Intervento proposto in una tavola rotonda sull’intelligenza artificiale per Radiotre su invito di Corrado Mangione - 1987
A proposito dell'espressione 'intelligenza artificiale' (44.45 kB)
Questo testo è ora stato pubblicato nei "Frammenti epistemologici"
Forse un modo molto semplice per impostare una discussione che tenda a cogliere le implicazioni di ordine filosofico della tematica dell’intelligenza artificiale è quello di soffermarsi su due modi piuttosto diversi di impiegare questa espressione.
Si può parlare di intelligenza artificiale usando questa espressione tra virgolette o sottintendendole in ogni caso quando se ne parla oppure senza virgolette o addirittura con una virgoletta sola, come se cominciassimo con l’aprire le virgolette e ci dimenticassimo poi di chiuderle. È evidente che usare le virgolette, prima aperte e poi accuratamente chiuse, significa impiegare questo termine con un alto grado di convenzionalità, come una sorta di designazione convenzionale per indicare una determinata fase nello sviluppo dei linguaggi di programmazione ed un ambito problematico ben definito.
Il senso di intelligenza artificiale non sarebbe in tal caso determinato dal riferimento all’intelligenza umana, e tanto meno dalla contrapposizione - di per sé assai singolare - tra una intelligenza «naturale» ed una «artificiale», ma piuttosto da questi problemi, in realtà abbastanza esattamente determinati o esattamente determinabili, che si pone in concreto il ricercatore in rapporto ai linguaggi di programmazione orientati in questa direzione così come, naturalmente il progettista e lo studioso di elettronica per la parte fisica del problema.
Dicendo ciò voglio proprio sostenere che potremmo rinunciare completamente al riferimento all’intelligenza ed all’artificio senza rimetterci nulla per ciò che riguarda la realtà del problema - ma io direi anche del suo interesse filosofico, anzi dei molteplici interessi filosofici che le problematiche speciali che vengono riunite sotto quel titolo rivestono. Vorrei sostenere insomma che una corretta discussione su questi interessi filosofici dovrebbero prendere le mosse proprio dal riconoscimento della completa inessenzialità di quella designazione.
E tuttavia essa è stata inventata, ed è stata in certo senso popolarizzata: non è forse una simile considerazione iniziale troppo riduttiva? Veniamo allora all’impiego dell’espressione intelligenza artificiale senza virgolette o addirittura con una virgoletta sola. L’espressione impiegata senza virgolette lascia vivere ed agire proprio il riferimento all’intellgenza umana ed alla sua ricostruzione o imitazione artificiale, lascia vivere il suggerimento o la suggestione di una tecnologia che sta ormai per impadronirsi di alcune scintille dell’attività della ragione. Mi permetto di ascrivere (non so se a torto o a ragione) l’uso dell’espressione intelligenza artificiale con una virgoletta sola prevalentemente proprio agli addetti ai lavori, che in realtà vorrebbero evitare la virgolettatura, che sanno molto meglio di quanto sappia io che la realtà del problema non sta nello svampimento filosofico di quella espressione, ma nella concretezza delle problematiche teoriche e pratiche che vanno affrontando di volta in volta, e che quindi sono subito pronti a chiudere in un momento qualunque le virgolette che hanno lasciato ambiguamente aperte.
Naturalmente, anche considerando le cose da questo lato si colgono svariate implicazioni che hanno a che vedere con un orientamento intellettuale complessivo che solo in parte ha a vedere con la portata teorica e conoscitiva autentica del problema.
Io credo che non si debba temere di segnalare almeno come problema su cui avviare una riflessione più approfondita la presenza proprio nel cuore di quello che è senza alcun dubbio una delle punte più avanzate dello sviluppo teorico, scientifico e tecnico del secolo XX, di aspetti singolarmente regressivi, sia per ciò che riguarda gli sfondi ideologici, sia per ciò che riguarda l’atteggiamento intellettuale.
