Recensione pubblicata in «Paradigmi – Rivista di critica filosofica»,
Anno X, n, 28, 1992
Scrivere del libro di Piana non è certo semplice per chi non sia competente di musica, né di estetica musicale, benché la perspicuità cristallina della sua argomentazione e della scrittura mettano alla portata anche di un lettore relativamente ingenuo una materia assai complessa e sfuggente, e per di più, ambito di dispute teoriche di vasta portata. È un'opera che colma un vuoto nella filosofia italiana, poco attenta o poco competente di problemi musicali perfino nel suo settore disciplinare deputato, quello dell'estetica.
Eppure, lo spessore dei problemi racchiusi nella filosofia della musica ha potuto suscitare in altre culture prese di posizione appassionate, dibattiti teorici e riflessioni consegnate a libri importanti della storia culturale. Basti pensare a Schopenhauer, a Nietzsche, a Adorno, autori che hanno tratto dalla musica il pretesto e l'oggetto privilegiato del loro pensiero, per rilevare una particolare sordità a questo tema nell'ambito della filosofia italiana. Tuttavia occorre subito dire che il proposito del libro di Piana non è quello di analizzare da un punto di vista estetico la musica, né di prendere posizione a favore o contro questo o quel musicista, né di problematizzare con nuovi strumenti una figura musicale esemplare per la storia della cultura - si pensi, per esempio, alla monumentalità di Wagner, dai tempi di Nietzsche fino ai nostri giorni, al suo campeggiare al centro degli interessi filosofici di vario orientamento, dall'archetipologia fino al decostruttivismo. L'impresa di Piana si situa in un orizzonte preliminare, dal momento che indaga la possibilità di delimitare in modo nuovo le nozioni elementari che rappresentano le strutture fondamentali dell'universo dei suoni: la sua materia, il suo tempo, il suo spazio, secondo un metodo filosofico rigoroso pur nella rinuncia a lessici specialistici. È l'orizzonte fenomenologico che ha in Husserl (di cui Piana è, come noto, traduttore e autorevole interprete) il suo ascendente irrinunciabile, ma di cui viene, ormai da anni, proposta un'originale declinazione "strutturalistica". D'altra parte, l'argomentazione ha un obiettivo polemico chiaro, la semiologia musicale, di cui vengono criticate le implicazioni filosofiche, riassumibili nell'assunzione della natura intrinsecamente linguistica della musica, e dunque di un'analogia densa di implicazioni teoriche e analitiche. Ma anche le posizioni coavenzionalistiche suscitano molta perplessità, ponendo alla base delle loro argomentazioni una sorta di equivalenza tra l'affermazione della molteplicità delle forme della rappresentazione, e la soppressione dell'oggettività, icasticamente espressa da questa frase di Goodman: «La rappresentazione è relativa - qualsiasi quadro può rappresentare qualsiasi oggetto». Che è quanto dire che la semplice constatazione della effettiva molteplicità viene scambiata per la sua spiegazione, anziché essere assunta, appunto, come un problema.
Tutto ciò non significa non accettare la dimensione linguistica della musica: ma parlare di linguaggi musicali, evidenziandone la diversità, implica innanzitutto un rimando alla dimensione della temporalità, alle differenze dei quadri culturali e delle tradizioni. Occorre piuttosto introdurre una distinzione rifiutata nella prospettiva empiristico-semiologica come insensata: quella fra piano linguistico, connesso essenzialmente alla dimensione temporale, e piano prelinguistico, a cui, secondo l'Autore, devono essere riferite le considerazioni fenomenologico-strutturali. Qui propriamente si colloca l'originalità di definizione dell'ambito di discorso della filosofia della musica proposta da Piana: «Una filosofia della musica comincia e può cominciare soltanto facendo un passo indietro: essa non si rivolge da subito alla musica stessa considerata nella molteplicità aperta delle sue forme espressive, ma regredisce al piano dell’esperienza del suono come un’esperienza che forma a un tempo il presupposto e il fondamento di ogni progetto compositivo» (p. 55). «Si tratta di penetrare nella natura della materia sonora e di indagarne le peculiarità fenomenologiche in modo da dispiegare ed esibire il campo di possibilità aperto dall'azione compositiva » (p. 57). Ed è ancora con una serrata discussione dell'orizzonte formalistico che Piana riesce a sciogliere in modo elegante e convincente un'altra aporia classica della filosofia della musica, quella relativa alla natura simbolica o non-simbolica del musicale: o, in altri termini, la disputa sulla natura semantica e contenutistica del musicale o sulla sua natura formalistica, sintattica. Se è vero che il Novecento ha posto l'accento sul lato formalistico nelle sue poetiche musicali, alla filosofia rimane nondimeno il compito di analizzare la questione del "senso" nella musica.
