L'intervista che segue è stata pubblicata in Chora –  Rivista di filosofia degli studenti dell’Università di Milano, n. 3, anno II, ottobre 2001. Sulla rivista vedi ora l’indirizzo

http://alboversorio.xoom.it/virgiliowizard/chora?SESS0487a1dfc080bfcbc192d98e8aed3756=aaeccd04ab17e0c7527db73e19544c3c

Essa è stata condotta e realizzata da Chiara Colombo

 

 


 

Per quali motivi teorici lei ha avvertito il bisogno di occuparsi del tema musicale?

Le premesse di ordine generale da cui prendo le mosse sono di origine fenomenologica. Ho spesso parlato, per caratterizzare la mia posizione rispetto ad altre possibile interpretazioni della fenomenologia, di strutturalismo fenomenologico. Con questa caratterizzazione ho inteso attirare l’attenzione sulle strutture in quanto strutture che si manifestano. Tenendo conto di ciò credo si comprenda l’orientamento verso la musica, in quanto la musica rappresenta un campo particolarmente privilegiato per questo modo di approccio. Attraverso di esso mi sembra si possa ottenere un punto di vista molto equilibrato che evita alcuni vicoli ciechi da cui da sempre tende a cacciarsi la teoria musicale (ad esempio, le facili psicologizzazioni dei problemi oppure l’esasperazione di punti di vista matematizzanti e fisicizzanti), rivalutando peraltro in via generale proprio la stessa teoria musicale che spesso viene considerata dalla musicologia di origine storicistica  priva di importanza, se non addirittura estranea alla storia della musica. Dal punto di vista filosofico, la musica rappresenta un grande crocevia in cui, fin dai primi inizi, si intrecciano problematiche epistemologiche con problematiche estetiche, così come la prossimità alla concreta esperienza percettiva con astrazioni artimetiche e geometriche. Questi intrecci risultano estrema-mente istruttivi anche per chi sia interessato non solo alla specificità dei fatti musicali, ma a problematiche filosofiche più ampie.

Vi sono relazioni fra questa ricerca e il fatto che lei sappia suonare uno strumento?

Lasciando da parte le questioni di carattere biografico, mi sembra più interessante rispondere a questa domanda richiamando l’attenzione su questo punto: la fruizione musicale ha due versanti: quello dell’ascolto e quello dell’esecuzione. Sarebbe interessante studiare presso le diverse culture musicali la parte che essi hanno, se prevalga l’uno o l’altro versante, tenendo anche conto del fatto che la musica è spesso stata intrecciata ad altre attività come la danza, il rito, il teatro, e che ciò potrebbe costringere ad estendere lo stesso concetto di esecuzione. Credo comunque che l’isolamento della dimensione del puro ascolto faccia parte di sviluppi relativamente recenti, legati alla tradizione europea, e in particolare all’affermarsi della dimensione del concerto. Specialmente nel corso del  secolo scorso questa tendenza si è accentuata. In taluni aspetti delle sperimentazioni degli anni Cinquanta, si tendeva a privilegiare l’ascolto a tal punto da pensare ad una vera e propria soppressione dell’esecuzione – siamo nei tempi dei primi sviluppi della musica elettronica in cui l’esecutore non c’è e l’ascoltatore viene disposto di fronte ad una serie di altoparlanti. In questa concezione la musica è una specie di oggetto particolare come un quadro appeso ad un muro che ci si deve limitare a contemplare. Ma la musica ha le sue particolarità, è connessa con l’attività, con il movimento corporeo o con immagini di movimento corporeo, con le pratiche strumentali che non sono puri e semplici mezzi di porgere la musica ad un ascoltatore, ma un modo di “vivere” l’esperienza musicale, e quindi di fruire di essa.  Ascolto ed esecuzione debbono incontrarsi affinché vi sia una esperienza della musica più completa. Molte persone che amano vivamente la musica e che sicuramente sanno apprezzarla a fondo ma che non sanno suonare uno strumento, si rincrescono di questa circostanza ed ogni volta che vedono la tastiera di un pianoforte o un violino li guardano con una sorta di nostalgia.  Con un fondo di ragione. Naturalmente qui tocchiamo un problema che riguarda le istituzioni educative. Un insegnamento serio – e questa parola dovrebbe essere sottolineata due volte – della musica dovrebbe accompagnare l’intero arco dell’iter di studio dei giovani, ed in forme tali da poter creare non dei dilettanti da strapazzo, ma, ovviamente nei casi più favorevoli, dei capaci ed abili amatori non professionisti che sono sempre esistiti nel passato e che hanno formato un vero e proprio humus per il crescere dell’esperienza musicale. Oggi vi è una distorsione di molti problemi. La musica quartettistica, ad esempio, tipica “musica da camera”, è stata spesso scritta per dilettanti di buon livello e destinata ad essere suonata appunto in camera, senza nessun ascoltatore – mentre oggi tende ad essere enfatizzata in tutt’altra direzione. Un violinista del calibro di Yehudi Menhuin, uomo di grandissima cultura e di altrettanto grande apertura mentale, non esitava a sostenere che la musica per quartetto dovesse ritornare alle funzioni per le quali era nata. Sfortunatamente, oggi, in una città grande come Milano o Roma, risulta difficile mettere insieme quattro persone non professioniste che sappiano suonare decentemente un quartetto di Mozart o di Haydn. Da questo punto di vista non è esagerato dire che siamo una civiltà musicale in piena decadenza. Nello stesso tempo è importante che persino un musicista professionista possa qualche volta essere ancora in grado di suonare “amatorialmente” – qualunque professione ha in sé il germe dell’autodistruzione. Credo che sia inoltre necessario che l’esercizio della musica non sia separato  da una formazione culturale sufficientemente ampia, e che lo strumentista non sia condannato – come talvolta ancora oggi firme illustri non si vergognano di sostenere dimenticando il detto purus musicus, purus asinus – ad una pratica strumentale fine a se stessa.

