Carlo Alessandro Landini

 


 

Carlo Alessandro Landini si è diplomato a pieni voti Pianoforte e Composizione a Milano nel 1978. In seguito si trasferisce a Parigi, conseguendovi un secondo diploma di Composizione (Prémier Prix à l'unanimité du jury) presso il Conservatoire National Superieur de Musique. Studia e insegna per due anni negli Stati Uniti presso la University of California (borsa Fulbright). Vincitore di numerosi concorsi nazionali ed internazionali - fra i quali il ‘Valentino Bucchi’ di Roma, e l’ ‘Ennio Porrino’ di Cagliari - Landini è l’unico compositore ad aver vinto due edizioni consecutive del Concorso ‘W. Serocki’ di Varsavia, nel 2002 e nel 2004. È' ospite regolarmente invitato dai Ferienkurse für Neue Musik di Darmstadt. Le più importanti istituzioni concertistiche del mondo hanno ospitato musiche da lui composte (Centre Pompidou e Salle Gaveau, Carnegie Hall, NHK Concert Hall di Tokio). Nel 2006 è stato Visiting Professor alla UMBC di Baltimore, insegnandovi per l’intero Winter Semester. Nel dicembre 2007 è stato insignito, a Varsavia, del prestigioso ‘Witold Lutoslawski Award’, unico italiano da sempre.


 

 

Renzo Cresti
Carlo Alessandro Landini, l'in-canto dei possibili

 

Opera Musica


Rivista Musica



 2007


Il canto del merlo

 


20 settembre 2007

 

Caro Professor Piana,

mi sono riletto, trovandomi a disporre di qualche ora libera, il Suo bellissimo, intenso, breve saggio dedicato al Suo merlo addomesticato. Resta l'impressione che qualcosa del santo di Assisi Lei abbia, anche se nega di averlo. Non ricordo quale filosofo dell'antichità conversasse con gli uccelli, forse Socrate nella satira aristofanesca delle Nuvole, ma ricordo distintamente la commedia sempre di Aristofane Gli uccelli. Poi, chissà che nel film di Hitchcock le alate creature non si coordino fra loro, a scopo di attacco contro l'uomo, in base a un campionario di segni a noi sconosciuti.

Lei, caro Professore, non sembra avere "battezzato" il Suo simpatico volatile con un nome, come si suoi fare con tutti gli animali domestici. Lei non dice al lettore (che resta con una certa curiosità addosso) - o forse io non ricordo di aver letto - come il Suo merlo si chiamasse.

E poi v'è quella splendida ultima esibizione del merlo, quel suo ultimo canto, che forse rappresenta l'apice e il punto culminante della storia. Un canto del cigno più che non del merlo, così parrebbe quasi. Davvero nelle Sue pagine il merlo di casa Piana sembra acquistare una dimensione, natura e risonanza affettiva quasi umane. La invidio un po' per questo bel rapporto transgender, transspecifico, che ha saputo costruire nel corso di un lungo inverno con un animale, per di più abbastanza giocherellone e astuto, mi pare ... Più di tutto mi dispiace che, una volta registrato questo ultimo canto spiegato, il canto di addio, Lei non abbia pensato di farne un file audio liberamente scaricabile dal Suo sito. Potrebbe magari pensarci, almeno farci un pensiero? Tutti gli ornitologi, tutti i musicisti, come il sottoscritto, tutti gli amanti dell'arte e le anime "belle" sarebbero a Lei grate per questo.

Dai campioni del canto Lei ha estratto, a quanto leggo, i dati concernenti, in particolare, la struttura dello spettro così come la forma dell'inviluppo nel loro decorso temporale.

Sulla base di questa analisi, Lei prosegue, è possibile ottenere una sorta di "controimmagine" interamente sintetica del campione originale. La "risintesi" consiste, questa la spiegazione da Lei fornita, appunto in questa ultima operazione, e si tratta evidentemente di una modalità di sintesi del suono diversa da altre che possono essere praticate, e "in particolare da quella che talvolta viene chiamata sintesi per generazione diretta e che consiste nella costruzione dell'evento sonoro attraverso una via puramente algoritmica". Non essendo un esperto del settore, non comprendo sinceramente in che cosa la "risintesi" da Lei proposta, da Lei applicata al merlo del Suo racconto, differisca dal suono di sintesi che suole prodursi ,.... grazie ad appositi "sintetizzatori" sulla base di un repertorio ("library") di suoni cosiddetti campionati. Oppure dal suono di sintesi che altri programmi ottengono sulla base della sovrapposizione in verticale dei singoli formanti costitutivi del suono (in tal caso si parla, se non erro, di una sintesi additiva).

Quanto al saggio di Marler che Lei cita, sì, mi era noto, e Marler mi è noto per essersi ampiamente occupato non dei merli, ma dei fringuelli. In particolare, ricordo di avere citato Marler nel corso di una mia lectio magistralis all'Università di San Diego nel 2002, quanto ricordai come sia attribuirsi a Peter Marler la scoperta che solo il 20% dei vari attributi riferibili al cerimoniale di corteggiamento degli uccelli, soprattutto dei fringuelli, e fatta inclusione, si osservi, del modo che questi hanno di gorgheggiare e di tutti gli altri pattems sonori, è da ricondursi a specifici tratti genetici. Al contrario, circa l' 80% di essi sarebbe da ricondursi all’apprendimento precoce (si parla di Marler e della dicotomia "apprendimento vs. istinto" in un vecchio numero de Le Scienze, il n. 231 del novembre 1987). Dunque, la scoperta segnerebbe – questo io dicevo, proclamavo a gran voce, nella mia conferenza davanti a tante giovani e belle e disinvolte signorine del Music Department, studentesse o sul serio estasiate, o comunque intente a fingere, a simulare un certo cortese interesse allo scopo di gratificare l'ospite italiano .... –  il trionfo della cultura sulla natura. Citavo l'esperimento di Marler in riferimento alla cultura musicale del dopoguerra: Strutturalismo (ovvero la tanto lodata e tanto necessaria cultura) vs. il Neotonalismo degli anni '80 (ovvero il sentimento, ovvero la "famigerata" natura).

Sono andato a rileggermi la bella favola di Hans Christian Andersen, L 'usignolo dell'imperatore, nella quale si dibatte la questione dell'asserita superiorità della musica  "meccanica" su quella "naturale". Alla fine il meccanismo, il congegno fatto di molle e ingranaggi si guasta e l'uccello in carne ed ossa, o meglio, la creatura fatta di piume e di becco, ha la meglio sul suo concorrente, il piccolo Golem canoro. È forse vittoria del sentimento sulle istanze "mostruose" della ragione. Forse.

P.S. Mi permetto di trascriverLe tre versi di Emily Dickinson che mi sembrano abbastanza pertinenti all'argomento del Suo Canto del merlo, anche se riguardano il robin e non il blackbird. Mi sono piaciuti e mi è subito venuto in mente l'argomento del Suo saggio: ·
 

"Write me how many notes there be
In the new robin's ecstasy
Among astonished boughs"
 

"Scrivete quante note ci sono/ nell'estasi del nuovo pettirosso/ fra i rami stupiti”. (Trad. di Nadia Campana)

 
[…]

 C.A.L.


                                                                  2008


"Leggenda"


 

23 aprile 2008

[...]
 

Dopo la sua ultima così cortese telefonata mi ripromettevo di mandarle una delle mie composizioni. Lo faccio ora con un ritardo dovuto all'esitazione. Mi sembra un grosso rischio: non vorrei con la mia musica perdere un amico! D'altra parte ho deciso di aggiungere al mio archivio anche alcune delle mie composizioni, perché il problema del comporre mi attrae –  per ragioni che sono per me piuttosto ovvie dopo tanta musica ascoltata, fatta e pensata –  e mi trovo, credo, nelle condizioni ottimali per dedicarmi almeno un poco a questa nuova appassionante attività non avendo in questo campo, ed anche  questo è quanto mai ovvio!, nessuna aspirazione pubblica.

Il brano si intitola "Leggenda" - ed è per coro, orchestra d'archi, timpani, violino e violoncello solisti.

 
[…]

 G.P.



29 giugno 2008

[...]
 

Ho ascoltato finalmente, dopo molte settimane dal Suo cortese invio, il brano Leggenda da Lei composto.
 

Bellissimo brano.
 

All’inizio i “colpi del destino” dei timpani, colpi accompagnati dal coro, hanno qualcosa di davvero tragico, accosterei lo stile orchestrale a quello di Shostakovic della Settima Sinfonia (“di Leningrado”). Mi ha consolato la tenue apertura del coro di voci femminili al secondo minuto del pezzo, approssimativamente. Intorno alla metà del quarto minuto le voci femminili mi paiono disegnare delle trame delicate e incorporee, tipo frammenti “an Diotima” di Luigi Nono (a parte la violenza sonica che trasuda regolarmente da Nono, mentre in Lei leggo un’estrema delicatezza). Alla fine del quinto minuto la "tragedia dell’ascolto" si va precisando sotto forma di altri colpi di timpano (o di mazza), accompagnati da coro ed archi. Davvero un’elegia più che una leggenda, caro Professore, una tragedia più che una semplice, innocente leggenda. Durante l’ultimo minuto io non mi sarei aspettato un nuovo intervento del violino solista. Ma la fine ultima è affidata al coro ma-schile, come all’inizio, per cui parlerei forse in modo non appropriato, ma tanto per dire qualcosa sul piano formale, di un grande disegno A–B–A nel quale lo sviluppo centrale è sostenuto dai due interventi solistici dello strumento ad arco.
 

[...]

 C. A. L.

29 giugno 2008

[...]
Ho riascoltato, nella tranquillità domenicale del mio studio in ombra, dopo un breve acquazzone che ha ossigenato la natura e abbeverato le povere piante riarse del mio giardino, il Suo bellissimo pezzo. Poche parole per dirLe anzitutto che la mia considerazione e ammirazione è sincera e non ironica e nemmeno simulata: essa equivale a quella che io provo davanti a un’esecuzione di Giuseppe Sinopoli quando solo io rifletto sul fatto che lo scomparso direttore d’orchestra e compositore era, oltreché un valente egittologo e archeologo, anche laureato in medicina. Insomma, per farla breve, io non mi aspettavo affatto – perdoni la sincerità, forse urtante – una tale abilità compositiva da parte Sua. Siamo tutti troppo abituati a pensare, colpevolmente e a torto, che colui il quale parla e discetta di musica non sia in grado di farla e talvolta neppure la conosca: è questo il caso di alcuni critici di giornale, ma non è certamente il Suo. Mi permetta di assicurarLe che ciò conferisce una grande autorevolezza – un valore aggiunto – al Suo lavoro di filosofo.

 
Una seconda, minima osservazione che mi sento di potere e dover fare, riguarda l’accostamento da me fatto a Shostakovic. Così a lume di naso, oggi, a un secondo e ulteriore ascolto, a me verrebbe di pensare piuttosto a Gorecki. Non so che cosa ne pensi Lei, carissimo Professore.
[...]
C. A. L.

3 luglio 2008

[...]

Che dire della felicità che mi hanno dato le sue generosissime riflessioni sulla composizione che le  ho mandato? Intanto  le assicuro che non ho proprio pensato ad un andamento ironico delle sue parole, ho subito avvertito un fondo per me importantissimo di serietà e di sincerità, sotto il velo delle sue esagerazioni umoresche ed umorose che mi mettono in allegria.


Il fatto che per Lei si tratti di musica vera ed anche di buona musica ha prodotto un primo risultato: intanto di non aver perso un amico come temevo, ma soprattutto mi ha dato lo stimolo decisivo a superare le mie esitazioni nel rendere pubbliche nel mio archivio almeno alcune di queste mie ultime prove. Esse sono pronte per essere messe in linea, ma finora sono sempre stato  molto esitante per vari motivi. D’altra parte sono cose che io ho prodotto e sto producendo, ed una buona ragione per renderle pubbliche è proprio quella di cui parla nel suo supplemento di riflessione: il mostrare che può persino accadere che talora chi parla di musica e non è professionalmente musicista sia tentato di “fare musica” e forse in qualche modo ci riesca.  Senza contare che se si compone è naturale  mettere  ciò che si è fatto a disposizione di un potenziale ascoltatore.

 
Ma i rischi sono moltissimi. Ad esempio ciò che lei considera "valore aggiunto" alla mia produzione filosofica, potrebbe da altri essere considerato come un’arma contro di essa – purtroppo! –  ma credo che non sia il caso di  insistere su queste cose che lei conosce benissimo. Ora sono veramente molto rinfrancato: un giudizio come il suo mi spinge ad insistere nella direzione della composizione che  mi attrae di giorno in giorno di più.

 
In effetti ho cominciato a studiare il violino a otto anni con maestri privati (ottimi vecchi maestri!) e da allora fino ad oggi non  ho mai smesso: persino in condizioni di isolamento e di difficoltà a trovare compagni con cui condividere una sonata per pianoforte e violino o un quartetto. Anche in quelle condizioni è sempre stato per me in certo senso riposante dedicare un’oretta della mia giornata o allo studio tecnico o allo studio di brani, soprattutto per violino e pianoforte,  annotandoli attentamente con arcate opportune e diteggiature, pur sapendo che presumibilmente non le avrei mai eseguite con alcuno: le sonate per violino e cembalo di Bach, tutte le sonate di Mozart e di Beethoven, ed poi ancora su, sempre più avanti, sino a Brahms, Franck, Debussy, Grieg – sonate non facili, nemmeno per i pianisti.

 
In realtà vi è stato un periodo (all’incirca dopo i quaranta anni) che ho potuto anche fare musica di insieme, qualche quartetto, qualche esecuzione con piano-forte, ed ho partecipato persino per circa tre anni ad una orchestra d’archi, diretta da Roberto Zambonini, formata da studenti di conservatorio, dilettanti e qualche professionista occasionale – un’orchestra che girellava in Brianza tra le scuole e le sale comunali. Una bella esperienza, nel complesso! L’esperienza più notevole è stata tuttavia quella di un gruppo di musica barocca, con il clavicembalista Marco Doni, il violoncellista-architetto Alessandro Ferrari e il flautista-ingegnere Corrado Parrella,  che è durato anch’essa qualche anno.

 
Qui in Calabria naturalmente sono tornato come ai vecchi tempi: qui sono circondato da agavi e cactus, e si sorseggia limoncello su terrazze che si affacciano sul palmeto a mare e si fanno anche bagni splendidi oltre che godere il fresco della montagna molto prossima: ma certo non posso pretendere di trovare dei compagni strumentisti; cosicché sono tornato alle mie puntigliose prove solitarie. Ma  con una differenza: c’è il calcolatore, o meglio: ci sono i miei strumentisti virtuali che mi dànno veramente una grande soddisfazione... Sono educatissimi, si adeguano ai miei desideri interpretativi con grande  finezza. Ecco il tempo giusto, il giusto accelerando, il diminuendo, l’accentazione... Sono io stesso a guidarli ed a orientare le loro scelte. Certo manca quello straordinario feeling comune che fa il bello del suonare musica insieme –  pazienza, resta la musica per così dire in sé!  


Ma veniamo al punto di questa chiacchierata che sta diventando veramente troppo lunga. Il problema del comporre si è posto per me proprio a seguito degli straordinari progressi in campo musicale dell’informatica e delle tecniche di campionamento. Ho fatto qualche tentativo tra il ‘90 e il ‘94, ma poi ho desistito e buttato tutto sia perché il tempo era poco sia per la qualità dei suoni che era semplicemente orrenda sia per la difficoltà di dominarli. Ora tutto e cambiato ed è facile prevedere che cambierà ancora.

 
Così in tempi recentissimi è cresciuto in me sempre più il desiderio di "fare musica" anche nel senso del "comporre", senza i problemi gravosi che oggi ha un compositore. Non penso naturalmente che il fare musica al calcolatore possa o debba sostituire la musica "viva". In tal caso contraddirrei il mio rapporto diretto con lo strumento  che dura da una vita. Si tratta  semplicemente di cose diverse. E su questa diversità dovrebbe cominciare un discorso talmente lungo da fare diventare questa lettera realmente chilometrica.


Almeno una cosa però la vorrei dire in tre parole: io credo che si possa consi-derare la pratica musicale al calcolatore una pratica compositiva come un’altra, e che essa consenta di fare cose che in altro modo non sono realizzabili proponendo un nuovo territorio all’immaginazione musicale che i compositori non hanno forse ancora apprezzato pienamente, limitandosi a considerarla o come una utile semplificazione di certi aspetti del comporre o come all’origine di sottoprodotti da lasciare alla gestione della musica da film e della musica leggera più o meno deteriore. Impiegando il calcolatore per fare musica, oltre a soddisfare un mio interesse e piacere strettamente personale, vorrei cercare di dimostrare qualcosa che credo abbia un significato anche in rapporto ai metodi del fare musica oggi.

 
A proposito della sua domanda su Gorecki debbo dire che di questo autore conosco una sola sua composizione e precisamente il quartetto per archi n. 3 op. 67, eseguito in prima assoluta nel 2005 ed in base al suo ascolto debbo dire che mi trovo piuttosto in consonanza con lui.

 
Mi piacerebbe poi intrattenermi sulla questione della partitura – ma anche in questo caso molto sinteticamente posso dire che  mentre fino a poco tempo fa non potevo fare a meno di programmi come Finale o Sibelius, e quindi della scrittura consueta, guardando con grande sospetto i sequencer, ora ho cambiato opinione, ho letto finalmente i manuali d’uso  e  trovo un buon sequencer uno strumento formidabile. Programmi come questi potrebbero essere anche più interessanti e ricchi di possibilità per il compositore se non fossero quasi esclusivamente orientati verso la composizione "leggera". Naturalmente lavorando con un sequencer la partitura in termine di notazione corrente diventa problematica per mille ragioni – ma si tratta di un argomento che andrebbe sviscerato molto più a fondo.

 
[…]

 G.P.


 

2010


Album per la  teoria greca della musica

 


25 marzo 2010

[…]

sono venuto ad apprendere, dall’invito alla presentazione de Lo sguardo assente, della tua molteplice attività di saggista. E che attività! Solo l’indice di questo tuo Savinio mi ha fortemente impressionato. Certo, avrei dovuto sapere tutto di te, ma mi devi perdonare – da dieci anni vivo in Calabria e da un numero imprecisabile di anni non frequento ambienti intellettuali... Insomma vivo un po’ da eremita. E sempre più.
 

Mi congratulo con te – di questa tua ricchezza interiore, di questa tua esuberanza intellettuale straordinaria che del resto ho sempre avvertito in tutte le tue lettere.
 

Di questo tuo libro certamente ne riparleremo.
 

Proprio in questi giorni sto finendo il mio Album per la teoria greca della musica che mi ha preso un sacco di tempo, che mi è piaciuto comunque fare e che ti man-derò appena pronto. In compenso non ho scritto per un anno una riga di musica. Ma ho scaricato 35.000 files – l’intero Corpus vasorum Antiquorum – cosa che mi ha convinto della mia vera vocazione, che è quella di fare il vasaio antico sotto le palme del mio giardino. Ed ho già cominciato...

 
[...]

 G. P.


 

2011

 


 

15 febbraio 2011

[…]
 

Le tue 561 pagine sulla musica greca antica sono a dir poco meravigliose. Le ho "scaricate" dietro tuo consiglio e me le sono gustate tutte fino a che ho potuto. Il mio limite è costituito da Pitagora e dalla divisione del monocordo – là dove la musica dell’Occidente ha il suo vero inizio –, una scienza, quella dell’acustica, che dagli anni della lettura del manuale di Pietro Righini a questi nostri, mi ha sempre impaurito. Diciamo che mi sono goduto tutte le pagine nelle quali tu parli di mito e di Olimpo, per esempio quelle dello stupendo capitolo che tu dedichi agli strumenti musicali e all’immaginazione mitica (da pagina 119 in avanti). Quando tu parli di Apollo e di Marsia sfondi una porta aperta, la lettura simbolica che io sapevo era quella che tu non neghi, ma che tu opportunamente ridimensioni, parlo della notoria antitesi tra gli strumenti e gli stili strumentali, che tu ricordi, assai giustamente, risolversi "con una durissima rivendicazione dello strumento a corda" (p. 182).

Credo di ricordare che Massimo Mila fornisse questa spiegazione del mito. Non avevo invece mai riflettuto sull’implicazione musicale più profonda, quella cui tu, con piglio davvero innovativo dai voce: la querelle reale, sottaciuta ma vera, era forse quella tra il continuo e del discreto del "temperamento". Ossia fra il diatonismo della cetra ed il cromatismo dell’ aulòs (mi viene in mente un tuo splendido saggio sul pieno e sul vuoto, sul discreto ed il continuo, che tu scrivesti per il volume della Guerini curato da Liliana Albertazzi). Anche se io fatico a credere, nella mia beata e astorica innocenza, che alla cetra il "glissando" del tuo violino non si applicasse, così come esso poté quasi certamente applicarsi, con l’ausilio del diaframma, all’aulòs (dall’intonazione comunque meno precisa). Insomma, una tua precisazione in tal senso forse c’è nel tuo bel trattato, ma se è così, io non l’ho letta, purtroppo, essendomi fermato, come ti ho confessato, poco oltre la metà.

 
Essere filosofi e matematici a un tempo è difficile. Ma esserlo e rimanere "umani" e dolci nei tratti, disponibili al colloquio con gli altri (soprattutto con quei poveretti che siamo noialtri, i musicanti), è difficile, e ciò tu solo, carissimo, sei in grado di fare.

