Guido Davide Neri (1935-2001)
"Sul pensiero e l'orientamento intellettuale di Guido Davide Neri vedi: A. Vigorelli, Ricordando Guido Davide Neri e il profilo biografico intellettuale presente nell'archivio presso la Biblioteca di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano.
Nel saggio Congetture sull'intenzionalità, pubblicato in "Aut Aut", n. 99, maggio 1967, Guido Davide Neri - amico carissimo - presenta ma anche discute, con grande intelligenza e penetrazione, le tesi salienti de I problemi della fenomenologia. Tra noi ci fu uno scambio di idee sempre proficuo e fecondo." [G.P.. 2016]
Guido Davide Neri e Giovanni Piana a Olgiate Molgora (1993)
CONGETTURE
SULL'INTENZIONALITA'
L'aspetto « trascendentale » della fenomenologia, la teoria dell'io puro, non hanno mai cessato di provocare, dal 1913 in poi, le reazioni degli interpreti e dei critici. Quando si verificava – come nel rapporto coi neo-kantiani – un incontro di affinità sulla teoria dell'io puro, restava allora incomprensibile anche ai critici piu benevoli come mai Husserl si ostinasse a battere la via «psicologistica» delle analisi dei «vissuti», delle cinestesi corporee e così via. Da un punto di vista contrario l'esistenzialismo francese, primo fra tutti Merleau-Ponty, vedeva male proprio i residui di un «idealismo» trascendentale, con tutta la macchina delle riduzioni e della costituzione, che anche a Tran-Duc-Thao (per qualche tempo suo stretto collaboratore) sembravano un inutile tributo al defunto idealismo kantiano. E che altro sarebbe l'io trascendentale (si domandava Tran-DucThao) se non un vuoto doppione dell'io empirico? Si potrebbe continuare con altri esempi. Tra gli altri, anche Adorno si stupisce improvvisamente, nella sua Metacritica della gnoseologia, di scoprire – ma con quale ritardo! – la parte essenziale riservata da Husserl alla materialità sensibile del processo conoscitivo; ai sensi, al corpo. Della cosa egli si compiace, pare; ma chiede, per coerenza, la testa dell'io trascendentale, al quale «è impossibile che sia 'dato' qualcosa».
Il tratto più originale del recente libro di Giovanni Piana [1] è invece proprio il fatto di tenere unite le due posizioni opposte, e non certo ammorbidendole, anzi radicalizzandole. Anche a Piana sono care le analisi di Idee II (e di tanti manoscritti a cui egli ha dedicato recentemente anche un altro lavoro [2]) sul corpo somatico, sulla costituzione «estetica» della cosa, sul soggetto psichico, sull'intersoggettività, ecc. [3], insomma le analisi che si usa definire concrete; ma se, per es., una certa tradizione esistenzialistica rimprovera all'«io puro» husserliano di essere astratto, Piana risponde che «non ha alcun senso rimproverare a un'astrazione di essere astratta». Cos'è insomma l'io puro? «Puro significa qui : soltanto. Il soggetto che considero in primo luogo è soltanto un soggetto e niente altro »; « è un soggetto vuoto di contenuti rispetto al quale io stesso, come io personale concreto, non sono che un contenuto possibile». La possibilità di prescindere qui, nella considerazione del soggetto «puro» da ogni corporeità, è qualcosa di pienamente possibile per chiunque; una possibilità che Piana paragona a quella per cui è lecito costituire, in base a un'operazione astrattiva, l'idea di numero. È solo quando dimentico questa preventiva e deliberata astrazione che il soggetto diventa «il misterioso e mitico soggetto assoluto» dell'idealismo di cattiva memoria.
