Bianca Maria d'Ippolito
Recensione a "Esistenza e storia negli inediti di Husserl"
in "Ricerche metodologiche", ottobre 1965 - febbraio 1966
Forse il più appassionante problema per gli studiosi ed i lettori delle opere di Husserl riguarda il rapporto tra la fenomenologia e la storia. Infatti è stato spesso avanzato il sospetto, senza dubbio legittimo, che la stessa impostazione metodologica su cui si fonda il discorso fenomenologico renda impossibile la tematizzazione della storia nell’ambito di esso. Pertanto, una esatta interpretazione del senso della ormai nota «riduzione» si rende necessaria in primo luogo quando si tratti di riproporre il tema del rapporto tra la fenomenologia e la storia. Che cosa significa per il fenomenologo, e per ogni altro che ne riprenda l’esercizio caratteristico, l’interruzione del commercio quo-tidiano con il mondo, del contesto di interessi pratici che lega l’esistenza singola al tessuto complesso della storia? Non abbiamo con ciò perduto il terreno propriamente umano che è sempre storico?
A questa inevitabile obiezione, rivolta al cardine della fenomenologia, ed alle conclusioni negative avanzate da molte parti, risponde il saggio recente di Giovanni Piana: Esistenza e storia negli inediti husserliani, la cui analisi prende giustamente le mosse precisamente dal discusso tema della «riduzione «. Il vasto e difficile argomento della storia viene Qui affrontato agilmente, attraverso la puntualizzazione accorta di tre grandi temi, che ne sono i centri nevralgici: la «riduzione», l’intersoggettività, e la storia come rapporto tra l’esistenza singola e l’umanità, l’emergere di ciascuno, limitato dalla nascita e dalla morte, da un flusso di vita di cui non si riesce a vedere il punto d’origine, ed il cui futuro oltrepassa l’orizzonte di possibilità aperto al singolo.
L’analisi degli inediti è preceduta, nello studio del Piana, dalle pagine dedicate ad un testo del 1905, poco noto in Italia (a parte le interessanti considerazioni del Chiodi): L’idea della fenomenologia. Nonostante il grande divario di tempo che intercorre tra queste lezioni, con cui ha inizio la «fenomenologia» e gli inediti sulla storia, ci sembra quanto mai opportuno il collegamento logico del tema della storia a quello di una «critica della ragione», intesa come delimitazione meto-dologica del livello di discorso e dell’ambito di intelligibilità entro cui deve esser posto ogni problema determinato. In questo contesto, la «riduzione» appare come lo strumento più appropriato all’apertura dell’ambito fenomenologico, e la sua funzione come essenzialmente critica. Si tratta di un’interpretazione che respinge l’altra, assai diffusa, in senso idealistico, su cui si fonda in ultima analisi anche l’affermazione di incapacità strutturale della fenomenologia alla comprensione della storia. Se infatti «mettere tra parentesi» il mondo che di fatto c’è, la «trascendenza» (cioè l’apparente estraneità, l’«esser fuori di noi» degli oggetti che ci circondano nella prassi quotidiana) viene intesa in senso limitativo, come espulsione di una dimensione del reale dalla considerazione del fenome-nologo, allora essa non può non apparire come idealistica riduzione dell’essere alla coscienza, implicante la tendenza a ricondurre il movimento reale della storia ad astoriche forme della coscienza.
Per il Piana, invece, il procedimento riduttivo indica come l’interesse del fenomenologo si sposti dal fatto alla genesi di esso, dal contesto effettivo, empiricamente constatabile ed analizzabile, di un determinato settore del reale ai processi operativi che lo hanno prodotto; infine, alle leggi che quei processi sottendono. Naturalmente, ciò significa riconoscere nella fenomenologia una filosofia della soggettività, poichè la genesi ha la sua sorgente animatrice nella soggettività, come polo attivo del rapporto intenzionale.
Qui è il punto più delicato dell’impostazione fenomenologica: il problema del fenomeno-logo è infatti come trovare all’interno della coscienza, nella sua struttura essenziale stessa, ciò che per definizione è altro, la «trascendenza», ovvero un mondo che non sia pura finzione. L’«intenzionalità» è la nozione che, per il Piana, dissolve il pericolo scettico che la riduzione lasciava intravedere: «Se l’intenzionalità della relazione rimane celata lo scettico sosterrà di aver dimostrata l’indistinzione teorica tra realtà e finzione» (p. 6). Proprio tale difficoltà rende necessario lo sbocco della fenomenologia dall’analisi delle strutture coscienziali al piano della storia attraverso la tematica dell’intersoggettività. Finchè il fenomenologo rimane fermo alla descrizione del cogito nelle sue varie articolazioni, si blocca inevita-bilmente in un dilemma insolubile: «se l’oggetto del sapere fenomenologico è per essenza riferito ad un polo soggettivo, delle due l’una: o questo sapere si riduce a mera privatità, rinunciando ad una validità obiettiva oppure, per pretendere obiettività, deve produrre - trascendenze, ripropo-nendo contro il suo assunto la questionabilità» (p. 7). Viene in luce così il carattere scopertamente problematico degli esordi del pensiero fenomenologico, ed il ruolo non secondario della «storia» nello svolgimento del discorso husserliano. E l’intento del Piana è, giustamente, di indicare i problemi ed il modo e significato del loro collegamento, più che le soluzioni con quel che di opinabile resta nella loro pretesa definitività.