Come vengono tradotte le tematiche fenomenologiche in una ricerca musicale?

Non parlerei di una traduzione vera e propria. Soprattutto non amo la pura e semplice giustapposizione di concetti fenomenologici (Lebenswelt, Epoché, intenzionalità ecc.) come se fossero di per se stessi in grado di fornire interpretazioni per intere correnti di pensiero musicale. Credo che queste giustapposizioni siano intellettualistiche e poco pertinenti, finendo poi per essere dei passe–partout buoni a tutti gli impieghi. Si tratta invece di sperimentare un metodo analitico in direzione della musica e della sua teoria avendo ben chiara la specificità di questa tematica. D’altra parte, ciò che importa è sapere scorgere il punto in cui un problema musicale diventa anche un problema filosofico.

Perchè un filosofo sente il bisogno di costruire un archivio su Internet?

Naturalmente temo di aver dato a questa domanda una risposta troppo pratica e perciò un po’ deludente. La domanda probabilmente intendeva interrogare sulle ragioni filosofiche eventuali della pubblicazione via Internet. Molti infatti hanno teorizzato intorno alla possibilità di un completo rinnovamento della forma del libro filosofico, insistendo soprattutto – semplificando certo un po’ le cose – sulla possibilità di superare la sequenzialità delle pagine l’una dopo l’altra, di scrivere libri “circolari”, senza né capo né coda; oppure sull’idea che i “collegamenti” pongano fine al libro chiuso, e quindi anche alla molteplicità dei libri per fare di ogni libro la parte di un unico grande libro infinito. Si tratta di teorizzazioni che possono certo essere interessanti e fornire nuovi motivi di riflessione. Ma io preferisco attirare l’attenzione su quelle novità tecniche che si situano all’interno di un entusiasmante rinnovamento culturale. Una tacita rivoluzione in questa direzione è stata messa in opera della Biblioteca Nazionale di Francia. L’iniziativa di digitalizzare un patrimonio librario che va dalle cinquecentine sino ai libri di fine ottocento (oltre non si va per il semplice fatto che si rischia si andar contro le assurde barriere del diritto d’autore) merita di essere segnalata e resa nota al massimo numero di persone e citata come esempio a tutti coloro che amano realmente la diffusione della cultura (http://gallica.bnf.fr).

Di questo rinnovamento le Università e le Biblioteche dovrebbero essere i promotori naturali – per adesso, purtroppo, ben poco si muove, ma i tempi verranno.


20 ottobre 2001

A cura di Chiara Colombo