 
Non conosco altri "umanisti" al pari di te capaci di coniugare Apollo e Dioniso, la scienza esatta del Pensiero e quella un po’ fuzzy dell’Arte e dei suoi procedi-menti. Bisogna forse essere entrambe le cose, un po’ artisti e un po’ filosofi, e accade che tu sia perfettamente – e non solo un po’ – entrambe le cose. Ti ammiro per la vastità del tuo personale orizzonte.

 
Un’ultima cosa prima di voltar pagina: i tuoi vasi sono bellissimi, soprattutto mi piace quello con sopra raffigurata la Sfinge. Direi che tutti i vasi che scorgo, bene figurano nel tuo giardino di casa. E così dalla manualità del violinista, passando per la teoresi del filosofo e dello storico della musica grecoantica, sei tornato alla manualità del vasaio. È una parabola, la tua, una bell–shapedcurve, la "curva a campana" degli studiosi di statistica. Ma penso anche e prima di tutto, se mi permetti ancora un’ultimo "volo pindarico", a Magister Ludi, il protagonista del Glasperlenspiel di Hesse. Penso che al fondo della tua voglia di manualità si celi, chissà, la nostalgia delle cose semplici, tangibili, manipolabili. Come lo sono lo stesso pensiero umano, la scala musicale (dei 12 o 24 o più suoni), le fantasie del poeta che Platone aborre. Ma è alla res della filosofia medievale, opposta avis, che tu fai ritorno. A ciò che costituisce l’oggetto delle origini, il prima: cry, il grido primordiale. Forse è per questo che tu abbandonasti Milano, è così? Per ritrovare, nella tua Tuscolo, il sapore dei cibi non precotti e non surgelati, il suono del vento che "precede" quello de-gli strumenti (il suono del vento è cromatico, non diatonico, esso è continuo e non certo discreto, in breve, esso soffia e tu non sai da dove esso venga o dove esso vada). La voce dovrebbe essere l’esito finale del processo, la ripulsa dello strumento artigianale, fabbricato da mano d’uomo, il canto dovrebbe, io penso, costituire la tappa finale e conclusiva di questo ideale itinerario ad fontes. Che dici, regge la mia teoria sotto il profilo della "tua" psicologia di uomo e di professionista della cultura, caro Giovanni?

 
[...]

 C. A. L.

 


Lo sguardo assente

 


 

4 aprile 2011

 
[...]
 

ti scrivo soprattutto per una chiacchierata sul tuo Sguardo assente che ho letto  poco dopo il tuo invio.  Prima reazione immediata: un rinnovato interesse per Savinio,  la cui opera pittorica avevo incontrato sporadicamente nella mostra del 1976 a Milano, ma sul quale non  mi sono mai soffermato e in particolare non avevo mai sospettato il retroterra che tu esplori.

 
Quindi lettura tardo–serale del tuo libro, ricerca di tutto il Savinio che potevo rintracciare nella mia biblioteca elettronica e non. Quella elettronica è talmente vasta che non so esattamente che cosa ci sia dentro e debbo consultare una sorta di schedario. Ed ecco che, oltre il catalogo cartaceo di quella mostra, sono riuscito  a trovare La scatola sonora  e La vita – questo libro ignoravo proprio di averlo. Poi una preziosità, e precisamente una registrazione radiofonica di Casa Mastinu fatta da me in persona un numero immenso di anni fa. La cassetta non era molto brillante ma io la ho sistemata a dovere (e non ti dico con che cosa...). Ho inoltre trovato la registrazione di una lettura radiofonica di La nostra anima. Se non le possiedi già, mi piacerebbe mandarti queste due registrazioni.  Insomma per giorni – per merito tuo – Savinio mi è entrato in casa e debbo dire che condivido il fatto che sia un autore sottostimato come scrittore ed anche come pittore. Come musicista non so proprio nulla e da un tuo accenno sembra che abbia fatto bene a rinunciare alla composizione –  anche se ci si imbatte nella sua lettura in osservazioni sulla musica sia di ordine particolare che generale veramente straordinarie (basta aprire le prime pagine della Scatola sonora  con quell’attacco irresistibibile "Ho visto un direttore d’orchestra cadere dal podio") . In realtà, il tuo libro rappresenta una vera e propria apologia dell’artista Savinio –  e già per questo hai fatto un’opera altamente meritoria. 

 
Naturalmente non sapevo nulla della possibilità di attribuire a Savinio una patologia così grave come l’autismo, sia pure in forma attenuata.  La tua esposizione si fa leggere d’un fiato, sia per lo stile letterario che mi è ormai ben noto, sia per la tua scelta notevole di spezzare il discorso in capitoli brevi, riservando talvolta le parti più tecniche ma talaltra anche quelle più succose alle note che formano un libro nel libro.  Le domande che vorrei farti sono molte, troppe – ed eviterò anche di scatenare  la mia sonnecchiante, ma sempre pronta a ridestarsi, voglia di discus-sione. Del resto si tratta di domande che tradiscono alcune  perplessità che peraltro sono da te più che previste, ed anche preannunciate con le loro risposte all’interno del libro.

 
Qualcosa sono tuttavia tentato di dire. Intanto io ho una particolare idea – poco meditata, e forse troppo semplice – a proposito di chi può essere detto “malato mentale”. Questa espressione mi sembra possa essere legittimamente at-tribuita a chi prova dei disagi così forti e che disturbano così fortemente la sua vita quotidiana da spingerlo a cercare aiuto presso un medico o da pensare almeno di averne bisogno.  Questa è la versione soggettiva. La versione oggettiva più o meno potrebbe essere formulata così: l’espressione di malato mentale può essere attribuita a chi, con il suo comportamento, rechi disagi tanto gravi ad altri  che questi si sentano motivati a chiedere l’aiuto di un medico. Si possono dire le cose meglio ma grosso modo si capisce in che direzione sono orientate queste maldestre "definizioni".  Ora ti vorrei chiedere: esistono documentazioni relative a Savinio che possano cadere sotto l’uno o l’altro di questi due casi – in maniera netta e non generica? Per me questa domanda è assolutamente cruciale.
 

Naturalmente vi è l’intera sua opera, scritti e dipinti, e qui il discorso diventa  particolarmente complicato e non posso pretendere certo di intervenire con una vera discussione su un argomento che tu hai studiato tanto a fondo, sia nel caso particolare di Savinio che nel caso più generale del rapporto arte/malattia.  Ma anche relativamente a questo problema vorrei dire la mia (si tratta quasi di una mia deformazione professionale).  Tu sei fin dall’inizio assai prudente – come è giusto esserlo – ed anzi cominci con la citazione freudiana "La scienza non regge di fronte all’opera del poeta": eppure non posso liberarmi dalla sensazione che il tuo libro  sia avvolto da un’aura quasi "lombrosiana" (mi allontano di qualche passo per evitare una tua reazione da me indesiderata).

Forse si tratta di un’impressione da fenomenologo ostinatissimo, che ama stare alla superficie; e che vuole badare anzitutto  alle "procedure" e alle "regole" dell’immaginazione e scoprirle nella struttura superficiale di una raffigurazione, di un’immagine letteraria, di una figura stilistica; e che ha meno interesse per ciò che avviene nello stesso tempo nei meandri cerebrali. Non che questi non abbiano a che vedere con quelle. Ed ecco aprirsi un altro spiraglio di discussione. Tu scrivi nell’introduzione che "Ad altri spetterà il compito di stabilire se il fecondo rapporto tra l’istituto della creazione ... e il classico disturbo di personalità sia da intendersi alla stregua di un nesso causale .... o in alternativa di un nesso men che apparente e casuale fra eventi tra loro sostanzialmente irrelati". Ad altri? Ma, mio carissimo Carlo Alessandro, a me non sembra che ci siano altri che possano stabilire una cosa simile! Non siamo di fronte ad una questione di fatto che possa essere risolta da un esperto o attraverso accurati esperimenti! Che ci sia una relazione decisiva tra fatti fisiologico–cerebrali e tutto ciò che facciamo è cosa più che certa. E per sperimentarla non abbiamo bisogno nemmeno di tagliare a metà il nostro cervello. Il problema è che se ci occupiamo della "malattia mentale" di Savinio (ammesso che se ne possa parlare secondo i criteri precedenti che a me sembrano sensati), ci occupiamo appunto della malattia mentale di Savinio e della sua opera come parte di questa malattia e sua espressione – quindi dell’uomo Savinio, proprio di lui, e di null’altro – adottando così un punto di vista clinico. Se invece adottiamo un punto di vista di filosofia dell’arte, allora siamo interessati alla superficie della sua opera ed alle sue regole interne, alle attività immaginative che le forme da lui create mettono in gioco, come interesse prevalente – anche se non è affatto da escludere che considerazioni "cliniche" ci suggeriscano degli spunti  assumendo questa diversa strada. Spunti, tracce, suggerimenti – ma non molto di più. Se è molto di più, si può incorrere in distorsioni fortissime, in chiavi di lettura che sono da un lato tanto sorprendenti quanto sbilanciate da comportare una perdita intollerabile dell’elemento immaginativo, della figura retorica, della possibilità dell’ironia, del gioco letterario e pittorico, dei rimandi alla tradizione storica, delle tecniche artistiche consolidate e delle loro innovazioni interne, ecc. ecc.  Il che, beninteso, nel tuo libro non avviene –  l’aggancio c’è sempre, ma è sorvegliatissimo. Eppure...
 

Certo, una discussione come questa si può condurre realmente solo a viva voce! Perché a viva voce c’è la botta, ma c’è anche la risposta, e il discorso si può sviluppare più efficacemente ma anche più velocemente.  So comunque che prima o poi ci accadrà di incontrarci – e sarà molto bello. 
 

Ho riletto proprio ora la tua ultima lettera che mi mandasti insieme al libro e mi sono nuovamente commosso. Tu dici nei miei confronti cose così gentili, così affettuose, e soprattutto così generose che  sono capaci esse sole a dar senso a tutto il mio lavoro. Che cosa potrei dire di più? In che modo potrei dirti un enorme "Grazie"? Certo, c’è sempre una gradevole esagerazione, un consapevole tuo speciale gioco letterario in  ciò che scrivi  – ma ciò da cui mi sento profondamente toccato è  il nucleo di amicizia, di partecipazione, di vicinanza che è presente in questo tuo gioco.

 
Mille ringraziamenti anche per l’attenzione che hai dedicato al mio Album. Effettivamente esso comincia dolcemente e va sempre più indurendosi nello scorrere delle pagine. Ma sono convinto che i libri non necessariamente debbano essere letti per intero. Si legge ciò che interessa e attrae di più –  non si legge per soffrire! A proposito della tua acuta (da vero musicista) osservazione sulla cetra hai perfettamente ragione nel ritenere dubbio che alla cetra non si applicassero i glissandi. In effetti i grecisti e archeologi hanno stentato parecchio a capire l’impiego dell’enorme plettro che il citaredo tiene nella mano destra – ed io credo (confortato da un paio di autori) che esso avesse lo scopo, premuto sulla corda, di realizzare diesizzazioni temporanee (come una sorta di ponticello mobile); tuttavia esso poteva anche benissimo essere fatto strisciare sulla corda provocando un effetto di glissando. I musicisti non rinunciano alle possibilità offerte dello strumento che suonano ed io sono certo che anche i citaredi "glissassero".  Ma i teorici disapprovavano certamente questa pratica.


[...]

 G. P.


20 aprile 2011

[...]
 

Mi hai comunicato la tua (giusta) idea a proposito di chi possa essere detto (o meno) "malato mentale".  Questa espressione ti sembra, così tu mi hai scritto, poter essere legittimamente attribuita a chi prova dei disagi così forti e che disturbano così fortemente la sua vita quotidiana da cercare aiuto in un medico o da pensare almeno di averne bisogno.  Questa è la versione soggettiva, tu dici. Avendo in ciò ragione al cento per cento: chi mai potrebbe definire la natura e portata di un individuo se non, attraverso il  vecchio e abusato, ma in fondo dirimente, procedimento introspettivo, l’individuo stesso? La versione oggettiva più o meno potrebbe essere, tu così prosegui, formulata così: l’espressione di malato mentale può essere attribuita a chi, tu scrivi, caro Giovanni, "con il suo comportamento, rechi disagi tanto gravi ad altri  che questi si sentano motivati a chiedere l’aiuto di un medico". Mi chiedi quindi, a bruciapelo, se esistano o meno documentazioni relative a Savinio che possano cadere sotto l’uno o l’altro di questi due casi, a suffragio o del primo o del secondo "in maniera netta e non generica". Per te, prosegui, questa domanda è "assolutamente cruciale".

Ora, carissimo, se a me toccano l’onere e l’onore di una risposta, ti rispondo subito. Anzitutto non vi è nulla di simile, nulla che si offra allo sguardo "uncompassionate", sereno e obiettivo ancorché indagatore, del ricercatore, dello studioso. Nulla. Né "in maniera netta" come tu dici, né in quella "generica". Nulla di nulla, il  vuoto pneumatico, lo zero assoluto. Ma io vorrei anzitutto onorare la tua sensatis-sima domanda iniziale, se Savinio stesso si fosse mai rivolto a un medico o se egli avesse mai arrecato un disagio tale agli altri, da costringere questi ultimi a invocare l’intervento della polizia e a richiedere un TSO, trattamento sanitario obbligatorio, per il nostro malcapitato amico. Nulla di nulla, caro Giovanni, nessuna delle due ipotesi, cornua duo, è quella giusta. L’asino di Buridano continuerà, davanti ai due mucchi di biada che tu gli ammannisci, a restare perplesso e indeciso. Morirà di inedia, poverino. Perché Savinio, se le condizioni sono quelle da te poste sono proprio quelle, e non altre, è perfettamente lucido e sano di mente. No, caro Giovanni, Savinio non è affatto un matto.
 

Non è un matto se con questo insultante e offensivo termine noi definiamo le condizioni al contorno da te poste inizialmente. Lo è, invece, o potrebbe esserlo, se il quadro nosologico della follia fosse da te tratteggiato in termini più laschi, più morbidi, meno netti e meno esasperati. Meno estremi e meno rigorosi. Se il disturbo psichico può manifestarsi anche in assenza di un disturbo palese e aperto cagionato alla collettività, se esso può sussistere anche senza che il malato invochi l’assistenza di un medico specialista (cosa a quel tempo non facile: se Mahler, Svevo e Joyce lo fecero, essi restano comunque – io credo – delle mosche bianche, dei casi isolati, non pensi?), allora possono, io credo, darsi nella storia del pensiero e dell’arte infiniti esempi di arte per così dire "disturbata" o borderline (penso alla collezione Prinzhorn e a tutta quanta l’art brut). Proust, per esempio. Nessuno ne mette in dubbio la nevrotica originalità. Ma il colto e sofisticato Marcel non mi risulta abbia mai fatto né male a una mosca né si sia mai rivolto a Jean–Martin Charcot, per quanto io sappia. Il padre di Marcel lavorava alla Salpetrière, dove Charcot era primario, questo è vero. Ma non risulta che vi sia mai stata una conoscenza diretta, dettata da motivi clinicamente accertati. Tutto questo per dirti, caro Giovanni, che forse le maglie della tua rete, rete invidiabilmente tessuta, bella e sicura e te-nace, siano forse un po’ troppo strette e anguste. Non pensi che almeno un pic-colo importo di "disagio" psichico possa avere minato la stabilità nervosa ed emo-tiva di più di un artista, in passato come anche nel presente? E  – senza per questo voler essere seguaci di Cesare Lombroso o di Max Nordau, ci mancherebbe altro – qualche opera d’arte del passato (e del presente, aggiungo) abbia in qualche misura risentito di questo "disagio"? In questo senso io definirei Savinio un malato, ma non certo un malato psicotico grave come potrebbe esserlo, faccio per dire, il sanguinario Jack Nicholson di Shining, piuttosto invece un individuo nevrotico, ecco, mi viene in mente il solito e abusato Zeno Cosini per farti il primo nome che mi passa per la testa.

L’autismo, quello del quale io faccio una questione solo apparentemente di vita e di morte nel mio libro, non è affatto l’autismo di certi sfortunati ragazzi dei quali riferiscono le cartelle cliniche, pazienti seriamente incapaci di relazionarsi col mondo e con se stessi. La mia è –  lo confesso –  un’esagerazione voluta, una benevola (te lo assicuro) provocazione. Anch’io come te ammiro ed amo Savinio. Ho la sua Enciclopedia –  un benedetto e virtuoso coacervo di pensieri e ragionamenti di grandissima levatura, un florilegio che da solo vale, io credo, l’immortalità e la collocazione nel Pantheon dei grandi scrittori e pensatori –  perennemente in mo-stra sul mio tavolino da notte, da esso attingo spesso, caro Giovanni, inediti motivi di riflessione. Come potrei non amare profondamente il mio e nostro Savinio?
[...]       
C. A. L.


Bisticci giocosi
Con umana dolcezza autunno mi consuma
Chateau Noir
Vagabondaggi della luna
Figurazioni per tromba e trombone


13 agosto 2011

[…]
 

Ho trascorso una settimana in Liguria, nella piccola casa – un refugium alla foggia dei nostri progenitori Latini – prospiciente il Tirreno. Vi ho ascoltato, nei giorni scorso, il contenuto del bel Cd che tu hai avuto la grande bontà e cortesia di farmi avere tempo fa (ti scrissi che l’avevo ricevuto, ma che lo avrei ascoltato – lo avrei centellinato come un buon vino francese, un Chateau Laffite del 1984).

 
La mia impressione è francamente di stupefazione e di invidia. Come può, mi chiedo, un essere umano – dopo Platone e Aristotele in antiquo, dopo Goethe in età moderna –  essere compos di uno scibile così sterminato come lo sei tu, capace di discettare ad armi pari a proposito di vasi corinzi e di anfore micenee, di sistemi temperati e di raga indiani, e poi -–  comporre anche! Come ciò sia possibile lo domanderò ai Pico della Mirandola, come te prossimo egli pure al luminoso traguardo dell’onniscienza prometeica, o – meglio ancora– a quella del sulfureo Faust. Nel caso in cui tu – Gran Maestro Templare della filosofia – avessi stretto un patto con qualche Bafometto di passaggio, cornuto o meno, claudicante o meno, provvisto o meno di zoccolo caprino e di coda, ti pregherei, caro Giovanni, di volermene cortesemente comunicare l’indirizzo o di segnalarmi, in alternativa, il passo della Clavicula col quale invocarne la presenza e l’assistenza.

 
Forse lui, il diavolaccio, mi regalerà un pizzico di scienza e di cognizione, o di discernimento come solevano dire i vecchi padri spirituali, così come egli ha fatto, io suppongo, con te.

 
Tutta la musica da te composta, se non è destinata a sfidare i compositori "strutturalisti" – parlo dei miei colleghi che, sulla scia di Ferneyhough, coltivano però il miraggio della complessità assoluta, non sapendo che il nostro cervello, e con essa la percezione che abbiamo dei suoni e della musica che di suoni è fatta, non è così illimitata come essi vorrebbero, o fingono di volere – , essa è però del genere dignitoso e musicalmente vivo e pulsante che informò, in passato, l’esperto "artigianato" dei miei maestri (penso alla generazione di Bettinelli, Porena, Fellegara).

 
Solo nel primo dei pezzi che mi hai inviato – Bisticci giocosi – pare avvicinarsi, a un primo ascolto, all’estetica "matematizzante" di Togni e Donatoni. Rammento di aver scritto io stesso un pezzo molto simile al tuo, fatto di bisticci, per l’appunto, giocosi.


Non so quanta, alla fine, soddisfazione questo pezzo ti abbia dato, caro Giovanni. Quanto a me, ho smesso da un pezzo di pensare, scrivere, sognare alla maniera dei nipotini di Claude Lévi–Strauss e di rileggermi i suoi Tristi Tropici. Trovo straordinariamente prenant – intrigante: catturante – il pezzo Con umana dolcezza autunno mi consuma, per due flauti, uno contralto e l’altro basso, che tu vuoi rinascimentali.

 
Il pezzo mi piace davvero tanto, lo trovo elegiaco e pieno del buon contrappunto accademico, che a me piace – tu lo sai – immensamente.

 
Del tuo sorprendente, immaginifico Chateau noir non hai allegato la partitura, solo ho letto, di esso, la presentazione (non esente da qualche fondata polemica contro gli arzigogoli di certa critica militante, di stretta osservanza pestalozziana). E ho di esso udito la registrazione. Mi pare di poter sottoscrivere il tuo esame autoscopico e di poter definire il pezzo vicino – in buona sostanza vicino – alla sensibilità empatica e descrittiva degli impressionisti, il che è assolutamente un bene, caro Giovanni, sono d’accordo con te, e non vedo, per parte mia, in ciò nulla di male (perciò tu dici che "in questa ricezione lo scatenamento dell’elemento naturale non può essere disciolto dal legame con i turbamenti degli affetti"). Nel castello che, nel racconto di Escudier, compreso nelle Cantatrices célèbres, accoglie Paganini in quella notte "buia e tempestosa", io sentirei personalmente una eco del clima fervidamente gothic – alla Lovecraft, forse ancor più alla E.A. Poe di fine Ottocento, tu che ne dici?
 

