Guglielmo Forni Rosa

 


Recensione pubblicata in «Filosofia», Anno XVIII, Fasc. 3 (luglio 1967), pp. 546–550


 

Questo lavoro, che si sofferma soprattutto sui gruppi A (fcnomenologia mondana) e C (costituzione del tempo come costituzione formale) degli inediti husserliani, ha già alcuni notevoli precedenti: basti pensare al libro di Gerd Brand relativo al gruppo C e a quello del Toulemont sul concetto di società. Ogni opera di questo tipo desta il nostro interesse, perché i numerosi manoscritti che presenta potrebbero venir messi a confronto con i passi già pubblicati di significato incerto, e contribuire cosi a una soluzione dei tanti problemi connessi.
Ma una simile utilizzazione presuppone già il risultato finale cui dovrebbe contribuire: la sicura interpretazione del testo esaminato, o meglio la sua collocazione in un tessuto metodico che, come si sa, è in Husserl estremamente arduo –  il che significherebbe, in pratica, un sicuro possesso della struttura formale della fenomenologia. Ora, ci sembra già difficile mantenere questa coscienza metodica, sapere cioè a quale momento della riduzione, a quale atteggiamento feno menologico affidarsi, nel caso delle più vaste sintesi pubblicate: anche là, non basta affatto una precisa, minuziosa passività, ma la comprensione è sempre affidata, in un certo senso, a una ricreazione anticipativa della problematica. Nel caso dei frammenti, o delle note di lavoro, il discorso ovviamente si fa ancora più grave: qui si richiede una coscienza metodica tanto affinata e robusta, che si può legittimamente dubitare della base che ad essa possa fornire la situazione attuale degli studi husserliani. Ci sembra che il libro di Piana, come già quello di Toulemont, non sostenga completamente il peso enorme di un simile compito: scopo di questa nota è di indicarne i motivi, o il motivo principale. lnnanzitutto, è doveroso riconoscere all’Autore una mano felice nella scelta: interessanti per gli inediti citati e per la loro sicura composizione ci sono parse le pp. 29-37 (il ruolo del tempo nella costituzione dell’auto-identità e dell’alterità), mentre alcuni importanti testi, come quelli sul «mendicante» e sul «prigioniero», erano finora del tutto sconosciuti. La lettura però avviene in una particolare prospettiva, che conduce l’Autore a vedere nella tematica dell’intersoggettività (che si sviluppa appunto nel periodo cui appartengono questi manoscritti: 1928-34) l’ «estremo punto d’approdo», il «momento attraverso il quale s’infrange lo stesso orizzonte entro il quale Husserl ha compreso la sua filosofia» ( p. 100). Per vedere se e come ciò sia avvenuto, non dobbiamo far altro che rivolgerci ai testi raccolti nella Crisi delle scienze europee, la cui elaborazione risale al periodo 1935-37: anche qui, il tema dell’intersoggettività resta decisamente centrale.
 

Il problema della costituzione dell’alterità soggettiva sorge necessariamente dalla riduzione trascendentale dell’altro a puro fenomeno ed alla ulteriore riduzione (alla «proprietà, o «monadica») della fenomenicità di origine estranea: rimane soltanto il mondo esclusivamente mio» libero da formazioni intersog· gettive di senso, e perciò «natura », «percezione», «sensibilità pura e semplice» (pp. 17-18). Le due riduzioni sono differenti, e lo si vede ancora più chiaramente nel fatto che la costituzione dell’alterità metterà in questione la seconda, non la prima sul cui terreno costantemente si muove. Cosi anche l’intersoggettività segue la via maestra della oggettività fenomenologica: nel senso che il «solipsismo»  fenomenologico della prima riduzione non è semplicemente «metodico», cioè provvisorio, se I’intersoggettività viene ricostituita per e in un ego trascendentale fondante, il mio ego; cosi come non si ha mai il ritorno alla oggettività naturale–ingenua dell’inizio, ma soltanto la sua ricomprensione nel campo di coscienza ridotto. Nel caso invece della riduzione alla «proprietà», il procedimento non tocca questioni di fondo e rimane una finzione astrattiva. Questi due aspetti non sono chiaramente distinti nell’Introduzione, dove il «solipsismo» (nel primo senso la riduzione monadica non è ancora stata introdotta) appare un «artificio», «un esperimento mentale» (Ideen II, p. 81: dove dal contesto appare il chiaro riferimento a un «mondo solipsistico» come mondo naturale, e quindi alla riduzione monadica), «una finzione» (Erste Philosophie II, p. 177). E «pura finzione del pensiero», «argomentazione filosofica» verrà infatti detta (p. 94) «la riduzione fenomenologica»: il che lascia qualche dubbio se si pensa al preteso valore «positivistico» della riduzione, la fedeltà al datum. Certamente, nella generale trasformazione del mondo in fenomeno, la riduzione trascendentale dell’alterità soggettiva provoca un particolare senso di finzione, ma soltanto per via dei nostri residui di «ingenuità».
 

