Questo testo deriva da alcune lezioni del corso sul tema
" L'immaginazione" tenuto nel'anno accademico 1979-1980
(Università degli Studi di Milano, Filosofia Teoretica I)
Data di immissione in questo archivio: maggio 2004
Le regole dellimmaginazione (1.31 MB) (pp. 48)
Le regole dell'immaginazione
2. In che senso si parla di regole nel caso dell'immaginazione
3. Le regole nell'immaginazione fantastica
4. Le regole nell'immaginazione immaginosa
5. Le regole nelle opere dell'immaginazione
6. La concretizzazione dell'immagine
7. Figure retoriche e regole dell'immaginazione
In copertina, fotografia di G. P.
Ci occuperemo qui di problemi che possono essere riuniti sotto il tema delle «regole dell'immaginazione». In luogo di regole potremmo parlare anche di metodi o di procedure dell'immaginazione, o addirittura di logica dell'immaginazione. Come vi sono regole del pensiero - quelle regole che applichiamo più o meno esplicitamente nei nostri ragionamenti e che possono essere studiate sistematicamente da un'apposita di disciplina, la logica - così potrebbero esservi delle regole dell'immaginazione ed anche una disciplina che tenti di individuarle e di fornire di esse una sinossi sistematica.
L'idea di una «logica dell'immaginazione» affiora nell'ambito della filosofia romantica dell'immaginazione, ed in particolare all'interno di quel singolare complesso di riflessioni filosofiche rappresentato dai Frammenti di Novalis[1]. Si tratta di un libro assai singolare per più di un motivo: accanto a spunti che colpiscono per la loro vivacità ed acutezza, ve ne sono altri che appaiono, ad una lettura a prima vista, quanto meno stravaganti; altri ancora ci potranno sembrare degli enigmi indecifrabili. La lettura di questi frammenti richiede perciò una difficile ricostruzione di nessi interni, e naturalmente una conoscenza approfondita della cultura e dell'atmosfera spirituale del romanticismo nel suo complesso. Questa difficoltà interpretativa è presente anche negli unici due frammenti che intendiamo ricordare qui. In essi si parla di «fantastica», espressione coniata sul modello di «logica» proprio per indicare una disciplina relativa alle regole dell'immaginazione.
Framm. n. 1092: «Se possedessimo anche una fantastica come possediamo una logica, l'arte dell'invenzione... sarebbe inventata. Della fantastica fa parte anche l'estetica, in certo qual modo come la dottrina della ragione fa parte della logica» [2].
Framm. n. 1187: «Che le leggi fondamentali della fantasia siano quelle opposte (non quelle capovolte) della logica?» [3].
In entrambe le osservazioni è chiaramente formulato il problema di una logica dell'immaginazione in connessione con la logica nel senso consueto. Nel primo frammento questa connessione sembra assumere il carattere di un parallelismo, mentre nel secondo si inclina a cogliere piuttosto una contrapposizione. L'analogia con la logica è naturalmente presente anche nell'impiego dell'espressione: «leggi fondamentali della fantasia». Questa formulazione è abbastanza naturale nell'ambito della logica, tenendo conto del modo in cui essa è stata concepita dalla tradizione filosofica, perché essa rimanda ad uno studio delle regole che abbia lo scopo di organizzarle in un sistema. Il nesso sistematico sarà poi dato dall'esistenza di leggi fondamentali da cui una molteplicità di altre leggi possa essere derivata. Nel secondo frammento si avanza il dubbio che questo rapporto tra fantastica e logica possa essere di contrapposizione, anche se la natura di essa viene lascia in sospeso.
Si tratta di formulazioni molto precise, ma non appena cerchiamo di interpretare più a fondo il loro senso la loro apparente chiarezza tende ad offuscarsi. Intanto non è affatto chiaro se l'idea di una «fantastica» sia prospettata in positivo, come compito da portare a realizzazione, o non piuttosto in negativo, come se si volessero sollevare dubbi intorno alla possibilità di un simile compito. La formulazione della prima frase nel frammento n. 1092 potrebbe far propendere per questa seconda interpretazione. In effetti essa si apre al condizionale, ed inoltre si connette subito una simile «fantastica» ad un'arte dell'invenzione ed all'idea di un'estetica. Si potrebbe voler dire: se possedessimo una fantastica, l'estetica non sarebbe più un problema e disporremo di una vera e propria arte dell'arte. Le leggi fondamentali della fantastica fornirebbero i criteri della valutazione estetica e nello stesso tempo i metodi per la produzione artistica. In effetti è abbastanza dubbio che, dal punto di vista di Novalis e di una filosofia romantica dell'immaginazione in genere, la realizzazione di una simile fantastica sia seriamente auspicabile. Di quella filosofia fa parte l'idea di una creatività irriducibile - e in particolare irriducibile a regole - così come una stretta relazione dell'immaginazione con l'interiorità intesa come una interiorità insondabile. È possibile dunque che l'idea della fantastica formulata nel primo frammento possa essere considerata «in negativo» e che nel secondo frammento l'accento cada sull'opposizione tra logica e immaginazione, piuttosto che sull'idea dell'esistenza effettiva di «leggi fondamentali». Forse la cosa migliore per noi è considerare la questione come sospesa tra l'una e l'altra alternativa - come un interrogativo che può fare da sfondo alla discussione che intendiamo sviluppare.
L'analogia con cui può essere introdotta l'idea di regole dell'immaginazione deve tuttavia essere presa con molta cautela. Ciò che segnala subito una differenza è che, nell'ambito della logica, la nozione di regola ha senso proprio perché è possibile in base ad essa discriminare un ragionamento corretto da uno sbagliato. La regola implica dunque strettamente la possibilità della sua violazione. Per questo motivo la regola può assumere il carattere di norma.
«Dalla proposizione p consegue q secondo questa regola»: in questo modo si potrebbe indicare che sussiste tra le due proposizioni un determinato rapporto. Tuttavia si vede subito che questa indicazione può essere posta nella forma di una prescrizione: se è data la proposizione p, allora devi assumere la verità di q - se questa consegue da p: non sei obbligato a farlo, ma così devi fare se vuoi ragionare in conformità alle «legalità interne del pensiero». Che le regole della logica possano presentarsi come norme significa appunto che esse possono assumere il carattere di prescrizioni.
Ciò mostra subito che l'analogia non ci può portare lontano. Ammesso che si possa parlare di regole anche nel campo dell'immaginazione, certamente il senso di questa parola deve essere abbastanza diverso. L'immaginazione è, in via di principio, libera - essa non tollera prescrizioni. Questa intolleranza non è una caratteristica aggiuntiva dell'immaginazione, ma rimanda all' «essenza» stessa degli atti immaginativi.
Certamente, talvolta si è parlato di regole dell'immaginazione in un senso prescrittivo. Tuttavia quando queste regole venivano concretamente formulate, ad esempio nel campo delle produzioni artistiche, non si trattava dell'immaginazione soltanto, ma di «preconcetti estetici» le cui giustificazioni debbono essere ricercate non tanto in una filosofia dell'immaginazione, ma in ben determinate opzioni culturali. In base ad esse, si discrimina tra opere valide o semplicemente accettabili e opere non valide ed inaccettabili, ristabilendo così una sorta di simmetria con il problema della correttezza o scorrettezza dei ragionamenti. Un'opera artistica che non si attenga a certe regole sarà allora da considerare come qualcosa di simile ad un ragionamento contorto e confuso, se non proprio ad un'argomentazione falsa. E la regola avrà di conseguenza carattere di norma.
Dovremmo allora affermare che vi è una logica dell'immaginazione, una sua «grammatica» solo in rapporto a determinate scelte e decisioni estetiche - ad esempio quando si tratta dei prodotti dell'arte, e dunque che vi sono soltanto grammatiche storiche dell'immaginazione, escludendo che possa darsi una grammatica dell'immaginazione come tale? Finché ci atteniamo all'accezione di regola fin qui formulata la risposta non può essere che affermativa.
Lo stesso problema può tuttavia essere affrontato anche da un altro punto di vista, a partire dal quale la nozione di regola muta di senso. Pensiamo in proposito all'ambito della percezione. I compiti che si propongono in questo ambito riguardano le varie tipologie possibili delle situazioni percettive: essi si realizzano individuando differenze caratteristiche, ovvero, che è lo stesso, rintracciando le condizioni fenomenologiche che debbono essere soddisfatte affinché si dia una configurazione percettiva di questo o quel tipo. Tenendo conto di ciò si potrebbe parlare, in rapporto a queste condizioni, di regole della percezione, e ciò avrebbe un senso che non conterrebbe nessun rimando, né esplicito né implicito, ad una qualche prescrizione. Si tratta semplicemente del fatto che se in una sequenza di fenomeni percettivi mi si presenta un determinato oggetto, ciò dipende da condizioni immanenti nel contenuto e nella forma di connessione dei fenomeni, dunque nella stessa struttura della sequenza. Il parlare di regole si impone qui in stretta connessione con un orientamento rivolto in direzione della struttura.