Rammento la scena delle danze del racconto La morte rossa di Poe, con le sue maschere scarlatte ed il finale e decisivo trionfo della Peste. A circa tre minuti all’inizio tu non a caso impieghi, agli archi mi pare – il sintetizzatore non rende appieno, io temo, il colore dell’orchestra – il famigerato, demoniaco intervallo di quarta eccedente. Rendi perfettamente il clima dell’attesa, caro Giovanni, e dell’attesa, aggiungerò, angosciosa.

 
Se taluno, come tu saggiamente avverti, "parlerà di pura descrizione o di imitazione estranea ai valori puramente musicali", non ti curare di loro, caro Giovanni, ma continua, invece, a comporre.


Un poco meno mi convince – te lo confesso Figurazioni per tromba e trombone. Personalmente – accogli il mio giudizio col granello di sale del proverbio, te ne prego – lo trovo una replica di Bisticci giocosi, ma con gli ottavi al posto dei sedicesimi di prima. La mia idea è, caro Giovanni, che la poetica stockhauseniana dell’infusorium –  il termine è di Adorno – possa andar bene con i valori brevissimi e con lo scorrere rapido dei suoni. In guisa di una sciame di insetti, per l’appunto, e del loro fitto e incessante brulichio. Ove si traduca la stessa idea – quella di un’omoritmia da contrappunto ritmico e melodico, strumentale ovviamente – in valori più larghi e distesi, l’effetto che ne scaturirà sarà, io penso, più vicino allo Stravinsky di mezzo, quello dell’Oedipus Rex, che non ai patres delle avanguardie novissime degli anni ‘60 e ‘70 (Bisticci giocosi me li fa rivivere, me li riporta alla memoria, non così Figurazioni). Un altro nome che mi viene, ascoltando Figurazioni, in mente è quello – potrebbe esser quello – di Paul Hindemith. Musica "oggettiva". Che è agli antipodi, perdona, caro Giovanni, la franchezza, rispetto a quella sentimentale, effusiva, leidenschaftlich, partecipata, illustrativa (nel senso più nobile del termine) di Chateau noir e di Con umana dolcezza.

 
Potresti – con mille ragioni dalla tua – replicare che ogni pezzo ha da essere un cosmo a sé e che nessun Solone ha mai, a memoria d’uomo, legiferato per impedire che un autore rincorra, in uno e stesso ambito vitale, stili e linguaggi diversi. Avresti ogni ragione. Per finire, il coro di chiusa, quello da te composto sulle stanze di Metastasio, è davvero – sul serio – molto, ma molto bello e suggestivo. La conclusione mi pare quasi wagneriana. È il suono di un mandolino quello che al trentesimo minuto della registrazione percepisco a "fiorire" il leitmotiv dato ai violini?

 
Trovo molto bello anche il tuo pezzo del 2008, Vagabondaggi della luna. Chissà perché – forse per un assai postmoderno pervertimento della memoria a lungo termine – mi viene in mente, ascoltandolo, non tanto l’idillio leopardiano del Pastore quanto il film La voce della luna col suo stralunato Roberto Benigni in cerca di una luna nel pozzo che egli non è però destinato a trovare (almeno quaggiù, sotto questo cielo e a queste inospitali latitudini). Il Pianoforte e la viola: ottimi compagni di cordata (ti ricordo che la viola fu lo strumento suonato – e maggiormente amato – dal già nominato Hindemith). Penso che mostrerò questo pezzo ai miei studenti come esempio di buon contrappunto – ma chiamiamolo, per una volta, più modestamente e meno "tecnicamente", dialogo strumentale. Da pianista posso e desidero garantirti che il tuo utilizzo del pianoforte è del tutto conforme alle regole accademiche (gli established rules, il che potrebbe non rappresentare in sé un complimento, ma che, ridetto da un posapiano come lo sono io, lo diviene, eccome, un complimento!) e a tutti i dettami della "buona creanza" strumentale. In altre parole, hai scritto proprio per pianoforte, caro Giovanni, e non, poniamo, per arpa o per ottoni.

Sono alle prese con una commissione per clarinetto, pianoforte, set di strumenti a percussione che avrà il suo battesimo del fuoco a Baltimore il 28 o 29 ottobre di quest’ anno. Sono, come puoi immaginare, immerso nel lavoro. Dalla testa ai piedi (più con la testa che coi piedi, vivaddio, il che permetterà ai miei piedi di buttar giù qualche nota a caso sulla partitura e al cervello, in seguito, di operare il necessario check sul materiale così accumulato).

 
[...]

 C. A. L.

1 settembre 2011

[…]
 

Quando ricevo da te una lettera per me è un giorno di festa! E mi chiedo quale fortuna mi ha portato ad incrociare in qualche modo il tuo cammino.

 
Anche la semplice lettura senza troppe riflessioni immediate mi affascina, e persino i gentilissimi e sfacciatissimi elogi che mi fai. A proposito della poliedricità della mia attività – che ti porta alla mente geni straordinari, nomi enormi, ed anche diavolacci – tu non hai proprio di che lamentarti. Anzi ho l’impressione che tu mi nasconda qualche attività ulteriore – oltre quella musicale e critico pittorica. Che sia anche tu un vasaio?

 
Ma veniamo alla mia fortuna. Quale fortuna infatti è avere un ascoltatore come sei tu! Paziente e generoso, nel fatto stesso che prendi in considerazione queste mie composizioni e con un ascolto attentissimo, che mostra (ma non mi sorprendo certo di questo) un orecchio micidiale. Hai trovato un ordine strutturale nei Bisticci così come nelle Figurazioni – il primo mi piace abbastanza, il secondo molto meno (condivido il tuo giudizio). Li riascolterò entrambi alla luce delle tue  osservazioni. Ma è verisissimo che sul primo come sul secondo ho giocherellato con strutture date.  Tra l’altro è un vero peccato che non prenda subito appunti su quanto vado facendo perché dopo qualche tempo tendo a dimenticarmi come sono arrivato a questo o a quel risultato – talora provando una certa meraviglia. Scherzi della tarda età... Invece sarebbe utile fissare le quattro idee che mi vengono nel comporre perché in fin dei conti questa attività compositiva la considero un poco come la continuazione di una riflessione teorica che mi ha impegnato a fondo. Da essa potrei trarre forse ancora qualche spunto di riflessione. Ma il piacere del comporre e dello sperimentare "che cosa posso fare con i suoni" supera per il momento ogni altra preoccupazione e progetto teorico. Aggiungo che quel "polistilismo" – che tu noti e che io chiamerei anche senza offesa per me stesso "eclettismo" – è naturalmente anche un risultato di questo atteggiamento.

Insomma, da musicante, continuo in realtà a fare il filosofo. Perciò è lontanissima da me l’idea di crearmi uno stile personale, ma mi piacerebbe ad es. esempio saper scrivere un onesto gregoriano, una sonata barocca, un voluntary magari non tanto per organo, ma per ottoni, per non dire dell’impiego di strumenti "etnici" di ogni sorta e di ogni paese, fino ai  corni a conchiglia dell’Oceania.

 
Non voglio però dilungarmi troppo su queste stravaganti esuberanze. Ti dirò invece che l’idea che tu possa parlare ai tuoi studenti dei Vagabondaggi della  luna  genera in me una vera e propria emozione. Se lo farai considerami emotivamente presente. A proposito di questo brano ti dirò che il fatto che proprio tu dica che che il mio utilizzo del pianoforte ha una buona scrittura pianistica è per me un complimento enorme.  Stranamente mentre tutti gli altri strumenti li guardo un po’ dall’alto al basso, del pianoforte ho un vero terrore perché mi sembra che l’esigenza di "scrivere bene" sia in qualche modo intrinseca allo strumento ed alle dieci dita del pianista. In realtà non dovrei avere questa preoccupazione né per il pianoforte né per gli altri strumenti, per il fatto che la musica che scrivo è "nativamente" computeristico–informatica anche quando chiama in qualche modo in causa strumenti tradizionali. Anzi sono convinto che il poter superare i limiti fisici e tecnici degli  strumenti tradizionali sia importantissimo per liberare l’immaginazione musicale da limiti che non sono suoi.

 
Perché il compositore si dovrebbe preoccupare dei punti in cui un flautista può tirare il fiato? Debbo dirti che l’unica osservazione che mi è stata fatta da un musicista all’ascolto di Con umana dolcezza è che mancavano i punti in cui si sarebbe potuto tirare il fiato.  Siamo ancora a questo punto! Con tutte le parole sprecate sulla autonomia e creatività dell’interprete, si assume che egli sia tanto imbecille da non sapere scegliere il punto in cui può onestamente tirare il fiato senza guasti per l’andamento del brano.  Ma qui si potrebbe aprire un discorso che potrebbe diventare troppo lungo e che mi riservo di fare a voce quando verrai qui, magari "giocosamente bisticciando".

 
Quante cose vorrei ancora dire, e come non ti vorrei annoiare! Quanto tu dici sullo Chateau è molto bello, molto giusto – l’atmosfera è quella gothic – senz’altro. Nel castello sono stato tentato da un valzer inquietante – ma l’esempio di Ravel mi ha convinto che non era il caso nemmeno di provarci.  Quanto tu dici sul coro mi rassicura moltissimo. Scrivere per coro mi sembra tanto difficile quanto scrivere per pianoforte. In certo senso, con il coro non si può barare. Non puoi fare virtuosismi, non hai a disposizione una varietà timbrica impressiva ecc. – anche qui vi sarebbero da parte mia molte cose da sperimentare. E sento sempre più abbreviarsi il mio tempo! Un piccolo dettaglio in risposta alla tua domanda: nel finale di Chateau tutto occupato dal sesto capriccio di Paganini lo strumento di accompagnamento è ancora il sintetizzatore. Ho voluto separare le due parti in questo modo perché anche le esecuzioni più eccelse di quel capriccio non riescono a far "cantare" la melodia in un modo così pregnante. Le dita della mano sinistra sono tutte impegnatissime, e soprattutto l’arco non può dare evidenza alla melodia senza esasperare indebitamente il tremito armonico che la accompagna.


Accetta i miei ringraziamenti come se non finissero mai. E nello stesso tempo ti auguro di poter svolgere serenamente il tuo nuovo pezzo di Baltimora il cui insieme – clarinetto, pianoforte, percussioni – mi sembra già bellissimo. Attendo di ascoltarlo. Mi piace anche il finale scherzoso, ma anche in fondo molto serio, della tua lettera a proposito dei piedi e della testa. A me sembra che i piedi servano molto per mettersi in cammino e la testa per giungere ad una meta.
 

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G. P.


2012


Quintetto per due violini, due violoncelli e pianoforte


17 maggio 2012

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Sto ascoltando il tuo Quintetto e mi piace molto, così come mi piace l’idea che tu stia ora intensificando la tua attività di compositore. Avverto come una potente congruenza stilistica all’interno del pezzo – che è davvero un peccato non poter ascoltare dal vivo, eseguito da strumenti acustici, e doversi accontentare della resa sonora virtuale, resa per me insopportabile, ti confesso, di una library di suoni – e poco importa che a 50” giunga un accordo maggiore, una triade perfetta, in sé congrua ma un po’ meno nel contesto atonale del brano, a richiamarmi alla realtà.

Le sezioni in cui il pezzo è diviso sono chiare, e questa clarté mi attrae e mi stringe in un abbraccio tassonomico che purtroppo la world music ha distrutto (quanti articoli e saggi Quirino Principe ha dedicato all’argomento!). La parte mediana, lenta, intorno a 5”, è dolorosa ma di un dolore estenuato e cristallizzato intorno a una polarità armonica triadica (v. l’intervallo di terza minore a 5’50”) che smentisce, in qualche modo, se stesso, facendo del cordoglio un elemento esteriore, slatentizzato, tradotto in pura forma. Ecco, caro Giovanni, forma. La parola-chiave per leggere il tuo pezzo, credo. Così vicino, credo, ma posso naturalmente ingannarmi, al formalismo (che nelle mie intenzioni è un vivace e sincero complimento, non un’offesa: peccato che per significare una spiccata attenzione alla forma non esista, in alternativa alla perifrasi, che il brutto, inefficace, menzognero termine formalismo) di un Malevitch, di un Lissitsky, di un Hindemith.

Ecco, ascoltando il tuo pezzo io vado alla ricerca (e mi pare di ritrovarla fra le righe) di un’oggettività perduta. Al tempo stesso, avverto la potenza fabulare, ammaliatrice, del gioco. Una vocina, sempre fra le righe, mi avverte che tutto è gioco, tutto è puro godimento, e che tutto al mondo è – burla! Falstaff! Ecco, caro Giovanni, io non so se credere o meno all’amico filosofo-compositore che in parte (la sua parte filosofica lo esige) ricerca la verità (il formalismo hindemithiano, alieno da indebita passione, è glaciale, adamantina verità come lo è il monolite di Kubrick – spaventoso ma luciferino, ossia apportatore di luce e di verità); e che in parte però smentisce tale verità irridendo a ciò che egli ha appena scovato: a 10’05” il pianoforte par che si diverta, a 10’45” lo fa il violino. Ma perché questi strumenti si divertono, come è possibile giocare con il fuoco e non bruciarsi? Questa la sola incongruità che io ti chiederei, se un giorno ne avrai il tempo e la voglia, di dirimere per il tuo amico lontano. Così come io non mi spiego – se non nei termini di un gioco, di uno sberleffo finale, da commedia dell’arte, da Pulcinella (ricordi l’osceno Pulcinella che, in Morte a Venezia, torna sui suoi passi, dopo avere intascato complimenti e mance, per fare una sonora pernacchia alla volta degli ospiti del Grand Hotel?) – le finali e conclusive battute del pianoforte.

Come per me, anche per te io credo che la creatività musicale rappresenti qualcosa di auto-terapeutico. Ma, se tu fossi chiamato a confrontarti pubblica-mente, poni in un pubblico dibattito, col problema della forma, ammetteresti forse a quel punto che qua e là – come nelle battute finali, come nell’accordo maggiore del pianoforte a 50” – vi sono delle invisibili scollature. Quelle che il fisico descrive col termine singolarità per il fatto di non saperne, in realtà, spiegare né la natura né la funzione. Franco Donatoni, se ancora fosse vivo e ascoltasse il tuo Quintetto, avrebbe forse da ridire sullo scarso rigore che applichi al tuo materiale, mentre un apologeta del postmoderno – loderebbe proprio questo cedimento, a volte, del rigore costruttivo a fronte di un’Empfindung più personale ed espressiva.

 
Gli apostoli della modernità, i soloni unici interpreti autorizzati del verbo weberniano forse inorridirebbero. Altri no, ed io fra questi, ammettendo che non una musica esista, ma tante musiche, ciascuna di esse applicandosi – penso in que-sto caso alla musica humana di Boezio – alla realtà estrinseca delle cose, al pràgma, al vivente. Tot capita, tot naturae sonoris. Può essere, te lo chiedo, caro Giovanni, può essere che tu sia almeno in parte, in piccola parte, d’accordo con me? Ma ormai ho scritto troppo e temo, caro Giovanni, che tu abbia confuso – mea culpa! – la mia lunga tirata con una critica, mentre tutt’altro essa voleva essere.
 

[…]  

C.A.L.


17 giugno 2012

[…]

 
Dopo aver letto e riletto la tua lettera, ho riascoltato più volte il Quintetto  e trovo tu colga nel segno soprattutto nel ritrovare una matrice classica, una forma  e tra l’altro pensavo all’inizio di realizzare quattro tempi e non tre; l’inizio dell’ultimo tempo attuale mi sembra tuttora un ottimo inizio per uno “scherzo”  (sono anche tentato di riprenderlo e di realizzarlo, ma probabilmente non lo farò perché sono contrario a tornare sul già fatto, temendo di peggiorare le cose anziché migliorarle). Dico questo perché conferma alcune delle tue impressioni sull’elemento giocoso e da commedia dell’arte. Ciononostante vorrei sottolineare che questi momenti di distensione erano per me inserti “catartici” rispetto ad un contesto generale a tratti mesto, a tratti drammatico. Questa catarsi la sento come una risposta ad una dimensione drammatica. Così io avverto come profondamente drammatici i “giochi” del pianoforte e del violino tra 10’5” e 10’45”,  ma forse quando dici che con questi giochi ci si può bruciare credo che il tuo modo di ascoltare non sia molto diverso dal mio. Non mi sembra tuttavia di poter concordare sulle tue osservazioni sul finale pianistico del brano che mi appare come una chiusura su un dignitoso silenzio. E tra gli apostoli della modernità e gli apologeti del postmoderno in generale preferisco i primi ai secondi –  ma senza enfasi. E concordo pienamente con te sul fatto che non vi è una musica, ma tante –  molte di più di quanto creda ciascuno nel suo angolino…   
 

[…]  

G.P.


2013


 

Il fiore che restando passa



27 gennaio 2013

[...]

 
Il pezzo Il fiore che restando passa è davvero struggente. Raro caso di brano musicale al quale occorre il viatico di una spiegazione.

Bella l’antifrasi a chiasmo, in quanto il senso del testo goethiano mi pare quello di un fiore che, pur passando, resta. Mentre il tuo fiore, pur restando, passa. So perfettamente a chi e a che cosa ti riferisci, caro Giovanni, ma sei proprio così sicuro che tu non stia vedendo il bicchiere mezzo vuoto mentre in realtà esso è per metà pieno? Ritieni sul serio che il ricordo di Marina non possa "essere" quand’anche materialmente la tua amata compagna non sia più, o non sia più nelle forme con cui tu la ricordi in vita? Non so. La materia è così delicata, caro Giovanni, che mi imbarazza sul serio parlarne. E soprattutto con te, che sei l’autore innocente (gli autori sono sempre innocenti) del brano che ho ascoltato.

Il brano si presterebbe a essere discusso, caro Giovanni. Il sentimento lo permea così come fa l’acqua che intride una spugna, e la rende pesante, la fa pesare dei chilogrammi mentre prima, ancora asciutta, essa pesava poche decine di gram-mi appena. Il tuo sentimento trascina verso la pesantezza del dolore tutto il tuo materiale, che acquista la matericità del magma, della lava rappresa ma ancora bollente. Fatico a dare un giudizio, perché questo non può e non deve essere solo tecnico, nudamente e crudamente tecnico, ma deve rapportarsi per un buon cinquanta per cento, mi pare, alla vis espressiva che lo anima, che lo ha originato, che ne giustifica il tratto davvero scabro e funereo. La prima reminiscenza è quella del cantum planum dei monaci di Solesmes. Puro canto gregoriano. Anche quando – già da subito – il tuo pezzo da monodico si fa bicinium, canto a due voci.

Mi chiedi una personale sensazione? Un pezzo di un impegno e di una gravità inauditi. Non credo possa mai esser fatto in concerto, così come io l’ho ascoltato. Il primo paragone è con talune cose di Arvo Paert, ma in genere il nostro furbo Estone è assai attento a sfiorare le corde superiori del cuore, quelle acute, più vicine ai colori celestiali degli archi anche quando impegna il coro (lo fa con la tecnica dei battimenti, come tu sai). No, qui io non sento il Preludio al Lohengrin, che reca un messaggio di salvezza, il kèrygma degli iniziati, il profumo del Graal. No, qui avverto molto il tanfo del muschio che ricopre le catacombe laurentine, caro Giovanni, qui avverto l’umidore dei vecchi cimiteri sconsacrati dei racconti gothic di Poe e Lovecraft. Sento un disfacimento della carne e dello stesso sentire che può, a tratti, urtare. Ma tralascio di riferirti le mie personali sensazioni, ché nulla a te direbbero di utile, o di sensato. Devo invece constatare la profonda musicalità, verità, sincerità della tua scrittura.
 

[...]  

C. A. L.

29 gennaio 2013

[...]
Come non esserti grato di aver subito ritirato il mio coro e soprattutto di averlo immediatamente ascoltato! So per esperienza che questi arrivi – si tratti di un brano musicale, di un libro, di un articolo – non possono che essere intrusioni inattese dentro i tuoi impegni e pensieri quotidiani: magari pensi a tutt’altro, e c’è qualcuno che dice: no! devi pensare a questo! E per di più tu mi rispondi con il tuo stile di sempre, che a me piace moltissimo: una mistura di serietà, di provocazione e di ironia!

Sulla base di quanto tu dici e sulle tue impressioni del brano, mi sembra che tu lo consideri riuscito – ed io sono contento di ciò perché è la prima volta che scrivo per coro con testo, ed ho scoperto nello scriverlo un sacco di cose interessanti. Poi ho ceduto un po’ di spazio alla filosofia... che vuoi farci! Sono le mie radici. Non so se sia giusto dire che al brano musicale "occorra il viatico di una spiegazione". È possibile che tu abbia ragione di dire che in questo caso occorre: altrimenti quel senso "concettuale" che io ho pensato fosse comprensibile musicalmente, forse non sarebbe comprensibile affatto, perché nascosto nel ribaltamento dal ricordo all’oblio. Inoltre esso non è mai reso esplicito nel testo. Eppure mi sembra che musicalmente venga espresso il fatto che l’appello al "non ti scordar di me" sia un appello ambiguo, e alla fine possa essere pieno di disperazione.

A questo proposito aggiungerò qualcosa che sai benissimo: anche se l’affettività reale conta nella creatività in genere, tuttavia non è poi su quella che si gioca realmente la creazione. Come potrebbe infatti quell’affettività avere un qualche senso per l’ascoltatore? Forse questo elemento ha contato per me, nell’attività del comporre, ma questa circostanza non è in discussione. Appunto: sono cose che sai – forse la tua lettera è doppia: è una lettera di un musicista ed è una lettera di un amico. Tutte e due le cose mi fanno piacere.