È veramente possibile, ci chiediamo, una tale operazione? Non possiede forse il senso di un metodo scientifico, che come tale viene elaborato per la comunicazione, per la critica e la rettifica intersoggettiva? Anche un solipsismo non metodico sarebbe pur sempre una teoria che il filosofo ritiene vera, di cui eventualmente vuol convincere altri , ecc. L’intersoggettività, si dirà, appartiene al senso stesso dell’oggettività, dell’ «universalmente valido», e prende cosi il senso di un presupposto indeclinabile. Ma tutto ciò si oppone soltanto all’annientamento dell’intersoggettività, non al fatto che essa appaia come costituita in me e da me : il «noi» è sempre «noi» di un «io», per un «io» (Ur-ich), e, in questo senso, il «solipsismo» non può essere infranto. Le argomentazioni precedenti possono quindi mettere in evidenza la «finzione» della riduzione monadica, non certo di quella fenomenologico– trascendentale.
All’ inizio della Prima Parte (p. 15) si dice che «accingendoci a seguire ... la teoria husserliana della Einfühlung ... noi ci muoviamo costantemente sul terreno trascendentale»: ma questa parola ha per Piana un senso modificato rispetto a quello che troviamo nella Crisi. Già nell’ultimo paragrafo di questa Parte (VI. Coesistenza) incontriamo qualche difficoltà: il termine «monade», usato da Husserl sia in senso psicologico che in senso trascendentale, viene reso equivalente nel suo significato al termine «anima» (Seele), che insieme a «io psichico», «io umano», ecc. designa esclusivamente l’oggetto di una psicologia pura. La differenza tra psicologia e fenomenologia (trascendentale) sta tutta nel fatto che la prima sospende il mondo naturale (riduzione «psicologica») ma non la realtà delle anime stesse che indaga, e che quindi tematizza nell’orizzonte di un mondo totale ingenuamente presupposto. Le anime, insomma, sono una parte del mondo, la parte «spirituale» : e come tali non possono svolgere funzioni trascendentali nella costituzione del mondo cui appartengono, ma sono costituite insieme a ogni altra cosa e al mondo stesso nell’ego e dall’ego trascendentale.
 

L’errore di Cartesio («psicologismo trascendentale») consisterebbe appunto in questa incomprensione della sua scoperta: «Cartesio scopre l’ego, ... ma subito lo confonde con l’anima, con la mens (sive anima) che è il prodotto di un’astrazione (N.B. : riduzione «psicologica»), lo confonde cioè con la persona umana, previa astrazione da tutto ciò che per essa, nel suo essere reale nel mondo, costituisce il mondo esterno» (Crisi, p. 434). «Sarebbe stata necessaria, in secondo luogo, per dire cosi, la scoperta della scoperta cartesiana, la quale, come abbiamo mostrato, appena avvenuta, era stata misconosciuta, e perciò non era stata elaborata nella forma di una scienza del fondamento - dunque di una duplice scienza del fondamento – la scienza trascendentale del fondamento» (Crisi, p. 4 73). Ora «monade» è usato da Husserl sia nel senso dell’anima, sia nel senso dell’ego trascendentale declinato nei pronomi personali: «Io, l’ego, ho sempre il mondo in base a un’operazione, un’operazione in base alla quale io costituisco, da un lato, me stesso e il mio orizzonte degli altri, e insieme la comunità omogenea del noi; questa costituzione non equivale a una costituzione del mondo, bensì a un’operazione che può essere designata come una monadicizzazione dell’ego ... Ogni ego monadico è incarnato funzionalmente nella comunità monadica, in una comunità, attraverso l’implicazione funzionale monadica per la costituzione del mondo e perciò per la costituzione di qualsiasi ego monadico in quanto ego umano…» (Crisi, p. 437).
 