Considerazioni analoghe valgono nel campo dell'immaginario. Naturalmente si dovrà tener conto della «libertà dell'immaginazione». Nell'ambito della percezione noi abbiamo sempre a che fare con situazioni percettive che si integrano nell'unità di un mondo reale, di un mondo dell'esperienza. Le tipologie eventuali rimandano a questa unitarietà di principio. Nulla di simile accade invece nell'ambito dell'immaginario. In esso non abbiamo a che fare con un unico mondo - cosicché proporre il problema delle regole dell'immaginazione come se si trattasse di individuare qualcosa di simile a costanti immaginative, a categorie che sarebbero in grado di delineare lo schema di organizzazione del mondo immaginario, sarebbe certamente privo di senso perché la nozione di mondo immaginario inteso come un mondo unico ed unitario non ha alcun fondamento. Ma non per questo si deve rinunciare alla nozione della tipicità e della regola. Occorre invece assumere un punto di vista che guardi ai prodotti dell'immaginazione anzitutto nella loro disparatezza. I prodotti dell'immaginazione sono molteplici e sono anche imprevedibili. Questa molteplicità fa parte del problema della libertà dell'immaginazione. Nell'immaginazione facciamo come vogliamo. Eppure, quando abbiamo fatto ciò che abbiamo voluto, dando luogo ad un prodotto immaginativo, è ancora possibile rivolgersi a questo prodotto per rendere chiaro il modo in cui è stato costruito, dunque per portare alla luce le regole della sua costruzione. L'equivoco sta nel considerare il tema delle regole come se esso implicasse una legalità dell'immaginazione nella quale siano precostituiti i suoi prodotti.
Secondo questo modo di impostare il problema si prenderanno le mosse dalla particolarità: ad esempio, da una determinata narrazione, da un dipinto, da un sogno, da una fantasticheria concreta. Ma se di qui riusciamo ad estrarre delle regole, sappiamo già che in linea di principio altre storie potranno essere costruite nello stesso modo, applicando le stesse regole. Dal piano del dato di fatto passiamo a quello delle pure possibilità. Le regole messe in evidenza non sono regole solo di questa storia, ma anzitutto possibili regole dell'immaginazione, che convergono nella formazione di un tipo.
Per illustrare esemplificativamente il tema delle regole dell'immaginazione conviene prendere le mosse dai prodotti della fantasia: la fantasia opera una alterazione della realtà, il fantastico è il reale alterato [4] . Gli esempi potrebbero essere anche assai poco ambiziosi: mostri dalle sette teste, giganti e nani, cavalli alati, castelli di vetro, ecc. Si tratta di esempi che sono rammentati anche da Hume quando tratta appunto della facoltà immaginativa. Ma in Hume essi pretendono di illustrare l'essenza stessa dell'immaginazione, cosicché essa assume il carattere di una facoltà essenzialmente combinatoria e per di più come un'attività che si esercita in ogni caso su materiali preesistenti. Invece la capacità combinatoria dell'immaginazione rappresenta solo un aspetto dell'attività immaginativa. L'immaginazione come fantasia coglie il mondo come un mondo da ricomporre a piacere - quindi la sua prima azione è proprio questa: essa manda il mondo in pezzi. Il disunire ciò che sta unito, per operare riaggregazioni in oggetti che non appartengono al nostro mondo può essere il nostro primo elementarissimo esempio di «regola dell'immaginazione».
Se dovessimo descrivere il paesaggio della fantasia certamente in esso dovrebbe esservi un luogo in cui vi sono, sparsi di qui e di là, le mani separati dalle braccia, la testa dal tronco, le ali dal corpo...; ed in altri luoghi si aggireranno esseri strani, mostri con i piedi attaccati direttamente alla testa, centauri, alberi dal volto umano, cavalli alati...
Il cavallo alato... Qui intanto si vede subito, dalla superficie, dal modo in cui questo oggetto è fatto, la regola che ha presieduto alla sua costruzione. E che lo si veda subito, dalla superficie, non è affatto una sottolineatura superflua. Anzi essa è indicativa della nozione di regola qui in questione e dell'impostazione che intendiamo far valere. Così, se per mostrare il carattere disaggregativo e aggregativo dell'immaginazione si citasse il personaggio di Natascia nel romanzo di Tolstoj Guerra e Pace, che, a detta dello stesso autore, risulterebbe dalla fusione dei tratti della moglie e della cognata dell'autore, si alluderebbe ad un problema interamente diverso, e precisamente alla genesi psicologica di un personaggio che ovviamente non può essere estratta dalla lettura del testo [5] .
È chiaro inoltre che con lo stesso metodo in cui è costruito il cavallo alato, possono essere costruiti molti altri oggetti. Citando il cavallo alato illustriamo l'idea che esistono metodi dell'immaginazione: e ne indichiamo uno. Sulla base di altri esempi, ne potremmo indicare altri: un pittore dipinge di azzurro un cavallo. Ecco un altro metodo, un altro modo di alterare la realtà. Volendo imitare questo metodo, potrei dipingere di giallo il cielo.
Ed ancora: i giganti non hanno nulla da spartire in quanto metodo della loro costruzione con i cavalli alati; e neppure con quelli azzurri. Ma anche in questo caso vi è un'alterazione della realtà: l'oggetto fantastico è ottenuto in un altro modo, come eccesso di un oggetto reale. Vi sono uomini molto grandi - e la grandezza può diventare iperbolica. Ecco dunque un'altra regola. Nello stesso modo sorgono i pollicini oppure i lunghissimi capelli di Raperonzolo.
Ma subito ci si chiederà se indicando alcuni esempi di metodi di alterazione immaginativa della realtà vorremmo suggerire che il problema sia quello di realizzare un elenco, come se qui fossimo in presenza di un primo inizio che dovrebbe poi a poco a poco essere esteso sistematicamente. In tal caso si vede subito che ben presto finiremmo in un vicolo cieco. Scegliendo opportunamente l'esempio, ogni regola sembra relativamente determinata e circoscritta. Ma volendo proseguire su questa strada ci troveremmo di fronte ad una singolare indeterminatezza. Qualora ci proponessimo di elencare seriamente i modi possibili dell'alterazione si vede subito che il compito potrebbe non finire mai. I modi di alterazione della realtà, di decomporla e di ricomporla, sono certamente tanti. Ma forse prima che infinito esso è soprattutto un compito indefinito: spesso potremmo essere incerti se due regole si debbano riunire in una sola, se l'una sia un caso particolare di un'altra che forse non val nemmeno la pena di mettere in elenco. L'alterazione iperbolica del reale sembra un metodo ben distinto dalla regola di una nuova aggregazione di parti originariamente appartenenti ad oggetti reali distinti. Ma che potremmo dire di un uomo con sette teste o di una mano con otto dita? Simili formazioni sono da subordinare alla prima regola o alla seconda, oppure si deve introdurre una nuova regola? La sensazione che si tratti di domande oziose è più che giustificata: esse richiedono non tanto una risposta, quando un ulteriore chiarimento intorno alla nozione di regola dell'immaginazione.
Il fraintendimento presente in quelle domande sta in questo: quando ci si accinge, di fronte ad un prodotto dall'immaginazione, ad interrogarsi sulle sue regole, non si vuole per nulla pretendere che di esse si voglia o si debba fare un inventario. Alla domanda sotto quale regola cada una mano con otto dita - se si tratti di una procedura iperbolica o di una nuova aggregazione oppure se si debba formulare una nuova regola e quale - risponderemmo: fai come vuoi. Se per qualche motivo sei interessato ad un caso simile ed eventualmente ad una nuova regola, aggiungila tu. Il nostro elenco non diventerà per questo più completo per il semplice fatto che quegli esempi non sono l'inizio di un elenco che attenda un completamento.
Ci si sbarazza della domanda assumendo una relativa indeterminatezza come un dato del problema. Indicando alcune regole, scegliendo gli esempi opportuni per stabilire tipologie, intendiamo anche segnalare che le regole dell'immaginazione sono molto varie, che esse sono innumerevoli - alla lettera: che esse sono senza numero, e perciò non si possono contare. Una «fantastica», nello spirito di queste considerazioni, conterrebbe dunque esempi di regole, e quindi il tema della regola che quegli esempi debbono illustrare, ma non un inventario di regole. Quegli esempi poi debbono essere intesi come un modo di aprire gli occhi secondo una determinata direzione nei confronti dei concreti prodotti dell'immaginazione. Osservando un dipinto in cui la realtà appare fantasticamente alterata, ci porremo tra le altre, anche domande intorno al modo dell'alterazione e dunque intorno alle sue regole. Per questo non vi è bisogno di alcun elenco preventivo, la regola puoi trarla direttamente dal dipinto. E puoi far riferimento ad altre regole, a tipologie che ci sono già note per stabilire raffronti, mettere in evidenza differenze, e dunque per porre nuove domande intorno a ciò che stiamo guardando, per comprendere il prodotto immaginativo nel suo possibile senso.