Peraltro se io assumessi la parte del critico musicale (ma me ne guardo bene) in parte direi le cose che ho detto poco fa, in parte le cose che hai detto tu – e poi aggiungerei anche che, oltre tutto questo, io sento fortissimo – nonostante i toni malinconici e struggenti – anche l’alito potente della vita, lo sento nei colori evocati dai fiori, lo sento nelle loro profferte d’amore, lo sento nel "teneramente" della viola –   si intende, naturalmente, del fiore –  anzi nel nome stesso della viola ripetuto più volte distintamente e "monodicamente" all’interno di un impasto polifonico, e lo sento nella passionalità delle voci maschili. 

Quante cose possono esserci in un piccolo e modesto brano come il mio! E ti dirò che mentre lo componevo gioivo della gioia stessa di riuscire a ricominciare a  comporre, e mi auguro di poter continuare...  e dunque anche di fare nei tuoi confronti qualche altra (prudente) intrusione.
 

[... ]  

G. P.


 

   Exercises in Style

   

 

 


1.12. 2013

[...]

 
Ed ora veniamo alla tua musica, che tanto cortesemente mi hai mandato a suo tempo (quanti giorno sono passati? Non lo so!) e che io ho ricevuto con molta felicità ed ascoltato e riascoltato. Sono però un po’ imbarazzato nel parlartene, perché ho sempre difficoltà nel mettermi in qualche modo nei panni del "critico". Ho letto poi solo ora la tua splendida autopresentazione, così ricca di humour e così piena di pensieri.  Ne sono molto impressionato ma naturalmente conoscevo da tempo questo lato della tua personalità.


I brani? Tu mi inviti a sbranarli. Non sia mai! Certo qualche dubbio c’è, e te lo dico spassionatamente. Il primo pezzo per pianoforte e flauto è molto gradevole all’ascolto ed è forse (mi sbaglierò) il più "retro". Anche  le Trois Plaisanteries le ho trovate molto gradevoli. La Fantasia cromatica mi sembra un pezzo di bravura. Io ho però come tu sai, ho un apprezzamento particolare per i fiati scoppiettanti, e qui non scoppietta nulla. Mi piace non tanto l’impasto timbrico che rischia sempre di "impastarsi", quanto piuttosto i guizzi e i lazzi delle voci, le sorprese, le ritmiche alla Stravinsky ecc. ecc.

 
Splendido il Tema e variazioni per chitarra. Lo ho trovato fortemente rispondente al mio stato d’animo attuale – insomma: meditativo e malinconico, ma dolcemente abbandonato nei suoi pensieri. Talvolta mi ha fatto pensare ad un ambiente fiammingo con una grande culla di legno e la madre con la cuffietta che suona la chitarra. Penso anche che il pezzo sia particolarmente adatto al liuto.
 

Il pezzo per pianoforte successivo che chiude il CD, all’inizio gli assomiglia un poco, ma poi cambia tutto. Ha dei passaggi preziosi, ma sento una sorta di discorso infinito, cioè che potrebbe  non finire mai. Anche qui sento una certa (voluta)  carenza ritmica... mi permetti di dire simili corbellerie?
 

[…]  

G. P.


1.12. 2013

[…]
 

Grazie per quanto tu mi scrivi riguardo al mio cd. Del ritmo potremmo parlare per giorni, mesi, anni. Esistono diversi livelli di ritmo, o di piede metrico, o di pulsazione, non v’è solo quello palese della battuta, dell’arsi e della tesi, vi sono ritmi anche più sotterranei, che uno non avverte subito (uno, ma solo uno, è quello che i compositori definiscono il "ritmo armonico"). Allevi in un’intervista ha affermato che nelle canzoni di Jovanotti c’è più ritmo che in un pezzo di Beethoven. Poveretto lui. Come lo compatisco. Sinceramente mi muovono a pietà le sue osservazioni pretestuose, pretenziose, presuntuose.
 

Per quanto riguarda il tuo giudizio sul mio quintetto, concordo pienamente. Ma il ritmo che manca nel primo dei due pezzi c’è, credo, nel secondo, la Fuga (che è scoppiettante e piena di vita, come tu dici). Il pezzo per chitarra che a te è piaciuto io lo considero un mero esercizio di stile.

 
Quello che a me – personalmente – non dispiace è l’ultimo, e proprio per la qualità che a te sembra non piacere, quella del "discorso infinito". Sto, caro Giovanni, lavorando alla Sonata per pianoforte più lunga mai scritta. E leggendo gli scritti teorici di Louis Isidore Kahn, l’architetto dell’arte monumentale. E’ autoevidente, mio caro Giovanni, che ove esistano delle superfici amplissime da edificare, e delle durate estesissime da riempire musicalmente, anche l’idea, la percezione stessa del tempo, del discorso, della retorica di un’eloquenza epidittica, quella di una logica musicale classica, dimostrativa, funzionale, vengono ipso facto a cadere, a cessare, o ad esserne cambiati e riformulati (a doverne risultare cambiati e riformulati, o da cambiarsi e da riformularsi in base alle circostanze mutate) radicalmente. Pertanto, sono felice, mio carissimo Giovanni, di .... non condividere almeno questo con te.  

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C. A. L.


                                                                          2014


18 giugno 2014

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Mi sto trasferendo a Roma, nel Parco di Veio. Non posso ancora dire di essere a metà del guado, ma vi sono abbastanza vicino. La casa è relativamente impacchettata - con fatica improba e con la sensazione di disfare non solo la casa e il periodo calabrese ma anche di spezzettare, raccogliendo poi disordinatamente tutta la mia vita.  Ogni tanto mi dico: devo aver fatto uno strano sogno - sì, quel luogo comune della "vita come sogno" in questi tempi lo ho spesso sentito come una cosa seria, mentre questo in precedenza non mi era mai accaduto. D'accordo. Continuerò a sognare ancora un poco. Ma soprattutto vorrei in effetti riprendere me stesso e le attività di una volta, che mi sembrano lontanissime. A proposito di lontananze, lo sai che ho scritto un (secondo) articolo su Storia e coscienza di classe (oggi!). Me lo ha chiesto una collega, io prima ho risposto che mi sembrano cose accadute un milione di anni fa, poi bizzarramente ho detto di sì e ne è venuto fuori uno scritto abbastanza singolare. Tuttavia di qui in avanti la musica avrà il primo posto, spero!, ma non posso esserne troppo sicuro perché ho dimenticato (quasi) tutto.  Inutile dire che insisterò - se mi ritorna la memoria - sulle sonorità campionate e sintetizzate.

In ogni caso una delle cose che desidero di più è averti mio ospite a Roma - e non credere di cavartela in un paio d'ore! Perciò dovrai scegliere un periodo di assoluta inattività. Dobbiamo litigare su alcune cose particolarmente a lungo, anche se, se per ragioni di fatto e di principio, ti assegno fin d'ora, nelle nostre discussioni future, la palma della vittoria.  Naturalmente pazienterò altri dieci-quindici anni, perché questa attesa è di buon auspicio. Ma se ti è possibile forse è il caso di affrettare un poco il progetto.

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 G. P.

22 giugno 2014

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In effetti, lo stare a Roma permette ai tuoi amici di venirti a trovare più di quanto non lo consenta loro il tuo personale e volontario esilio in terra calabra. Roma è indubbiamente più vicina al Nord di Cosenza ed è rispetto a Sangineto molto più raggiungibile. Il buen retiro calabro può andar bene quando si è in due, quando si è in tre, quando uno "tiene famiglia". Più difficile è sopportare l'isolamento - quello fisico, geografico - quando si è un poco più soli.

Vivere è la cosa più difficile, e non sono Boezio o Camus a dirlo, sono i fatti a dimostrarlo, i fatti e non la speculazione dei filosofi. Sei d'accordo? Aggiungerò: non solo la vita in sé è difficile, ma lo è in pari misura il tentativo di comunicare coi nostri simili. Tutti, chi più e chi meno, abbiamo bisogno di amore. E' il modo di trattare questa via privilegiata di effusione del sentimento, è il modo a variare di caso in caso, è il modo a lasciarci talora perplessi, incapaci di dire e di fare la cosa giusta. Vedo un film - qualunque - di Antonioni in cui un Marcello Mastroianni come un pesce in salamoia non sa spiccicare parola per l'imbarazzo. E riconosco me stesso e l'intera categoria degli artisti, il cui autismo sociale è in proporzione diretta alla loro bravura. Non so in quale misura tu sia o meno d'accordo con questo punto di vista.

A proposito, caro Giovanni, di artisti: come sta andando la composizione? Ti riesce di dedicare una mezz'ora al giorno a questa maledetta attività, maledetta perché prediletta dal diavolo? E continui anche nella tua attività di potier, di vasaio? Prosegui nel modellare la tua argilla così come il Creatore modellò, temporibus illis, la prima coppia di umani traendola dal fango della terra, dalla mota immota? Mi scrivi di "sonorità campionate" ma nulla tu mi racconti del pensiero che sta alla base delle tue composizioni. Dopo Debussy, come Shiva distruttore di forme musicali, doveva pur venire Webern il ricostruttore. Non credo, te lo confesso, che un brano possa vivere solo e unicamente in virtù delle "sonorità" esibite, ossia del parametro timbro. Che cosa ne pensi?
 

Da oggi sarò per 5-6 giorni in Liguria a rivedere delle bozze e a correggere la mia Sonata n. 5 per pianoforte, un brano-monstre al quale sto lavorando, come forse io ti avevo già accennato, da qualcosa come 5 anni.

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 C.A.L.

 



Carlo Alessandro Landini

La quinta sonata per pianoforte

 





12 luglio 2014

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Sono al momento al mare, ovviamente poco impegnato a fare bagni, e molto, invece, a rivedere le bozze della mia prossima Sonata e il libro di prossima edizione.

Caro Giovanni, oso confidarti un segreto. Dopo aver assistito alla telecronaca dell'incontro calcistico fra Brasile e Germania, sono stato preso da incontenibile raptus e, unendo la mia indignazione per l'isteria collettiva degli stadi brasiliani alle mie, da tempo, coltivate ambizioni "monumentali" – non in qualità  di architetto ma di compositore, come tu puoi ben immaginare – ho buttato giù 15 pagine abbastanza ignobili,, piene di strafalcioni filosofici e di stranezze logiche come potrebbe solamente esserlo un grasso tacchino sotto le feste, farcito di pinoli, pane e salame. Si tratta di pagine che tu mi segnerai con la matita rossa dalla prima parola all'ultima, e massime quelle in cui oso proferire alcuni nomi di filosofi a te cari. Mi dirai che sono impazzito: povero Carlo, tu commenterai scotendo il capo, il clima freddo di questa estate così insolitamente piovosa gli ha dato alla testa. Hai ragione, caro Giovanni. Ma da tempo mi ronza in capo l'idea di provvedere di un backup filosofico, o semplicemente di indirizzo, di pensiero, di opinione (la vituperata doxa), il mio prossimo parto musicale. Che dovrò in qualche modo giustificare, essendo per esso prevista una durata di 5 ore.

Caro Giovanni, avrei pensato a una sorta di manifesto dedicato all'Italia, alla povera Italia di questi anni così vuoti, così inermi, così scarni, anni di vacche magre e di talenti latitanti. E alla necessità  di ridar fiato all'idea di un'arte monumentale, sovradimensionata (così da essere visibile) e nobile (così da servire da esempio per le schiere di giovani nullafacenti che riempiono gli stadi quando non le balere di periferia). Non lo nego: si tratta di un disegno all'apparenza conservatore. Ellenistico, nel suo genere, alessandrino per la precisione (da qui le mie frequenti allusioni allo Pseudo-Longino e a Burke!). Non volermene per questo. Vi ricorrono gros-mots come "valori", come "sublime", come "nobile".... termini forse obsoleti, ma coi quali io mi sentirei di condire una pietanza a base di arte, di cultura, di rinnovamento spirituale. Avresti tu voglia – la pazienza – di esaminare le mie 15 pagine e poi di dirmi dove a tuo parere sbaglio e dove invece "ci azzecco"(sempre che tu possa trovare una riga o due valide a tal fine?).

Se possibile, caro Giovanni, io mi servirei del mio scritto per farne una sorta di personale manifesto, ma anche di manifesto aperto agli amici (ne conosco qualcuno dedito all'arte cosiddetta monumentale, penso al pittore bulgaro Alzek Misheff).  Avrei l'ardire non solo di sottoporti il mio scritto, se tu sei d'accordo, ma anche di chiederti se tu ritenga che vi sia in esso qualcosa di buono, se esso possa o meno servire ai miei scopi, se io debba vergognarmene, se in esso siano contenuti più o meno di mille strafalcioni imperdonabili, e – se accetterai di dargli un'occhiata – io ti domanderei anche, orrore! di dirmi qualcosa in tempi ragionevolmente brevi, cosicchè io possa pensare ad elaborarlo, a correggerlo, a "editarlo"(o semplicemente a gettarlo nella pattumiera di casa). Sarai il solo e il primo e per il momento l'unico ad averlo tra le mani. Te lo sottoporrei così come si sottopone un ghirigoro al grande pittore amico di famiglia, al grande poeta vicino di casa, al musicista famoso che è nostro amico e al quale facciamo udire una melodia semplice semplice al pianoforte.

Mi consolo pensando a due cose: primo, alle sciocchezze scritte da Wagner, amante degli scritti teorici e dei manifesti ma assai poco, in fondo, capace di argomentare e di discutere "alla maniera di Nietzsche" una volta messo alle strette da quest'ultimo. Quando un artista scrive, gli si perdona tutto, anche le incongruenze e gli strafalcioni eventuali. Secondo, al fatto che io ti chiederei di leggere il mio scartafaccio immondo non già  – Dio me ne scampi! – con lo sguardo arcigno del docente universitario o del filosofo accademico, ma solo e unicamente con il sorriso beffardo e benevolo dell'artista, dell'amante dell'arte e dell'amico. Soprattutto dell'amico.

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 C.A.L

13 luglio 2014  

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Ed ora vengo alla tua ultima lettera - è un capolavoro di autolesionismo, di autocalunnia, di autonegazione, di autodenigrazione, di autodistruzione... che per di più arriva a calunniare i musicisti in genere come scrittori e pensatori - addirittura Wagner, e perché no il grandissimo Liszt?

Ho il sospetto che si tratti di un trucco maligno da te escogitato per eccitare la mia curiosità, che è andata in effetti progressivamente crescendo man mano che procedeva la lettura. Quindi mandami tutto quello che vuoi ed io in effetti sarò sincero nei miei commenti, che tu già ipotizzi estremamamente aspri. Già fin d'ora ti dirò che il proposito di scrivere un brano musicale della durata di cinque ore (se ho ben capito, e non si tratta di un melodramma!) mi sembra denunci un leggero squilibrio - leggerissimo, per carità. A meno che il suo scopo non sia solo ed esclusivamente quello di entrare nel Guinness dei primati. Il fatto è che la capacità di ascolto dell'ascoltatore medio non supera di molto i cinque minuti, anche se può nel caso migliore arrivare persino a 7-8 minuti. Ora, io credo che anche un carissimo amico abbia qualche esitazione nell'approccio ad un simile brano musicale - e comunque sono assolutamente certo che ad un certo punto si allontanerà dalla sala per andarsi a mangiare un panino. Oppure potrebbe accadere, se l'ascolto è da disco, che l'asoltatore volenteroso lo interrompa di tanto in tanto per concedersi una pausa e tornare all'ascolto con rinnovato vigore - intenzione più che lodevole! Ma l'effetto sarà magari quello di fare durare il pezzo otto ore, anziché cinque - un'intera giornata lavorativa, che qualche sindacalizzato potrebbe pretendere che sia rimborsata. Insomma sono un poco preoccupato intanto di questo aspetto.
 

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 G.P.

14 luglio 2014  

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Per quanto riguarda il minutaggio del mio pezzo, la durata della mia Sonata n. 5, solo la distanza (geografica, chilometrica) tra noi spiega il tuo (giusto, legittimo, giustificato, comprensibilissimo) stupore, in quanto al pezzo io lavoro ormai da 6 anni. L'ho terminato il 31 gennaio 2011 e da allora è nelle mani di un esperto copista di Modena che sta pazientemente, come un certosino, ricopiando tutte le 630 pagine della partitura. Dal febbraio 2011 sto rivedendo  pedali, fraseggio, metronomi, espressioni, agogica, dinamiche, altre cose – tutto il lungo pezzo, porzione per porzione, brano per brano, tranche par tranche. Se tu ed io avessimo parlato a voce, come sarebbe stato bello che avvenisse, se tu ed io ci fossimo incontrati, il tuo stupore sarebbe stato diminuito da taluni tentativi di spiegazione che io ti avrei provvisto, caro Giovanni. Se solo io avessi potuto accettare, come io in realtà  avrei desiderato, il tuo invito a venirti a trovare a Sangineto, avremmo potuto parlare anche di questo: della "grande forma". E del fatto che in Italia un culto, o anche solo un'accettazione, della "grande forma", della forma cosiddetta monumentale, è sempre – e da sempre – mancata. Preferire le cabalette rossiniane e le cavatinne verdiane alla Durchfuehrung wagneriana è, ai miei occhi, solo un sintomo, la spia di un disagio che riposa su un'anteriore, italica incapacità  di dedicarsi alla distensio cordis del tempo, così come sant'Agostino lo definì.

Già  la mia Prima (risalente agli anni '80, composta a Parigi, eseguita colà  nel marzo 1981) e la mia Seconda Sonata (del 1994, se la memoria dei vecchi non mi inganna) erano dei record assoluti di durata. La Seconda entrò mio malgrado nel Guinness. La solita domanda postami allora dai media fu la più sciocca immaginabile, e cioè se io avessi apposta scritto un pezzo così lungo per rientrare fra i primati del Guinness Book, domanda in sé alquanto demente e involontariamente insultante (ma postami sempre in buona fede, così da scusare sempre l'interlocutore di turno), come se uno fosse seriamente disposto a trascorrere parte della propria vita rinunziando a svaghi, a vacanze, ad altre cose più interessanti e più remunerative, all'amore e al denaro, solo per inseguire il breve, effimero battito d'ali di una citazione su una pagina stampata che l'anno successivo non sarà  più comunque la stessa. No. La spiegazione vera l'hai detta tu, e si tratta della spiegazione più dolorosa, più giusta, più sensata, una spiegazione che tocca corde private, corde protese all'autoreplicazione e all'annientamento in nome dell'iterazione, della freudiana pulsione di morte, dell'organico che decade a materia vile, inorganica, attraverso la ripetizione (Derrida!) ebete e un po' schizofrenica.

Giustamente nel booklet di accompagnamento al cd della mia Seconda Sonata l'amico Francesco Leprino non si peritò di parlare di un tentativo di autoterapia. Ma non fu tale, caro Giovanni, quella di Proust? Sempre che liceat parva, non è forse tutta la Recherche tutta il prodotto "squilibrato" (adopero il tuo stesso termine) di un disagio, di una malaise? Lo fu senz'altro. Dovrei chiederne conto al mio amico Giovanni Raboni, che di Proust sapeva tutto, ma davvero proprio tutto, avendolo tradotto dalla prima parola all'ultima. Ma lui non è più qui tra noi, purtroppo.

Hai perfettamente ragione quando scrivi che "la capacità  di ascolto dell'ascoltatore medio non supera di molto i cinque minuti" e che essa "può nel caso migliore arrivare persino a 7-8 minuti". Nel caso del Preludio al Tristano arriviamo a 13 minuti, intensissimi, godibilissimi, imperdibili. Ebbene sì, le modalità  di fruizione del mio lungo, estenuante pezzo saranno, nelle mie intenzioni, precisamente quelle che hai detto tu. Dal vivo, si uscirà  dalla sala a mangiare un panino e a bere un goccio d'acqua (meglio ancora di vino, date le proprietà  anestetiche e vagamente psicotrope di quest'ultimo). Mentre ascoltando il cd – anzi la serie di cd, dato che ce ne vorranno almeno 3 – si potrà  tranqquillamente spegnere e riaccendere l'apparecchio. Non mi offende affatto, caro Giovanni, che tu lo pensi e me lo abbia scritto, al contrario: avevo pensato letteralmente a quanto tu mi scrivi, esattamente a ciò che mi hai prospettato.

Ricordiamo che l'opera lirica tutta, fino a Bayreuth, prevedeva – ne parla anche Charles Burney nel suo resoconto di viaggio, se non erro - che spettatori e animali (persino maiali e pecore) circolassero liberamente tra i palchi, in platea e nei foyer. Durante le opere di Rossini, al san Carlo di Napoli e alla milanese Scala, gli "avventori" (difficile chiamarli spettatori) giocavano alla morra e ad altri giochi d'azzardo nel foyer e nel ridotto. Perchà© non si dovrebbe poter uscire per un attimo? Tanto, la musica sarà  sempre più o meno uguale a se stessa per tutte le ore dell'esecuzione e dell'ascolto, e perdersene una o due pagine non sarà  come dover rinunciare alla scena-clou di un film giallo o a un gol segnato proprio in quel momento dal famoso centravanti della squadra del cuore. Insomma, sarà  il trionfo dell'ebetudine, dell'annientamento sonoro e personale, della noia eretta a sistema della lingua, qualcosa di più vicino - non per spirito, anzi, ma per esito – a Vexations di Satie (pezzo freddo e impassibile e inascoltabile dall'inizio alla fine) che non al Tristano.

