetto un urlo di gioia o di dolore non penso di emettere un suono, ma semplicemente do sfogo alla mia soggettività. La mia voce non è mai alla mia presenza, manca quella dimensione particolare dell’ascolto. Si può ipotizzare che nel canto stia l’origine della musica; infatti, come gli uomini prima usavano le proprie mani per fare determinati lavori e poi hanno costruito utensili, così è lecito supporre che prima il suono sia stato prodotto con la voce (canto), poi siano comparsi gli strumenti. Ma perché l’uomo primitivo scopra il canto è necessario che ascolti la sua voce e ciò è possibile solo in eco, dentro qualche grotta. Grazie all’eco la voce viene desoggettivizzata, e non viene più percepita come voce, ma come suono che posso ascoltare. Curt Sachs ipotizza che le prime melodie abbiano una struttura a “picco”, cioè simile all’urlo.
 

3. Si è parlato sopra di udire suoni, ma cosa significa quest’espressione? Che cos’è quest’udire e ciò che viene udito? Una risposta potrebbe essere trovata appellandosi alla fisiologia per l’udire e alla fisica per il suono. Ma si potrebbe intendere la domanda in un’altro modo, cioè quali sono le caratteristiche del suono inteso come concreto fenomeno uditivo? La prima constatazione è la seguente: il suono è di una natura diversa rispetto agli oggetti che noi possiamo vedere e toccare. Il suono sembra essere più simile al colore più che agli oggetti: come il colore il suono è una “qualità secondaria”. Ma anche tra suono e colore ci sono delle differenze profonde: se è possibile parlare di una cosa colorata, non è altrettanto possibile parlare di una cosa sonora nello stesso senso di cosa colorata. Il colore non può essere percepito senza la cosa, ma può essere solo pensato, mentre il suono può essere anche percepito. Il suono non appartiene alla cosa, è solo una potenzialità della cosa. Per le cose, inoltre, c’è la possibilità di avere reciproche conferme; una cosa intravista in lontananza si può fare sempre più concreta mano a mano che si avvicina fino a che non si ha la conferma della sua esistenza toccandola. Per il suono non ho nessun altro elemento fenomenico che mi possa confermare la sua presenza. Il suono non è legato alla cosa che lo produce. Questo potrebbe far pensare che il suono abbia una maggiore concretezza rispetto al colore, ma non è così, anzi il suono è sempre sul punto di svanire. Questa sua natura aerea, ha sempre fatto si che sul
suono si siano create delle ipotesi metafisiche: se il suono è staccato dalla cosa, è possibile avere un suono senza “cosa”? Se il mondo finisse non è detto che anche il suono finisca! “il suono potrebbe esserci anche se il mondo non ci fosse”.
 

4. Il rapporto tra il suono e la cosa che lo produce deve essere maggiormente analizzato. Spesso il suono viene visto da noi come segno della cosa stessa; quando sentiamo una porta che si apre, o una macchina per la strada, non pensiamo tanto al suono che viene prodotto quanto a ciò di cui è
segno (la porta che si apre e la macchina). Se noi udiamo un suono e non vediamo nella realtà la cosa di cui esso è segno in noi nasce una certa inquietudine, quasi che i suoni assoluti non esistano. Questo sembra contraddire quanto detto sopra ma non è così. Il suono per acquistare valore in sé deve essere reso indipendente, si deve acquistare la dimensione dell’ascolto: come non percepiamo oggettivamente la voce da noi emessa, perché inglobata alla soggettività, così un suono non lo sentiamo oggettivamente perché assorbito dalla cosa che lo produce. Per arrivare al suono assoluto è necessario che il mondo scompaia, che il suono venga svincolato dal suo essere segnale. Si pensi a questo proposito al ruolo svolto dall’udito nel momento in cui non c’è la possibilità di vedere: al buio i rumori sono per eccellenza segno di cose, ma quando noi vogliamo ascoltare la musica per ottenere un effetto maggiore chiudiamo gli occhi.
 

5. Noi abbiamo parlato del legame esistente tra la cosa ed il suono, ma è possibile vedere tale legame in termini di causalità? E’ possibile percepire tale causalità? Prima di tutto bisogna dire che la “causa” deve essere data da un rapporto tangibile tra la cosa e il suono « E’ necessario [...] che si dia anzitutto uno stato di cose nel quale la stessa manifestazione sonora si mostri come un prodotto mostrando nello stesso tempo il modo della propria produzione » [p.78]. In questo senso non è possibile vedere la causalità esistente tra il percuotere un tavolo e il suono prodotto dal tavolo stesso. Ad esempio per dimostrare il rapporto di causalità, è possibile prendere il caso in cui si pizzica una corda di una chitarra: la mano esercita un atto (quello del pizzicare) sulla corda che si mette in movimento (vibra) ed emette un suono. Questi fattori, pizzicare, vibrare e suono, non sono tra loro in un semplice rapporto di contiguità, ma c’è un vero e proprio rapporto causale: la mia mano è la causa delle vibrazioni e le vibrazioni sono la causa del suono. Ora, partendo daquest’esemplificazione è possibile fare una generalizzazione per quanto riguarda i rapporti causali esistenti tra altri suoni e altri oggetti. Ma per fare questo è necessario fare un’astrazione che comporta il risalire a concetti autentici, cioè non estremamente vincolati all’esempio sopra visto. Prima di tutto bisogna fare tale operazione per il concetto vibrare. La mano mette in movimento la corda pizzicandola, ma in che cosa consiste questo movimento? La vibrazione non rientra nel tipo di movimento inteso nell’accezione di spostamento da luogo a luogo, infatti la corda che vibra in questo senso non si muove. La vibrazione non è « il percorso della cosa che attraversa lo spazio, ma è piuttosto il movimento stesso che attraversa la cosa e la percorre scotendola nelle sue fibre». Quindi il suono comincia dalla cosa ed in essa è tutt’altro che evanescenza, è pienezza.  


6. La creazione di strumenti musicali ci da la possibilità di possedere il suono; noi, infatti, mediante questi siamo capaci di riprodurre a nostra volontà i suoni desiderati. Ma che rapporto c’è tra il suono prodotto dalla voce e quello prodotto da uno strumento? Appare subito un prima differenza: il suono strumentale nasce da una pienezza (una pienezza che vibra) mentre quello vocale nasce da una vuotezza, la cavità della bocca. Ma proprio da questa differenza nasce una somiglianza: il suono strumentale ha bisogno di una cavità per risuonare, altrimenti risulta sordo. Un altro avvicinamento si ha dalla parte della voce: il suono vocale che proviene dal corpo richiede che si prenda coscienza del corpo come corpo-strumento, cioè come cosa capace di emettere suoni.
 

7. – 8. Digressione mitologica: «... origine del mondo dal suono ...». Suono come canto del dio morente.
 

9. Suoni e rumori. Nel linguaggio corrente questi due termini vengono usati in contesti diversi e con significati diversi: mentre il primo termine può essere usato per indicare qualsivoglia fenomeno sonoro lo stesso non accade con il secondo. Ai due spettano «aree di senso differenti.» Al termine suono si da un’accezione positiva mentre a rumore una negativa: il rumore genera fastidio ed è sgradevole. Se si continua su questa linea ci si accorge come tale distinzione diventa soggettiva e relativa. Infatti la piacevolezza ha una valenza psicologica che non solo cambia da individuo a individuo ma anche all’interno di uno stesso individuo in momenti e situazioni diversi. La gradevolezza e la sgradevolezza fanno senz’altro parte del nostro problema ma non ne sono alla base. Si potrebbe tentare di risolverlo facendo riferimento alla musica. Da questo punto di vista si potrebbe dire che la musica distingue tra suoni e rumori nel senso che i primi sono musicalmente utilizzabili mentre i secondi no lo sono. Ma anche qui sorge un problema: la musica, al singolare, è una pura astrazione. Si può parlare piuttosto di musiche che appartengono a popoli e culture diverse, di epoche diverse, che hanno modi di selezionare materiale sonoro utilizzabile completamente diversi. In questo modo si può ben capire come non sia possibile distinguere oggettivamente tra suono e rumore, soprattutto se si fa riferimento alla musica contemporanea.
 