In vista di un recupero dell’oggettività che non comporti la rinunzia al cogito, la soggettività si allarga ad intersoggettività, coinvolgendo in questa trasformazione dell’origine tutto il processo della genesi del mondo. L’intenzionalità diviene legame tra i soggetti, comunicazione, e da essa sorge quella «unità di senso», che è l’unità spirituale del mondo storico. Il «mondo dello spirito» e la storia sono una stessa realtà, l’ultima nell’ordine delle «costituzioni», cioè la più complessa e la sola compiutamente reale. Essa si presenta come la mediazione in atto fra «natura» e «cultura» resa possibile dallo svelarsi, nell’approfondimento dell’analisi fenomenologica,della sogget-ti-vità come esistenza, cioè come intenzionalità incarnata nella percezione corporea: «Ciò che fa dell’io un io non è una vuota essenza, ma anzitutto il fungere percipiente del corpo» (p. 18). È questo il passaggio ampiamente ripreso da Sartre e Merleau-Ponty, ·non senza la suggestione della critica heideggeriana, che il Piana qui respinge senza averne chiarito sufficientemente la portata. Per Heidegger non si può assumere un concetto formale dell’io come punto di partenza: il vero soggetto è l’essere-nel-mondo e con altri. Per il Piana, il discorso fenomenologico giunge a tematizzare progressivamente la esistenza e l’intersoggettività senza rompere la sua premessa metodologica. Noi pensiamo invero che il problema del «punto di partenza», quando per esso si intenda il soggetto non possa essere considerato come una pura questione di metodo, indifferente riguardo alla sostanza; tanto più che in filosofia il metodo ha sempre una portata contenutistica. Resta infatti nell’idea husserliana della storia la difficoltà dell’ambiguo rapporto tra l’esistenza, personale, limitata dalla nascita e dalla morte, e la misteriosa, infinita scaturigine di ogni esistere particolare, la soggettività «assoluta». In ogni caso, l’inter-soggettività trascendentale è condizione di possibilità della storia, nella misura in cui essa permette una vita, una «circolazione» dei significati, un mediarsi ed arricchirsi dell’esperienza «naturale» di ciascun soggetto.
Nasce così la «cultura», un sistema di significati che permangono nella loro oggettività, ovvero validità-per-tutti, cui l’intenzione può sempre di nuovo volgersi come a stabile fondamento. Il mondo della cultura è il mondo della libertà storica, atto che porta a compimento un senso, in un orizzonte di possibilità pre-date, tramandate. La «tradizione» è precisamente l’aspetto caratteristico della storia umana, in quanto essa non è soltanto il perpetuarsi e trasmettersi della vita, ma il perpetuarsi e trasmettersi dei valori. Il mediarsi del fatto e del valore caratterizza l’esistenza storica dell’uomo; a questo livello, l’intenzionalità è prassi, rivolta, nella sua spontanea e naturale insorgenza, al bisogno, alla lotta per la vita che fa apparire l’altro come «nemico mortale»; e tuttavia anch’essa fungente in vista dell’accomunamento contro il bisogno attraverso la costruzione di strumenti. L’umanizzazione del mondo procede da questo continuo passaggio, dal filtrarsi del naturale (in senso husserliano) attraverso il culturale.
È interessante seguire il Piana nella esposizione di questi interessi insospettati dell’ultima fase del pensiero husserliano, tanto più che egli rispetta il carattere inconcluso delle ricerche sulla prassi, il bisogno, l’esistere finito; e rimandiamo in particolare alle meditazioni husserliane sul mendicante e sul prigioniero, donde traspare un’acuta coscienza dell’essenziale praticità della ragione, e del coincidere di umanità e libertà. Tuttavia dobbiamo notare che l’intento storico-sociale di Husserl non solo, «resta sempre al di qua di limiti precisi», come osserva il Piana (p. 111), ma risulta alquanto stonato rispetto al complesso del discorso fenomenologico. Che rapporto c’è tra un «vitale» di tipo hobbesiano, quale ci appare in queste tarde ricerche, e quel mondo-della-vita, che si presentava come intuizione di valori affettivi e pratici (e non a torto Scheler aveva visto la novità della fenomenologia nella rivendicazione di un ordine apriorico della sfera del sentimento)? Sembra invero che in Husserl rimanga un grave equivoco intorno al concetto di «natura» e di «vita», sicchè se pure egli tende a mostrare un rapporto dialettico tra «natura» e «storia», non può chiarire il come del loro reciproco mediarsi, proprio perchè non ha saggiato a fondo la possibilità di una «dialettica» fenomenologica.
Il discorso del Piana ha tuttavia il preciso scopo di far emergere la portata critica della fenomenologia di fronte all’ideologia dominante, la funzione di rottura che esercita sconvolgendo l’ordine dato per proporre una demistificante riscoperta della genesi, sicchè ogni pretesa assolutezza di fatto si trova ricondotta alla sua origine da una prassi e da un interesse umano e storico. Se il marxismo, dal canto suo, indica una direzione - quella sociale - per condurre più a fondo e rendere più mordente tale critica, non è men vero che deve rinunziare all’uso astratto ed indifferenziato della categoria di «idealismo», strumento finora di una critica dall’esterno, e pertanto di dubbia efficacia. Queste osservazioni sono più un programma che una conclusione; e ci sembra di poter affermare che questa direzione di ricerca merita di essere seguita, perchè promette di essere feconda.
Bianca Maria d’Ippolito
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