L’ambivalenza di questo termine in Husserl viene lasciata cadere nel libro di Piana perché ciò che cade inn anzitutto è l’ego trascendentale stesso, come primo in sé o, che è lo stesso, come fondamento ultimo. Da un lato ci sembra, come dicevamo, che la riduzione fenomenologica tenda a confondersi con quella monadica, sotto il titolo generico di solipsismo: ne risulta che l’ io ridotto alla «proprietà», alla corporeità originaria, si muove sullo sfondo di un mondo, nel quale in seguito compariranno altri soggetti. La monade è allora davvero esclusivamente l’uomo: il fondamento assoluto diventa la corporeità primordiale, la prassi elementare, il bisogno - e qui si inseri sce l’avvicinamento al marxismo; inoltre questa dimensione di «proprietà» costituisce anche l’inizio della genesi egologica a partire dalla nascita, con lo stesso senso di assoluto fondamento: «regrediamo all’ ileticità passiva e inconscia, al grado originario della vita egologica, alla ·primordialità come sistema della percezione e dell’istinto» (p. 56). Certo questo è in senso relativo un terreno fondante, come mostra la tematica del «mondo-della-vita» nella Crisi. Ma occorre mantenere il senso di questa relatività («Questo terreno elementare, tuttavia, non è soltanto l’inizio del processo, ma anche il suo fondamento », p. 100); e ancor più il senso non evoluzionistico connesso (a questo livello costitutivo) agli svolgimenti che procedono da quel terreno, che sono svolgimenti di senso («Il divenire naturale che io vengo a conoscere attraverso le scienze di storia della natura è divenire che io situo nel tempo, che comprendo nel suo evolversi fino a quando qualcosa come l’animale «homo» ha potuto esser generato ed iniziare la sua «storia», indicando infine negli eventi che lo hanno preceduto «ciò che era prima di lui»: il pre-umano; il «non-spirituale». Lo «storico» ha in Husserl questo significato totale: comprende l’esserci nel mondo dell’uomo a partire dalla originaria matrice materiale-naturale, fino alle più alte formazioni dello spirito e della n atura » (p. 55). Ma se anche l’assottigliamento della riduzione tra scendentale a favore di quella monadica non fosse realmente rilevabile, l’ego trascendentale in senso proprio viene a mancare per un’altra via, che è senz’altro la più interessante. Poiché, come è giusto, l’ego è soltanto il «chi» della relazione intenzionale, non «cosa pensante» né « io umano » (p . 7), «noi perveniamo allora - nella destoricizzazione e nella disindividuazione della decisione filosofica - all’ego, che in quanto privato di ogni concretezza, non è propriamente un io: piuttosto una forma egologica, una struttura invariante (N. B.: manoscritto C II l, p. · 3) - non soggetto, ma «egoità» (p . 46). E Piana prosegue poi notando come «l’egoità qui considerata è l’io solipsista dell’inizio: sinché rimango a questo grado sono prigioniero della forma e non mi posso scoprire quale propriamente io sono, un soggetto incarnato, un uomo nel mondo» (p. 46). Il disegno sembra allora essere questo: si deve «passare attraverso l’idealismo scettico-solipsistico» (p. 56) della riduzione trascendentale per giungere alla intersoggettività che è concreta e storica, umana: «perché un altro abbia senso, debbo comprendere iò che propriamente io sono» (pp. 46 -47), e cioè un uomo incarnato in un corpo, cosi come in generale «l’oggettività . ritorna a sé stessa, esplicitata nel suo senso, solo dopo essere passata attraverso il momento soggettivo» (p . 97). Ma appunto, si tratta soltanto di «passare» attraverso ciò che come sappiamo non è altro che finzione, argomentazione? Per arrivare poi a riempire l’astrattezza generale-formale dell’ego con «l’io proprio incarnato nel suo tempo proprio di vita, nel suo rapporto di coesistenza reale e fattuale con l’altro» (p. 47)?
Il tema del trascendentale è molto arduo e forse, almeno nei suoi significati ultimi, nei problemi «ultimi e sommi» che involge (unicità della comunità monadica, immortalità della monade, idea di Dio), non ancora compiutamente percorso dalla critica. Una breve nota come questa non può che ricordare ciò e ormai sembra un’acquisizione definitiva, e cioè che, per Husserl, dall’ego non si esce: «la validità d’essere mondana (è) un controsenso se viene intesa come una validità che trascende l’ego… per l’ego non (ha) senso un che di esterno - a lui... un essere esteriore all’ego ... · nessuna esteriorità può avere un senso” (Crisi, pp. 434-435). Ma d’altra parte occorre comprendere come tutto, gli altri e il mondo che li ingloba in quanto io umani, l’alterità trascendentale stessa che costituisce insieme a me il mondo, sia per me e in me, cioè per l’ego e nell’ego unico che sono: in questo senso ultimo, come dicevamo, il «solipsismo» è infrangibile, e la possibilità di uscirne attraverso una metafisica monadologica (Meditazioni cartesiane, § 62) viene esplicitamente rifiutata. Altrettanto acquisito ci sembra poi l’elemento di fatticità dell’ego trascendentale, per non dire della storicità e della individuazione che vanno necessariamente collegate al concetto di abitualità dell’ego: si tratterà di non intendere queste caratteristiche in senso mondano, psicologizzante, il che rimane perfettamente possibile. L’ego non è quindi soltanto un io che  «non è propriamente un io», una «forma egologica», una «struttura invariante»: l’ego non è la sua essenza.