Questo stesso problema si ripresenta anche nell'ambito dell'immaginazione immaginosa. Abbiamo allora a che fare, non già con entità immaginarie, ma con sintesi immaginative. L'indicazione generale da cui dobbiamo prendere le mosse è dunque la fusione dei contenuti. La tematica dell'immaginosità dell'immaginazione rimette in questione quella dell'associazione e delle catene associative. Le catene associative sono caratterizzate dal fatto che possiamo indicare una regola che giustifica il passaggio da un anello all'altro della catena. La formulazione della regola rimanda a sua volta al sussistere di un rapporto tra i contenuti in base al quale essi vengono associati e quindi immaginativamente fusi. Ora i rapporti tra le cose possono essere di varia specie, e così abbiamo subito a che fare con la varietà e la molteplicità delle regole associative e di conseguenza con vari modi di fusione, con immagini di diverso tipo. Vi saranno ad esempio immagini fondate sul rapporto si somiglianza: così si può dire di Achille che «è un leone». Invece l'espressione «bere un bicchiere» rimanda nel suo senso ad un nesso associativo che non è fondato su un rapporto di somiglianza. Il vino lo si beve normalmente dentro un bicchiere - abbiamo così a che fare con un rapporto contenente-contenuto. Nel caso vela-barca, il rapporto potrebbe essere di parte ad intero. Considerati sul piano linguistico si tratta di esempi che vengono normalmente indicati rispettivamente come esempi di metafora, metonimia e sineddoche. Ma alla base della formulazione linguistica vi è un'immagine, ed alla base di questa una associazione. In realtà non basta associare Achille al leone per avere l'immagine; sull'associazione si deve innestare una sintesi immaginativa, che fa sì che l'un contenuto si fonda con l'altra - perché vi sia un'immagine autentica si deve veder trasparire in Achille le zanne del leone. Ma il problema della sintesi non si pone solo nel caso della metafora, ma anche negli altri casi. L'espressione «bere un bicchiere» la si può usare anche come un'immagine spenta, ma se essa fosse in qualche modo viva, potremmo dire che in quel bicchiere vediamo spumeggiare il vino. Anche qui vi è fusione, come nel caso precedente, benché l'immagine abbia alla sua base una diversa regola associativa. Così parlando della «vela» come immagine della barca non significa solo che il profilo della barca si annuncia immaginativamente nelle sue vele, ma che il richiamare la barca attraverso le vele significa prospettare la barca veleggiante sulle onde marine mosse dalla brezza del vento. Ciò che hanno in comune queste immagini è la presenza di sintesi immaginative. La diversità sta nella differenza della regola associativa che rende possibile quella sintesi. In questo senso, se da un lato possiamo indicare una caratteristica generale delle immagini, dall'altro possiamo anche mettere in evidenza il sussistere di differenze che rimandano al modo diverso in cui i contenuti assimilati si trovano all'interno di una catena associativa.
A questo punto ci imbattiamo in difficoltà analoghe a quelle relative alle regole dell'alterazione. Da un lato mettiamo l'accento sulla possibilità di stabilire delle classificazioni e delle tipologie. Dall'altro sorge subito la questione relativa all'indeterminatezza delle regole ed alla loro varietà. Se questa indeterminatezza non viene intesa in modo corretto, potrebbero sorgere falsi problemi.
Per ciò che concerne l'indeterminatezza, è già abbastanza significativo il fatto che in precedenza non abbiamo affatto presentato una definizione delle figure linguistiche citate. Non abbiamo definito che cosa è una metafora in generale, che cosa è una metonimia, che cosa una sineddoche. Abbiamo invece fornito alcuni esempi illustrativi. Se volessimo una definizione vera e propria di queste figure, che ci offra un criterio di applicazione sicuro, potremmo rivolgerci ai manuali di retorica. Ma essi non sono in grado di liberarci in un battibaleno da ogni difficoltà. In luogo di chiare distinzioni, troveremo elenchi e casistiche e tentativi di definizione in mezzo a controversie e discussioni. In effetti, sulla base di determinati esempi, la distinzione tra le figure potrebbe risultare del tutto chiara. Per altri esempi invece potremmo rimanere indecisi, e la distinzione tra le figure si oscura. Quanto alle definizioni proposte esse sono appunto dei tentativi che per lo più cercano di formulare in qualche modo gli aspetti che sembrano comuni nella casistica degli esempi. Ma in rapporto ad esse si aprono discussioni a non finire.
Dobbiamo concludere che non disponiamo ancora di una definizione rigorosa e che prima o poi questa definizione verrà scoperta? Evidentemente le nostre considerazioni procedono in altra direzione. Una relativa indeterminatezza fa parte della natura del problema. Essa è strettamente connessa con l'aspetto apparentemente paradossale che assume la questione del numero delle regole. Poiché abbiamo indicato tre esempi di regole, sembra ovvio pensare ad una possibile enumerazione, come se ci dovessimo accingere a realizzare una sorta di quadro sistematico di tipi di immagini. Ma le cose mutano se ritorniamo sulla questione dell'associazione, che sta alle radici del problema.
Pensiamo a Hume: egli riconosce l'esistenza di tre regole dell'associazione: la somiglianza, la contiguità e il rapporto di causa ed effetto. Poiché quest'ultimo rapporto viene interpretato, in seguito a considerazioni di ordine filosofico, come un rapporto iterato di contiguità, la regola causale può essere soppressa. Si effettua così una prima riduzione delle regole, che da tre diventano due. Si noti che Hume non ritiene affatto necessario menzionare tra le regole associative il nesso contenente-contenuto oppure quello di parte-intero. Dobbiamo così presumere che questi nessi siano per lui riducibili a nessi di contiguità. La parte sarà certamente «vicina» all'intero di cui è parte; e così pure il vino al bicchiere. In certo senso ampliamo l'impiego del termine di contiguità, facciamo di esso un impiego generico - cosicché quando parliamo di due regole soltanto, possiamo ritenere che un processo di riduzione abbia già avuto luogo. Ma questo processo può ancora essere portato oltre. Così non sarebbe difficile ridurre la contiguità alla somiglianza. Ad esempio oggetti spazialmente vicini potrebbero essere detti simili nel luogo che essi occupano. Con un po' di fantasia argomentativa si può riuscire ad operare anche la riduzione inversa, riconducendo la somiglianza a contiguità (ciò si trova del resto esplicitamente teorizzato nella tradizione associazionista) [6]. Ma se giungiamo ad operare una simile riduzione, in certo senso la tematica delle regole sembra dissolversi. Come potrebbe non aver senso elencare i modi di alterazione possibile della realtà, così potrebbe non avere senso accingersi ad elencare i modi possibili dei rapporti che consentirebbero l'istituzione di un nesso associativo.
Naturalmente invece di imboccare la via riduttiva, potremmo imboccare la via opposta, rifiutandoci fin dall'inizio di operare uno svuotamento dei termini, che rappresenta il vero e proprio congegno della riduzione. Decidiamo allora di attenerci al senso che i termini hanno in contesti di esperienza ben definiti. Ovvero: ci impegnamo a riportare l'impiego di un termine e il suo senso ai giochi linguistici quotidiani. Notiamo come appare da questo punto di vista forzato parlare della vicinanza come somiglianza nel luogo oppure della somiglianza come dovuta al possesso di una parte comune. Così nel discorso corrente non diremo che il mio piede è vicino al mio corpo, e nemmeno che esso è in contatto con esso. Parleremmo invece del mio piede come parte del mio corpo. Così non diremo che il vino è parte del bicchiere in cui si trova, ma che esso è contenuto nel bicchiere. In questo modo le differenze riprendono i loro diritti. Anche questa via peraltro potrebbe andare troppo oltre, invece che una riduzione estrema si potrebbe avere una moltiplicazione estrema. Se prima le regole erano troppo poche, ora rischiano di essere troppe. Alla regola contenente-contenuto dobbiamo aggiungere anche una regola del contatto - visto che cose in contatto potrebbero trovare in questo un motivo per la loro associazione?
In realtà tra la via riduttiva e quella moltiplicativa non siamo affatto obbligati a scegliere. L'una e l'altra intendono solo mostrare la problematicità della nozione di regola qui in questione. L'importante non è la regola in se stessa, e nemmeno stabilire quante regole ci sono, oppure quali siano tra esse le più importanti. Di fronte all'ossessione di una classificazione esaustiva e rigorosa, a noi basta affermare che le regole sono molto varie e innumerevoli. Ciò che ci sembra interessante è la proponibilità di una tematica delle regole. Questa proponibilità significa che, data un'immagine puoi sempre porti il problema di individuare la sua regola interna, la sua struttura. Ed una tematica di tipologia dell'immagine sorge da confronti e serve come strumento per effettuare confronti, ed infine ancora per comprendere meglio la struttura dell'immagine. Di fronte ad un dipinto non possiamo limitarci a guardarlo intensamente, dando libero seguito alle nostre fantasticherie. Ma dobbiamo porci delle domande ed anche imparare a porcele. A questo serve attirare l'attenzione sull'esistenza di regole dell'immaginazione.
La tematica delle regole e di possibili tipologie dell'immaginazione non può avere lo scopo di fornire una descrizione dell'operare dell'immaginazione prima delle sue opere. Perciò le entità fantastico-immaginarie non debbono essere considerate come cose della fantasia, cioè come entità inesistenti che hanno le loro proprietà così come tutte le altre cose che ci stanno intorno. Nel descrivere i modi della loro costruzione potrebbe accaderci di comportarci come ingegneri che descrivono il modo in cui è fatto un giocattolo con cui nessuno gioca più. È invece indispensabile considerare i giocattoli dell'immaginazione in quanto essi sono effettivamente giocati. Dunque non dovremmo parlare del modo in cui è fatto un cavallo alato, ma del cavallo alato in quanto si trova effettivamente in una favola, in un disegno, in una fantasia concretamente realizzata: non ci interessa solo sapere come è fatto un simile oggetto, ma come esso funziona concretamente all'interno di contesti ben determinati, tenendo conto d'altronde del fatto che non vi è affatto una sola via che conduce dal modo di costruzione al suo funzionamento. Il modo della costruzione può essere ovvio. La funzione, imprevedibile. I giocattoli dell'immaginazione non sono predestinati ad un unico gioco.