Al mio pezzo, un monumento di freddo marmo sul tipo di quelli forgiati da Canova, mancheranno le segrete pulsioni delle viscere, le tensioni, gli ondeggiamenti, le perplessità , le piccole rincorse che fanno vivere, respirare, palpitare qualunque delle opere scritte dal genio Riccardo. Il mio sarà  un cenotafio, un famedio. Non mi offenderò assolutamente se tu ribadirai, prima o dopo l'ascolto, questo giudizio. Mi starà  bene appiccicato addosso così come al morto l'ultimo abito. O come a Rosario Chiarchiaro la celebre "patente" dello jettatore. Scherzi a parte, sono pronto a tutto, anche a godermi le pietre che tu e gli altri incauti ascoltatori mi lancerete (sempre che non preferiate ricorrere alle proverbiali uova o ai marci pomodori della tradizione loggionista). Tanto, caro Giovanni, che uno se ne stia in silenzio, immoto come un'erma greca, come avviene in 4'33" di Cage, o che uno parli come un torrente in piena, senza sosta, senza nemmeno prender fiato, come avverrà  nel caso della mia musica, il risultato sarà  sempre quello, egli si buscherà  inevitabilmente una salva di pietre a scopo di lapidazione estemporanea (ne parlava una vecchia e ormai dimenticata canzone del francese Antoine, ricordi?).

Il manifesto che io vorrei sottoporti io l'ho concepito nei due giorni scorsi – senza alcuno dei miei amati libri alla mano, semplicemente così, sull'onda di un flusso di pensieri di tipo discorsivo –  ripensando alla quantità  sprecata, letteralmente buttata davanti ai porci, di sana e gustosa energia psichica che gli italiani – non solo loro, per carità , ma come loro tutte le naazioni poco sviluppate e poco istruite – investono nel tifo calcistico. Penserei all'ennesima riscoperta del Bello (ci hanno provato Elio Franzini, che tu ben conosci, e il suo epigono Zecchi nel passato recente, inventandosi il Mitomodernismo, ma né uno né l'altro sono artisti in proprio, il primo occupandosi in prevalenza dei simbolisti francesi, il secondo passando il proprio tempo a frequentare i salotti).

Non solo. Penserei a un'arte esemplare, paradigmatica, alta, "forte" (come direbbe Principe). Anche se gli Italiani non la capiscono, non la afferrano, non la apprezzano (così come la maggioranza tra essi preferisce ingozzarsi con un panino al crudo e mozzarella che ascoltare le Passioni di Bach o le Sette parole di Cristo in croce di Schuetz e di Haydn), non la amano, è pur mio dovere – parlo di un dovere morale e perciò, Dio me ne scampi, anche di un'arte etica, intrinsecamente nobile e capace, come Schiller scrive nelle sue colte epistole, di formare l'umanità  dell'uomo – riproporre aii miei "sventurati compatrioti" l'importanza dell'arte musicale e di farlo in una forma al tempo stesso visibile, quella dell'arte monumentale. Sotto gli occhi di tutti non devono essere unicamente gli assoli di Bruce Springsteen o i mugolii di Giorgia o le esibizioni del "molleggiato" nazionale, ma anche le bellezze della musica, l'arte tra tutte la più bella, la più capace di commuovere, di esaltare, di penetrare nelle più segrete corde dell'animo.

Oso sottoporti, caro Giovanni, il mio scritto perché tu mi dica qualcosa, perché tu mi segnali una svista, perché tu mi dia del cretino, perché tu mi dica di dedicarmi alla musica anziché alla parola scritta e stampata, perché tu mi dica di guardare alla tivù i cartoni animati anziché dedicarmi a letture per me troppo difficili. Aspetto di essere da te ingiuriato, trattato male e vilipeso. Se invece – per un caso – tu trovassi, al di là là  della prevedibile ingenuità , nelle mie parole qualcosa di buono e di valevole, tu me lo diresti, vero? Insomma, da amico io vorrei che tu fossi impietoso e al tempo stesso caritatevole, ossia disposto a perdonare le mie fumoserie estetiche e a non levarmi a cagione di esse il tuo prezioso saluto, a non privarmi a cagione di esse del tuo affetto.

[...]

C.A.L.

22 settembre 2014

[...]
E' accaduto che il testo a te inviato, che all'origine era di 90 pagine, se non ricordo male, crescesse e fruttificasse e generasse. E' accaduto che ora le pagine siano oltre 200 di numero. Già , caro Giovanni, l'alternativa era o quella di buttare tutto a mare, col rischio di inquinare quest'ultimo e di provocare una strage di muggini e di branzini, o quella di ripescare (il tema è sempre quello del mare e delle sue creature) gli argomenti trattati per costruire intorno ad essi riflessioni, corollari, episodi ulteriori e capitoli sparsi a sostegno delle cose dette, a loro volta aprenti scenari nuovi e altre cose da dire. Alla fine il prodotto è labirintico, tutto sembra un prodotto di scarto, tutto è come la "letteratura in mongolfiera" di Arbasino, vero e autentico name dropper, uno che "fa cadere" i nomi senza nulla dire sul serio, ma solo e sempre alludendo velenosamente. Insomma, i capitoli si "godranno" – non in senso letterale, dico per dire, volevo scrivere "patiranno" – uno per uno, isolatamente. Questa è la mia speranza. La mia speranza è che i capitoli siano leggibili come delle entità  isolate. Che il lettore comporrà  in un tutto intero (un po' come i libri-inchiesta d'antan). Dei cespugli sempreverdi allineati su una grande pianura, posti l'uno a distanza dell'altro, qualcosa come un chilometro a separarli. Questo finirà  per essere il mio libro. Il quale è davvero quasi finito. Occorre ora che io riduca un po' il corpo (da 14 a 12) e inserisca le immagini che intendevo inserire e che, per finire, io riveda la numerazione dei capitoli. Ti farò avere tutto non appena terminato e concluso rivisto: entro un mese, lo prometto (d'altronde, se io desidero che il libro esca in concomitanza della mia lunga, sesquipedale, soporifera, benzodiazepinica Quinta Sonata, occorre che io faccia più in fretta che mai).
 

[...]

C.A.L.



                                                           2015



Serenata alla fanciulla dai capelli di lino


 

7 febbraio 2015

[...]
Ti sei dunque romanticamente innamorato di una fanciulla dai capelli di lino (al lino preferisco, te lo confesso a rischio di parerti irriverente, il cachemire: è più morbido). Io questa fanciulla, non so tu, me la immagino in atto di cogliere dei fiori su un prato fiorito, non so però se situare la scena all’alba o al meriggio o al tramonto. La calma e piattezza del brano farebbero pensare a un momento di silenzio, ossia: non nell’arco della giornata, quando il grido dei contadini fende di regola l’aria (oggi sono i trattori a farlo, i contadini non gridano più, sono tornati a essere afasici come gli uomini di Cro–Magnon). Io sono assai più innamorato, sai, dei "passi sulla neve" che deliziosamente formano il VI preludio, alla giusta metà del Primo Libro. Ma ti faccio molti complimenti.

Caro Giovanni, vorrei tanto, ma tanto, poter ascoltare coi miei orecchi da strumenti "acustici" – ossia in carne ed ossa – ciò che tu mi hai inviato in forma virtuale. Il tuo pezzo è molto bello e ricrea esattamente il clima di stupita e placida rassegnazione che poc’anzi ti dicevo.
 

[…]

 C. A. L.

9 febbraio 2015

 [...]
Sono perfettamente d’accordo con te sul fatto che il brano di Debussy non è certo il più bello dei suoi Préludes, è troppo semplice e poco fantasioso. Ma l’Amore, cioè il fanciullino con l’arco, è giocoso e forse non è troppo preparato musicalmente. E poi si può forse scrivere una serenata per i due passi sulla neve o per la Cathédrale? Per quanto riguarda le immagini che suggerisci, in generale le serenate si fanno di notte e c’è (o c’era) una fanciulla alla finestra (ma si fanno ancora serenate?).
 

Per quanto riguarda gli strumenti digitali (come io preferisco dire in luogo di virtuali), ne riparleremo – se ne avremo voglia – quando ci vedremo.

[...]

 G. P.

30 Apr 2015

[...]
Ho incontrato a Parma il tuo allievo e collaboratore Carlo Serra, uomo di una vivacità  intellettuale impressionante, un esempio raro di acutezza estetica, la capacità  di afferrare le cose in un lampo. Serra ha qualcosa di tagliente, sembra racchiudere un segreto doloroso e questo gli esce con rapidità  di folgore, ma di folgore un po' sulfurea. Par nato sotto il segno di Saturno, un odi quei rampolli nati già  poeti in grembo alla musa Calliope. Forse è la reincarnazione di Arthur Rimbaud, ne ha un poco l'aspetto. Ho letto con curiosità  e fervore il suo saggio sulla voce e lo spazio uscito per i tipi del Saggiatore 3 anni orsono. Il libro è davvero bellissimo, le intuizioni vi figurano come delle pistolettate, dei fuochi di artificio che scoppiettano tutte insieme, spesso dieci per pagina (io per dire qualcosa di sensato ci metto dieci pagine, lui le dice tutte insieme, le condensa, nel breve arco di una pagina). Ti abbiamo pensato con grandissima stima, e con infinita nostalgia della Milano in cui ancora ... si filosofeggiava.

Fra pochi giorni, il 7 maggio per la precisione, avrà  luogo la tanto attesa prima esecuzione assoluta della mia Sonata di 3 ore. A Fiorenzuola, in provincia di Piacenza. Tre ore senza interruzione, ma con il permesso che io accordo al pubblico di alzarsi liberamente e passeggiare nella sala, purchà© il religioso silenzio. Non te ne parlo qui a lungo in quanto ti so da sempre un po' amichevolmente critico, o non perfettamente convinto, nei confronti della cosa. Ti ripeto, mio caro Giovanni, che si tratta di un esperimento sul tempo non diverso da quelli che facevano Quincey e Castaneda coi funghi, con l'amanita muscaria. Insomma, se non sperimenterà non potrà nemmeno sapere, e come Tommaso toccherà le ferite del Signore con mano: fino ad allora, fino a quel momento, nessun tuo rimprovero mi indurrà  ad abbandonare la partita, carissimo. Poi, è possibile che abbia ragione tu. Anzi, più che solo possibile è assai probabile.
 

[...]

 C.A.L.

1 maggio 2015

 [...]
Credo proprio che, se non ci fosse stato un impegno veramente inderogabile, avrei superato ogni indugio, inforcato la mia auto e sarei arrivato a Fiorenzuola il giorno 7 maggio per partecipare con gioia assoluta a questo avvenimento. Sì è vero, ho molti dubbi: ma di una cosa sono certo: che la tua immensa sonata sarà immensa anche musicalmente, e che conterrà tutto il passato e il futuro del pianoforte, e sarà anche il risultato di un sapere, di una sapienza - non so come dire - accumulata in tanti anni di passione.

Mio carissimo Carlo Alessandro, mi dispiace veramente molto di essere assente. Avrei trovato tutto, quel giorno a Fiorenzuola: avrei conosciuto di persona l'amico, il musicista nella sua impresa più arrischiata - ed anche mi sarei sentito circondato da amici. Mi unisco alla tua gioia per aver raggiunto un obbiettivo che perseguivi da anni.
 

[...]

 G.P.

20 maggio 2015

[...]

 
Lo dico con fierezza: è stato un trionfo. Ma solo un trionfo dell'arte. Mi spiego subito. Il pezzo è davvero molto bello, ti parlo col cuore in mano e come se io lo giudicassi da fuori, come se non io fossi il suo "genitore". E quando dico bello, dico anche che la sua verifica sul campo corrispondeva a puntino a cià che il compositore si immaginava che fosse. Tutti i presenti lo hanno lodato, tributando sia all'interprete che all'autore dieci minuti di ovazioni, con due chiamate alla ribalta per l'autore e quattro per Damerini. Ma un trionfo di pubblico non è stato affatto. Gli spettatori non erano affatto quanti da me previsti, considerati gli articoli di presentazione apparsi su numerose testate in cartaceo e in rete.Di critici nemmeno l'ombra. Snobbato su tutti i fronti come Mozart a Vienna col suo Don Giovanni (ovviamente il paragone èuna celia, lo faccio tanto per farlo, a scopo puramente autoconsolatorio).Una causa della defezione en masse è sicuramente da ricercarsi nella "delocalizzazione" dell'evento, ossia nel fatto che Fiorenzuola èincontestabilmente un nowhere, un "nessun luogo", qualcosa di identificabile solo a un attento e certosino esame della carta geografica d'Italia e con la lente di ingrandimento.

Ti scrivo tuttavia con l'orgoglio e con la fierezza di aver dato vita a un pezzo davvero importante, a un pezzo felicemente monumentale che ti farà ascoltare quando tu ne avrai la voglia e il tempo, un pezzo la cui forma - forma nel tempo, e percià anche nello spazio - e la cui voce particolare sono affatto nuove, inedite per la nostra civiltà  dell'ascolto e per la nostra inveterata consuetudine al consumo immediato e vorace, ma anche molto spesso superficiale ed elegantemente sprezzante.

Aggiungo, caro Giovanni, che resta in me il vivo e fiero orgoglio per il fatto di aver saputo concepire - i complimenti me li faccio da solo, in mancanza di quelli dei critici, assenti ingiustificati - un ponte ad un sola campata aerea, un ponte non molto diverso da quello notissimo di San Francisco - il Golden Gate Bridge - lungo 1260 m, o da quello progettato per lo Stretto di Messina o, infine, quello disegnato da Leonardo nel suo Codice Atlantico per il Corno d'Oro: a un'unica campata, avrebbe dovuto essere lungo 240 metri, larga 23 metri ed alto, al suo culmine, 40 metri sul livello dell'acqua. Lo stesso èriuscito di fare a me, questa volta. Sono stato in grado, fortuna adiuvante, di progettare, animare, popolare di suoni un arco di tempo poderoso, nel quale l'attenzione degli ascoltatori non era mai, nemmeno per un istante, interrotta da quello che sono, per gli oceanologi, il cavo dell'onda, la risacca, la somma delle forze negative che "trattengono" il flusso naturale delle correnti e il moto ondoso.

Nessuno ha fiatato, tutti erano come ipnotizzati dal flusso sonoro che incessante penetrava nei condotti uditivi dei (pochi, sfortunatamente) astanti. Da sopra, da uno dei palchi, ho potuto scorgere e osservare con agio, durante i 180 minuti ininterrotti della Sonata, la platea: non una mano si muoveva, non una testa ciondolava vinta dal sonno, non uno che portasse agli occhi l'orologio o che, vinto dalla relativa monotonia del concerto, si alzasse e se ne andasse supercilioso e arrabbiato. La fedeltà  del 'mio' pubblico è stata premiata: la ruota del tempo di Wackenroder è stata, per un rapido batter di ciglia, se non vinta, almeno neutralizzata, messa in condizioni di non nuocere. La forma estesa, senza puntelli né temi di appoggio né ritornelli o facili "numeri chiusi" di barocca ascendenza: questo l'obiettivo primario - obiettivo pienamente raggiunto - della mia Sonata.

Una variazione continua, implacabile, poderosa e ininterrotta, una partenogenesi in grado di far scaturire sempre nuove e inedite variazioni dal dejà  écouté, dal "già  ascoltato". Tutto tornava su se stesso come una gigantesca ruota, come l'otto volante del Prater, ma nulla si ripeteva. La differenza e la ripetizione trovavano, qui, nella mia Sonata n. 5, un equilibrio che non avevo mai raggiunto negli altri pezzi da me in precedenza scritti. Toccherai tu stesso con mano, caro Giovanni, quando ascolterai.
 

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 C.A.L.

22 maggio 2015

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Parliamo anzitutto di te, della tua grande Sonata. Di quello che tu mi dice della serata di Fiorenzuola mi fa felice. Ciò che mi rendeva più preoccupato era la reazione del pubblico di fronte ad un lavoro di quelle dimensioni, nel quale - credo di avertelo già detto - c'era sicuramente tutta la tua passione musicale, tutta la tua sapienza, tutta la tua capacità di dominare uno strumento che io ritengo raffinatissimo, ma proprio per il fatto che l'elemento espressivo non è può essere ottenuto con la varietà timbrica che una grande orchestra propone. In fin dei conti per orchestra ci sono pezzi di lunga durata - Mahler o Bruckner, per dirne una; non parliamo dell'opera, di Wagner ad es. dove le tre ore sarebbero certamente poche: ma oltre l'orchestra, con trombe, tube, tromboni, fagotti e controfagotti - ci sono i cantanti, c'è la visione fantasmagorica della narrazione.... Ma il pianoforte! Tre ore di pianoforte! (anzi ne prometti sette!). Non pensare che io sia ostile a questo che non può essere considerato un esperimento - come qualche volta sembra che tu dia a credere. Anzi ho una enorme ammirazione per lo stesso fatto che ti sia accinto a questa impresa, per me quasi disperata. A maggiore ragione i critici musicali DOVEVANO essere presenti. Condivido pienamente la tua reazione a questa assenza. Quanto al pubblico invece il problema è diverso: sessanta o duecento non importa, importano quei  dieci minuti di ovazioni, quelle chiamate all'autore ed al bravissimo Damerini che si è accollato a sua volta un'impresa non da poco. Questo conta. Conta la tua soddisfazione personale nel valore della tua composizione, e ciò che tu stesso ne dici fa parte di un'esperienza che io stesso nel mio piccolo provo quando ritengo che un lavoro sia terminato: ormai non ti appartiene più, ma sai di aver dato esistenza a qualcosa che prima non c'era, qualcosa che avevi nella mente e che ora esiste. Oltre all'esperienza che io ho avuto nel mio lavoro di filosofo. Le mie opere complete assommano oggi a ventinove volumi. E quante recensioni immagini che io abbia avuto? Sono state così poche e così brevi (a volte una pura segnalazione) che non ne val la pena di ricordarsi il numero. Eppure io sono contento del lavoro che ho fatto e talora sono raggiunto da giudizi più che favorevoli anche da persone che non conosco e che sono per me una sorta di felice conferma - ed anche tu, lascia che te lo dica - mi hai dato un enorme aiuto nel continuare a scrivere qualche nota, ed a far crescere  in me il desiderio non solo di riflettere sulla musica, ma anche di "farla". Il numero del pubblico  tendo dunque a sottovalutarlo, anche se sarebbe stato un premio aggiuntivo non solo per te ma anche per gli organizzatori di Fiorenzuola che, a quanto mi è sembrato di capire, erano orgogliosissimi di questo avvenimento. Sarebbe stato meglio. Ma non ne farei una ragione per diminuire il successo della serata, a cui purtroppo non ho potuto partecipare.
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 G.P.

8 agosto 2015

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La mattina di giovedì 30 luglio c'è stata la registrazione fatta per i microfoni di Milano Classica nel programma Note d'autore curato da Ricciarda Belgiojoso - benemerita in quanto il suo programma in quanto di "classica" si avverte sempre, a tutti i livelli, un gran bisogno. Ma anche un po' assillante - e assolutamente colta.  Mi ha poi fatto i complimenti per il mio tono sciolto e colloquiale. Sciolto e colloquiale, le ho risposto e chiesto: Sciolto e colloquiale? Ma se ho tremato come una foglia per tutti i 50 minuti dell'intervista. A un certo punto io mi sono sentito spinto nel metaforico angolo del pugile suonato.  Già , perché un conto, tu lo sai bene è avere l'agio di ripensare a quanto scritto, e di riflettere due, cinque, dieci volte sul già  scritto, altro conto è esser costretti a improvvisare. Ogni esitazione sarà  imputata alla tua scarsa dimestichezza con la materia e, nel migliore dei casi, col mezzo radiotelevisivo. Inoltre mi è stato chiesto più volte quali fossero le mie intenzioni musicali: ma un artista non ti dirà  nemmeno sotto tortura – soprattutto perché, nella stragrande maggioranza dei casi, non le conosce e non le sa isolare neppure lui stesso – le ragioni soggiacenti che danno un senso all'opera d'arte, che ne giustificano e legittimano la genesi e il suo stare al mondo.

Ma in ogni caso ecco l'indirizzo internet sul quale potrai sintonizzarti per ascoltare la mia intervista con alcuni excerpta della mia lunga e pretenziosa Sonata per pianoforte inseriti qua e là .

https://soundcloud.com/radioclassica/note-dautore-a-cura-di-ricciarda-belgiojoso-carlo-alessandro-landini-1815

11 agosto 2015

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 Naturalmente mi sono precipitato all'indirizzo internet della tua intervista e me la sono ascoltata ed anche scaricata all'interno del mio computer.