Ma, di per se stesso, l'io puro non è nulla se non in quanto venga considerato come il polo di unificazione dei «suoi» atti. Esso è il centro di irradiazione di una serie indefinita di atti, e in questo senso è l'io identico che si costituisce nella loro molteplicità. Questa identificazione, che si realizza nella riflessione dell'io su se stesso, comporta una sintesi temporale. «Vi è una differenza di principio, scrive Piana, tra il soggetto che riflette e il soggetto che è tema della sua riflessione. Questa riflessione è unicamente temporale, e infatti nella riflessione io mi identifico, in quanto sono ora riflettente, con il soggetto che era riflettente e fungente poco fa e che ora non lo è piu – che ora è tematico. Io scopro dunque l'identità tra il soggetto fungente e il soggetto tematizzato solo come identificazione temporale». Di qui discendono alcuni svolgimenti importanti, che Piana insegue attentamente tra le pagine di Husserl, e che possiamo solo elencare: l'intenzionalità dell'io che irradia i suoi atti sugli oggetti (o che è raggiunto, nella sua qualità di polo identico, dai raggi degli oggetti che «mi attirano», ecc.) è una attualità fungente, nella sua attualità non tematizzata; la «riduzione» assume allora il significato di una semplice attività tematizzante, che «sospende» il fungere presente dell'io; l'io «è innanzitutto facoltà di riflessione», come Husserl si esprime; la sua temporalità, in cui esso si costituisce come io identico, è un aspetto «formale» dell'io. La riflessione stessa è temporalizzazione, ma non in un senso creativo, bensi come «atto che esplicita il tempo». La coscienza stessa non è che un flusso temporale capace di riflessione. Il capitolo che Piana dedica alle analisi husserliane della coscienza del tempo è quanto di piu chiaro si possa desiderare per una introduzione a questo fondamentale tema della fenomenologia.
L'esplicita distinzione tematica tra il soggetto «puro» e il soggetto «fattuale», d'altra parte, non comporta una semplice spartizione delle tecniche di ricerca tra la dimensione dell'astratto e quella del concreto. Sia il soggetto riflessivo che quello percettivo e fattuale possono essere ottenuti solo attraverso operazioni riduttive, ed è appunto l'orientamento tematico che ci presenta oggetti diversi, mentre nel processo della ricerca tematicamente impostata l'oggetto può essere ottenuto solo mediante un'operazione «astrattiva» che lo isola dal suo contesto concreto. Altrimenti, rivolgendo p. es. l'analisi sul mio essere individuale soggettivo, potrò bensi enumerare una lunga serie di determinazioni, prolungabili del resto all'infinito, ma non sarò ancora riuscito a rispondere alla domanda che mi muove : «cosa sono io come soggetto di fatto?». «Ogni elemento che io scopro come mio si aggiunge come ulteriore momento della mia concretezza, non appare mai in primo piano; ogni determinazione è una determinazione del mio essere fattuale, ma che cosa io sia propriamente in quanto essere fattuale, è una domanda che, seguendo questa via, deve necessariamente restare senza risposta». Se voglio trovare una risposta, devo fare ancora una volta « un genere particolare di riduzione», la riduzione del «sociale» in generale. È questo il procedimento seguito da Husserl a più riprese, da Idee II alle Meditazioni cartesiane. Ora, «è caratteristico che nel momento in cui questi significati vengono meno, o meglio, nel momento in cui prescindo da essi, viene meno l'intero mondo storico-sociale e nello stesso tempo io 'perdo' ogni significato personale», mentre il residuo di questa riduzione, «ciò che è in se stesso privo di significato sociale, e quindi ciò che mi appartiene in modo esclusivo, sono io stesso nella misura in cui coincido con il mio corpo»[4].
Quanto precede può valere come un esempio concreto – benché necessariamente abbreviato – di queste analisi sobrie, precise, con cui Piana si sforza di catturare un filo conduttore del procedimento fenomenologico. Dal livello informativo ed espositivo delle prime pagine veniamo condotti, con grande semplicità, a interpretazioni che contengono qualcosa di nuovo nella letteratura fenomenologica.