Dopo aver tanto parlato di cavalli alati, nel disegno di Kubin intitolato Di fronte ai gradini (1900), ci troviamo finalmente faccia a faccia con un cavallo alato autentico, cioè effettivamente immaginato all'interno di un fantasizzare reale:
Nell'osservare questo disegno, avvertiamo subito che nei nostri discorsi precedenti vi era una lacuna. Sottolineando che l'oggetto fantastico non è una cosa della fantasia, quindi richiamandoci alla sua vitalità, dobbiamo certamente implicare la relazione con la soggettività che lo vive, con tutto il suo carico di emozioni, di sentimenti, di pensieri. Considerando la questione da questo lato ci rendiamo subito conto che deve far nuovamente sentire i suoi diritti l'altro lato dell'operare dell'immaginazione, la sua attività produttiva di immagini. La distinzione elementare tra fantastico e immaginoso non toglie certamente l'unità delle funzioni immaginative ed il fatto che l'immaginazione si applica a se stessa in una grande varietà di forme. Cosicché non vi è affatto da sorprendersi se la funzione della valorizzazione immaginativa viene ritrovata all'interno stesso del fantastico. È anzi proprio la valorizzazione immaginativa che conferisce agli oggetti fantastici tutto il loro fascino. Ciò che li rende attraenti è proprio l'innestarsi su di essi di processi di valorizzazione. Il tema della valorizzazione fa riemergere d'altra parte il nesso tra immaginazione e desiderio e l'emotività in genere: la soggettività viene messa in questione proprio dall'attrazione esercitata dall'entità fantastica, attrazione di cui non potremmo rendere conto soltanto sulla base della sua regola di costruzione, ma sui percorsi di senso che a partire da essa prendono l'avvio. La soggettività stessa si mette allora in cammino sul doppio sentiero del fantastico e dell'immaginoso - accompagnandosi con le figure che si prospettano nel suo corso ed entrando con esse in rapporti variamente complessi di appropriazione, repulsione, identificazione.
Così il cavallo alato, non appena entra in una fantasia concreta, diventa un oggetto fantastico che ha il profilo di un'immagine. Quale sia il movimento dell'immaginazione che esso mette in moto lo possiamo decidere a partire dalla concretezza del contesto. Certamente il puro contenuto del cavallo alato sembra subito evocare felici fantasie di cavalcate celesti; e così può accadere che gli saltiamo fiduciosamente in groppa abbandonandoci ad una cavalcata nell'alto dei cieli. Ma si guardi quanto da ciò diverge il cavallo alato di Kubin!
Subito siamo colpiti dall'atmosfera cupa del disegno. E tanto più lo siamo quanto più un indice di valorizzazione positiva fa comunque parte delle possibilità di questa entità fantastica. In certo senso tale indice continua a fare da sfondo alla nostra lettura del disegno. In una parola: il cavallo di Kubin non è affatto un cavallo a cui si possa saltare in groppa. Vi è una importante possibilità immaginativa che viene contestualmente svisata, ovvero l'oggetto viene proposto in un contesto che blocca proprio quella possibile direzione dell'immaginazione (e un simile svisamento potrebbe benissimo essere annoverato tra le regole dell'immaginazione). Per questo non basta richiamarsi solo al contesto come se l'oggetto assumesse questa o quella connotazione di senso unicamente in forza di esso. Il contesto è decisivo - ma esso interagisce con il campo dei valori possibili entro cui vive il contenuto immaginativo.
E come non possiamo appropriarci del cavallo e saltare ad esso in groppa sentendolo immediatamente nostro, così un simile cavallo alato non spiccherà mai il volo. Esso sta in cima a qualcosa di simile ad un enorme monumento - ed in questo suo irrigidimento statuario le ali non possono più richiamare la possibilità del volo. Esso diventa un idolo pietrificato, qualcosa di simile all'immagine di un potere inaccessibile, misterioso, insensato. Muta allora la direzione dell'identificazione. Il disegno ci costringe ad identificarci con quegli esseri umani oscuri e miseri, che si prosternano all'idolo animalesco e che girovagano, ciascuno per proprio conto, avvolti da neri mantelli, intorno al grande monumento: in una sorta di processione che esclude tuttavia la comunanza di un rito. Ognuna formicola per conto proprio sotto l'incombere dell'idolo, la cui inaccessibilità è sottolineata dagli enormi gradini. Anche qui è presente un altro possibile artificio immaginativo, al quale si può dare eventualmente la forma di una regola: la scala che indica anzitutto una possibilità di accesso e di ascesa, è rappresentata nel disegno per rendere evidente una condizione di assoluta inaccessibilità.
Notevole è anche la dimensione spaziale in cui la scena viene presentata. Nell'insieme essa appare con caratteri di irrealtà che contribuiscono ad accentuare la valorizzazione in direzione pronunciatamente simbolica - sfiorando l'allegoria. Questo effetto di irrealtà è affidato soprattutto al momento spaziale. La costituzione dello spazio come costituzione esperienziale è strettamente connessa con l'apprensione di cose che possano fungere da sostegni per la costruzione percettiva di uno spazio. Nel disegno invece vi sono certamente cose - il cavallo, il monumento, le figure umane - tuttavia esse non fanno da basi per la costruzione di uno spazio, ma sono immerse in uno spazio indeterminato che è da esse completamente indipendente. Le cose non prospettano uno spazio. Nessuno, io credo, parlerebbe in questo caso di una piazza, al cui centro vi è un monumento ad un cavallo alato.
Ancora da Kubin togliamo un secondo esempio. Si tratta di un disegno anch'esso del 1900 il cui titolo vorremmo per il momento tener nascosto.
Tanto era semplice e generica la regola della disaggregazione operata dalla fantasia, tanto è sottile e complesso il modo in cui essa opera in questo disegno. In effetti se dicessimo soltanto che vi è una testa separata dal tronco, saremmo lontani dal fornire anche una semplice descrizione del disegno. Ciò che importa infatti, nel risultato espressivo, è la relazione che viene istituita nello stesso momento in cui l'immaginazione ha realizzato la disaggregazione. Se volessimo avviare una descrizione che fornisca il filo conduttore ad un commento, potremmo cominciare con il dire che in esso un corpo senza testa guarda la propria testa che lo guarda in modo stravolto. È il disegno stesso che ci costringe ad esprimerci in questo modo apparentemente paradossale. La posizione reciproca della testa e del tronco ci induce a parlare di un duplice sguardo. E proprio questo tema del duplice sguardo contiene l'intero problema costruttivo che sta alla base della ideazione di questo disegno. Il corpo umano dalla testa mozzata si trova in posizione eretta, e non, ad esempio, riverso come quello di un decapitato. Per di più, in posizione di riposo, di contemplazione, vorrei quasi dire: di calma contemplazione, se teniamo conto della posizione leggermente divaricata delle gambe e delle mani presumibilmente incrociate davanti. A questa calma contemplazione del tronco fa da contrasto lo sguardo sconvolto, ad un tempo, terrificato e terrificante, della testa giacente a terra. Ci troviamo qui dunque di fronte ad una complesso di opposizioni: la disaggregazione agisce nel senso di separare due parti congiunte, ma la separazione rimanda ad una opposizione che oltre ad essere spaziale è anche psicologica (calma e sconvolgimento). Nello stesso tempo la disaggregazione viene realizzata in modo da mantenere l'immagine di un'identità personale. Abbiamo detto infatti: un corpo senza testa guarda la propria testa, e inversamente la testa guarda il proprio corpo: questo duplice sguardo è in realtà un unico sguardo rivolto a se stesso. Credo che per fare questo commento basti il disegno, e non vi sia bisogno del titolo che apertamente lo conferma e che suona: Selbstbetrachtung - osservazione di sé. L'unità è istituita visivamente nel disegno. Credo che sia difficile che il disegno venga percepito come se la testa fosse quella di un altro. Attraverso la dissociazione di corpo e testa si percepisce una unità. Ed è appena il caso di dirlo: una unità come drammaticamente scissa. Il disegno congela immaginativamente una condizione di irrimediabile lacerazione. È poi possibile ritrovare altri significati «inconsci» all'immagine della testa mozzata e della «autosservazione» così rappresentata? È possibile, io credo. Ma attraverso altri mezzi, altre metodologie. Una considerazione fenomenologica non può, ad esempio, sostituirsi ad un'interpretazione psicoanalitica, e nemmeno lo vuole*.
* Mi è gradito rammentare in rapporto a Kubin, il bel lavoro di tesi di laurea di Tulliola Sparagni, Orbis Pictus: il mondo immaginativo di Alfred Kubin, svolto presso il mio insegnamento e discusso nell'anno accademico 1979-1980.