Ed eccoti qualche osservazione. Lo sai che questa tua sonata rappresenta per me un problema, e penso alcune cose prima ancora di averla ascoltata (perché ovviamente l'ascolto del frammento è del tutto insufficiente, ed io francamente avrei preferito una conversazione più distesa). Nel corso di questa trasmissione non hai mai nemmeno accennato alle tue idee sull'"arte monumentale" - questo mi ha deluso un poco perché vorrei saperne di più e penso che queste idee contengano le motivazioni portanti di questo tuo progetto, non solo come un "esperimento" semipsicologico sui problemi dell'ascolto come potrebbe sembrare da questa intervista. In effetti in essa hai messo l'accento sul "mettere alla prova l'ascoltatore", e questo mi sembra giusto solo fino ad un certo punto. In certo senso fa parte della regione retrostante al progetto propriamente musicale. Se posso osare di dirlo, sembrava quasi che tu subordinassi problemi di struttura musicale a considerazioni scientifiche relative alle capacità dell'attenzione: di queste certo bisogna tener conto di fronte ad un'opera di queste dimensioni, ma mi sembra che la questione è relativamente in secondo piano. Non può essere in primo piano. In primo piano è sempre la musica in sé - su questo punto sono certo che siamo entrambi pienamente d'accordo. Forse ti ha portato fuori strada la tua amabile Belgioioso. Che ha insistito fin dall'inizio anzitutto sulla durata oggettiva del brano.

Temo però che sia proprio questo il rischio che corri (e lo dico a occhi chiusi, o meglio a orecchie che non hanno ancora udito praticamente nulla): che si ponga l'accento sulla questione della durata oggettiva, piuttosto che sul fiume di musica che tu proponi. Perché questo mi sembra di averlo capito anche dal frammento che ho udito: che si tratta appunto di un fiume. E come nel fiume non ci sono "buchi", così ho appreso che il tuo brano scorre senza sosta - non solo non ci sono pause, ma non ci sono nemmeno corone. Come vorrei essere stato io il tuo intervistatore! E allora ti avrei chiesto: perché questa scelta che è una scelta consapevole del compositore? Sono interamente d'accordo che, come tu dici, nemmeno sotto tortura parleresti delle "intenzioni musicali". Ma io ho scritto una volta che di fronte alla materia sonora ed alle sue potenzialità, il compositore "decide" in un senso forte del termine, anche se non vuole o non può  dare giustificazione alle sue decisioni. Tu hai preso molte decisioni in quest'opera che non è grande, ma grandiosa. Come forse ti ho già scritto io penso che in essa vi sia una marea di idee musicali (un'altra immagine acquorea, ma che questa volta evoca il mare), e non se dirlo con soddisfazione o con un venatura di rincrescimento:  mi sembra di aver capito che questo tuo lavoro mi intimorisce - il timore  è il sentimento che precede il suo ascolto futuro. Timore di varie cose. Un timore che spiega anche la venatura di rincrescimento. A mio avviso di un brano musicale puoi dire che esso è  "bello" se desideri risentirlo. una frase così semplice contiene la quintessenza della mia "estetica" - ammesso che ne abbia una. Almeno per me le cose stanno così. Forse hai pensato alla possibilità dell'ascolto, ma non a quella ancora più fondamentale del riascolto.  Mi sarà consentito desiderare di riascoltarlo? Sarò in grado, pur avendo avuto una grande soddisfazione musicale, desiderare in tempi brevi di riaverla? Ed ancora: temo che possa accadere, tra ascolto e riascolto, quell'incantamento che tu giustamente evochi in rapporto ai mantra ed alle ripetizioni magiche e che contraddistingui nettamente dallo spirito del brano. L'incantamento non è solo una questione di ripetizione, ma anche di durata. E i tuoi ascoltatori, il giorno del successo di cui  io sono stato realmente felice, forse potrebbero essersi immersi in una sorta di nirvana - questa è una possibilità che non può essere esclusa . Ecco i miei timori. E vi è un altro timore: che quella marea di idee musicali che vi hai immesso avrebbe potuto (e io credo potrebbe ancora!!) prendere forma in una trentina di brani bellissimi,  e non solo per pianoforte, che potrebbero tenere l'attenzione dell'ascoltatore senza artifici più o meno psicologici o psicoanalitici. E valere in sé e per sé, sto per dire, anche se non fossero ascoltati.

(...come avrei voluto essere io a farti l'intervista, ma allo scopo di darti del materiale a cui rispondere! Sarebbe stata un'intervista vivacissima, ma ti assicuro che non ti saresti sentito "nel metaforico angolo del pugile suonato" - bellissima immagine, tra l'altro).

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 G.P.

24 ottobre 2015

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Anzitutto ti sono immensamente grato avermi mandato il tuo saggio "Fascino senza tempo e la nuova bellezza", che mi sono letto, riletto e annotato appena sono tornato a Roma. Ed ora mi accingo appunto a fare alcune prudenti osservazioni con una piccola e doverosa premessa. Sulle poetiche di un artista - ed il tuo naturalmente è uno scritto di poetica  - vi sono alcuni dispareri. Ad esempio, Dino Formaggio sosteneva che non se ne dovesse assolutamente tener conto - che ciò che importa non è ciò che un artista dice, ma quello che fa. Io, come tu sai dal mio "Mondrian", non sono di questa opinione ma nemmeno dell'opinione opposta, sono semplicemente più elastico - talora gli scritti sono illuminanti rispetto all'opera, talora sono illuminanti lo stesso perché propongono un'orizzonte ed un orientamento intellettuale entro cui l'artista si è mosso, anche se poi nella considerazione dei risultati dobbiamo tener conto soprattutto di quelli e possono esservi discrepanze ed anche "contraddizioni". Insomma a mio avviso bisogna muoversi con molta cautela. Il terreno è minato.

Intanto ti dirò che è bello il piglio con cui hai scritto questo saggio. Lo ho letto con grande gusto. Con una cultura straordinariamente maggiore, questo piglio - tienti forte, ora mi sento di dire proprio tutto - mi ricorda lo stile dei manifesti futuristi! Ecco un bel contrasto: trattandosi dello scritto più antifuturista che si possa pensare. E da questo avvio credo che tu possa intuire i pensieri che mi sono balenati nella lettura - pensieri che mi mettono nella singolare situazione di concordare con te su molte cose, e non semplicemente su una virgola, come tu dici, ma nello stesso tempo solo a patto di ritagliarle da un contesto che mi è estraneo.

Ad esempio sono completamente d'accordo sul tuo attacco - là dove, in particolare nel punto 2,  protesti vivacemente contro coloro che riferiscono la ricezione estetica più al dovere che al piacere. In realtà c'è stato un odioso moralismo della vecchia avanguardia che ha fatto di tutto per  togliere di mezzo il piacere dell'ascolto, che ha ironizzato pesantemente sul gradevole associando questo atteggiamento come se esso fosse in stretta relazione con un impegno politico di "sinistra" - in questo trabocchetto io non sono mai caduto benché fossi "di sinistra" e curiosissimo di tutte le novità che si affacciavano negli anni sessanta sul terreno musicale. Sono d'accordo dunque sulla rivendicazione della bellezza - ne ho parlato persino durante un breve intervento che ho fatto in questi ultimi tempi a Trani. E il tuo scritto non a caso ha nel titolo questo termine. Qualche perplessità mi è sorta sulla tua aggettivazione - tu parli di ascolto "pacifico e pigro", ed un ascolto pigro non riesco a immaginarlo e così non so che cosa possa significare un ascolto  non pacifico. Ma credo di capire  che sono varianti letterarie e semi–metaforiche del discorso che stai cominciando a sviluppare.

Già al punto 3 comincia per me il tormentone: da un lato, e questo vale per tutto il saggio, esso trabocca di cultura da ogni parte (e credo di poter affermare che questo non è affatto cosa comune tra i musicisti), le citazioni sono straordinarie, spesso gradevoli, interessanti, incuriosenti. Però comincia il tormentone perché comincia la polemica antitecnologica, anticonsumisitica, anticomputeristica ecc. E credo che tu possa prevedere ampiamente che tradirei il mio orientamento intellettuale, o semplicemente la mia mentalità, se pretendessi di seguirti su questo terreno. E poiché qui comincia quel ritaglio dal contesto di cui ti parlavo poco fa, ed oltretutto non ci troviamo esattamente sul terreno della musica ma dei "modi di pensare", sarei tentato di soffermarmi su ogni parola, e soprattutto là dove mi sembra di intravedere nel tuo stesso testo relazioni ingiustificate.

Esempio: con lo slow sound tu metti insieme molte cose, anche contradditorie. Compreso l'elogio di un tempo che fu. Questo elogio ha ben poco a che vedere con l'avvento dell'era tecnocratica. L'elogio del tempo che fu è tipico di ogni epoca storica, ed io credo anche preistorica. Sono certo che anche l'uomo delle caverne ogni tanto mugugnava a modo suo sulle miserie del presente. Altro esempio che mi è da te suggerito, sempre al punto 3: il film in bianco e nero è frutto della tecnologia tanto quanto i film a colori o  il televisore domestico che io ho visto imporsi quando ero ragazzo. Quanto al libro perché mai deve essere "rigorosamente cartaceo",  chi ha dato questo ordine? E perché lo paragoni ad un vino d'annata? un libro conta per i significati espressi nelle parole e per nessuna altra ragione, e che con il vino di annata non hanno niente a che vedere. Un tale mi diceva che a lui i libri gli piaceva annusarli. Tutti i gusti sono gusti. Io non ho mai annusato un libro. Eppure ho cominciato a frequentare la biblioteca di Casale Monferrato, sito in un magnifico anche se un po cadente palazzo settecentesco che era pieno di odori... di libri. Ma io cercavo i libri!

Non c'è dubbio che tu abbia previsto queste mie osservazioni.

Sempre al punto 3 tu scrivi:

“Si degusta la musica rapiti, con il cuore che batte forte per l’emozione, anche quando si è ascoltato lo stesso brano per più volte ininterrottamente”.

Ti debbo confessare che ho riletto prima di scriverti anche la mia precedente letteraccia. E ho trovato appunto che essa era inopportunamente impulsiva e indebita, ma che conteneva alcune idee che io non ritengo siano sbagliate. In essa osservavo che forse ti eri preoccupato molto dell'ascolto ma non del riascolto, che anche tu, come io stesso, consideri come una sorta di condizione del "rapimento" musicale. Ma si può leggere due volte ininterrottamente il Mahabarata? E addirittura più volte?

Al punto 4 tu parli di "fascino ipnotico" e q uesto richiama l’ “incantamento” del punto 2. E mi viene fatto di pensare alla mia osservazione  sull’effetto “nirvanico” di cui ho parlato nella vituperabile lettera precedente. Forse non avevo torto, nel senso che tu hai previsto e ricercato questo effetto. Infatti tu stesso  parli (al punto 18) “del paradiso vedico, luogo “privo così di gioia come anche di dolore” e nel quale non si insinua mai, neppure per sbaglio, il germe impuro del dubbio. Peraltro sono subito d’accordo quando parli di "un patologico eccesso di lavoro, della frenesia insensata di una routine che deprime in misura notevole la qualità della vita e che stenta a conciliarsi con i requisiti di un umanesimo radicato nell’antichissima civiltà di valori e di pensiero che ci ha dato i natali”. D’accordissimo. E tuttavia: se il “fascino ipnotico” ci sottrae da questa patologia allora diventa il suo puro e semplice “contraltare”. Ma non vi è certo bisogno di molta filosofia per rammentare l’adagio “gli estremi si toccano” e che il fornire come antidoto a quella patologia il fascino ipnotico dello slow sound è come raccomandare, dopo l’eccesso di lavoro e tutto il resto, una abbondante ubriacatura con un buon vino d’annata. I due comportamenti finiscono con il compensarsi a vicenda e quindi con il rammentare la “coincidentia oppositorum”.

Ed ecco invece un altro punto di accordo:
“Ascoltare lentamente, leggere lentamente, guardare il creato con occhi nuovi e con studiata, compassionevole e partecipe lentezza, saper cogliere il segreto respiro della natura al di là degli elementi distrattori che vorrebbero impedirci di farlo: questo è ciò che il “suono comodo”, che la musica opportunamente rallentata – “Slow Sound” – si prefigge, questo è l’obiettivo che la Sonata n. 5 per pianoforte elegge a proprio fine prioritario”

Sottoscrivo pienamente e posso farlo perché a me non sembra che una simile affermazione sia così strettamente collegata alla tua visione “sociologica” del mondo di oggi, anzi non mi sembra legata affatto, e soprattutto non mi sembra legata alla tua a tratti violenta polemica antitecnologica. Così scrivi (al punto 7) :

“Oggi la tecnocrazia, il prevalere di un tecnicismo fine a se stesso, che si è purtroppo propagato all’arte, ai suoi prodotti, ai suoi protagonisti…”
Tecnocrazia? Tecnicismo fine a se stesso? E tutto ciò in contrapposizione a “umanesimo”? Come faccio ad essere d’accordo? Ciò che tu chiami tecnocrazia e tecnicismo può certo alludere a fenomeni sociologicamente beceri –  ma io vedo in questo interesse per la tecnica che poi è un derivato dei progressi della scienza, il preciso risultato di una cura dei guasti che quell’intelligentone di dio ha commesso creando un mondo che peggio di così non si può –  ed è tutto merito dell’uomo se oggi viviamo meglio che nel paleolitico, nel medioevo, e persino nel settecento ed ottocento. Umanesimo e tecnica (e conoscenza) possono benissimo andare di pari passo! Guai a noi se avessimo lasciato fare tutto a quella natura creata da dio! Ovviamente comprendo che stiamo giocando una partita parzialmente equivoca. E va da sé che comprendo benissimo il tuo discorso sulla natura e che per una parte lo condivido, lo condivido anzi nella misura più ampia, ma sottraendolo alla contrapposizione in cui tu costantemente lo situi.

A proposito di violenta polemica antitecnologica, forse l'acme viene raggiunto con il riferimento a Hiroshima: "La bomba di Hiroshima non è che il portato di una tecnica svèlta dai fondamenti antropologici del fare in generale, del pensare cartesianamente, ossia in modo “chiaro e distinto”” (punto 9).

Dire una cosa simile sarebbe come dire che portato della tecnica è anche Hitler e la Shoà… la frase mi sembra inaccettabile perché fa della bomba una sorta di archetipo della tecnologia ignorando tutto ciò che c’è intorno –  e che riguarda non già la tecnica come tale, ma proprio gli uomini che la usano.  I quali avrebbero potuto fare cose anche molto diverse. Avrebbero potuto non usare affatto  la bomba su Hiroshima, usarla a Hiroshima è già un fatto altamente criminale (per dir poco), usarla anche a Nagasaki lo raddoppia non una sola volta ma mille. Dire che la bomba è un portato della tecnica, sarebbe come attribuire la colpa di un assassinio non all’assassino, ma al coltello per tagliare il pane che egli ha usato.

Bello il tuo richiamo al classicismo (punti 10-13). Bellissima l’idea dell’arte monumentale come arte senza tempo. Qui ci sono spazi molto ampi per uno sviluppo anche sul piano estetico. Bello anche quanto dici nei punti successivi che mi sembrano lasciar più spazio ad un discorso sui valori dell’arte e della musica in particolare senza appesantire troppo il discorso “sociologico”. Interessante anche quanto dici sull’arte delle origini sciamanica e magica –  discutibile certo, in particolare, sulla questione della “sacralizzazione”, ma io credo di capire quel che vuoi dire, o almeno penso di poter dare una interpretazione di questa tua problematica senza essere costretto a farmi prete.

Mi sarebbe piaciuto un maggiore sviluppo dell'idea della modularità ma comprendo che si sarebbe usciti dalla meravigliosa economia del tuo testo. Attraverso questa idea  io credo che si entri più direttamente nella pratica compositiva. Mi sembra poi che parlando di modulo si ammetta  che l’arte monumentale è comunque fatta di “pezzi” e che questi pezzi potrebbero avere un valore a se stante. Non so però se ho capito bene.

Credo che non sia il caso di andare oltre questi appunti perché i commenti che potrei fare sono a questo punto del tutto prevedibili. Ad esempio prevederai il mio netto contrasto sulla equiparazione tra “oceaniche adunanze di regime” e le “versione secolarizzate delle stesse” (al punto 20) (sarebbe come paragonare le squadracce con i figli dei fiori). Aggiungerò che mi piace molto l’associazione tra arte monumentale ed epica. E il tuo riferimento al Mahabarata che assomma i due caratteri in maniera quasi apocalittica è molto significativo. L’epica tuttavia è essenzialmente una narrazione. Quindi dovrebbe entrare nell’idea di arte monumentale una forte componente narrativa. È così?

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 G.P.



Migranti


 

22 dicembre 2015

[…]
Ti ringrazio molto per aver pensato di inviarmi la tua composizione per archi intitolata Migranti. Sono riuscito ad ascoltarla senza problemi di ordine tecnologico. Il punto che mi ha maggiormente interessato è intorno alla metà del pezzo, o pochissimo oltre, quello in corrispondenza dell’asse di simmetria e/o della sezione aurea, là dove il compositore "muove" le parti e ha luogo un contrappunto fra esse. Un po’ di dubbi – scusa la franchezza, che può forse dispiacere all’autore, ma la mia osservazione è puramente e assolutamente soggettiva, scaturita ad un primo e sommario ascolto, e poi è giusto che ciascuno coltivi una personale visione dell’arte dei suoni: se così non fosse, caro Giovanni, saremmo tutti uguali e di orecchi ve ne sarebbe uno solo, valido per tutti, un po’ come la pensée unique di Alain de Benoist – io ho in merito al fatto che per 4 minuti buoni la lentezza del pezzo riesce, o può riuscire, se non si è nello stato d’animo adatto, esasperante.

 
Il mio pensiero riguardo ai tempi lenti è che internamente deve succedere sempre qualcosa, come nei Notturni di Chopin ma ancor più nei tempi lenti delle Sinfonie di Mahler (pensiamo allo strepitoso, ineguagliato Adagietto della Quinta). Qui la penuria di parti è un rischio, perché la loro "proliferazione" nei modi tipici del contrappunto permette, al di là di una condotta "da funerale", un gioco interno di rimandi e di piccole cellule che germinano per ogni dove, mentre la loro penuria – e questo, proprio questo è a mio avviso uno dei massimi rischi legati alla composizione di un Quartetto per archi, dove le voci sono quattro solamente e non si possono "truccare" le carte – costringe l’autore a fare dei salti mortali. Insomma, caro Giovanni, la mia sincerità di amico mi impone di dirti che, molto soggettivamente, molto personalmente, e da un mio privatissimo punto di vista, il tuo pezzo "vive" maggiormente laddove le sue voci internamente "vivono", ossia si muovono, si rincorrono, giocano a rimpiattino, stabiliscono, insomma, una tela di ragno fatta di rimandi interni, più o meno segreti, più spesso subliminali, cioè a stento avvertibili, ma pur sempre, a onta della scotomizzazione, della messa in ombra, della dissimulazione, del refoulement, ben presenti e operanti. Tutto qui.


Spero, caro Giovanni, di non esserti troppo dispiaciuto con la mia schiettezza. Molto bella e indovinata la tua dedica ai Migranti sfortunati inghiottiti dal mare, dei quali non importa più a nessuno. Ma tu, animo delicatissimo, ti sei ricordato di loro. Neppure a me verrebbe in mente di dedicare a delle vittime civili – leggi Bologna, leggi Banca dell’Agricoltura a Milano – un mio pezzo. Sono più egoista di te, o sono semplicemente più pessimista di te.
 

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C. A. L.
 

29 dicembre 2015

[…]
ti prego di leggere questa mia lettera in un momento di riposo, come se prendessimo un caffè insieme e, un poco sonnecchiando, ci scambiassimo quattro parole.


Intanto ti dirò che io metto proprio la franchezza in cima alle virtù ed alle co-se preziose dell’amicizia! E aggiungo che in ultima analisi, senza essere masochista, amo più le critiche che gli elogi – un po’ perché sono abbastanza litigioso (ma una volta lo ero molto di più!), un po’ perché sono abbastanza coriaceo (e lo sono ancora), ma la vera ragione è che dalle critiche si può imparare qualcosa, dagli elogi no. Inoltre proprio per il fatto che per fortuna ci sono molte orecchie, come tu dici, si ha il vantaggio di apprendere i molti modi in cui un brano di musica può essere ascoltato, e quindi anche l’autore può mettersi (o tentare di mettersi) a sua volta in altre dimensioni di ascolto rispetto a quella che ha guidato il suo comporre. Tanto più che, per quel che mi riguarda, una volta che ho deciso che la composizione è giunta al suo termine, io non mi sento più implicato in essa, per quanto possa sembrare strano;  e tendo a considerare ogni osservazione come riguardante  il pezzo in sé, e non chi lo ha realizzato.

 
Prendo un altro goccio di caffè e poi continuo così: c’è forse una ragione profonda, io credo, per il fatto che tu dici che non scriveresti un brano con il titolo Migranti. A mio avviso, essa non riguarda la mia delicatezza o il tuo egoismo e nemmeno il tuo pessimismo. Quel titolo ricorda molto da vicino l’uso dei titoli "rivoluzionari", "resistenziali", "latino–americani", "che–guevariani" che imperversavano nella musica della vecchia avanguardia: e ti debbo confessare che nonostante le mie aperte simpatie politiche ed anche musicali per quell’avanguardia, quei titoli mi sono sempre sembrati vincolati ad una concezione della musica che non ero in grado di condividere pienamente. La musica è anzitutto musica, e io credo di poterne affermarne l’ “intemporalità” e quindi la distanza dalla storicità –  affermazione apparentemente scandalosa per l’ambiente culturale italiano di allora ma anche di ora: intemporalità che naturalmente sarà intesa da una persona intelligente in modo intelligente. E tuttavia la musica può dare espressione a molti sentimenti ed a molti pensieri, e come sa fare addormentare teneramente un bimbo con una ninna nanna, così può essere usata come una clava per eccitare ad una battaglia. Ma sarebbe un errore, evidentemente, attribuire l’una o l’altra possibilità come un compito esclusivo. Dunque anche la storia può entrare nella musica. E l’intemporalità dovrà soprattutto essere intesa nel senso che la musica non si occupa di “fatti di cronaca” come tali.  Ma come può la migrazione essere ridotta a "fatto di cronaca" (ed è ciò che sta avvenendo)? Qui siamo invece di fronte al Tragico – ad  un Tragico da cui un musicista può sentirsi chiamato in causa. Per mostrarlo, per esibirlo, per negare che si tratti di un fatto di cronaca. Per partecipazione. Per sdegno e per protesta. Anche la Tragedia, come la Musica, è intemporale.