Arriviamo cosi al punto dove Piana, seguendo la traccia del discorso husserliano, toglie l'ultima riserva, dichiarando l'ulteriore riduzione entro cui si sono mosse le analisi precedenti. Nella riduzione di ogni senso sociale-personale siamo arrivati al soggetto inteso come corpo vivo; e può sembrare, nel susseguirsi sistematico delle stratificazioni husserliane, che gli strati ulteriori, quelli dell'essere psichico e dell'essere personale-sociale, vi si sovrappongono semplice-mente per via di un ulteriore processo costitutivo. Ma a questo punto Piana avverte che l'atteggiamento «puramente teoretico», quello che si fonda sulla percezione riflessiva, non basta piu a dar conto del mondo di significati umani e storici inerenti alla soggettività nel suo senso piu ampio. Il soggetto personale, con la sua «praticità» e «storicità», non ha origine dall’auto-percezione, dal fatto che nella percezione esso si presenterebbe come tale, ma proprio dal fatto di essere, innanzitutto, un corpo vivente. La fenomenologia del corpo vivente è la fenomenologia del bisogno, scrive Piana sviluppando originalmente questo discorso già impostato da Enzo Paci, e alla praxis del soddisfacimento del bisogno va attribuita, secondo Piana, un'anteriorità genetico-costitutiva rispetto alle altre forme della praxis, e in particolare alla prassi teoretica. Anche Husserl aveva affermato esplicitamente che il modo d'essere primario del soggetto nel mondo non è il modo della pura contemplazione conoscitiva: la prassi conoscitiva è il frutto di una decisione deliberata, per la quale io sviluppo le istanze primarie, nel senso del coglimento teoretico di stati di cose che sono già impliciti nell' «assumere per vera» (Wahr-nehmung) la cosa. È sopra questi stati di cose offerti in un'evidenza predicativa che si costituisce l'intera sfera del giudizio predicativo, della «teoria» in senso esplicito. Ma Piana rileva a questo proposito una specie di controsenso nella ulteriore precisazione per cui l'offrirsi sensitivo di un mondo, dato nell'assunzione sensitiva originaria e nelle sintesi dell'apprensione, «precederebbe» il mondo della prassi nel suo senso piu generale, conoscitiva o manipolativa. O meglio, egli mantiene la sua riserva sulla possibilità di cavare da questo orizzonte primario dell'affezione sensibile l'intero complesso dei significati umani e storici. «Se è vero infatti che ogni interesse o impegno pratico verso la cosa presuppone la cosa stessa nel suo essere – d'altra parte l'intenzionalità semplicemente percettiva per quanto possa arricchirsi di mediazioni non può per principio essere produttiva di quella complessa significatività storico-umana, nella quale il mondo circostante ci è dato anzitutto nella nostra esperienza concreta»
È qui che Piana introduce il tema primario del bisogno e della sua intenzionalità: «il bisogno ha un carattere intenzionale che va chiarito nella sua struttura specifica», ma d'altra parte « l'intenzionalità del bisogno – se viene considerata all'interno del nostro discorso complessivo – si trova alla base di ogni altra forma di intenzionalità. Anche per questo nulla illustra meglio il senso generale della 'coscienza intenzionale' del rapporto che è immediatamente messo in atto dal bisogno. II bisogno è per essenza bisogno di qualche cosa». Nella «praxis concreta del soddisfacimento, nella quale il corpo si mantiene in vita producendo e riproducendo se stesso», troviamo “la struttura intenzionale piu semplice e primitiva alla quale va attribuita una assoluta anteriorità genetico-costitutiva rispetto ad ogni altra modalità della praxis » [5].
Abbozzati cosi alcuni temi centrali del libro di Piana e espresso un apprezzamento decisamente positivo per lo stile notevolmente originale con cui egli li sviluppa, accennerò velocemente a qualche domanda che mi viene spontanea da questa lettura.