La tematica delle regole dell'immaginazione è stata qui affrontata tenendo d'occhio la nostra distinzione tra il fantastico-immaginario e l'immaginoso. Abbiamo anche già notato che vi è un intreccio tra le due funzioni, che l'una interagisce con l'altra in una grande molteplicità di forme. Un caso interessante di questa interazione è quella che potremmo forse chiamare, dando ad essa la dignità di una regola, «concretizzazione dell'immagine». In base ad essa l'immagine trapassa nell'entità fantastico-immaginaria.
Questa procedura è illustrata a meraviglia da ciò che accade a Pinocchio quando giunse nel paese dei balocchi. Come tutti sanno, egli divenne un ciuco. Dopo di ciò gli capitano tutte quelle disavventure che possono capitare ad un ciuco, finisce in un circo, viene bastonato, azzoppato, buttato in mare, ecc. ecc. L'origine di questa invenzione narrativa è del tutto chiara. Di una persona possiamo dire che è un asino, dove la copula non esprime alcuna predicazione autentica; ed ecco che l'immaginazione interviene sull'immagine, in certo modo riproponendo l'autentico impiego predicativo, benché ovviamente nell'ambito della neutralizzazione delle posizioni d'essere. Di qui la metamorfosi da cui prende lo spunto la narrazione. L'immagine concretizzata diventa nucleo di una storia. Procedura semplice ed ammirevole - che fa apprezzare l'intelligenza dell'immaginazione, contro i discorsi scontati sulla sua irrazionalità.
In certo senso, in casi come questi l'immaginazione gioca con se stessa, con le proprie regole. Essa interviene due volte: nella produzione dell'immagine e nella sua concretizzazione. Nello stesso tempo, si mostra qui una possibile e precisa connessione tra l'immaginoso e l'immaginario. L'oggetto fantastico, l'asino come metamorfosi di Pinocchio, è direttamente derivato da una sintesi immaginativa. L'immaginazione che opera sintesi mostra qui la propria unità con l'immaginazione in quanto facoltà antisintetica. Nello stesso tempo, l'esempio collodiano illustra anche questo aspetto: l'immagine deve essere soppressa affinché possa tradursi in spunto di una storia, e tuttavia la relazione a questa origine metaforica deve essere in qualche modo mantenuta, essa continua a trasparire attraverso l'entità fantastica ed a questo mantenimento è dovuta naturalmente la portata pedagogico-moralistica della storia.
È appena il caso di notare quanto in Collodi questo artificio abbia carattere di un metodo più volte ripreso. Esso è applicato ovviamente nel caso dell'allungamento reale del naso di Pinocchio quando dice le bugie. Il naso entra nei proverbi sulle bugie («La bugia cola dal naso», « La bugia corre su pel naso di chi la dice»), ma probabilmente il punto di partenza è il proverbio secondo cui le bugie hanno le gambe corte - questa immagine rappresenta il modello su cui viene coniata quell'altra «le bugie hanno il naso lungo», vi è qui la variazione di uno stereotipo immaginativo a cui segue la concretizzazione che mantiene comunque la presa sul senso della metafora. Con le bugie non si va lontano, e prima o poi appariranno alla luce del giorno. Per non dire dell'invenzione centrale della storia, che ha origine ancora dall'espressione metaforica «testa di legno» - quella testa che Geppetto trae anzitutto dal ceppo di Mastro Ciliegia.
Parlando di origine di queste invenzioni narrative non si intende naturalmente nulla di simile ad un'origine psicologica, come tutti questi esempi dimostrano. Esse non sono affatto regole occulte, e nemmeno sono regole derivate da una psicologia dell'immaginazione fondata su determinate ipotesi intorno ai suoi meccanismi oggettivi. Possiamo dirle occulte solo nel senso che, per noi lettori, esse debbono rimanere sullo sfondo, badiamo appunto alla storia, e non ai suoi metodi. Il «non badare ai metodi» è una condizione di buona lettura di una storia - in questo ha le sue buone ragioni la «fenomenologia» nel senso di Bachelard, che insiste sulla necessità di abbandonarsi al racconto, di immedesimarsi nelle sue vicende «vivendo» in esse - cosa che richiede certamente un atteggiamento nel quale siamo disposti ad accettare senz'altro tutte le sue regole senza portarle in primo piano. Questo punto è importante se non vogliamo che i libri siano sempre e soltanto libri di scuola. Ma i libri ci dànno da pensare, sia per il loro contenuto che per il modo in cui sono costruiti; ed in questa riflessione possiamo cominciare a notare le regole della narrazione, a renderci conto che esse sono state scelte tra possibilità alternative, ed a interrogarci sulle loro ragioni e sul loro senso in rapporto alla storia che viene narrata.
La concretizzazione dell'immagine a sua volta potrebbe indicare, più che una procedura singola, una molteplicità di procedure. Tra i racconti di Grimm ve ne è uno che si sviluppa pressoché interamente secondo varianti diverse di questo metodo. Esso narra di un contadino che invita la morte a fare da madrina ad uno dei suoi molti figli. Questo, diventato adulto, farà il medico - ed un medico protetto dalla morte, come si comprende, è destinato a far fortuna. Senonché, per amore di una principessa, il figlioccio della morte inganna la morte stessa, ed egli stesso dovrà morire. La scena culminante del racconto è quella in cui la morte conduce il proprio figlioccio in una grande caverna. In essa ardono migliaia di candele e - così spiega la morte - ogni vita è rappresentata da una candela accesa. Questa scena è costruita a partire da un'immagine che viene concretizzata. Una candela che si consuma è un'immagine del consumarsi della vita, e così la candela che si spegne un'immagine del morire. Ma la candela è ora una vera candela, ed il protagonista del racconto è perciò in grado di vedere la propria e di constatare come essa sia ormai alla fine. Un altro esempio di procedura di concretizzazione si può cogliere nell'episodio in cui il figlioccio contravviene all'ordine della morte; più precisamente, nel modo in cui si prende gioco di essa. Il successo di questo strano medico, in effetti, non sta nel curare i malati ed eventualmente nel guarirli, ma nel predire se essi guariranno o moriranno. Per fare questo egli si avvale dell'aiuto della madrina: se la morte sta ai piedi del letto il malato sicuramente morirà (ed è appena il caso di notare che cosa possa significare «aver la morte ai piedi del letto»), mentre se essa si trova al capezzale ciò significa guarigione. Da questo elemento narrativo tutto derivato da immagini, segue il modo in cui il medico si prende gioco della morte: di fronte alla principessa morente, il medico non fa altro che invertirne la posizione. L'azione «reale» consegue dall'immagine. Ma questi due episodi di una storia del resto molto breve sono lontani dall'esaurire la sua ricchezza esemplificativa. Essi sono situati in una rete di immagini, ed attraverso questa rete la storia rimanda ad una connessione di pensieri, ad una vera e propria concezione filosofica che conferisce un senso allo stesso impiego delle regole - che prese in se stesse sono sempre relativamente neutre dal punto di vista espressivo.
Questi pensieri, questa filosofia rimanda ad un pessimismo profondamente ateo che ha le sue radici nella povertà e nella miseria. Essa si annuncia fin dall'inizio della storia: «Un pover'uomo aveva dodici figli...». E per il tredicesimo egli cerca un compare o una comare per il battesimo. Incontra il buon dio, ma lo rifiuta: «Tu dai al ricco e fai patire la fame al povero». Ed anche il diavolo viene rifiutato, perché seduce gli uomini per ingannarli. La morte invece sia la benvenuta perché «fa tutti eguali».
Noto di passaggio che il racconto non ha bisogno di dare una rappresentazione indiretta della morte, cioè di rappresentarla attraverso un simbolo; e nemmeno ha bisogno di darle una figura in qualche modo personale utilizzando allo scopo qualche tratto simbolico. La personificazione che viene qui effettuata ha la peculiarità di essere unicamente legata alla parola: «L'uomo chiede: «»hi sei? - Sono la Morte». E la morte è già là, in persona - per attuare questa personificazione basta dire il nome ed attribuire al nome una voce. Ad una figura esteriore della morte si allude appena parlando del «pugno risecchito» e della sua «mano gelida».
La morte dunque viene bene accolta come madrina. «Domenica prossima c'è il battesimo: sii puntuale». La doppiezza del racconto arriva qui sino agli ultimi dettagli. La puntualità della morte! Niente è più puntuale di essa, e nello stesso tempo più inattesa ed imprevista. Nello stesso tempo, l'immagine della madrina collega la morte al nascere, una connessione che sottolinea l'ineluttabilità della morte per tutti coloro che sono una volta nati. Quel tredicesimo figlio ci rappresenta tutti, perché tutti siamo stati tenuti a battesimo dalla morte. Ma questa connessione tra la morte e la nascita ha un senso ancora più profondo - un senso che conferisce inoltre una stretta unità che il racconto sembra a tutta prima non possedere. Essa si ripresenta infatti nella scena della grande caverna. Vi è una legalità metafisica che regola l'avvicendarsi di tutte quelle candele: una candela può accendersi solo se un'altra si spegne. Così spiega la Morte: affinché qualcuno possa nascere, un altro deve morire. Un altro deve pagare con la morte, il prezzo della nostra vita. Questo è il legame che ci affratella. Insieme all'idea dell'ineluttabilità, vi è anche l'idea di una assoluta immobilità del tutto, dell'assoluta esclusione di ogni evoluzione e di ogni crescita. Il numero delle luci deve rimanere sempre eguale a se stesso. Ed ogni luce è rispetto ad ogni altra del tutto indifferente. Anche in questo senso la «morte fa tutti eguali». Per questa sua giustizia che ha la forma insensata della legge che regola le luci della grande caverna, essa può essere scelta come madrina, dandole la preferenza persino rispetto al buon dio. Si tratta di una giustizia che è giusta proprio perché non ha alcun valore etico, perché essa è cieca, ed anche perversa e crudele. In effetti con un atto di crudeltà si conclude questa breve e melanconica storia. Il figlioccio ha scherzato con la morte - e questo, come si sa, non lo si può assolutamente fare. Cosicché, avendo egli salvato una vita, secondo la legge della grande caverna, deve pagarne il prezzo con la propria. Mentre contempla la propria candela che ha preso fra le mani, la morte con una spinta gliela fa cadere a terra - ghignando.