10. La distinzione che nell’uso si fa tra il termine «suono» e il termine «rumore», deve servire come spunto per una riflessione propriamente filosofica, che non si soffermi, ad esempio, a verificare tutti gli usi circostanziali dei suddetti termini. Non è possibile, inoltre, liquidare la questione utilizzando come prova la musica novecentesca. Per procedere con un’analisi più approfondita della questione è interessante tornare al discorso dell’evanescenza dei suoni (il termine viene inteso qui come manifestazione sonora in genere). L’evanescenza del suono viene messa in contrapposizione con la materialità di un oggetto. Ma la materialità di un oggetto è resa tale dalla possibilità che si ha di toccarlo. Sono quindi i momenti «pratico-tattili» che danno la materialità. Ora se facciamo riferimenti ai suoni ci si rende conto che spesso per definirli vengono usati aggettivi che fanno riferimento alla materialità: un suono è pastoso, ruvido, aspro, morbido, vellutato, levigato, ma non quadrato o rettangolare. I suoni si manifestano come trasposizioni uditive di sostanze materiali. Ora ci sono dei suoni che si avvicinano maggiormente a questa materialità ed altri che se ne allontanano. I secondi possono essere chiamati suoni oggetti in quanto hanno in se una certa individualità, mentre i primi possono essere chiamati suoni inoggettivi. I suoni inoggettivi sono quelli che vengono detti comunemente rumori: essi vengono indicati nella loro tipicità (scricchiolio) e con espressioni metaforiche (fruscio). I suoni oggetti sono quelli che specificamente vengono detti suoni, cioè ad esempio il suono di un flauto. Questi non vengono indicati nella loro tipicità ma con un nome (do2, la3, etc) che li designa non in modo assoluto ma relativo. Tali suoni sono dei punti e tra essi è possibile stabilire degli intervalli.
 

11. La discussione precedente sulla distinzione tra suoni e rumori porta a due basilari elementi nell’ambito musicale: l’altezza e il timbro. È chiaro come quando si parla di suoni-oggetti sia implicata la nozione di altezza. Essi, infatti, possono essere serializzati: uno è più alto di un altro. Più complesso, invece, è il rapporto esistente tra rumore e timbro. Vi sono due impieghi fondamentali della parola timbro. Il timbro è la differenza che si può riscontrare suonando una stessa nota con due strumenti diversi. Ma nel linguaggio corrente si parla anche di una graduatoria a livello timbrico, come se si potesse parlare di un suono meno timbrato di un’altro. Il timbro può essere visto come carattere del suono. Se prendiamo i suoni-oggetti il timbro sarà l’intorno sonoro, il corpo del suono, tutto ciò che conferisce al suono carattere. Questo è valido non solo per i suoni che hanno un nucleo oggettivo, ma anche per quelli che non ce l’hanno. Il timbro può essere definitousando una parola tedesca Klangfarbe cioè, colore del suono. Si potrebbe anche  dire che il timbro è influenzato anche dall’altezza, l’intensità e dagli accordi (considerati come agglomerati sonori).
 

12. Ma i problemi sopra esposti come potrebbero essere trattati se si prende in considerazione anche la musica elettronica?

TEMPO
 

1. Il suono sembra trovare nella temporalità la sua caratteristica distintiva, ciò che lo differenzia dalle cose materiali e dall’organizzazione di queste. Il suo legame con la temporalità stabilisce una particolare relazione tra la musica e la soggettività. La soggettività come la musica è vista come un processo. Ma il tempo sembra essere anche un limite per la musica: infatti essa non si mostra mai totalmente ma in fasi successive (come vedere un bel viso membro per membro). La temporalità sembra essere l’elemento che accomuna il vissuto ed il suono, per questo la musica sembra essere l’arte della vita interiore. Ma la successione dei suoni non sono casuali ma si integrano, come fanno i vissuti, e come questi vanno a formare una soggettività così i suoni formano una certa totalità. Si parte, quindi, dal fatto che i suoni sono oggetti temporali.
 

2. Anche gli oggetti materiali sono in un senso temporali, cioè esistono in un determinato tempo e sono destinati a scomparire. Il termine tempo viene usato in un’accezione comune così come il termine durata (tratto di tempo). Gli oggetti materiali nel tempo invecchiano, si consumano fino a non essere più utilizzabili, mentre i suoni non invecchiano, non si consumano, semplicemente finiscono; a consumarsi è solo la loro durata. Il loro esserci è fatto di tempo. Questo è applicabile per le parole, per il movimento in genere ma non per le cose materiali. Alla temporalità del suono si può contrapporre l’intemporalità delle cose. Ma sia la temporalità del suono che l’intemporalità delle cose sono legate alla percezione. Un oggetto viene percepito come intemporale. Io posso mostrare un quadrato in fasi successive ma questo non è pertinente alla cosa stessa: non le appartiene. Mentre il tempo è un elemento essenziale nella percezione della musica: durata fenomenologica. Il tempo non può essere percepito in sé, così come non può darsi una percezione pura dello spazio. I suoni permettono di percepire la temporalità (questo spiega i numerosi riferimenti fatti dai filosofi alla musica per spiegare il tempo). L’esserci del suono appare sotto la forma del trascorrere. Importante è il concetto di continuità intesa come venire-da-andando-subito-oltre. Il suono attrae l’attenzione.
 

3. Una cosa statica può essere osservata ma questo richiede una volontà dell’osservatore. È lui che in prima persona decide di seguire i contorni di una figura. Mentre una sequenza di suoni si fa seguire. I suoni non possono essere contemplati come forme e colori. I suoni devono essere seguiti come nel caso del movimento puro. Ma in una successione di suoni non si ha solamente una loro giustapposizione.Un discorso orale potrebbe essere paragonato ad una successione di suoni. Ma se un oratore si interrompe per un’amnesia è possibile, per chi lo ha seguito attentamente, almeno entro un certo margine, suggerire la parola che deve seguire. Questo è dovuto al fenomeno di ritenzione-protenzione delle parole: ogni parola è al tempo stesso conseguenza della parola che l’ha preceduta e conseguenza di quella che la seguirà. La stessa cosa si può dire per una melodia.
 

Quindi i suoni non sono fatti di tempo. Ma non si vuole parlare di una sequenza di suoni come una melodia piuttosto come una semplice giustapposizione di suoni, che possono avere tra loro vari tipi di relazioni determinate dallo staccato, dal legato, dall’introduzione di pause, ecc. Ecco che la continuità diventa un elemento puramente soggettivo (si potrebbe dire “oggettivo” se si parla di “melodia” ma anche qui non è tale se si pensa alle diverse culture musicali), e oggettivamente è data soltanto la forma del trascorrere che però deve misurarsi con le dinamiche della materia. Si ritorna al rapporto tempo/struttura. A volte si è parlato dell’architettonica di un brano per mettere in secondo piano la componente temporale. Il brano allora è stato visto come un disegno rivelato in fasi successive e che può essere capito solo alla sua completa rivelazione. A questo è sufficiente opporre la critica che non è possibile pensare che in un certo punto del brano qualcosa sia nascosto e qualcos’altro rivelato, e che quindi il brano si mostri nella usa pienezza soltanto quando è finito.
 