1. Sulla nozione di intenzionalità. – In Husserl questo concetto di origine brentaniana, ha trovato due impieghi, uno più tipicamente «cartesiano», che si riferisce alle operazioni considerate tradizionalmente peculiari della «coscienza», l'altro piu vasto e certo legittimo, per il quale ad esempio parliamo dell'intenzionalità della storia e che potremmo ancora adottare per descrivere il tipico finalismo del mondo complessivo della vita nell'orizzonte di una «natura» non ristretta alla sua riduzione matematizzante. Attraverso la sua identificazione della soggettività col corpo vivo, con il corpo che ha dei bisogni, Piana sintetizza in certo modo questi due significati dell'intenzionalità. Sicché egli mette in evidenza, in un punto-chiave del suo lavoro, la distinzione tra la coscienza in quanto soggettività in generale e la coscienza come consapevolezza: «Infatti, l'atto soggettivo esprime sempre una modalità di questa 'coscienza ': il fatto che questo atto sia consapevole è una qualità nuova, che esso può possedere o non possedere». Per conseguenza: «Quando diciamo che 'la coscienza è sempre coscienza di qualche cosa' indichiamo indubbiamente che ogni atto soggettivo è intenzionale, ma non vogliamo affatto privilegiare tra la molteplicità degli atti che io compio, un determinato complesso di atti comunemente definiti 'spirituali', 'mentali' o in altro modo, distinti in quanto tali dagli atti propriamente corporei. Intenzionale è ogni atto soggettivo – e quindi sia l'atto semplice del guardare la cosa senza intervenire in essa, sia l'atto della sua manipolazione concreta».
Proprio per questo, Piana sottolinea la generalità della formula per cui «la coscienza è sempre coscienza di qualche cosa»: essa «non dice nulla sulla struttura effettiva degli atti e sulle loro differenze ma si limita ad enunciare la necessità di cogliere la correlazione intenzionale, qualunque sia il dato fenomenologico considerato»; «sia la percezione che l'utilizzazione», secondo Piana, potrebbero essere definiti come «atti di coscienza» in quanto «entrambi sono coscienza di qualche cosa» [6]. Ed è facile infatti riconoscere che entrambi sono atti del soggetto, che esprimono due forme della sua prassi generale. Mi chiedo però : si regge l'identificazione tout-court di questo senso, in sé legittimo, della soggettività, con la nozione di coscienza? Si noti che Piana stesso ricorre alla formula della correlazione: intenzionale è sia l'atto del semplice guardare, sia l'atto della sua manipolazione concreta. Ma allora non è necessario arrivare a una delimitazione piu precisa, una delimitazione «essenziale» della soggettività in quanto coscienza, che delimiti al tempo stesso il significato di una prassi conoscitiva rispetto alla prassi nel suo senso piu generale (e correlativamente: alla « soggettività» nel senso illustrato da Piana)? Se il «guardare» e il «manipolare» sono entrambi «atti», non dovremo riconoscere una peculiarità dell'essere cosciente in quanto sfera dell'evidenza? (la sfera della conoscenza, nei suoi livelli ante-predicativi e predicativi). O conserva un senso il discorrere di un'evidenza del manipolare, dell'utilizzare, cosi come si parla dell'evidenza del vedere, del percepire? È evidente l'«utilizzabile» di cui parla Piana? e se lo è, non lo è per una coscienza (un «intuire» comunque inteso che si porta all'utilizzabile senza però utilizzarlo e senza « manipolarlo » )? La vecchia definizione di Brentano, ripresa da Husserl, che parla di una esistenza (nella coscienza) meramente intenzionale del cogitatum, aveva il senso di distinguere la sfera dell'essere-cosciente dalla generalità dell'«essere in generale». Non è andato troppo in là Piana nella sua nozione del nesso intenzionale come semplice «formula generale» in cui ogni atto soggettivo si inserirebbe in quanto rivolto a qualche cosa? [7]