In uno dei racconti più famosi di Kafka - La metamorfosi - il protagonista della storia si sveglia un mattino trasformato in uno strano animale. Siamo qui forse molto lontani dalla regola che presiede all'invenzione di Pinocchio? Assai meno di quanto saremmo disposti ad accettare questo singolare accostamento, che sembra del tutto pertinente per quel che riguarda la regola. Ma la regola in sé dice ben poco. È necessario guardare ai modi del suo impiego, ai contesti, ai sensi che via via vengono dipanati nel racconto. E nulla è più lontano nell'impiego kafkiano della regola da quello collodiano, immediato, trasparente, elementare, privo di reticenze. L'accostamento ci serve per ribadire quanto poco contino le regole astrattamente formulate e separate dal loro impiego in una produzione immaginativa vivente. Ma di questo accenno a Kafka potremmo approfittare per segnalare la presenza, in un suo brevissimo racconto, di qualcosa di simile ad una procedura inversa a quella della concretizzazione dell'immagine. Se con questa formula intendiamo la traduzione dell'immagine in una vicenda o in uno spunto di una vicenda immaginaria, la procedura inversa potrebbe consistere nella traduzione di una vicenda in un'immagine.
Il brevissimo racconto intitolato L'avvoltoio - una quindicina di righe in tutto - è sviluppato in prima persona e narra di un avvoltoio che becca crudelmente i piedi del protagonista. Un tale, passando di lì, gli chiede come sia possibile lasciarsi straziare i piedi in quel modo. Il protagonista risponde di aver tentato più volte di strozzare quell'avvoltoio senza riuscirvi. Il passante offre aiuto e dichiara di recarsi a casa per prendere un fucile. L'avvoltoio, quasi avesse udito e compreso il dialogo, si avventa contro il protagonista affondando «il becco attraverso la mia bocca, dentro di me. Cadendo all'indietro, sentii che, nel mio sangue straripante, di cui erano piene tutte le cavità, l'avvoltoio annegava irrimediabilmente».
In questa storia non vengono impiegate immagini. La storia stessa si presenta invece come una vicenda che si dissolve in un'immagine. E si dissolve secondo una particolare modalità. Avere un avvoltoio che ci becca ostinatamente i piedi, mentre noi non possiamo fare nulla, è certamente una cosa che non accade tutti i giorni. Tuttavia esiteremmo in questo caso a parlare di elemento fantastico, per il fatto che la straordinarietà dell'evento viene in certo senso soppressa dal tono quotidiano in cui l'evento viene narrato. La storia viene raccontata prosaicamente, come se si trattasse di un malaugurato incidente che potrebbe accadere a chiunque in un giorno qualunque. Altrettanto prosaico è l'intervento del passante: «Passò un tale che stette a guardare e dopo un poco domandò perché tolleravo quell'avvoltoio». Il dialogo che si svolge tra i due è altrettanto piatto e ovvio: «Per favore, tenti in ogni caso». «Sta bene - disse: cercherò di fare presto». Alla fine esplode l'immagine: la storia si conclude in una pura figura di indicibile angoscia, l'avvoltoio che entra nel mio corpo e affoga nel mio sangue.
Nel corso dell'esposizione precedente, è già emerso un possibile riferimento alle figure retoriche, là dove abbiamo chiamato in causa, senza troppi preamboli, metafora, sineddoche e metonimia. Vogliamo qui riprendere l'argomento per suggerire qualche spunto ulteriore di riflessione.
La retorica, come ci è stata tramandata dalla tradizione, aveva essenzialmente due compiti: quello di studiare le forme del discorso persuasivo (e quindi degli artifici linguistici e verbali atti a persuadere) e quello di analizzare e studiare gli «abbellimenti» del discorso. Il linguaggio è dunque qui in primo piano, e precisamente il linguaggio nel suo uso figurato. Secondo una concezione recente, che è peraltro radicata nella tradizione, il tema della retorica è circoscritto dalla nozione di deviazione o scarto da un impiego normale delle espressioni (comunque questa normalità venga poi individuata o definita). Se scriviamo trillare con quattro rr - trrrrillare - evidentemente commettiamo un errore ortografico, ma potrebbe darsi che si voglia con questo errore far tendere la parola all'onomatopea, cosicché l'errore ha uno scopo letterariamente significativo.
Che la problematica dell'immaginario sia attiva nella formazione delle «figure» è naturalmente fuori discussione; ma se chiamiamo in causa la retorica dovremmo forse fin dall'inizio mettere in evidenza che in essa non ci troviamo, per così dire, faccia a faccia con le funzioni immaginative, ma ci muoviamo piuttosto all'interno di un'indagine che prende in esame tali funzioni in quanto trovano una realizzazione nel linguaggio. Non ci si occupa dunque anzitutto dei modi di produzione delle immagini, ma del modo in cui le immagini si realizzano mediante la parola. Questa è una differenza importante. Non vi è dubbio infatti che possiamo occuparci dell'operare dell'immaginazione prescindendo da considerazioni di ordine linguistico; e inversamente è possibile trattare del discorso immaginoso ponendo al margine considerazioni relative all'immaginazione in genere e prestando attenzione piuttosto alle modificazioni che intervengono relativamente all'aspetto linguistico.
Ciò che voglio dire è bene illustrato dalla nostra nozione di valorizzazione immaginativa [7] . Nell'introdurla si possono prendere le mosse dall'animazione immaginativa di un contenuto percettivo: attraverso questo avvio si chiarisce l'intenzione di proporre il problema mettendo inizialmente da parte possibili riferimenti linguistici. L'animazione immaginativa di un contenuto percettivo non è un fatto linguistico, ma riguarda in tutto e per tutto una relazione tra contenuti. Il produrre immagini non è senz'altro la produzione di fatti linguistici.
La sineddoche è un fatto linguistico, ma non abbiamo ragioni di qualificare come un fatto linguistico l'operazione associativa che sta alla sua base.
Analogamente un'immagine può essere verbalmente espressa, può realizzarsi in un'espressione verbale, e talora può nascere solo passando attraverso un fatto linguistico e quindi essere tessuta inestricabilmente in esso. Ma anche in questo caso si impone una chiara distinzione tra l'operare dell'immaginazione e la realizzazione delle operazioni immaginative in questo o quel materiale verbale. Rispetto ad una metafora come espressione verbale, si potranno certamente problemi che concernono il piano specificamente linguistico. Il metaforizzare come operazione immaginativa, e in generale l'associare idee, il sintetizzarle secondo varie regole (cioè, secondo certe tipicità) sono anzitutto «funzioni della mente», «operazioni dello spirito» - espressioni che in fin dei conti sarebbe il caso di rimettere in vigore, impiegandole almeno come salutari provocazioni. In una formulazione verbale immaginosa è contenuta un'immagine; e noi ci potremmo occupare di essa disinteressandoci della formulazione verbale.
Ciò che per noi sono anzitutto funzioni della mente oppure operazioni dello spirito sono invece, se badiamo al lato dell'espressione linguistica, essenzialmente operazioni relative ad una manipolazione del materiale linguistico nei suoi vari aspetti. Perciò saranno qui anzitutto rilevanti le differenze che possiamo notare nell'unità della parola o della frase. In essa distinguiamo l'aspetto grafico o fonico, gli aspetti propriamente grammaticali, la struttura della frase, e naturalmente non può che rivestire grande importanza il fatto che la parola è portatrice di un significato più o meno precisamente determinato.
La parola può divergere dal suo impiego normale per questi vari aspetti e in particolare per ciò che concerne il rapporto della significazione. Naturalmente si può discutere all'infinito sulla nozione di normalità qui in questione. Vi sono comunque casi che, almeno alla superficie, sembra non pongano troppi problemi. «Cane» è parola che si riferisce ad un determinato animale. Ma se la usiamo in rapporto ad un tenore, l'impiego della parola muta, muta il suo senso che ora contiene una assimilazione immaginativa. Si tratta del problema della sintesi immaginativa, che ora viene colto dal punto di vista di un'operazione linguistica che riguarda una peculiare trasformazione del rapporto significante-significato. Parlare di assimilazione tra contenuti non basta, proprio per il fatto che è necessario considerare anche il livello linguistico.