4. Interessante è il rapporto tra la musica e la danza. Parlando della danza diventa centrale il problema del ritmo. Trovare una definizione di ritmo non è facile: vi sono moltissime definizioni che però colgono tutti aspetti differenti. La maggiore difficoltà che si incontra è trovare l’elemento che differenzia una semplice successione di eventi da una successione ritmica. Il ritmo legato alla vitalità (il ritmo cardiaco). In esso sono centrali due momenti, quello del battere e quello del levare, intesi come un susseguirsi di slancio e riposo. Il ritmo dal punto di vista della danza è «... suddivisione e articolazione della durata, ...» esso può essere considerato come parte, componente della musica. Il ritmo ha a che fare con la musica intera e non è semplicemente una sua parte. Per definirlo è necessario concentrarsi sul dinamismo del battere e del levare, ecco che allora questo dinamismo acquista una molteplicità di significati. Da questo punto di vista la musica risulta essere permeata di ritmo: è ritmo il succedersi dei forti e dei piani, dei motivi, è ritmo il risolversi della dissonanza nella consonanza. In base a questo il ritmo può diventare il principio di unità e di organizzazione e quindi incontrarsi e sovrapporsi al concetto di forma.
 

5. La radice etimologica della parola ritmo sta nella parola greca scorrere, fluire. Ma è altrettanto valido parlare di ritmo nel susseguirsi delle sbarre di una cancellata, o di un rumore meccanico o della struttura di una casa o di una statua. Questi sono tutti elementi che fanno riferimento alla fissità, monotonia, ripetizione e non hanno nulla a che vedere con il fluire. Benveniste mette in evidenza quello che viene implicitamente detto nel luogo comune che vede il ritmo nelle onde del mare: il mare non scorre, se mai a scorrere sono i fiumi. Prima di lui Jaeger aveva sottolineato che la parola ritmo era stata più volte utilizzata nel senso di vincolo, freno, quindi non come flusso ma come barriera al flusso. Inoltre Benveniste mette in evidenza, commentando alcuni testi, che il
ritmo potrebbe essere inteso come tratto distintivo, o come disposizione degli elementi all’interno di un tutto. Ma da questo punto di vista non si è del tutto lontani dal fluire. Ecco che allora il ritmo, la forma, non sarebbe altro che movimento rappreso.
 

6. Bisogna vedere ora come impostare, secondo la nostra teoria, il problema del ritmo. Innanzi tutto, si deve rinunciare ad analizzare tutti gli impieghi del termine ritmo che sono al di fuori del campo musicale. Nella musica gli strumenti ritmici per eccellenza sono le percussioni. Quest’affermazione non deve essere intesa come pregiudizio nei confronti di questi strumenti, che hanno anche delle differenze ritmiche notevoli, ma solo un modo per spostare l’attenzione sul fatto che i suoni prodotti da questi strumenti sono essenzialmente battito e colpo. A questo è connesso il concetto di istantaneità. Fino ad ora si è parlato di tempo come durata e di suoni evenienti. Ma possiamo prendere in esame il silenzio dicendo che è la matrice negativa del suono eveniente e nel silenzio non c’è ritmo come non c’è ritmo nella continuità di un suono: ciò che da il ritmo è la discontinuità. Nel colpo vediamo l’accadere del suono che comincia e finisce. Anche i suoni evenienti hanno questa caratteristica ma il colpo «appena cominciato è subito finito». Suono e silenzio non sono tra di loro puramente giustapposti: nei movimenti del percussionista che preparano il colpo si ha l’eccitazione del silenzio che dopo il rumore torna in quiete.
 

7. Il concetto di battere il tempo o scandire il tempo, è noto hai musicisti. Ma che cosa significa scandire il tempo. Bisogna prima di tutto distinguere tra scansione e misurazione. Anche se la scansione può servire come unità di misura, ma scansione e misurazione sono due cose differenti. La misurazione consiste nel determinare quante volte una unità di tempo data viene ripetuta in un tempo chiuso. Quindi il suo scopo è una determinazione quantitativa. Ma qual’è lo scopo della scansione: cosa distingue il direttore d’orchestra con il suo gesto di scandire il tempo prima dell’inizio di un opera?

8. Appare chiaro come il tempo della musica sia più vicino ad un tempo «ontologico», degli affetti e della vita interiore. Un maestro chiede al suo allievo di suonare un pezzo ad un tempo più veloce. Questo è abbastanza chiaro per l’allievo che esegue. Secondo quanto detto sembra che il tempo musicale possa variare a piacimento. Seguendo un analisi più razionale è chiaro che l’allievo non fa altro che eseguire le note facendole durare di meno: quella che durava 1 secondo ora dura ½ secondo, quello che veniva eseguito in 12 secondi ora viene eseguito in 6. Ma quando seguo una sequenza di note non sto li a contare quante ne sono, così come quando sento una nota prolungata non mi rendo conto se dura 1 secondo o la sua metà. Qui, infatti, non si tratta di misurare il tempo in cui una esecuzione avviene. Quando il maestro parla di un tempo più veloce è nel giusto: egli fa riferimento allo scandire.

9. Ripetendo i colpi dati allo strumento percussivo mantenendo sempre lo stesso intervallo, si scandisce il tempo e si da una vera e propria schematizzazione della temporalità. Ci troviamo qui in presenza dei due parametri del discorso: da una parte c’è l’evento, cioè il singolo colpo, da quell’altra c’è lo schema dato dalla sua ripetizione. Ad uno schema semplice e monotono si puòsovrapporre una schematizzazione più complessa. La scansione è qualsiasi modo di schematizzare
la temporalità.

10. Le forme di schematizzazione sono riconducibili al duplice aspetto del suono come evenienza e come evento. Se prendiamo una successione di suoni di varia durata questi daranno uno schema che è basato sul rapporto delle loro durate; su un’unità di misurazione data. Per il rapporto con il concetto di evento bisogna fa riferimento al concetto di battere e levare. La differenza che c’è tra questi due momenti sta nella presenza dell’accento nel primo di essi. Ma che cosa si intende per accento? L’accento non è puramente collegato con l’aumento di intensità infatti si può parlare di accento intensivo e di accento ritmico. Ma non è neppure giusto parlare di completa differenza tra accento e aumento di intensità, infatti l’aumento intensivo può andare a rinforzare quello ritmico o si può contrapporre ad esso. Nell’accento ritmico è sicuramente centrale il concetto di forza che contraddistingue il battere dal levare, il suono forte da quello debole. Ma tale concetto di forza non si rappresenta soltanto con l’aumento del volume ma anche nella sua pura idea (nella sua rappresentazione). Questo rapporto può essere visto anche nel movimento ideale del percussionista: movimento che mette in dinamica relazione il momento del suono e quello del silenzio, che si susseguono in modo sopravanzante.

11. Per parlare della temporalità scandita abbiamo posto la differenza tra la temporalità del flusso e la temporalità del cammino divise dal gesto del direttore d’orchestra. Ma non bisogna pensare che solo la temporalità scandita faccia parte del tempo musicale. Se ci poniamo dal punto di vista del puro ascoltare, un suono tenuto viene percepito nel suo fluire: anche se il musicista conta il suo
contare non è una scansione ma semplicemente un determinare quantitativamente la durata del suono. La stessa cosa accade per la musica composta con il calcolatore: la scansione può essere o non essere percepita. La scansione sta alla base dello schema per questo bisogna estendere le suddette osservazioni alla tematica dello schema. Bisogna dire che la schematizzazione è una possibilità della musica che può essere realizzata in molti modi.

SPAZIO

1. Nella musica moderna si ha il passaggio da un’attenzione rivolta alle altezze dei suoni, alla materialità dei suoni, senza curarsi della presenza di un nucleo oggettivo. Se questa posizione si fosse assunta sin dalle origini (attenzione a tutti i fenomeni sonori) non si avrebbe avuto nessun tipo di musica. La musica nasce dalla selezione e dalla scelta dei suoni «oggetti» come materiale da utilizzare. I suoni «oggetti» hanno varie caratteristiche: 1) hanno un centro puntuale che li accomuna, si può parlare, quindi, di uno stesso suono anche se prodotto da diversi strumenti); 2) dati due suoni oggetti è possibile stabilire un intervallo, cioè la linea di suoni che unisce i due punti; 3) i suoni possono essere ordinati in modo scalare. Se colleghiamo il discorso della puntualità dei suoni con la temporalità si potrebbero avere dei fraintendimenti, quindi è meglio distinguere due modi di intendere la puntualità: a) puntualità come nucleo oggettivo del suono e b) puntualità come istantaneità dell’accadere del suono. La ripetizione di un suono puntuale dà una linea sonora. Se vengono ripetuti suoni puntuali diversi (di varia altezza) la linea sonora acquista mobilità. Fino a questo punto si è parlato di suoni che hanno come possibilità la melodia. Questi sono suoni che cantano, ed è forse questo cantare che ha dato origine alla loro scelta e alla nascita della musica. Oltre a cantare questi suoni sono anche incantevoli, nel senso che incantano e obbligano ad ascoltarli.