2. La anteriorità genetica del soggetto personale-storico. – Che cosa significa precisamente l'affermazione che «il soggetto personale non ha 'origine' nel corpo in quanto facoltà di percezione e quindi di autopercezione, ma in quanto esso è anzitutto un corpo vivente »? Piana dice che una fenomenologia del bisogno non pone problemi diversi da quelli di una qualsiasi altra «fenomenologia», in quanto «il carattere di certezza che abbiamo riconosciuto al cogito è proprio anche dell'esperienza vissuta del bisogno: possiamo anzi affermare che il bisogno non è che una modalità del cogito. È assolutamente certo che se ho la sensazione della fame, ho questa sensazione della fame e la fame è per me questa sensazione determinata». Chiediamo: da dove parte questa analisi? Essa non è forse possibile, come dice Piana, «solo a partire da uno stato pienamente consapevole»? Se la semplice percezione (e l'appercezione che vi si connette, p. es. in quanto appresentazione dell'alterità personale ecc.) non può essere l'«origine» del soggetto storico-personale (l'origine conoscitiva, si intende) non abbandoniamo con questo proprio la possibilità della costituzione della realtà nel suo insieme? Si parla di costituzione, naturalmente, e non della sua costruzione o manipolazione effettiva che – rimandando al punto precedente – corrisponde a un'altra modalità della prassi soggettiva, o se si vuole, a un'altra «intenzionalità».
I rilievi precedenti hanno un valore provvisorio; non vogliono esaurire l'argomento né imbastire una polemica con le posizioni di Piana che del resto vengono presentate a loro volta, nei Problemi della Fenomenologia, più come tesi provvisorie di ricerca che come soluzioni frettolose di un difficile problema.
Guido Davide Neri
Note
[1] I problemi della fenomenologia, Milano, Mondadori, 1966.
[2] Esistenza e storia negli inediti di Husserl, Milano, Lampugnani Nigri, 1965.
[3] A proposito delle analisi di Idee II, approfitto di questa occasione per rilevare l'importanza del contributo dato da Enrico Filippini con la sua bella edizione italiana dell'intero complesso delle Idee (di cui il I libro viene ristampato, con integrazioni, nella già nota traduzione di G. Alliney; il II e il III appaiono per la prima volta nella versione di Filippini; il tutto accompagnato da un'ampia nota introduttiva dello stesso). Questo vasto complesso di ricerche ha avuto una prima eco, in verità più implicita che dichiarata, nell'ambito degli allievi diretti di Husserl, che poterono consultarlo nel dattiloscritto, tra le due guerre; in Francia circolò, ancora inedito, tra le mani di Merleau-Ponty, Tran Duc-Thao e Ricoeur; l'edizione italiana, che giunge tempestiva ad agevolare una serie di ricerche in corso, riproduce fedelmente il testo, integrato e corredato di appendici e apparato critico, dell'edizione curata da Walter e Marly Biemel per la Husserliana (Den Haag, Nijhoff, 1950-1952) e offre, per tutti e tre i libri, una traduzione di notevole livello, particolarmente riuscita anche sul piano linguistico. (Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, Torino, Einaudi, 1965).
[4] Cfr. pp. 142-44
[5] Cfr. pp. 192-205
[6] Cfr. pp. 91-92.
[7] La «generalità della formula» secondo cui la coscienza è sempre coscienza di qualcosa è davvero tale per cui le possano essere subordinati tutti gli atti del soggetto corporeo? E veramente per ognuno di questi atti è sempre indicabile un cogitatum? Anche per quelli espressi da verbi come correre, pesare, risplendere? Oppure l'intenzionalità che in essi si esprime non conserva un senso diverso da quello degli atti esplicitamente cogitativi? Osservazione questa che, a mio parere, dovrebbe estendersi anche agli atti «transitivi» del muovere, del manipolare a cui Piana si riferisce. Atti che eventualmente presuppongono ma che non sono atti specificamente “cogitativi”, se questa parola deve conservare un significato indipendente.
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