Vi è dunque una differenza ed una relazione. Questa relazione era forse più chiara nelle classificazioni empiriche della retorica classica piuttosto che nelle versioni più recenti che tentano di superare i limiti della retorica del passato attraverso un netto mutamento nel modo di approccio che punta su tentativi di formalizzazione. Una gran parte degli sforzi degli antichi studiosi di retorica consistette nel tentativo di proporre una classificazione il più possibile completa ed esaustiva degli impieghi figurati del discorso. Il problema era quello di mettere ordine nel campo delle immagini verbali, elaborando accurati repertori nei quali ogni immagine nuovamente prodotta potesse trovare il suo luogo ben determinato. A tale scopo ci si accinse alla formazione di classi di immagini. Ma mentre si poteva cogliere sulla base di esempi la differenza tra tipi di immagini, ben più difficile si dimostrò il problema di definire precisi criteri della differenza. Le generalizzazioni definitorie diventavano di continuo o troppo ristrette o troppo ampie, e per di più tendevano a sfumare l'una nell'altra mostrando una sconcertante labilità. Talora si legge che «i confini tra metonimia e metafora non sono netti» [8]; ma lo stesso si potrebbe dire dei confini tra sineddoche e metonimia, potendo la sineddoche avere una definizione assai prossima a quella della metonimia o essere senz'altro posta come una specie di metonimia [9] . Cosicché alla fine ci restano tra le mani non tanto vere e proprie definizioni capaci di delimitare classi, ma elenchi di esempi, variamente tipicizzati, insieme a molti, forse troppi, casi dubbi. A questo problema si è già in precedenza accennato, indicandone anche il motivo. Come abbiamo mostrato in precedenza, le regole dell'associazione possono essere moltiplicate o ridotte a piacere, ed è forse proprio questa circostanza che rende conto delle oscurità e delle difficoltà nelle classificazioni. In realtà non ha senso pretendere di specificare tutte le regole dell'associazione; e così non ha senso cercare di realizzare un inventario di tutti i casi possibili di fusioni immaginative. Questa impotenza rispetto ad una classificazione rigorosa è stata forse una delle ragioni che hanno contribuito al declino della retorica nella sua forma classica ed alla sua ripresa in forme nuove.
Ciononostante quegli elenchi hanno per noi interesse perché mostrano con particolare chiarezza il legame con la tematica dell'associazione - quindi il legame tra l'operazione linguistica vera e propria e l'operazione immaginativa. Potremmo dire che molti dei tentativi moderni di ripresa della tematica retorica sono per noi almeno altrettanto significativi per la ragione inversa: in essi quel legame viene pressoché interamente tolto.
In primo luogo si pensa alla retorica come una vera e propria «grammatica del linguaggio figurato». In altri termini, come vi è una disciplina che indaga intorno alle regole per la formazione delle parole e per la formazione delle parole in frasi, così vi è anche una disciplina che studia le regole della deviazione dalla grammatica corrente in funzione espressiva. Se ci serviamo della parola grammatica per indicare l'insieme delle regole relative all'impiego «normale» del linguaggio, e quindi dell'impiego corretto, la retorica verrebbe ad essere una sorta di grammatica dell'uso scorretto, una grammatica dell'antigrammatica. In effetti si è qui in presenza di violazioni di regole, peraltro finalizzate ad uno scopo espressivo. Questa la tesi di ordine generale.
Nello stesso tempo l'idea di grammatica viene prospettata secondo un pronunciato formalismo. Le regole «grammaticali» dovranno essere infatti concepite come operatori che inducono questa o quest'altra trasformazione su un materiale verbale dato. Il compito diventa dunque quello di individuare delle regole di trasformazione linguistica a cui ricondurre la disparata molteplicità dei casi di volta in volta presi in considerazione [10] . In questa prospettiva il legame con le regole dell'immaginazione, e dunque con le regole associative, diventa assai tenue, se non va addirittura del tutto disperso.
Uno dei risultati che mostrano questa tendenza portata all'estremo è rappresentato dalla Retorica generale del Gruppo m [11] L'idea di regola o di operazione retorica si attiene ad un modello aritmetico-formale. Ad esempio, come operatori retorici di base si assumono, tra gli altri, ciò che gli autori chiamano aggiunzione e soppressione. La terminologia rimanda in modo trasparente all'addizione ed alla sottrazione in senso aritmetico. Assumendo l'idea dello scarto dagli impieghi normali, gli autori cercano di illustrare le figure retoriche in senso ampio come ottenute attraverso operazioni di aggiunzione e soppressione applicate ad espressioni linguistiche. In certo casi, ciò ha un lato piuttosto ovvio: come nel caso che prima ho citato della parola trrrrillare. È chiaro che qui si sono aggiunte delle r di troppo. Ciò vale in genere per le modificazioni a cui può essere sottoposta nel linguaggio letterario la parola considerata come puro supporto di un significato («significante»), quindi nel caso di alterazioni meramente verbali come «virtute» o «spirto». In altri casi, e proprio in quelli in cui ci si approssima al campo dell'immaginoso, il rimando a queste regole-operazioni diventa assai più problematico. Se impiego la parola zulù per indicare i neri in genere (sineddoche particolarizzante) oppure la parola arma in luogo di pugnale (sineddoche generalizzante) si intravede forse la possibilità di considerare questi impieghi figurati come se risultassero dall'aggiunzione o dalla soppressione di determinati componenti di significato delle parole. Ad esempio, poiché il significato della parola zulù contiene un maggior numero di proprietà caratteristiche di quanto ne contenga la parola nero, se usiamo zulù per nero, questo impiego potrebbe essere interpretato come se implicasse qualcosa di simile ad un'aggiunzione di elementi di significato rispetto alla parola nero. Inversamente se parliamo di arma per indicare un pugnale, la modificazione potrebbe essere interpretata come un'operazione di soppressione di componenti di significato relativamente alla parola «pugnale».
Si avverte subito che ci avviamo in direzione di una considerazione puramente teorica che, se da un lato potrebbe esserci utile per certi fini, dall'altro potrebbe rivelarsi fuorviante. L'analogia con il formalismo aritmetico è alquanto estrinseca, e non ha dalla sua parte alcuna necessità interna chiaramente visibile; e naturalmente l'impiego di procedure formalizzanti non può pretendere di avere in se stesso la propria giustificazione.
Tuttavia l'aspetto che a noi interessa mettere in evidenza è soprattutto il fatto che assumendo un simile punto di vista non resta più nemmeno una traccia di ciò che vale per noi sotto il titolo di regola dell'immaginazione. È l'immaginazione stessa che scompare, per così dire, dall'orizzonte.
Si consideri come il Gruppo m ritiene di poter «analizzare» la metafora [12] . Si assume senz'altro che affinché vi sia metafora, debbono darsi due contenuti, siano B (betulla) e G (giovinetta), che hanno un componente di significato comune. Questa parte comune sarebbe necessaria come «come base probante per fondare l'identità che si pretende», mentre la parte non comune sarebbe necessaria «per creare l'originalità dell'immagine» [13]. Gli stessi autori propongono la seguente rappresentazione (che non è il caso di mettere in discussione):
Sia questa «parte comune» la fragilità. Tuttavia, così si argomenta gli autori, affinché vi sia metafora è necessario che l'identità, a partire dalla parte comune, venga proiettata sugli interi corrispondenti. «La metafora estrapola, si basa su un'identità reale manifestata dall'intersezione dei due termini per affermare l'identità dei termini interi» [14].
Naturalmente questa proiezione implica un errore logico - anzi secondo gli autori una vera e propria contraddizione. Nella metafora, essi osservano, una giovinetta è una betulla e nello stesso tempo non la è. In essa si fa un uso della copula che il logico giudicherebbe illecito in quanto «essere» in questo caso significherebbe «essere e non essere» [15]. In questo modo di procedere si ottiene poi come risultato, per gli autori certamente non secondario, di togliere di mezzo la metafora come figura autonoma riducendola ad una coppia di sineddochi. Infatti l'impiego di fragilità in luogo di betulla può essere intesa come sineddoche generalizzante, e l'impiego di giovinetta in luogo di fragilità può essere intesa come sineddoche particolarizzante [16] .
Da questa pretesa «analisi» della metafora qualunque cenno ad una funzione immaginativa è scomparso benché ovviamente non si possa ignorare sullo sfondo (ma su uno sfondo che non conta nulla) l'azione dell'associazione. Persino la metafora può così essere ridotta ad un'operazione (pseudo) aritmetica di aggiunzione e di soppressione, perché in questo modo è stata interpretata la sineddoche. Nel bel mezzo di questa spiegazione viene poi pesantemente fraintesa la «copula» metaforica. Naturalmente si tratta di un uso pseudopredicativo, ma questo uso in nessun modo può essere ricondotto alla contraddizione, come se lo è pseudopredicativo fosse equivalente a «è e non è». Quando diciamo di Achille che è un leone, non vi è da nessuna parte, né nella nostra testa, né nella logica o nella grammatica più o meno nascosta e più o meno ipotetica della frase, l'idea che Achille sia un leone e nello stesso tempo non lo sia. Entrambi i termini della contraddizione debbono poggiare solidamente sul terreno delle posizioni d'essere. L'uso pseudopredicativo va invece illustrato attraverso il tema della neutralizzazione delle posizioni d'essere e della valorizzazione immaginativa che subentra all'associazione - la quale a sua volta non indica una proprietà determinata, effettivamente inerente alla cosa, come si ribadisce qui esplicitamente, ma una direzione di movimento dell'immaginazione.