2. Studiando musica si apprende che le note sono sette, che ci sono note importanti e note secondarie (le alterazioni), che ci sono suoni intonati e stonati. Ma non vi è nulla nella natura del suono che ci fa dire che tutto questo sia effettivamente così. In base a che cosa posso dire che esistono suoni importanti e suoni secondari? Non esiste nessuna giustificazione naturalistica. L’orecchio che percepisce le classificazioni sopra dette come naturali è un orecchio determinato dalla cultura. In questo senso si può parlare di linguaggio musicale come una vera e propria lingua che differisce da cultura a cultura, che richiede un apprendimento e che una volta appresa risulta naturale. Si hanno quindi due posizioni: una relativistica e l’altra naturalistica. Seguire la seconda sembra impossibile, ma l’intera problematica potrebbe essere ripensata in termini diversi.

3. Partire dal punto di vista in cui esistono una costellazione di suoni oggetti non ci può portare alla risoluzione del nostro problema. Si deve dire quindi che i suoni-oggetti non ci sono fin dall’inizio. All’inizio c’è soltanto lo spazio sonoro. Lo spazio sonoro può essere inteso in due modi. Il primo è un’accezione ampia e comprende tutti i fenomeni uditivi in genere. Questo è determinato da due caratteristiche: è aperto verso l’esterno, infatti è destinato ad espandersi e a comprendere nel suo interno tutti i fenomeni uditivi, ed è aperto verso l’interno, nel senso che è privo di un ordinamento. Infatti dati due suoni di questo insieme non sempre è possibile disporli gerarchicamente, e parlare di un suono più acuto e di uno più grave. Ma lo spazio sonoro può essere inteso in un altro modo. Dati due suoni puntuali è possibile riordinarli in modo scalare e determinare un intervallo esistente tra i due. È stato detto anche che è possibile determinare una serie di suoni puntuali che partendo dal primo arrivano al secondo. Ora se gli intervalli tra questi “punti” vengono progressivamente diminuiti quello che si ottiene è una “retta” di suoni dove il primo suono puntuale non è più un estremo ma è l’inizio di un glissare sonoro, e l’ultimo è semplicemente la fine del glissato. Questa è una seconda accezione dello spazio sonoro visto in modo più ristretto. Ora non ci troviamo più di fronte ad una sequenza di punti ma ad una linea vera e propria: c’è un suono che glissa fino ad diventare un altro suono. Siamo in presenza di un movimento. Non si ha più un suono-oggetto ma un suono-processo. Alla molteplicità dei suoni subentra l’unità del Suono. Nello spazio sonoro si manifesta una tensione interna. Si apre così una relazione tra unità e molteplicità, tra continuità e discontinuità.

4. Dunque i suoni puntuali non esistono sin dal principio, ad esistere è solo lo spazio sonoro ed in esso non è possibile fare nessuna distinzione. Nello spazio sonoro si possono ritrovare tutte le scale possibili e tutti gli intervalli possibili. Ma non dobbiamo considerare lo spazio sonoro come qualche cosa di uniforme e privo di tensione interna. All’interno dello spazio sonoro ci sono delle differenze che creano una tensione interna. Prima tra tutte è la differenza di altezza: ci sono dei suoni più alti e dei suoni più bassi. Uno spazio sonoro dato da un suono glissante, quindi, può scendere verso suoni gravi-bassi o salire verso suoni acuti-alti. Per questo sarebbe più corretto rappresentare lo spazio sonoro come una retta verticale, dove si ha un sopra e un sotto. Si potrebbe dire che l’uso di questa terminologia è arbitraria, soggettiva, ma non è così. Prima di tutto il termine acuto, ad esempio, potrebbe essere impiegato come termine tecnico che si riferisce ad una parte dello spazio sonoro, nella quale si trovano determinate note, poi l’uso metaforico di tale termine permette di mettere in evidenza alcune caratteristiche del materiale sonoro che viene con esso indicato. Parlando del timbro si è accennato al paragone con il colore. Ora abbiamo visto come ci siamo trovati sin da subito a che fare con suoni discreti. Ma se si parla di colori siamo sempre in presenza di sfumature. Lo spettro cromatico può essere paragonato allo spazio sonoro. Ecco che nasce un nuovo problema: il flusso sonoro non può procedere infinitamente da una o dall’altra parte. La chiusura che ci interessa non è una chiusura percettiva, cioè che riguarda il campo dell’udibile (suoni che non possono essere percepiti dall’orecchio), ma fenomenologica, cioè che può essere percepita. Inoltre tale chiusura deve poter essere percepita in ogni punto dello spazio sonoro come un tendere verso un non plus ultra.

5. Si passa ora a considerare lo spazio sonoro nella sua ciclicità. Per questo è centrale parlare del concetto di ottava. Dato un suono A0 all’interno dello spazio sonoro, è possibile, procedendo da ambo i lati, incontrare lo stesso suono più acuto o più grave, A1. Andando avanti è possibile trovare altri suoni dello stesso tipo del primo solo che sono più alti o più bassi: A2, A3, A4, ..., An, fino alla fine dello spazio sonoro. Ora è anche possibile dire che dato un suono tra A0 e A1, B0, è possibile ritrovare lo stesso suono, più alto o più basso, B1, tra A1 e A2, e così per il resto dello spazio sonoro. A questo punto bisogna notare che siamo passati a parlare di suoni puntuali. Le lettere A, B, C, ..., stanno ad indicare specie astratte di suoni. A questo proposito potrebbe essere usato in una accezione generale il termine nota. L’indice 0, 1, 2, 3, ..., indica la posizione della nota nello spazio sonoro. La differenza che c’è tra A0 e A1 potrebbe essere indicata, in termini di sfumature, come più chiara o più cupa, mentre tra A e B c’è una differenza cromatica, come tra il rosso e il giallo. Ora nel concetto di ciclicità si prende in considerazione l’intera varietà delle differenze cromatiche. Quindi è possibile dire che all’interno dell’ottava non si hanno soltanto i due suoni identici che sono agli estremi, ma, nel glissare da l’uno all’altro, si ha l’intera gamma dei suoni presenti nello spazio sonoro. Il segmento dell’ottava rappresenta, quindi, l’intero spazio sonoro.

Premesso questo ne seguono altre due cose: prima di tutto questo segmento dell’ottava deve avere un centro, un punto equidistante dalle due estremità, poi, ricollegandoci al concetto di ciclicità, il procedere da un estremo all’altro è un procedere verso una fine che è anche un inizio. Da qui si ha la circolarità dello spazio sonoro che ha la sua svolta nel punto medio tra i due estremi. La totalità dello spazio sonoro potrà allora essere rappresentata come una spirale risultante dalla proiezione di un cerchio che rappresenta l’ottava.

Annotazioni: «... con spazio sonoro in una quarta accezione si può intendere ogni struttura modale intesa come fondamento di un brano e dunque, in particolare, la tonalità stessa. Si può dire così che enunciare la tonalità di un brano significa propriamente delimitarne lo spazio, mentre i passaggi modulanti potranno essere considerati come movimenti da uno spazio all’altro» [p.204].