È chiaro che in un'impostazione semiologica occorre espungere il problema del simbolismo: nella struttura musicale, considerata come semanticamente chiusa, non v'è nulla che rimandi a qualcosa "fuori" della dimensione puramente sonora. Acutamente Piana mostra come proprio in questa intenzionalità formalistica, nell'esasperazione dei temi dell'oggettività e della sintassi che vorrebbero espellere ogni significato e sentimento possa portare invece come contraccolpo indesiderato proprio all'enfasi su un eccesso di senso che sarebbe intraducibile e ineffahile per un limite intrinseco dell'espressione verbale. Se, anziché partire dalla presupposizione dell'esistenza di segni, si prende avvio dalla materia sonora nelle sue differenze qualitative, si può vedere come ogni determinazione del suono rappresenti un possibile punto di innesto per «le operazioni valorizzanti dell'immaginazione»: è a questo punto che diviene possibile comprendere che nel musicale è in atto un'immaginazione non mimetica, non riproduttiva del reale, ma «immaginosa», ossia operante per il tramite di «strutture unificanti che dissolvono, anziché confermarla, l'oggettività stessa. A queste procedure si deve la transizione che conferisce all'oggettività il carattere di valore immaginativo» (p. 282). Nel quadro di tale "valorizzazione immaginativa" (un tema su cui Piana si era già soffermato in opere precedenti, Elementi di una dottrina dell'esperienza, Milano 1979, Il Saggiatore, e La notte dei lampi. Quattro saggi sulla filosofia dell'immaginazione, Milano 1988, Guerini e Associati), è possibile individuare correttamente la tematica del simbolismo: il musicale ha un carattere immaginativo latente, è ricco di risonanze. Perciò occorre rivendicare alla musica, accanto alla componente matematico-strutturale, un simbolismo di principio, che Piana vuol considerare come possibilità originaria, possibilità «che è insita nel fatto stesso che i suoni in genere, considerati nelle loro distinzioni elementari e nei rapporti che, in forza di queste distinzioni, essi possono intrattenere tra loro, sono attraversati da dinamismi immaginativi latenti» (p. 288). Si tratta di un'assunzione teorica densa di implicazioni analitiche, come la ricchezza propositiva e decostruttiva del volume testimonia, in grado di sciogliere molte contraddizioni e falsi problemi che hanno afflitto l'estetica, non solo musicale, del nostro secolo, rendendola scarsamente efficace nelle sue capacità analitiche e insufficiente nei suoi presupposti teorici generali. L'ultimo capitolo della Filosofia della musica costituisce, da questo punto di vista, un'implicita e intressante messa a punto di una serie di questioni di ordine estetico, che appunto si rende possibile grazie al punto di vista filosofico adottato, quello, per cosi dire, di una filosofia preliminare che riflette sull'apertura stessa della possibilità di parlare di dimensioni estetiche senza cadere subito nell'irrazionalismo o nella confusione delle categorie mantenendo nel necessario rigore filosofico una concreta sapienza analitica, preservandola dalla chiusura, presuntamente scientifica, di una settorialità disciplinare.
Luisa Bonesio
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