 
Per quanto riguarda le osservazioni che tu fai sugli aspetti musicali, ne prendo atto senza riserve. Con un solo dubbio: mi sembra singolare che proprio un musicista che teorizza un’arte monumentale, in misura consistente fondata sulle lunghe durate, trovi poi "esasperanti" quattro minuti in cui il pezzo si muove lentamente. Sono sorpreso.

L’unico problema a cui tengo veramente è che ciò che compongo possa essere riconosciuto come un "brano di musica", come un "pezzo musicale" e non come un’altra cosa qualsiasi, e che essendo riconosciuto tale vada a ricongiungersi con la mia produzione filosofica, ed anche possibilmente con la sensibilità e l’insieme di idee che la ha generata.

 
[...]  

G. P.


2016


Fanciulli nel bosco
Sonatina
Concerto per gong, cimbali, campane e campanelli cantanti con violino obbligato


20 luglio 2016

[…]
ho ascoltato con attenzione per due volte di seguito i tre pezzi tuoi che hai avuto la buona idea di inviarmi. Fanciulli nel bosco: da dove hai cavato l’ispirazione per un titolo siffatto? Da alcuni sparsi indizi a me pare che siamo su una spiaggia, sul bordo di un mare. Alla fine, da 4’20” a 5’ si sentono delle onde a tratti fragorose, e allora perché – caro Giovanni – l’ispirazione è villereccia e non già  marina, e scusa se fra le pieghe rispunta il nome di battesimo della donna da te amata per una vita?

 
E forse – se io fossi Georg Groddeck, ma non lo sono – ipotizzerei i persino l’intromissione di una segreta volontà inconscia (unbewusster Wille) a segnare l’ingresso di Marina in questo bosco, dove i fanciulli sono non già  Haensel e Gretel, ma Giovanni e Marina.


Leggo che nel gennaio di quest’anno hai ricevuto dai tuoi amici Mauro, Prisca, Fernando e Brenda De Martini una lettura musicale dell’Ode al mare di Pablo Neruda. E affermi di ritenere di "non aver bisogno di aggiungere alcuna parola di commento sia in rapporto alla musica che fa magnificamente da sfondo alle voci che risuonano calde e partecipi sia in rapporto alla dedica che la propone”. Chissà , forse qualcosa di quella ispirazione nerudiana è tracimata dal suo naturale, animico contenitore e si è insinuata – infilata, infiltrata – nella tua composizione “Fanciulli nel bosco”. Bellissimo il duo di Flauti iniziale. È un pizzicato agli archi bassi, violoncelli e contrabbassi, quello che avverto (con eco, un’eco bella e misteriosa, dico sul serio, scaturita, suppongo, da una tua manipolazione elettronica del materiale) a un certo punto? L’unica osservazione che mi permetto di fare in quanto vecchio reazionario e codino nonché – questa è un’aggravante – implacabile docente di contrappunto, è che forse talvolta io avvertirei il bisogno di un overlapping fra voce e strumenti. Ridetto con altre e più chiare parole: non mi piace sempre il tacere improvviso della voce e, a qualche secondo di distanza, l’attacco degli strumenti. In tali casi io preferirei sempre sentire la voce che sfuma sull’attacco degli strumenti o, viceversa, gli strumenti sfumare sull’attacco della voce (fanno così i polifonisti quattrocenteschi e rinascimentali, e tu non sei, caro Giovanni, un polifonista rina-scimentale bensì un filosofo e compositore novecentesco). Insomma, complimenti e felicitazioni di tutto cuore. Struggenti a 3’15” le appoggiature plurime della voce sulla dominante del tono, un effetto speciale che, prossimo all’eterofonia bizantina, io amo particolarmente.

 
La tua Sonatina esiste anche in forma di partitura leggibile ad uso di pianisti in gamba? I mordenti iniziali “fanno” un po’ Barocco, cosa che il tuo pezzo non è affatto. Viene a galla, in questi brevi e sparsi mordenti, la tua passione – da me condivisa – per Bach, , per Rameau, per i clavicembalisti francesi e per i virginalisti in-glesi. Mi sbaglio? Avverto anche un’altra cosa. Che tra le tue giovanili frequentazioni musicali deve esservi stata – almeno così immagino – la produzione di Petrassi. Il seguito va indirizzandosi – senza, credo, quella suddivisione in tre tempi che tu specifichi – sulle orme di un atonalismo libero, a tratti vicino all’op. 33a di Schoenberg. E qui traspare la tua assidua frequentazione, da filosofo anche, suppongo, e non solo da musicista, della “scuola dodecafonica”. Non è tanto, caro Giovanni, la tecnica da te impiegata a suggerirmelo, quanto il “clima”, quanto la vaga “atmosfera” seriale che io avverto. Bada, quest’ultima io non la avverto quasi nel secondo dei tre brevi pezzi. Ma nel primo il serialismo viene un po’ alla luce (ma non un difetto, per carità, dico così per dire e per provarti che ho ascoltato con attenzione il brano). Il terzo e ultimo pezzo dei tre emana invece qualcosa di prossimo al jazz, non so dirtene la ragione (dato che jazzista io non sono per nulla, e neppure lo sarei se tu mi tenessi un corso bisettimanale sull’argomento per anni e anni). Mi piace molto l’ostinato finale con cui la Sonatina si chiude. Si tratta di una figura lungamente ripetuta e permutata, così a me pare, nei suoi intervalli costitutivi. Un magnifico congedo. Ma ogni tramonto è malinconico.

 
L’ultimo pezzo, il Concerto per gong, cimbali, campane e campanelli cantanti con violino obbligato è ben strano, consentimi di dirti almeno questo. Molto strano, ma davvero molto bello e ispirato. L’ispirazione orientaleggiante – da Estremo Oriente, da tempio birmano – tu non puoi assolutamente negarla, caro Giovanni. Pare che un bonzo sia sceso in singolar tenzone ad affrontare David Garrett, gong (immobile, antico) contro violino (mobilissimo, settecentesco). Mi ha appassionato l’intreccio fra il gong e il violino che si ascolta intorno a 2’40”. I tuoi consigli violinistici mi sarebbero di questi tempi molto, ma molto utile. Sto scrivendo la parte della viola per un trio (pianoforte, viola, clarinetto) che sarà  fatto in prima esecuzione a Milano il 5 novembre, e sto combattendo con le arcate, con la diteggiatura, con gli armonici. Beato te, che governi il tuo violino come il nocchiero esperto fa con la sua nave. Trovo estremamente lirici – ma davvero molto lirici e indovinati! – i bicordi che hai assegnato al violino da 4’43” in avanti. Si tratta di rari squarci di luce, ma di una luce giallognola, brunastra, più in penombra che in piena luce. Qui la tua anima “romantica” (se non virgolettassi, faresti di me un sol boccone) emerge in tutta la sua prepotente evidenza, ma più del tuo “romanticismo” (termine abusato, termine risibile, termine da educande, termine storicamente e concettualmente improprio) emergono due cose, caro Giovanni, in questa interminabile sequenza che accompagna il violino da qui fino al termine del brano: la tua voglia di esprimerti, di “cantare”, di dire le cose con libertà , e con libertà  lirica. E poi, in secondo luogo, il tono elegiaco dal quale è pervaso il tuo un po’ triste pezzo, il tono vagamente lugubre, al quale l’eco del gong – come un’ombra, come il doppio dei faraoni egizi, come il doppio di Alberto Savinio – contribuisce non poco.
 

Spero di averti aperto il mio cuore, caro Giovanni. Ti faccio molti compli-menti. Sono felice di avere ascoltato – e di averlo fatto con attenzione – quanto hai avuto la buona idea e la generosità di inviarmi. Ti ringrazio moltissimo. Ora tocca a me inviarti il mio testo. Si tratta di un testo di quasi 300 pagine, con introduzione e apparato bibliografico, un saggio in piena regola dunque. Te lo invierò nei prossimi giorni.

 
[…]  

C. A. L


 


5 agosto 2016

[…]
Ti debbo ancora qualche risposta alle domande che mi rivolgi a proposito dei miei brani che ti ho mandato.

1. Fanciulli nel bosco

E’ una composizione che ho progettato qualche anno fa ma che solo ora mi sono deciso a rimaneggiare – nella versione precedente mancava il "senso della forma"! Ora a me sembra  che ce l’abbia in un’accezione elementarissima e tuttavia molto generale perché opera sulla coppia contrasto/somiglianza. Vi è contrasto tra il modo di iniziare (suono "filato" del flauto) e di concludere (scroscio); somiglianza tra voci di bimbi e flauto che talora si intrecciano tra loro. Mentre in qualche modo il suono profondo "pizzicato" fa da cesura. Già questo giustifica le mie modestissime esigenze di "struttura". 

 
Ma la direzione di senso è, per me, assai diversa da quella a cui hai fantasiosamente pensato richiamando una componente biografica. Debbo dire tuttavia che la tua fantasia sul pezzo è molto affettuosa, si ricorda di Marina, ci vede ancora insieme, associandoci al mare di fronte al quale ora mi trovo – ti ringrazio molto di tutto questo. Ma in realtà già nella prima redazione di anni fa il percorso musicale in qualche modo intendeva condurre dalla dolcezza attraente di un richiamo melodico ad una tragedia particolarmente fosca...


Probabilmente nell’ideazione del pezzo hanno una certa responsabilità i fratelli Grimm. Lo spunto iniziale è il pifferaio di Hamelin che, non essendo stato pagato dopo aver liberato la città dai topi, attrae nel bosco i fanciulli e li porta inesorabilmente ad annegare, come topi, nel fiume (esistono anche altre versioni). 

 
Lo scrosciare del fiume e il "pizzicato" scuro sono ottenuti attraverso un sintetiz-zatore (tutti i suoni dei sintetizzatori possono essere  variamente manipolati e dunque adattati ai tuoi intenti espressivi); il "pizzicato" annuncia gli oscuri pericoli del bosco e la tragedia imminente...

 
Ciò che importa comunque non è la storia ma l’atmosfera vagamente inquietante –  così mi sembra –   che la composizione vorrebbe ricreare.

 
Con orecchio attento hai colto due flauti nella fase iniziale. In effetti per ottenere un effetto di legato in alcuni punti avevo sovrapposto eccessivamente la coda di un suono con l’inizio del successivo. Avrei dovuto correggere questo risultato, ma l’effetto, come tu hai notato, è gradevole, cosicché ho lasciato "l’errore". Errore raddoppiato nel titolo che parla  di un solo flauto. L’incongruenza tuttavia non sta nel pezzo, o nel suo titolo, ma nel pensare il brano nei  termini di una esecuzione effettiva e dunque di strumenti reali e non digitali. Terrò infine molto conto della tua osservazione sull’overlapping tra voce e strumenti e riascolterò il brano sotto questo profilo.

2. Sonatina

Di questo brano tu hai colto magnificamente lo spirito ed i dettagli. Effettivamente vi è un intenzionale riferimento alle ornamentazioni barocche nel primo tempo. Hai ragione anche quando fai il nome di Petrassi, autore da me da sempre molto ammirato. E sono stupito del fatto che tu abbia avvertito la presenza di una serie che effettivamente c’è – liberamente utilizzata al punto che ora, secondo la mia consuetudine di non prendere appunti, non saprei esattamente dire a quali manipolazioni la ho sottoposta e neppure esporre la sua versione, per così dire, originale. Evidentemente lavoro a notte fonda... Quanto al Jazz qualche movenza jazzistica ci è ormai entrata nelle orecchie attraverso mille vie... Aggiungo che sono ora altrettanto lieto quanto prima ero preoccupato nel mandarti questa prova pianistica. Per ragioni che credo di non aver bisogno  di spiegarti. Mi sembrava quanto meno di essere, come dire, un po’ sfacciato, ed anche presuntuoso. Il pianoforte è per me uno strumento difficile, e tanto più lo è il realizzare una partitura decente. Comunque soprattutto nel caso del pianoforte è inevitabile (persino per me!) non pensare ad una partitura – benché a me e ad altri non serva nulla. Quindi ho anche tentato di realizzarla in certo senso ridotta al minimo. Anche su questo problema sarebbe giusto da parte mia riflettere sulla "musica non destinata all’esecuzione" e sulle conseguenze che ha questa circostanza sui vari aspetti del comporre.

3. Concerto per gong, cimbali, campane, campanelli cantanti con violino obbligato

A proposito di "musica non destinata all’esecuzione"! Sarebbe veramente impossibile mettere insieme un complesso simile. La mia convinzione è che puoi decidere che la musica realizzata attraverso il computer, proprio perché non destinata all’esecuzione, e quindi proprio perché è esclusa dal concetto stesso di "dal vivo" (o per un’altra infinità di ragioni), semplicemente non esiste: questa è una decisione possibile, ma a mio avviso è una opinione "fuori del (nostro) tempo". Se viceversa decidi che esiste  allora devi in certo senso perfezionarne la teoria! Mettere in evidenza i problemi che sorgono, a vari livelli, a cominciare dai suoni campionati, sintetizzati, dalle possibili commistioni strumentali, ecc. ecc. fino ai problemi di partitura, e naturalmente anche di modalità di ascolto e di "esecuzione"  – dal momento che è inaccettabile una forma di “concerto per casse acustiche"...). Tra l’altro sarebbe interessante avere una sia pur breve storia di ciò che i musicisti hanno  fatto e pensato su questi problemi – una sorta di antologia di opinioni novecentesche (e oltre) su di essi. A me sarebbe molto utile. Ma mi sembra che qualcosa del genere non esista, benché esistano molti libri sulla "musica elettronica" – espressione secondo me talora usata erroneamente come se fosse un genere musicale. Per quanto riguarda i tuoi commenti al pezzo, sono veramente molto belli. In futuro (per quel che mi sarà dato) vorrei sperimentare molto in tutte le direzioni, il far musica mi piace e mi sembra anche logico concludere in questo modo la mia attività filosofica. Anche se certamente sono tentato anche da una riflessione abbastanza ampia a partire da queste mie esperienze, che finora non ho potuto realizzare. Per quanto possa sembrare singolare un’impostazione fenomenologica sembra particolarmente adatta a misurarsi con il calcolatore.

 

[…]

 G. P.

10 agosto 2016

[...]
sto per inviarti il mio promesso tomo di quasi 300 pagine. Il suo oggetto è la mia immensa Quinta Sonata per pianoforte. Come vedrai tu stesso, il mio nome non figura mai associato al pezzo. Figura invece – per una sorta di gioco di specchi – in  qualità  di terribile recensore, di implacabile fustigatore del pezzo. Ho pensato di protrarre il gioco del mio alias per l'intero volume, sicchè alla fine uno (che non sarai certamente tu) si chiede chi sia mai l'autore dello stralunato, ambizioso, arrogante, lunghissimo pezzo. Ma da te mi importa molto avere soprattutto un giudizio sulle tesi esposte nel libro (a prescindere da chi le formula e a prescindere dall'elefantiaco pezzo che ho eletto a bersaglio delle mie ragionate elucubrazioni).

Leggerai in questo volume, fra le altre cose, una teoria della noia, una teoria della genesi patologica dell'arte e degli artisti (so bene che tu mi parlerai di una deriva positivista, lombrosiana: tieni per favore presente il fatto che il libro è destinato a un target non di specialisti, i quali scoprirebbero immediatamente il gioco, ma bensì a una platea di ascoltatori musicalmente non alfabetizzati, o comunque non smaliziati al punto da .... criticare il critico, come fa generalmente Dahlhaus nei suoi scritti su Adorno e su Beethoven riletto da Adorno, o viceversa da prenderne ignobilmente le difese). Ci sono in questo libro molte cose, un po' alla rinfusa come lo sono i temi della mia Sonata.

Per finire, ti sarò grato fino al termine dei miei giorni (e oltre) se, insieme alla prevedibile marea di feroci appunti che tu (sperabilmente) mi farai (in quanto io sono il primo a farli ferocemente a me stesso, e ben conosco i miei limiti come saggista), grazie, dunque, se tu avrai la bontà  di dire qualcosa (anche solo qualcosina) di buono in merito a questo libro ed al suo autore. Confesso: l'editore mi ha domandato di redigere un paio di frasi per la quarta di copertina, o di chiedere a un amico di scrivere due parole efficaci. Ora, caro Giovanni, mi onorerebbe moltissimo poter prendere a prestito qualcuna delle cose che tu mi scriverai e farne, opportunamente virgolettate, quindi in guisa di regolare citazione, col tuo nome ovviamente, un brevissimo claim da riprodurre sul back cover del libro. Questo se il libro ti piacerà . Se non ti piacerà , carissimo Giovanni, mi inventerò qualcos'altro, sicchè: non sentirti per nulla e assolutamente, neppure in minima parte, "obbligato" o "in dovere" di scrivere qualcosa e di farlo in modo favorevole a me. Da te chiederei la massima severità , la più grande sincerità  (che so bene tu poni sempre in atto quando giudichi le mie cose), il massimo rigore logico ed estetico, senza sconti, senza favoritismi.

Ti so lineare e retto nella formulazione dei tuoi giudizi, censore implacabile ma giusto, sempre perfetto nel modo in cui dici le cose, e per come scegli di motivare i tuoi pareri. Attendo con ansia che tu mi dica qualcosa, qualunque cosa. Sarà davvero in ansia perchè morirò dal desiderio di sapere che cosa tu pensi del mio libro. Ti avverto, caro Giovanni. che tu sarai il primo vero lettore di questo libro, il primo testo nel quale io parlo di me stesso e della mia musica, e sia pure dal profilo appartato di un nom de plume che ad altri attribuisce la creazione del pezzo mattoide (è questo un modo un po' subdolo e recalcitrante per distanziarmi, per prendere le misure così come fanno i sarti e gli impresari di pompe funebri, i quali confezionano l'ultimo abito per la cara salma). Da te io vorrei un parere il più possibile ferreo, cattivo se occorre, spietato se occorre, ma giusto e corretto come sempre sei tu, mio caro amico, e come è nella tua nobile natura.

 
[...]

 C.A.L.

20 agosto 2016

[...]

 
come ho subito previsto, alla prima occhiata, ho letto il libro tutto d'un fiato. E non è proprio il caso di infierire sul musicista o sul musicologo, due personaggi da te - anzitutto letterariamente - meravigliosamente tratteggiati. Sono sbalordito - e perciò lo dico subito, anche se questa non è la cosa più importante - dalla ricchezza delle tue citazioni, che attingono in ogni luogo e colpiscono il segno in modo micidiale. Invidio apertamente la tua capacità di lettore e la precisione della tua memoria.

Questo tuo libro è assolutamente fuori del comune. Non ho mai letto nulla che gli possa somigliare. La sua ricchezza di contenuto e il modo in cui questa ricchezza è esibita non ha paragoni. Naturalmente ci sono tra noi convergenze e qualche divergenza, e , come è ovvio, sull'unico piano delle opinioni teoriche e delle valutazioni "storiche" che io mi sento un poco autorizzato a difendere, ma nella lettura del tuo libro che è, ad un tempo sfrenato ed equilibrato, tutto mi è venuto in mente tranne che divergenze e convergenze possibili. E questo perché il libro ti afferra e ti trascina con sè, come penso che accada con la tua Quinta sonata. E' dunque difficilissimo per me entrare nel merito: gli argomenti che riesci a toccare sono talmente tanti e importanti  - eppure non vi è nulla di affastellato o di frettoloso! - che non si potrebbe intervenire in essi in modo che, da parte mia,  sarebbe invece inevitabilmente affastellato e frettoloso. Ho così pensato di mettermi nei panni di un onesto e modesto redattore di casa editrice e di scrivere una vera e propria "bandina", che ha delle sue regole abbastanza definite.