6. Si è preso l’avvio parlando dello spazio sonoro, concetto che presuppone la non esistenza oggettiva della discretezza dei suoni e che rende tale suddivisione puramente soggettiva e arbitraria. L’individuazione della presenza dell’intervallo di ottava all’interno dello spazio sonoro ha messo in evidenza il fatto che questo spazio non è indifferenziato ma pieno di tensioni interne. Tuttavia anche questo non dà nessun fondamento per la suddivisione discreta delle note. C’è una posizione secondo la quale la suddivisione dello spazio sonoro in note ha un fondamento oggettivo: se si parte dal presupposto che lo spazio sonoro è un continuo variare, si hanno delle variazioni minime che non possono essere percepite come tali. Ecco quindi che il fondamento oggettivo per la divisione del continuum sonoro in note sta nella percezione. Questo si basa sulla fenomenologia empirica, e quindi sulla psicologia della percezione, ma, secondo tali approcci, ciò che distingue un suono dall’altro viene visto in modo troppo elementare, e si trascurano vari problemi della determinazione puntuale dei suoni. In musica si parla di alterazioni di una nota, con questo si intende che una stessa nota varia in qualche modo pur mantenendo la propria identità. Quindi non è più possibile parlare della stessa nota, così come era accaduto per le due note all’ottava. Questo è un problema che si presenta non solo nella musica occidentale. Se riprendiamo il concetto secondo il quale la distinzione tra due suoni puntuali si basa sulla capacità, fenomenologica e percettiva, di
cogliere la differenza, allora non ha più senso parlare di alterazioni (accidenti), ma ogni semitono all’interno della scala ha una pari dignità. Sarebbe quindi lecito usare nomi diversi. Con il termine alterazione avevamo inteso il continuo fluire dello spazio sonoro. Basandoci su questo si possono cogliere alcuni punti essenziali: prima di tutto la divisione in suoni puntuali non è affatto ovvia,
inoltre l’oggettività puntuale coglie solo un aspetto del problema: se la distanza tra due suoni diminuisce si fa sentire la tensione del continuo. Dal punto di vista oggettivo l’unica differenza che esiste tra un intervallo grande ed uno piccolo è che, appunto, uno è grande e l’altro è piccolo. Ma se ci spostiamo dal punto di vista percettivo/soggetivo le cose sono diverse: quando un intervallo è piccolo si sente il continuo, l’effetto di alterazione. Tale regola è valida per qualsiasi suddivisione all’interno dello spazio sonoro. Qui si riallaccia il problema del cromatismo, non inteso solo dal punto di vista musicale (scala cromatica = di tutti i semitoni), ma anche con riferimento al colore vero e proprio, caratterizzando ciò che è un suono e ciò che è solo una sua sfumatura.

Annotazione: «... è più opportuno, secondo Schönberg intendere l’alterazione come passaggio a una nota effettivamente altra, piuttosto che come modificazione di un suono: ciò significa la stessa cosa che prendere le distanze dal cromatismo come approssimazione alla continuità, accentuando invece
il tema della discretezza.» [p.213]

7. Si prenda ora in considerazione il problema della dissonanza e della consonanza. In questo libro non si danno nuove conoscenze ma si discute solo sulla tenuta dei concetti. Nella musica contemporanea la differenza tra consonanza e dissonanza viene eliminata. Bisogna quindi dire che tale distinzione è inconsistente e diviene consistente solo all’interno di un determinato linguaggio. Però bisogna anche dire che tale differenze non è puramente soggettiva ma si basa su un’effettiva differenza interna al suono. I termini ‘dissonanza’ e ‘consonanza’ possono essere applicati sia a due note, sia ad un intervallo, sia ad un accordo. Alla base, però, c’è sempre il suonare due note
contemporaneamente. Tra le consonanze si devono ricordare l’unisono e la consonanza di ottava, ove quest’ultima viene considerata la massima consonanza dopo l’unisono. Dire questo sposta i termini del problema: non si tratta più di dire cosa è consonante e cosa è dissonante ma anche i gradi di consonanza e dissonanza. Per la consonanza si usano descrizioni come «coerenza interna», presenza di un centro, mentre per la dissonanza si usano descrizioni come suoni che divergono in opposte direzioni. Ora questi modi di descrivere la consonanza e la dissonanza non hanno un pura valenza psicologica, altrimenti potrebbero essere semplicemente sostituite con i termini gradevolezza e sgradevolezza, ma fanno riferimento ad una «latenza espressiva» presente all’interno degli accordi stessi.


8. Sembra naturale, nel momento in cui ci si deve accingere a decidere cosa caratterizzi obbiettivamente la dissonanza e la consonanza, rivolgersi alle orecchie come mezzo di giudizio. Infatti tramite l’udito noi possiamo recepire delle differenze che sono proprie dei suoni. Ma l’orecchio spesso ci può tradire: a volte siamo chiamati a giudicare la dissonanza e al consonanza su differenze
minime che sono a malapena udibili. Questo fa spostare il problema. Infatti i pitagorici dicevano che la consonanza e la dissonanza potevano essere espresse con numeri: la consonanza di ottava è data dal rapporto 2/1 mentre quello di quinta da 3/2.

9. Fino a questo punto abbiamo parlato di dissonanza e di consonanza facendo sempre riferimento a due note suonate contemporaneamente. Ma la consonanza e la dissonanza sono anche proprietà degli intervalli: cioè possono essere percepite anche se i suoni vengono in successione. In questo caso però non è possibile “consuonare”. Se noi prendiamo la consonanza per eccellenza dopo
l’unisono, cioè l’ottava ci rendiamo conto, suonando le note una dopo l’altra, che i due suoni sono della stessa specie. La somiglianza può fornire una base d’appoggio per definire la consonanza e la dissonanza (più due suoni sono simili più essi sono consonanti e viceversa). Si potrebbe dire che la consonanza si basa sulla presenza di armonici in comune, ma questa teoria risulta priva di un fondamento fenomenologico. Prendiamo il caso dell’unisono. Ripetendo in successione la stessa nota si ha l’apprensione percettiva della ripetizione. Ma se la ripetizione viene posta all’interno di una sequenza (A B C D E A) probabilmente non viene percepita come tale. Quello che si ha è una sintesi-retroattiva (la A alla fine richiama la A iniziale che a sua volta rimanda all’ultima) che genera un effetto di chiusura della sequenza. Si può dire quindi che la chiusura dell’intervallo determina il grado di somiglianza dei suoni. Nell’intervallo dissonante non c’è nessuna sintesi-retroattiva infatti esso risulterà aperto.

10. Quanto detto fino a qui serve per impostare il problema ma non lo risolve completamente: restano sospeso sia la misurazione dei gradi di consonanza, sia la relativizzazione linguistica e psicologica di tutto il discorso (io posso dire che non sento un intervallo consonante come chiuso). Inoltre qui si è perso di vista un modo di impostare il problema, che avevamo fatto nostro: nei confronti del suono non ci troviamo alla presenza di note, di suddivisioni discrete, ma dello spazio sonoro cioè di un continuum. Ora se manteniamo fermo un suono A0 e vi sovrapponiamo il movimento dello spazio sonoro che va da A0 a A1, che è l’intervallo di ottava rappresentante di tutto lo spazio sonoro, si avrà quanto segue: subito dopo l’unisono iniziale c’è una forte dissonanza che andrà diminuendo fino a passare nella consonanza. A sua volta la consonanza dopo aver raggiunto il suo culmine (la quinta) va via via diminuendo, per trapassare nella dissonanza, il cui culmine si trova immediatamente prima dell’ottava. Viste in questo modo dissonanza e consonanza risultano come caratteristiche interne dello spazio sonoro: esse sono una tendenza interna del flusso. Si ha un trapassare della dissonanza nella consonanza e viceversa, il tutto gradualmente,
creandosi così due aree, una della dissonanza e una della consonanza che però non possono essere distinte con una netta linea di demarcazione. La differenza tra consonanza e dissonanza è realmente netta soltanto nelle polarità estreme (immediatamente dopo l’unisono e immediatamente prima dell’ottava).