Dietro l’espressione di intelligenza artificiale a me sembra che si riaffaccino o possano riaffacciarsi concezioni filosofiche sostanzialmente superate. Ad esempio, una posizione di tipo comportamentistico che bada ai risultati che si manifestano esteriormente, piuttosto che ai processi mentali che stanno alla loro base, sembra appartenere quasi in modo intrinseco all’impostazione che sta alle sue spalle. Ciò che importa qui è infatti il comportamento manifesto della macchina, in modo in cui essa «si comporta» e l’interpretabilità di questo comportamento come se avesse alla base un processo mentale definibile come intelligente, mentre si prescinde interamente dall’esistenza effettiva di un simile processo. Si tratta peraltro di un modo non privo di interesse di porre il problema e che meriterebbe una discussione più dettagliata di quella che è possibile condurre qui. Essa dovrebbe tuttavia evitare il rischio di una ripresa acritica di una concezione comportamentistica nelle sue forme più vecchie e più logore.
È anche innegabile la possibilità che tematiche materialistiche troppo elementari riprendano fiato: l’immagine della macchina capace di pensare e di comprendere rilancia l’homme machine. Si fa avanti così un riduzionismo di tipo materialistico che prende le mosse da una istanza di formalizzazione completa dei processi mentali per approdare ad una ipotesi di riduzione dei meccanismi formali a meccanismi fisico-materiali.
Io non credo che queste possibili implicazioni filosofiche siano realmente obbligatorie. Tuttavia mi sembra di notarne la presenza, talvolta scoperta, talvolta implicita e serpeggiante nei dibattiti. E se le cose stessero proprio così, se questi orientamenti intellettuali fossero veramente ritenuti come una sorta di supporto filosofico necessari, io tenderei a pensare che l’informatica, giunta al livello dei problemi dell’intelligenza artificiale, non ha ancora la filosofia che si merita.
La presenza di un aspetto regressivo lo si avverte poi in maniera particolarmente evidente in due aspetti che affiorano di continuo: accade raramente di udire un intervento di carattere generale sull’intelligenza artificiale e sulla robotica che, nonostante tutta la prudenza scientifica, non abbia almeno una sfumatura che tradisce la presenza di una fantasia di onnipotenza. Del resto credo che l’espressione stessa di intelligenza artificiale non sarebbe mai stata coniata senza che sullo sfondo vi fosse una simile fantasia. E le fantasie di onnipotenza sono notoriamente fantasie caratteristicamente infantili.
L’altro aspetto assai singolare e fortemente contradditorio riguarda la tendenza all’impiego di un linguaggio fortemente antropomorfico che non è affatto una caratteristica solo dei testi divulgativi. Questa tendenza si è cominciata ad affermare già nelle prime fasi della storia del calcolatore, ma raggiunge in realtà la sua massima espansione nel caso della robotica, come sembra ovvio. A mio avviso non si tratta per nulla di una tendenza giustificata da una sorta di passaggio qualitativo, di mutamento di natura della macchina: ma si tratta di una paradossale reviviscenza di animismo preistorico che si presenta, del tutto inatteso, nel punto più alto della tecnologia novecentesca. Il linguaggio impiegato nel rapporto tra l’operatore e il calcolatore o nella descrizione del rapporto tra il calcolatore e il mondo esterno è normalmente di tipo animistico. Noi parliamo alla macchina ed essa ci ascolta, talvolta risponde ai nostri interrogativi, ad essa possiamo impartire degli ordini che essa poi esegue in vari modi. Naturalmente a tutto ciò si aggiunge la clausola dell’artificio: come vi è una mano artificiale, così può esservi una vista artificiale o un odorato artificiale - la macchina vede e annusa. L’intelligenza artificiale diventa la metafora che corona tutte queste metafore, una sorta di integrazione necessaria.