Eccola:

"La prima cosa che va detta in rapporto a questo libro è che esso è unico - senza poter peraltro precisare, come si fa di solito - "unico nel suo genere", perché il genere è a sua volta più d'uno: anzitutto esso è un libro scritto da uno dei più notevoli compositori dei tempi nostri; ma l'autore non compare nel testo come tale. Egli parla invece in prima persona come musicologo-commentatore non già di se  stesso, e della sua ormai famosa Quinta Sonata, bensì del musicista autore di quella sonata -  "parto mostruoso di un compositore il cui nome stentiamo a ricordare, il cui nome - a voler essere esatti - non vogliamo  neppure ricordare". Inutile dire che si tratta di un libro irresistibilmente ironico in cui l'autore vitupera ostentatamente se stesso come in uno specchio del possibile vituperio altrui; e dunque esso ha anche un andamento satirico, a tratti, lo si può ben dire, ferocemente satirico; senza peraltro mai cedere alla malevolenza, alla polemica sterile, all'astio - virtù delle menti piccine che sarebbero subito avvertite dal lettore e che lo infastiderebbero. L'ironia e la satira si traducono invece in un stile divertito e divertente, talora addirittura spassoso. Ciò per quanto riguarda la forma letteraria, semplicemente mirabile. Da questo punto di vista anche la scelta di spezzare il discorso in paragrafi brevi e pregnanti è una scelta felicissima perché da un lato facilita la lettura e la riflessione su argomenti molto seri, dall'altro, per ciò che essi dicono, sono lampi che fanno intravedere il fitto intrico degli alberi di una foresta - tanti sono gli interrogativi e i problemi sollevati. E qui veniamo  al contenuto. Per gran parte del libro la Quinta Sonata non appare in primo piano, ma rappresenta una sorta di fondale a partire dal quale fare emergere in primo luogo un discorso generale sulla musica, con geniali e frequenti digressioni analogiche sulle arti visive; ma soprattutto su ciò che la musica è o dovrebbe essere, ed in particolare sui controversi percorsi che essa ha seguito dal primo ottocento fino ad oggi. Percorsi estremamente vari e mutevoli, attraverso i quali si sono invece troppo spesso stabiliti dei tracciati rigidi accettati da musicisti e musicologi con esemplare conformismo. Questo libro sembra voler esigere a gran voce la restituzione della loro mobilità - e lo esige non impegnando il lettore in tecnicismi comprensibili solo agli addetti ai lavori, ma usando un'arma particolarmente potente, che è quella dell'afferramento di un concetto attraverso un'immagine. Nel libro si accenna a molti autori del passato e del presente - Schubert, Brahms, Schoenberg, Stravinsky, Nono, Cage, Scelsi... - e si riesce a prospettare in modo immaginifico punti di vista su di essi che sconvolgono la rigidezza di quei tracciati, agitando le acque di una possibile, ed anzi necessaria, messa in questione. La Quinta Sonata si fa avanti a poco a poco. Anzitutto in rapporto alla sua struttura interna, che viene illustrata, sempre con il minimo di tecnicismi ed il massimo di fantasia creativa, come una struttura forte e, nello stesso tempo, anche debole: in particolare si mostra la coerenza tra le scelte effettuate sul piano strettamente musicale (scala ottotonica, l'esclusione di polarizzazioni tonali o cadenzali  e quindi della dialettica tensione/distensione) e quella che appare la sua caratteristica più vistosa: la durata "mostruosa", che di per se stessa fa epoca per il passato ma anche per il futuro, dal momento che si può dubitare ragionevolmente che essa possa avere dei seguaci ed imitatori. Ma questa durata pone tutta una problematica amplissima - che può prendere le mosse dalla Quinta Sonata, ma che poi si estende alla questione del rapporto con il pubblico e delle modalità dell'ascolto. Si tratta di un problema diventato ormai cruciale per Landini, un problema che egli solleva all'interno di una valutazione pessimistica delle forme di ricezione della musica indotte dalla rivoluzione tecnologica in corso. E poiché anche all'interno del libro la Dismisura prevale sulla Misura, le proposte di Landini si muovono tra l'utopia e il paradosso, e tanto più dunque eccitano la discussione con il suo fecondo portato di consensi e dissensi. Certo ci si può chiedere, ed è questo l'ultimo paradosso: che senso ha leggere il libro se non si è ancora udita la Quinta Sonata? E' vero il contrario: questo libro va letto prima di aver ascoltato la sonata! Ed è scritto in modo da accompagnare, il lettore, di vituperio in vituperio, di deprecazione in deprecazione, fino a quel punto fatale in cui sorge il desiderio più vivo di ascoltarla."

E' superfluo che io aggiunga che di questo scrittarello - che ho comunque meditato per vari giorni - puoi fare assolutamente quello che vuoi.

[...]

G.P.


2017


Dilla, dilla la nota d'oro


4 marzo 2017

[…]

 Mi domandavi un parere in merito al tuo “Dilla, la nota...” Bene, caro Giovanni, il pezzo da te scritto – non ho difficoltà ad ammetterlo, a dirtelo con grande gioia e con pari solidarietà di amico – è davvero molto bello. Molto. Me lo sono ascoltato e goduto per tre volte di seguito. Un flauto cinguettante all’inizio con contorno di effetti percussivi di metallofoni delicatissimi, volute di fumo, gong orientali, glass chimes che dondolano al vento, poi l’entrata discreta degli archi su una nota lunga tenuta a formare un accordo consonante per poco, due note fatte sul gong, ripetute.

 
Richiamo del maestro zen all’attenzione. Perché di lì a poco gli archi iniziano un fitto disegno fortemente vibrato, oscillato all’inverosimile. Il tutto ha un sapore vagamente cosmico, soundtrack da film di fantascienza (sarebbe piaciuto, suppongo, a Ligeti). Inizia poi, fitto, il dialogo degli archi a parti reali. A partire da una semplice nota lungamente tenuta (che entra a un minuto dall’inizio del pezzo). Violoncello a 2:46. Un forte colpo di grancassa (3:22) seguito da un silenzio surreale, interrotto appena dal piatto percosso con la spazzola, with the brush. Tamburo militare, due rulli rapidi mentre gli archi riprendono, si ripete più volte il rullo al fortissimo del piatto percosso dalla spazzola (3:37 e nuovamente a 3:50, una terza e quarta volta a 4 minuti dall’inizio del pezzo, una quinta volta a 4:25, una sesta volta a 4:35).

A un certo punto si ode il water gong, il tipico effetto del gong immerso nell’acqua. Il dialogo tra archi e percussioni, questo riottoso gong – water gong – che fa udire la sua voce eterica (ma potrei dire: elettrica, o elettrizzante) al di là  e contro la petulanza degli archi, è davvero impressionante. Mi piace molto (siamo a 5 minuti dall’inizio del pezzo). Il primo ad avere adoperato questo effetto è stato, se la memoria non mi inganna, George Crumb. Lo ha ampiamente sfruttato un compositore cinese molto alla moda due o tre anni fa a Milano, Tan Dun, ora praticamente (per fortuna mia e di tutti) scomparso dai palinsesti delle orchestre italiane (segno che l’esotismo fine a se stesso non sempre lascia traccia di sé). Fino all’emergere finale, sullo sfondo, dei contrabbassi. Con l’intervento dei quali, forse troppo breve, intervento che forse io avrei allungato di una manciata di secondi (dato che esso costituisce un novum, un elemento che tu introduci per la prima volta, e che sino a quel momento ancora non si era ascoltato), il pezzo si chiude. Altrettanto misteriosamente di come (perdona l’anacoluto, ma la Crusca non dice nulla in merito, ho controllato) esso si era aperto.

 
Il mio solo e unico problema riguardo al tuo pezzo è il finale. Scusami tanto, si tratta di un giudizio di gusto personalissimo. So bene, sappiamo bene entrambi, che i finali beethoveniani sono spesso e volentieri non preparati, inattesi, imprevedibili. Personalmente prediligo i finali "lungamente preparati", siano essi vettori di una tensione destinata ad approssimarsi allo spasimo, al non ulteriormente gestibile e sopportabile, come in Rossini e nei suoi Finali d’atto, siano essi quelli di Schubert, conducenti a poco a poco ad un piano "morendo", destinato ad estinguersi per fisiologica inanizione, si direbbe per inedia. Ecco. Io sono molto attento al problema della "chiusa". Mi hai chiesto di essere sincero con te fino all’impudicizia, lo sono, e allora tu non dovrai offenderti se ti confesso che il tuo finale io non lo afferro, non lo capisco. Il finale del tuo pezzo è l’unica e sola cosa che non mi riesce, per quanto "affetto" io metta nell’ascolto, a condividere. Rammento una sentenza di Franco Fortini. Gliela udii pronunciare a voce. Si era negli anni ‘80 al Caffè Portnoy prospiciente le Colonne di San Lorenzo e il parco della Vetra a Milano. Intorno a Franco si erano radunati 8–10 poeti e qualche giovane di belle speranze come il sottoscritto. Lesse non so quale sua poesia. Interpellato da uno degli astanti, Fortini ammiccò e disse, lentamente e scandendo le parole (come sempre accade quando parla l’oracolo di Delfi): "Il primo verso di una poesia rie-sce sempre facile, viceversa è l’ultimo verso di una poesia a riuscire con maggiore difficoltà : è proprio da esso, dal suo ultimo verso, che si giudica in merito alla bontà  di una poesia e alla bravura di un poeta". Io ho trovato una mia formula, ca-ro Giovanni, che per iscritto sarebbe lunga a illustrarsi. Essa riproduce grafica-mente la curva di Gauss e mima, o simula, o emula, l’andamento della crescita dapprima, della decadenza poi, di un organismo. Per quanto banale e riduttivo ciò possa parere, è a questa formula, che per me assurge a massima dell’ingegno e dell’estetica, che io mi attengo. Non cerco mai il grande effetto, alla fine. Mai. Aspetto che la musica trapassi, come nell’Adagio della Nona di Mahler, in un silenzio che esprime più del suono, che parla al cuore più di qualunque effetto, per grande o piccolo che sia. Ecco, se il tuo pezzo mi piace interamente dalla prima nota all’ultima, è unicamente sul senso del tuo finale "sospeso" che io mi interrogo. E’ questa forse la sola e unica delusione che io ho provato ascoltando il tuo peraltro bellissimo e seducente pezzo, forse il più bello – se posso stilare una mia personale classifica, una personalissima graduatoria, opinabile e discutibile finché si vuole ma appunto per questo, per la sua soggettività , non sindacabile – forse il più bello, ripeto, che tu abbia concepito e scritto, o che io abbia di te ascoltato. Se il tuo pezzo avesse un finale diverso, più morbido, più graduale, più diluito nel tempo, più "distillato" e fatto filtrare un poco alla volta nella coscienza di chi ascolta, ecco, il tal caso io lo riterrei praticamente perfetto. Perfetto. Che cosa pensi delle mie osservazioni? Ti paiono esse campate in aria? Dato che in questo caso sei tu ad avere composto il pezzo, avresti ogni buon diritto a ribattermi a muso duro: "a me, caro Carlo, è piaciuto così". Avresti ogni buona ragione nel farlo.

 
[…]

 C. A. L.


12 marzo 2017

 
[...] 

Quanto al mio finale... che vuoi? Forse dobbiamo  invidiare i tempi in cui tutti i musicisti sapevano come si doveva cominciare un pezzo e soprattutto come doveva finire. In quei tempi lontani qualunque musicista aveva di fronte a sé una sorta di tipologia delle forme – e prima di tutto sceglieva all’interno di essa: ad es. Quartetto d’archi o Sonata a tre. Magnifico.

Persino l’organico, e quindi la timbrica, era predeterminata. (Che io sappia non esiste nessun brano del passato per pf, 2 vl e 2 vc – come io ho fatto, organico del resto banalissimo; ma forse nemmeno per 2 viole e pianoforte). Non c’era nemmeno bisogno di dare un titolo. Tempi beati. Bastava un numero. E con un solo titolo potevi magari fare 12 o 24 brani.

Stessa beatitudine per  i "finali". Forse non è azzardato dire che i tipi di finali a disposizione si riducevano drasticamente. E’ vero che, come tu osservi, c’era poi la possibilità di giocarseli in maniera molto diversa – ed è abbastanza  vero anche  – mi sembra che anche questo sia detto implicitamente nella tua ultima lettera – che in qualche modo una struttura cadenzale deve pur esserci. Un pezzo deve dire di se stesso: sto per terminare, sono terminato.

 
Questo è un problema che si pone oggi come allora, ma certo in maniera assai più libera, formalmente meno compatta. Talora la semantica può prevalere sulla sintassi, così come l’immagine può prevalere sulla struttura. È ciò che accade qui. Cosicché forse il finale potrà sembrarti più appropriato se rileggiamo insieme la conclusione della poesia pascoliana da cui questo brano prende il titolo:

Ma voce più profonda
sotto l’amor rimbomba,
par che al desìo risponda:
la voce della tomba.

In ogni caso la tua osservazione critica potrebbe essere musicalmente giustificata. Ed anche se io la trovassi ingiustificata hai fatto benissimo a farla, la considero in ogni caso una manifestazione di grande amicizia.

 
[...]

G.P.


 

Echoes unplugged

Yoko Morimyo

 


23 giugno 1917

[...]
oggi ho risentito nuovamente il tuo pezzo per violino solo – Echoes Unplugged  (2016) eseguito dalla bravissima Yoko Morimyo. Tra ieri e oggi l’avevo in testa. Perciò lo ho voluto risentire. Evidentemente mi ha colpito. Mi ha colpito il fatto che hai costruito un pezzo che si serve unicamente di suoni al limite delle sonorità possibili del violino, ma spesso utilizzati nella composizione novecentesca. Nel rigore di questa unicità sta l’aspetto straordinario della composizione. Oltre natural-mente nella riuscitissima alternanza di queste sonorità esasperate. Del violino classico vi è forse solo qualche traccia nell’arco su e giù sulle quattro corde, e forse negli strappati. Ma qual’è poi il violino classico? Nella mia passeggiata serale di ieri ho pensato che certamente il violino, come ogni strumento, ha una sua fisionomia, una sua tipicità, una sua  "anima". Ma gli autori, le epoche, le diverse culture, reinventano spesso l’anima del violino. Già tra Corelli e Vivaldi l’anima del violino muta, lo spumeggiare del suono violinistico, i fuochi artificiali di Vivaldi non vi sono in Corelli. Poi vi è l’anima lirica che il violino ha ricevuto da Beethoven e Mendelssohn... E del Paganini dei Capricci non si può forse dire che ha colto ancora un’altra anima del violino? Prima di lui non si era mai sentito il violino suonare così. Per arrivare poi a Stravinsky – al violino popolaresco dell’ Histoire du soldat...

Ora io penso che Carlo Alessandro Landini abbia voluto, con questo brano, con la sua inesorabile assolutezza, esibire per così dire in sé e per sé l’anima del violino dei tempi nostri. In certo senso sarebbe molto bello che venisse programmato un concerto nel quale i brani fossero scelti in modo da presentare la storia dell’anima del violino: non so dove questa storia dovrebbe cominciare, ma certamente questo concerto immaginario dovrebbe concludersi con questo tuo brano.

 
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 G. P.


                                                                                2018


 

Stanze



 


3 ottobre 2018

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oggi ho ricevuto il tuo preziosissimo pacchetto contenente il tuo volume di versi intitolato “Stanze” e il  disco del tuo quartetto.  Lo ho aperto come si apre uno scrigno! E già ora ti dirò che sono pieno di ammirazione per il progetto che sta alla sua base. L’idea di trarre ispirazione e suggestioni da frasi di poeti e narratori del genere più vario è davvero straordinaria! Ma dovrai attendere alquanto perché io possa immergermi ed addentrarmi nelle tue 432 stanze –  che sono un poema, ed ognuna di esse lo è. All'ammirazione si unisce la meraviglia e stupefazione per questa tua attività poliedrica che io peraltro avevo già sospettato – accompagnate dal pensiero di una tua esistenza completamente attraversata dalla ricchezza dell'immaginazione.
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G.P.

11 ottobre 2018
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A tutt’a prima ho pensato che ci avrei messo almeno un mese per leggere il tuo “poema” ed invece, la curiosità prima, e poi la tensione dell'attenzione mi ha portato ad una lettura intensa e continua in questi ultimi giorni. E debbo dirti anzitutto che la mia prima superficiale ammirazione, relativa alla forma del progetto, è stata più che confermata dal contenuto. Una prima osservazione va peraltro a quella forma: hai ragione di affermarne l’originalità per vari motivi, ed anzitutto per la scelta dell'origine del tuo fare poetico. In questa scelta il vecchio adagio strutturalistico per cui la letteratura nasce dalla letteratura, che si riferiva soprattutto al livello linguistico, è stato ripreso e nello stesso tempo stravolto. Perché qui l'elemento letterario rappresenta uno spunto che muove l'immaginazione creativa, che stimola il poeta a far scorrere un ruscello da quella piccolissima fonte - e questa fonte sta dappertutto: questo il motivo per cui all'ammirazione si unisce la meraviglia.

Subito sono stato colpito dal riferimento a Jack London  - seconda e terza stanza - da cui estrai un quadro tutto tuo, un vero e proprio dipinto poeticamente animato.  Ed allora l'interesse della lettura si accresciuto diventando vorace. Gli autori da cui prendi spunto talora sono ben noti, talora per me del tutto ignoti e sofisticati. Oltretutto la componente che io chiamo strutturalistica non viene per nulla perduta, perché di continuo nelle trame dei tuoi versi si riprendono stilemi classici, parole arcaiche che sono entrate nella lingua della poesia (che per lo strutturalismo è una lingua a sè stante), per non dire dell'endecasillabo e dell'idea della stanza.   Sorprendente è anche l'inflessibilità con cui ti attieni a questa tua scelta - che è una scelta che a me sembra, in questa estensione e con questo rigore, difficilissima. Un richiamo al passato, certamente, che viene reso attuale - un richiamo al "classicismo", alla letteratura italiana classica, ma non solo a quella (e debbo osservare che non ti è estranea la rima, baciata, alternata, interna...) La difficoltà d'altra parte sta soprattutto nella brevità che ti è concessa dalla "stanza". Forse è più facile scrivere un poema, perché vi è una trama narrativa in certo senso riducibile o preparatoria in prosa, mentre una stanza è un "lampo".

Su questi tuoi lampi vi sarebbe moltissimo da dire. Intanto e si dovrebbe puntare l'attenzione sulla varietà delle "scene" che esse illuminano.

Vi sono paesaggi:
“talora con lampi dentro i lampi”
[stanza 202]
“riposano \ i mostri, laggiù, nel purpureo mare"
[stanza 78]
“Sulla spiaggia si abbatte con fragore dei marosi
l'eternità forte e selvaggia”
[stanza 355]

Vi sono fiabe minime:
“La bellissima fata con la voce
‘dolce come una campana d’argento’
[stanza 301]

Deliziosi quadretti:
“Tra il bagliore delle saette schizzano
le galline, volano dalle loro gabbie
che l’acquazzone tranciasbarre
inonda di pioggia e di vento”
[stanza 190]

Fantasie ricche di senso:
“Non ho fermato la morte. Accanto
ella mi passò con piede veloce,
rapida e silenziosa come il vento.
Non l’ho fermata. Allora fu lei,
o cara, con il garbo d’una nobile
signora, a fermarmi. Da quel momeno
in poi assunse il viaggio nostro, a poco
a poco, la gratuità del gioco.
[stanza 83]

Vi sono stanze che parlano  della musica, dell'amore, dei sentimenti nelle loro sfumature più sottili, stanze ironiche, metafore della vita, massime etiche... è veramente difficile, ma sarebbe molto interessante,  elencarne i temi, riunirli, godere della tua trattazione poetica, ma anche riflettervi sopra, perché, è inutile che te lo dica, c'è molto filosofia in queste tue stanze. Tutte le tue stanze meriterebbero un commento, ed alcune di esse anche di ordine esplicativo, e auguriamoci che un cri-tico letterario ritenga di realizzare un simile progetto. È veramente meravigliosa la ricchezza di questi tuoi versi, i riferimenti esemplificativi che ho appena fatti sono lontanissimi dal dare un’idea di questa ricchezza. Intorno ai numerini ho voluto fare dei piccoli cerchi quando incontravo qualcosa di notevole per una ragione o per l'altra, pensando di potertene parlare, ma i piccoli cerchi sono diventati così numerosi da essere indominabili.

Ora voglio concludere questa lettera con un racconto personale. Io non ho mai scritto poesie. Meglio così. Ma una volta un musicista mi ha chiesto di preparargli un testo poetico per una musica che gli era stata commissionata avendo come base una frase eraclitea di Leonardo. Risposi di rivolgersi ad un poeta, ma poi fui ten-tato dall'idea di un brano musicale con un testo se non scritto, almeno organizzato, da me stesso. In effetti perché non raccogliere da fonti eterogenee segmenti di frasi in un tutto unitario? Così feci. Il musicista invece non ne fece nulla.  Dopo qualche anno decisi io stesso di scrivere musica con voce recitante su quei "versi". Il brano si intitola “Il grande canto”.

Due parole soltanto sul tuo quartetto intitolato Changes. La tua capacità di dominio delle sonorità degli strumenti ad arco è realmente magistrale. La tua scrittura è assolutamente complessa e difficile (come lo è da realizzare da parte dei bravissimi del quartetto Arditti). All’inizio del quartetto  si fa sentire una sorta di brulichio, borbottio acuto... non so come chiamarlo,  interrotto come una maledizione dai ff - un contrasto netto e ribadito. Poi l'attenzione è attratta dal crescendo effettivamente trasmutante con cui il pezzo incessantamente prosegue. L'idea generale mi sembra quella di prendere le mosse da forti intervalli, per poi molto lentamente scivolare nelle Mutazioni che sono l'esatto opposto dei contrasti, e che quindi ricevono proprio per questo una esaltazione reciproca. All'inizio le delicatezze del "fondale" entrano in  urto con le violente e dure strappate,  poi i contrasti vanno via via attenuandosi e quel fondale viene nettamente in primo piano e subentra l'atmosfera del brano che   mi è piaciuta maggiormente. Intanto i pianissimi diventano misteriosi, attraenti e nello stesso tempo inquieti

Ti abbraccio pensando ad una vita come la tua così interamente dedita alle cose dell'arte.
 

G.P.



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