Annotazioni: La distanza tra le note gioca un ruolo molto importante nella percezione della dissonanza e della consonanza. Se prendiamo un intervallo di seconda ed uno di nona risulterà più dissonante il primo che il secondo. Nel secondo caso i suoni tenderanno ad essere considerati come differenti.

11. Prendiamo in analisi alcune critiche che potrebbero essere mosse a quest’impostazione. Noi abbiamo considerato punto nodale della dissonanza e della consonanza l’intervallo. Abbiamo detto che prendendo un suono fisso e uno che dall’unisono tende all’ottava, nella prima parte sia ha un procedere dall’unisono attraverso una dissonanza che va gradualmente diminuendo verso il
punto di massima consonanza (la quinta). Ora mentre un punto di massima consonanza può essere stabilito non è possibile fare altrettanto per la massima dissonanza che rimarrà un luogo vicino all’unisono. Quello che può essere generalizzato è che la dissonanza è maggiore quanto minore è l’intervallo, mentre la consonanza è data dal punto di massima distanza dalla nota fondamentale.


Nella seconda parte dello spazio sonoro si ha un progressivo aumentare della dissonanza che culmina nell’intervallo di ottava. Ora qui l’intervallo rispetto alla nota fondamentale è maggiore dell’intervallo di quinta, ma può esser fatto notare che nella seconda parte entra in gioco un’altro rapporto intervallare, cioè quello con l’ottava della nota fondamentale: a suo rispetto, partendo dal punto di massima consonanza, gli intervalli si vanno accorciando. La critica che può essere mossa è drastica: tutto quello che è stato detto è semplicemente falso. Basti pensare a questo esempio: un intervallo di tre toni (do-fa#) è molto dissonante, più dissonante della quarta (do-fa) anche se l’intervallo è maggiore, e lo segue il punto di massima consonanza cioè la quinta (do-sol).

Per rispondere a questa critica è sufficiente ricordare il fatto che noi affrontando questo problema avevamo spostato i termini della discussione. Prima di tutto avevamo preso un punto di vista fenomenologico-strutturale, che riguarda cioè la struttura stessa dello spazio sonoro, rifiutando l’approccio empirico-psicologico. Poi è stato preso in considerazione lo spazio sonoro nella sua totalità, rappresentato dall’intervallo d’ottava, rinunciando quindi alla discretezza e a prendere in analisi i singoli intervalli. Siamo entrati cosi in un nuovo gioco linguistico, dove le parole dissonanza-consonanza non hanno più il loro senso normale. Quello che è stato dimostrato è quindi quanto segue: lo spazio sonoro ha in sé una tendenza che è sua propria, gli appartiene. Quindi la risposta che si può dare alla domanda se una terza è o no consonante è la seguente: come faccio a saperlo; cosa devo comparare e sulla base di cosa? Parlando di un flusso sonoro, di una tendenza che anima internamente lo spazio sonoro, si mette in evidenza il processo verso un punto di massima consonanza, processo che è in se dinamico, e non ha senso parlare di oggetti ma solo di fasi del processo, anche questo intese non in senso statico ma dinamico. Per questo non dobbiamo dare nessun giudizio sull’intervallo formato da tre toni. La coppia dissonanza/consonanza crea un nuovo momento di articolazione. La prima articolazione dello spazio sonoro è data dall’ottava che si ripete ciclicamente nel suo interno e può essere presa come esempio dell’intero spazio sonoro. La seconda articolazione vista è quella di suoni principali e suoni secondari, cioè alterazioni dei suoni principali, ma in questa non era stato possibile individuare nessun punto all’interno dello spazio sonoro. La nuova articolazione che deriva dal rapporto dissonanza/consonanza è data dalla determinazione di un punto preciso all’interno dell’ottava e della determinazione di due intervalli: quello di quinta e quello di quarta. Tale punto non ha bisogno di giustificarsi come più gradevole o altro: esso è semplicemente il punto culminante di un’evoluzione: il punto di volta.

Tutto il resto dello spazio risulta come transitorio. Per i greci la parola consonanza («sinfonia») si poteva applicare solo a due intervalli: a quello di quarta e a quello di quinta, tutto il resto era dissonante.

12. La regola fenomenologica è una regola legata strettamente alla forma e ai modi di manifestazione del materiale percettivo. Un esempio può essere fornito dal fatto che se una nota ha una maggiore o una minore durata all’interno di una sequenza o se si trova all’inizio e/o alla fine di questa, tale nota acquista un peso maggiore all’interno della sequenza. Il fatto che in una sequenza vi siano suoni con un importanza maggiore ed altri con una minore si fonda sul concetto di articolazione come base per la melodia (considerata in un’accezione massimamente ampia). Le tensioni presenti all’interno dello spazio sonoro hanno la caratteristica di differenziare la continuità e fornire una base per il passaggio dal continuo al discreto. Le regole di cui sopra abbiamo dato un esempio si basano su delle caratteristiche strutturali dello spazio sonoro ma non sono riferite ad un particolare linguaggio; esse, infatti, potrebbero essere utilizzate in molti modi diversi all’interno di un progetto espressivo. Possiamo, infatti, supporre l’esistenza di due linguaggi dove sono presenti regole diametralmente opposte: a) ci deve essere sempre in una sequenza una nota che ha più peso (viene ripetuta, è più lunga, si trova all’inizio e/o alla fine, ecc.); b) tutte le note di una sequenza devono avere lo stesso peso. Entrambe le norme presuppongono la validità della regola fenomenologica detta sopra. Dopo che abbiamo determinato l’intervallo di quinta nella sua esistenza fenomenologica, non ci poniamo neppure il problema di come farlo valere espressivamente in un linguaggio. Quello di cui si ha bisogno è la creazione di una teoria generale della musica.


Per fare questo è necessario regredire ad un piano prelinguistico per dimostrare l’esistenza di una grammatica di base.


SIMBOLO


1. Il problema del senso della musica è stato più volte dibattuto. Le posizioni sono essenzialmente due: da una parte ci sono quelli che vogliono vedere nella musica l’espressione di sentimenti e pensieri del compositore, dall’altra c’è la posizione dei così detti formalisti che negano tale possibilità. L’idea dei formalisti, tra i quali bisogna ricordare Stravinsky e Schönberg, può essere riassunta nel seguente modo: i suoni non sono simboli ma segni. Stravinsky chiarisce dicendo che, con la frase «L’espressione non è mai stata la proprietà immanente della musica» non intendeva negare l’esistenza di un pensiero e di un emozione alla base dell’ispirazione del compositore, bensì porre l’attenzione sulla realtà, sulla dimensione dell’essere dell’opera: non importa cosa il compositore abbia pensato scegliendo una nota: una nota rimarrà sempre una nota. Impastando la musica con i nostri vissuti, i nostri pensieri e sentimenti noi la priviamo del suo essere. L’unica analisi possibile nella musica è quindi quella tecnica. D’altra parte non si può negare l’esplicito riferimento al mondo reale fatto dai compositori del XIX secolo, riferimento reso palese sia nel titolo dell’opera (vedi la Pastorale di Beethoven), che nelle dichiarazioni degli autori stessi. Jankélévitch afferma che «la volontà di non esprimere nulla è la grande civetteria del ventesimo secolo». Anche da questa parte si sono giunti a numerosi eccessi: analisi simboliche che sono state fatte, passo dopo passo, di intere opere.

2. Bisogna affrontare una discussione su quanto detto sopra. Il punto di partenza deve essere il seguente: data per scontata una critica antipsicologistica, fino a che punto questa deve implicare una forte presa di posizione formalista? Per “forte presa di posizione formalista” qui si intende una posizione che non solo nega la possibilità di citazione letterari o riferimenti a quadri, ma che afferma una chiusura semantica da parte della musica. Chiusura che non accetta altra memoria che quella interna al brano, né altra immaginazione che non serva per delineare collegamenti tra le note del brano. Senza parlare dei pensieri musicali già citati in precedenza. Inoltre il punto di vista formalista vede gli accostamenti di musica e parole o musica e mimica, ecc, come pura finzione, legittimata al massimo dall’accordo sociale. Nel capitolo sul tempo si è già negata la necessità di legare l’affettività con la musica basandosi sulla natura temporale di quest’ultima. Ma negare la necessità non significa negare la possibilità. Ora se prendiamo i casi estremi dati dalla musica orientale ed in particolare indiana, dove i raga esprimo sentimenti diversi, e si raggiungono estremi tali da far venir voglia di risolvere la questione usando la risposta più semplice, cioè quella formalista, ci si accorge che il nostro compito non è tanto porre il limite alla simbolicità, quanto quello di vedere se tale processo simbolico può avere inizio.