Questi esiti critici non debbono essere fraintesi. Essi riguardano unicamente una determinata direzione di sviluppo del tema di una relazione tra il campo della retorica ed il campo di una filosofia dell'immaginazione. Nella direzione indicata questa relazione si allenta fino al punto da non essere quasi visibile. Ma è evidente che questa relazione c'è e con essa si ha sempre a che fare ogni volta che si ha che fare con immagini che prendono forma attraverso il linguaggio. E non solo in rapporto al linguaggio delle parole. Ci si può chiedere ad esempio se abbia senso riferire una figura retorica dal campo del linguaggio verbale ad altri campi, ad esempio a quello della rappresentazione visiva. Questa domanda è del tutto legittima. L'unico errore che si può commettere è ritenere che in questo modo si operi una sorta di subordinazione concettuale, come se vi fosse, ad esempio, un concetto generale di «chiasmo» e si fosse perciò costretti a ritrovare chiasmi ad es. nel linguaggio musicale o pittorico, cinematografico o fotografico, gestuale, ecc. - considerati a loro volta come specie del genere «linguaggio». Non di subordinazione si tratta, ma di movimento del concetto, di un suo spostamento in direzioni differenti. Questo spostamento non deve essere fine a se stesso, ma realizzato a fini euristici determinati. Quando ad esempio parliamo di linguaggio pittorico o di linguaggio musicale ciò non accade per il fatto che abbiamo riconosciuto nella musica o nella pittura qualche tratto caratteristico che rimanda ad una comune essenza, e di ciò prendiamo semplicemente atto. Facciamo invece lavorare la formidabile leva dell'analogia per cavare problemi, punti di vista, domande e tentativi di risposte, dunque per interrogare l'opera e conoscerla più a fondo, essendo pronti a rinunciare all'analogia quando potrebbe portarci fuori strada. In taluni casi il riferimento al linguaggio delle parole ci aiuta a cogliere un problema, in altri ci confonde le idee. Se la musica è un discorso, dovremmo proprio chiederci quando in un brano musicale compare una metonimia? Non possiamo escludere che queste domande ci servano a qualcosa; ma non possiamo nemmeno assumere che esse abbiano senso per il solo fatto che abbiamo deciso di parlare della musica come di un linguaggio.
Una volta chiarito questo punto si può tentare di vedere un «chiasmo», definito come figura verbale come simmetria incrociata [17] , ad esempio nella seguente rappresentazione fotografica [18]
Il concetto di «chiasmo» si è mosso. In questo «movimento del concetto» alcune cose cambiano, e sarebbe interessante stabilire esattamente che cosa. In rapporto a questa figura potremmo parlare di una duplice forma di simmetria, sia nell'ordine verticale che in quello orizzontale, che si intreccia con una «opposizione» che riguarda anche la differenza delle stagioni.
Nel seguente disegno di Füssli
varie procedure immaginative si saldano insieme nel risultato complessivo, ed in rapporto ad esse non sembra inopportuno l'impiego di una terminologia «retorica». Anzitutto vi è la grandezza iperbolica della mano e del piede: in questo modo si simbolizza la grandezza del passato, una grandezza che ovviamente trapassa dal piano della cosa al piano del valore. L'iperbole rinvia quindi a qualcosa di simile ad una trasposizione metaforica. Nello stesso tempo la parte sta qui per l'intero («sineddoche») e questa circostanza assolve un'importante funzione espressiva, dal momento che la grande mano e il piede rappresentano le dimensioni della statua forse in modo più efficace che la figura intera. Inoltre la parte toglie di mezzo un riferimento individualizzante che si sarebbe imposto nel caso della rappresentazione dell'intero - la statua intera avrebbe dovuto essere quella di un eroe mitico, di un imperatore, di qualcuno insomma su cui si sarebbe attirata l'attenzione inopportunamente, mentre la parte soltanto opera un'astrazione concettuale vera e propria realizzata con mezzi figurativi (la grandezza del passato). Infine, ed questo è il punto in cui la figura rattristata viene integrata in questa rete di significati, si tratta non di parti soltanto, ma di resti, di frammenti, la cui unità non può più essere ricomposta. I frantumi del passato. Così all'idea della monumentalità del passato si associa quella del suo impossibile ritorno.
Proprio nel momento in cui ci accingiamo a commenti come questi, risulta comunque chiaro che non si tratta tanto di un meccanismo linguistico che viene trasferito sul piano visivo, ma di regole dell'immaginazione che ora si esercitano su materiale verbale, ora su materiale di altra specie.
Note
[1] trad. it. di E. Pocar, introd. di E. Paci, Milano Rizzoli 1976.
[2] ivi, p. 280.
[3] ivi, p. 301.
[4] Presuppongo qui la distinzione tra fantastico e immaginoso così come viene proposta nei miei Elementi di una dottrina dell'esperienza, cap. III.
[5] Cfr. L. S. Vygotsky, Immaginazione e creatività nell'età infantile, Roma 1969, p. 41: "Un esempio assai interessante del circolo completo, descritto dall'opera d'arte, ci vien dato da L. Tolstoj, quando racconta in che modo nacque in lui l'immagine di Natascia in Guerra e Pace. 'Ho preso Tanja - egli dice - l'ho tritata ben bene e amalgamata con Sonja; e ne è uscita Natascia'. Tanja e Sonja (rispettivamente cognata e moglie dell'autore) sono due donne reali, dalla combinazione delle quali è appunto sgorgata l'immagine artistica". E ancora p. 44: 'Per poter riunire, più tardi, i vari elementi, l'uomo deve incominciare anzitutto con il distruggere quel loro legame naturale, secondo il quale li ha percepiti. Prima di creare l'immagine di Natascia in Guerra e Pace, Tolstoj ha dovuto isolare i tratti distinti delle due donne della sua famiglia, altrimenti non avrebbe potuto mescolarli insieme (o tritarli e amalgamarli come egli dice) in quell'immagine di Natascia. Dare così risalto ad alcuni tratti distinti, e altri lasciarne cadere, è un processo che può godere a buon diritto del nome di dissociazione".
[6] P. Guillaume, Manuale di psicologia, Giunti, Firenze 1972, p. 206: "A sua volta la somiglianza si può riportare alla contiguità. Si passa da A al suo simile tramite ciò che è loro comune (m). Si passa dall'insieme A al dettaglio m e da questo all'insieme A' che ha anch'esso il medesimo dettaglio m. Poiché l'insieme e il dettaglio sono stati percepiti nel medesimo istante, si tratta di una duplice associazione per contiguità". È significativo anche che si aggiunga che mentre la somiglianza "è una nozione oscura e fugace", "la teoria sembra guadagnare in chiarezza e in semplicità quando riconduce la somiglianza (e il contrasto) ad una forma particolare di contiguità, o più in generale, quando riconduce ogni unità di un tutto, ogni coesione fra i suoi elementi ad un effetto della loro sovrapposizione nella percezione, indipendentemente dal loro contenuto". Si tratta di una osservazione significativa per il fatto che manifesta quel fastidio filosofico nei confronti delle relazioni fondate nel contenuto che sarà poi ereditato dall' "empirismo logico".
[7] Elementi di una dottrina dell'esperienza, cap. III, § 11.
[8] H. Lausberg, Elementi di retorica, Il Mulino, Bologna 1969, p. 126, § 225).
[9] M. Le Guern, Sémantique de la métaphore et de la métonymie, Librairie Larousse, Paris 1973, p. 12.
[10] O. Ducrot e T. Todorov, Dizionario Enciclopedico delle scienze del linguaggio, Isedi, Milano 1072,p. 305 "Diversamente dai retori classici, gli autori che si ispirano alla linguistica cercano di formulare delle matrici logiche, di cui le figure sarebbero la manifestazione: in altre parole, si vogliono presentare le figure come prodotti di una combinatoria di cui bisogna trovare le categorie costitutive"
[11] Retorica generale. Le figure della comunicazione, 1970, trad. it. di M. Wolf, Bompiani, Milano 1976.
[12] ivi, p. 161.
[13] ivi, p. 163.
[14] ivi.
[15] cfr. anche ivi, p. 201.
[16] Per una critica di questa concezione definita "séduisante par son ingéniosité", ma da respingere, si veda M. Le Guern, Sémantique de la métaphore et de la métonymie, Librairie Larousse, Paris 1973, p. 13. Peraltro, sullo sfondo di questa argomentazione si intravvede una forma più o meno sofisticata di eliminazione dell'associazione per somiglianza, a favore della contiguità a cui abbiamo in precedenza accennato.
[17] H. Lausberg, op. cit., § 392: "Il chiasmo, come è chiamato in tempi moderni, consiste nella posizione incrociata di elementi corrispondenti in gruppi che si corrispondono tra loro ed è così un mezzo della dispositio che esprime l'antitesi".
[18] Nel dicembre 1977 la rivista Progresso fotografico ha dedicato, con la cura di Attilio Colombo, un numero eccellente nel testo e nelle immagini alla tematica della retorica nell'immagine sotto il titolo "La fotografia come lingua". Di qui è tratta la fotografia qui proposta (Peter Chytry).
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