Il problema che sto toccando dovrebbe certo essere considerato più a fondo: la tendenza ad una modalità di discorso antropomorfico è ovunque presente nell’ambito della tecnologia ed ha molte giustificazioni dalla propria parte. Questa tendenza non riguarda solo l’elettronica o il calcolatore. Ad esempio, parliamo della sensibilità di una pellicola fotografica. Questa parola ha una ovvia origine analogica. Ma vorrei quasi dire che la gente è stata fin dall’inizio educata ad escludere od a mettere da parte questa valenza antropomorfica ed a orientarsi invece sui processi fisici corrispondenti: cosicché a nessuno verrebbe in mente di parlare di sensibilità artificiale della pellicola o della macchina fotografica come una macchina che ha un occhio artificiale, o che vede artificialmente. L’aspetto singolare è che vi è invece, nel nostro caso, una tendenza ad educare la gente nella direzione opposta: benché si sappia bene che, nonostante la complessità maggiore, gli organi sensori di un robot, la sua sensibilità non differisce nell’essenziale da quella di una pellicola fotografica.
Per concludere, sono ovviamente favorevole ad un impiego dell’espressione intelligenza artificiale strettamente virgolettato, anche se ciò equivalesse alla caduta di discorsi interessanti solo in apparenza, ma privi di reale contenuto. A me sembra che la filosofia avrebbe materiale particolarmente ricco e interessante con cui misurarsi considerando più da vicino le problematiche particolari che vengono direttamente o indirettamente suggerite da questo genere di ricerche. L’espressione di intelligenza artificiale impiegata senza virgolette allude invece per lo più ad una sorta di utopia moderna, che sta sullo sfondo di ricerche che non sono per nulla utopiche, ma anzi molto determinate, molto concrete.
Parlando di utopia non voglio affatto affermare che si debba ritenere impossibile, per qualche misteriosa ragione, la riproduzione tecnica di procedure che si possano chiamare «intelligenti». Fornendo una definizione opportuna di procedura intelligente la questione di questa possibilità potrebbe essere anzi considerata già positivamente risolta. Non dobbiamo infatti dimenticare che quando si parla di intelligenza artificiale non si fa affatto solo un discorso al futuro, ma ci si richiama anche a prodotti già pronti e reperibili sul mercato. Anche tenendo conto di ciò non vedo per quali ragioni si debba mantenere quel riferimento utopico che poteva forse essere giustificato come elemento propulsore negli stadi più arretrati di questi sviluppi.
Si tratta dunque di attenersi alla dimensione reale del problema. Ciò che io mi chiedo è, in altri termini, se non dobbiamo prendere atto, appunto realisticamente, di un momento nuovo nel rapporto tra l’uomo del novecento e la tecnologia del novecento, tra noi e la nostra tecnologia. Per caratterizzare questo momento nuovo parlerei forse di una sorta di pacificazione, o, ancor meglio, di superamento del disagio di fronte agli eccezionali sviluppi tecnologici che il nostro secolo ha conosciuto e che fanno parte della sua storia più interna e profonda. Questo disagio ha dato luogo a forme equivoche di rifiuto, a posizioni catastrofiche, ad atteggiamenti depressi e deprimenti di fronte alla tecnica. L’uomo è diventato antiquato - si è detto efficacemente, cioè con un’efficace dichiarazione di impotenza. Una eco di questo disagio si avverte in realtà anche in molti discorsi orientati in direzione opposta, nei discorsi euforici piuttosto che in quelli depressi.
A me sembra che si debba prendere atto del fatto che ci stiamo ormai rappacificando con la nostra tecnologia, che il disagio di un tempo stia via via venendo meno. Non abbiamo dunque più bisogno di sentirci impotenti e nemmeno onnipotenti, e stiamo cercando, e forse in parte, abbiamo già trovato un giusto punto di equilibrio, un più corretto punto di vista per comprendere, giudicare e valutare. Bisogna insomma prendere atto del fatto che l’uomo del novecento è diventato adulto, anzi è invecchiato, ha quasi novanta anni - e sarebbe un grave errore non tenerne conto.