3. I formalisti rifiutano qualsiasi possibilità di simbolismo della musica. Ma Hanslick fa notare che la critica al simbolismo musicale viene mossa non tanto al fatto che vi siano dei sentimenti dietro la musica, quanto alla possibilità di determinare tali sentimenti. S. Langer sviluppa quanto detto da Hanslick dicendo che il sentimento ha una forma e che tale forma avrebbe una certa somiglianza
con la forma della musica. L’impostazione della Langer è una impostazione semiologica, in un senso un po’ particolare. Lei rifiuta di considerare la musica come un linguaggio, dice infatti che bisogna distinguere tra «... segni che sono segnali dell’esistenza di qualcosa ...», e segni che non esplicano questa funzione. Questi ultimi sono i così detti simboli. I simboli si dividono in linguistici che hanno la proprietà di denotare, e simboli non-linguistici che, appunto, non denotano nulla, ma hanno un modo diverso di simbolizzare. La simbolizzazione effettuata dalla musica si basa sull’isomorfismo tra la struttura della musica e quella del sentimento: la Langer parla di «stretta somiglianza «logica».» Ma proprio nelle questioni del simbolo e della forma del sentimento risiedono i maggiori problemi. Si postula, infatti, che i sentimenti hanno una qualche forma.
Tra forma della musica e forma del sentimento ci sarebbe una simmetria che è invece esclusa dal rapporto denotativo. Ora se si postula questo sarebbe possibile anche stabilire un andamento inverso: cioè data la “forma del sentimento” si può risalire alla forma della musica. In altre parole si arriva ad affermare un’interscambiabilità tra il simbolo e ciò che è simbolizzato. Ci dovrebbero essere degli indicatori esterni che fanno di un “grafico” il simbolo dell’altro. La Langer risolve questo problema dicendo semplicemente che la determinazione di cosa è il simbolo e cosa il simbolizzato si basa sul fatto che uno dei due è più facile da produrre, manipolare ed organizzare. Ma questa certo non è una risposta adeguata al problema. Un’altra critica deve essere mossa alla teoria della Langer a proposito della forma del sentimento. Ciò che deve essere messo in discussione non è tanto il fatto che il sentimento abbia una forma, quanto il fatto che tutti i sentimenti, gioia, ira, dolore, hanno tutti uno stesso andamento, che sarebbe quindi «la forma generale della vita emotiva.». La simbolicità della musica si riferirebbe, così, alla forma generale della vita emotiva, e avrebbe un solo senso simbolico. L’impossibilità di determinare il sentimento individuata da Hanslick finisce per risultare un impoverimento.

4. La critica formalista vuole porre l’accento sulla musica in sé, sul «le sue regole immanenti». Questo porta a liberare la musica da tutti quei rivestimenti simbolici che la celavano. In realtà gli approcci simbolici che vedono nella musica l’espressione di sentimenti, ma anche di paesaggi, di situazioni ecc., criticati dai formalisti, legano la musica, la trattengono terra terra. Movendosi all’interno di un orizzonte formalistico ci si rende conto che una critica del simbolismo, e una differenziazione della musica rispetto al linguaggio o alla pittura, dicendo che la musica non ha senso, non soddisfa pienamente il problema: la musica non può essere semplicemente una successione di eventi fisici. Questo porta ad un sublimazione. Il senso interno alla musica, privo di qualsiasi riscontro oggettivo, è non verbalizzabile perché trascende la parola: è un significato ineffabile.

Accanto ad un’accezione letterale del termine ineffabile (ad esempio l’aroma del caffè è ineffabile ma può essere espresso dalle parole anche se solo l’esperienza può dargli pienezza), possiamo avere un’accezione esaltata: l’ineffabile è ciò che non può essere espresso con le parole per il fatto stesso che il linguaggio ha una sua limitatezza. L’ineffabile è quindi una sovrab-bondanza di senso che può essere espressa solo dalla musica. C’è una strada che dal formalismo porta a quanto appena detto. La musica del novecento, rivolgendosi al materiale sonoro, non ha negato il grande messaggio, ma neppure il messaggio troppo grande.

5. A questo punto, bisogna dare una nuova impostazione al problema del senso che è stato fino ad ora discusso senza seguire un filo logico particolare. Prima di tutto bisogna dire che il «problema del senso» nasce nella sua formulazione dall’assunzione della musica come sistema di segni, a prescindere da quale soluzione viene poi data a tale problema. Ma la musica è segno di cosa? Se non si riesce a fornire una risposta allora siamo in presenza di una ruota che gira a vuoto. Non prendiamo le mosse dalla musica come segno ma ci poniamo nella dimensione dell’ascolto: ora abbiamo i suoni davanti: «Che cosa possiamo fare con i suoni?» Quali sono le loro possibilità intrinseche? Ci accorgiamo allora che «la musica è anzitutto un insieme di possibilità». Entra in questione il gioco: il bambino che giocando sperimenta le possibilità combinatorie dei cubi. Stiamo parlando nuovamente delle origini della musica. Nello sperimentare le possibilità non c’è l’intenzione di dire qualcosa. È necessario che prima di tutto i suoni vengano scoperti nel loro essere e nelle loro possibilità. Ora la «musica ha molte origini» ma in tutte è presente quanto è stato appena detto.

6. Come ritornare alla pluralità delle dimensioni della musica e quindi anche al problema del suo senso, che è strettamente collegato con questa, specialmente dopo che si è assunto il principio secondo cui «la musica è eminentemente arte della sintassi»? Perché questo avvenga si deve ammettere che all’interno della chiusura «tautologica» della musica irrompa il mondo, e non solo il mondo dei sentimenti (mondo interiore), ma il mondo nella sua totalità. Nel fare questo si deve evitare da una parte di cadere nuovamente all’interno della dicotomi cifra/segno, cioè tra la musica come mezzo per esprimere ciò che altrimenti sarebbe inesprimibile, e la musica come segno a cui le abitudini hanno attribuito un ambito di referenza più o meno determinato, dall’altra si deve superare in blocco non solo la suddetta dicotomia, ma anche quel modello rappresentativo che affiora al di sotto di molti approcci, anche con posizioni diverse. Quest’ultimo ostacolo non si supera semplicemente appellandosi all’indeterminatezza del simbolizzato. Si riprende l’impostazione che era stata data al problema: il bambino entra in una stanza dove c’è un grande organo ed inizia a giocare con i suoni. Perché il bambino decidere di spendere tempo in questo modo? Perché indugia «senza scopo» presso i suoni? Una possibile risposta a questa domanda potrebbe essere che egli è catturato dal fascino del suono: i suoni lo attraggono. Prima di accettare tale risposta si deve riflettere sul suo significato. In precedenza i suoni erano stati definiti attraenti sulla base della loro essere essenzialmente degli eventi temporali ma dire in questo caso che i suoni hanno attratto il bambino solo per ragioni temporalistiche sembra riduttivo. Nell’impostazione di questo studio c’era stato da sempre un atteggiamento conoscitivo che tende a superare «la superficie fenomenologica per raggiungere il terreno delle spiegazioni autentiche». Ora ci tratteniamo proprio su questa superficie, non solo perché «l’ente di cui si tratta è comunque sempre afferrato su» di essa, ma anche perché «il suono non è ora tenuto fermo come identità soggiacente alle sue determinazioni, ma ogni sua determinazione rappresenta un possibile punto di innesto per le operazioni valorizzanti dell’immaginazione. Ciò significa che il suono, entrando nei dinamismi delle sintesi immaginative, tende a diventare esso stesso, in ogni sua determinazione, un vettore dell’immaginazione.» Bisogna spiegare che cosa si intende per immaginazione. Si potrebbe definire come fantasia l’immaginazione che, pur creando delle “variazioni sul tema”, si basa su cose, oggetti, immagini che fanno in qualche modo riferimento alla realtà. L’immaginazione immaginosa
si basa su «figure» con contorni indeterminati, sorgono «da uno sconfinamento che segnala la presenza di procedure unificanti che dissolvono, anziché confermarla, l’oggettività stessa. A queste procedure si deve la transizione che conferisce all’oggettività il carattere di valore immaginativo.
La cosa che è stata valorizzata attraverso le sintesi dell’immaginazione si è risolta, come cosa, in queste sintesi: e poiché esse non debbono essere concepite staticamente, come mere giustapposizioni di contenuti, il carattere di valore immaginativo consiste essenzialmente in un’inclinazione dinamica, in una tendenza al movimento, nella manifestazione di una direzione.» [p. 282] È in
questo modo che si ritorna a parlare di senso inteso come direzione, e l’espressione direzione di senso risulta essere un rafforzativo. L’operare del valore immaginativo non deve essere pensato come la creazione di immagini e con l’eventuale determinazione di un esplicito rapporto simbolico, ma deve essere visto nella sua origine mentre si innesta sulla percezione, su ogni singolo suono che ha in se una grande inquietudine immaginativa. «Nel momento in cui indugiamo presso di essi prestando il nostro ascolto, avvertiamo così il germinare di un senso attraverso le determinazione dell’essere.

Per questo motivo riteniamo di poter parlare, per quanto ciò possa forse apparire singolare, di un senso in rapporto, ad esempio, a una qualità timbrica come tale, volendo con ciò significare che a partire da essa viene puntata una regione dell’immaginazione, che da essa ha inizio un movimento che conduce verso quella regione.» [p. 283] Il parlare di una timbrica come, cupa, chiara, ecc. è un espressione soggettiva di un senso che se reso oggettivo perderebbe quella indeterminatezza che le è propria. «Ecco dunque in che modo possiamo dire ancora una volta che i suoni sono attraenti. Al movimento dovuto alla pura forma temporale si aggiunge ora l’attrazione esercitata dalla materia sonora concreta in quanto essa rappresenta l’inizio di un movimento dell’immaginazione. Ciò che attrae è il senso stesso, ed esso attrae nello stesso modo di una strada in discesa.» [p. 283]

7. Il problema del senso della musica non viene quindi chiamato in causa dalla linguisticità o dalla non linguisticità di questa, ma dal rapporto tra immaginazione e suono. In questo rapporto l’immaginazione è un elemento che non ha nulla a che fare con la fantasia, intesa come libera ricostruzione della realtà, che, in un modo o nell’altro, mantiene con il reale un certo rapporto, anche nei casi più estremi. L’immaginazione nella musica è legata strettamente alla percezione, alle figurazioni sonore e si potrebbe parlare di immaginazione compositiva, combinatoria, «matematica». Inoltre bisogna dire che l’immaginazione ha la funzione di valorizzare il materiale sonoro stesso. Si instaura una doppia relazione che rimanda dal materiale sonoro all’im-maginazione e vice versa. La valorizzazione apre il suono ad una molteplicità di relazioni e «il carattere di valore immaginativo non consiste tanto nella determinazione della molteplicità, quanto piuttosto nel mantenimento dell’apertura» [p. 285]. Se si prende ad esempio la differenza tra il piano e il forte, ci si accorge che ad ognuno di questi momenti appartiene una caratterizzazione che è sua propria, una coloritura emotiva che gli appartiene: piano = «intimità, segretezza, solitudine, nostalgia» lontananza ecc. Forse che allora il suono significa tutte queste cose? Bisogna fare qui una precisazione: prima di tutto «significare» dovrebbe essere meglio definito, poi non è possibile parlare di «cose» in quanto si parla di «sensi», inoltre non è possibile dire «tutte» perché non sono numerabili. Infine, nella frase criticata si presume l’attualità, mentre qui si ha solo un dinamismo immaginativo latente.

Il concetto di dinamismo immaginativo latente può essere collegato con quello di risonanza: vedi due diapason che vibrano per risonanza. È possibile riaprire la tematica del simbolo basandosi sul concepire il senso connesso all’immaginazione, e non ad una dimensione puramente sintattica. Il termine “simbolo” è stato definito in vari modi. Senza riaprire questa discussione basterà dire che qui esso è importante per il tema della valorizzazione da cui il problema del simbolo prende le mosse.

8. Si accetta, quindi, una posizione formalista rivisitata.

9. Il problema del simbolo come è stato riproposto in questo studio è ben lungi dall’occuparsi del «cosa attraverso la musica debba essere espresso e come». Qui si è semplicemente individuata la struttura e la natura simbolica della musica: il gioco che deriva dalle combinazioni possibili viene lasciato ai musicisti. «Come abbiamo ripetuto più volte, l’accento deve essere posto da parte nostra
sul tema della possibilità, e proprio per questo è per noi importante dare il massimo rilievo all’idea della molteplicità di dimensioni del musicale, un’idea la cui giustificazione e teorizzazione va certamente oltre la semplice presa d’atto della molteplicità dei linguaggi musicali.» [p.294] Inoltre si pone l’accento sul rapporto tra il simbolismo e la realtà. Tra un senso che si popone come una finzione sovrapposta al brano musicale e il senso innegabile. Si fa notare che «nelle distinzioni elementari del rapido e del lento, dell’alto e del basso, del salire e dello scendere, del continuo e del discontinuo, dell’aspro e del dolce, del leggero e del pesante, del concordante e del discordante, e così via, si fa avanti la complessità della realtà stessa in tutta la varietà e la ricchezza delle sue determinazioni». La musica ha molte dimensioni così come molti sono i modi di pensare dell’uomo. «Nessun pensiero musicale potrebbe sorgere se non ci fossero altri pensieri. E sarebbe certamente sbagliato ritenere che questi altri pensieri non possano in alcun modo penetrare all’interno del brano, contribuendo a determinare il suo senso.» [p. 295]

Commenti
Quella di Giovanni Piana è una filosofia della musica che si colloca prima del fenomeno musicale; che ha il suo punto di partenza nelle manifestazioni fisico acustici ed ha come scopo quello di spiegare come si possa passare dal suono-segnale a suono musicale, scartando a priori la semplificazione secondo la quale vi sarebbe una differenza ontologica tra i due tipi di manifestazioni. L’impressione che si ricava dalla lettura di questo libro è quella di tornare sempre a parlare degli stessi problemi, passando, però, ogni volta ad un livello più profondo. Non può stupire, quindi, che la reintroduzione del simbolo in musica avvenga grazie alla stessa dimensione dell’ascolto che, nel primo capitolo, serve per svincolare il suono dalla cosa che lo ha prodotto.Piana riflette su dei concetti semplici come la materia, il tempo, lo spazio, il simbolo, e lo fa partendo sempre da uno stadio pre-linguistico, per poi far scaturire dalle sue osservazioni i pilastri che reggono qualsiasi genere di musica, indipen- dentemente dalla cultura a cui appartiene. Alla base di questo c’è una concezione, esposta sin dalla parte introduttiva, di una semplicità disarmante, ma che nel corso del lavoro trova innumerevoli applicazioni, nei diversi livelli: il senso nasce sempre dall’incontro di un tempo e di una struttura, dove per ‘tempo’ si intende quello storico-psicologico di un determinato individuo, e dove per ‘struttura’ si intende una serie di relazioni, oggettivamente date, non indifferenti.

Il libro di Piana costituisce uno strumento indispensabile per chiunque voglia avvicinarsi ai problemi che riguardano la comunicazione musicale. (a.g.)