Nella Crisi (§ 26, Considerazioni preliminari sul nostro concetto del trascendentale) leggiamo che « questa sorgente va sotto il titolo io-stesso, con tutta la mia vita conoscitiva reale e possibile, e infine con la mia vita concreta in generale». E se, «nell’autocoscienza ingenua», «io sono veramente un ego trascendentale, ma non ne sono cosciente» (Crisi, p. 229), una volta giunto attraverso la riduzione a questa coscienza, potrò conoscere descrittivamente la vita costitutiva nella sua « fatticità individuale » (Crisi, p . 204)? Essa non è coglibile, «ma la piena e concreta fatticità della soggettività trascendentale universale è tuttavia afferrabile scientificamente in un altro senso, purché venga posto il grande compito di indagare attraverso un metodo realmente eidetico la forma essenziale delle operazioni trascendentali ... Il fatto è qui determinabile in quanto fatto nella sua essenza e soltanto attraverso la sua essenza, e non documentato empiricamente attraverso un’empiria induttiva ... » (Crisi, pp. 204-205). Il rapporto tra l’ego fattuale e la «soggettività trascendentale universale» (tra  «io esistente di fatto» e «unico eidos ‘ego’ », nelle Meditazioni cartesiane, p. 120) è quello che in generale intercorre tra dato di fatto ed essenza : l’intuizione eidetica procede irrealizzando e variando liberamente il dato fattuale di partenza. Questa «libera variazione» husserliana non è un metodo empiricamente induttivo : l’«invariante» non viene ottenuta attraverso il percorrimento di moltepli cità empiri· camente fattu ali, ma attraverso il procedere nell’àmbito aperto-infinito di pure possibilità; procedere che può realizzarsi sulla base di un solo esempio concreto. Così come avviene per la cosa materiale, dell’ego non posso conoscere che l’essenza, cioè l’universalità; eppure, è il mio ego quello che descrivo, quello che assumo come punto di partenza al procedere delle libere variazioni, che è, diciamo, il mio tema, e non l’essenza: anche se posso in qualunque momento volgermi tematicamente a quest’ultima. Dunque l’ego non è una pura forma, sono realmente io, ma in quanto nucleo identico-invariante della mia fatticità trascendentale. Certo, parlare di identico o invariante a proposito di un unico ego può stupire: già si stupiva grandemente Adorno (Sulla metacritica della gnoseologia, Cap. Il) di trovare nelle Ricerche logiche (Einleitung, pp. 106-108) l’espressione «rosso identico». Se Husserl, egli si chiedeva, parla esplicitamente di un solo rosso presente alla coscienza, che senso ha parlare di identità? Egli dimenticava così la possibilità, già implicita nell’espressione, della libera variazione.
In conclusione, che non si possa uscire dall’ego significa anche che non si abbandona mai quello che può sembrare il «momento» della forma: si parla sempre necessariamente di essenze e si parla altrettanto necessariamente di me, dell’io trascendentale originario. Ciò non significa che manchi (in me) una costituzione dell’alterità trascendentale, la quale evidentemente sarà possibile nella misura in cui vedrò negli altri un nucleo essenziale che, nel rivolgimento dell’attitudine all’essenza, dia sempre la stessa «soggettività trascendentale universale» : è quella che Husserl definisce monadicizzazionc dell’ego. Essa «non equivale a una costituzione del mondo», e quindi non ha senso pensare a un riempimento della pura forma trascendentale-solipsistica con una intersogge ttività psicofisica, umana: a meno che la forma trascendentale non sia già surrettiziamente concepita come forma «psicologica», sulla base di un mondo presupposto. In tutto ciò occorre attenersi all’ammonimento fondamentale: «non sarebbe legittimo porre condizioni alla trascendentalità a partire dall’obiettività» (Crisi, p. 204). Certamente, ritornando a un punto di vista psicologico-realistico, l’ego trascendentale non scompare: si potrà parlare di un nuovo grado della riflessione, della «trascendentalità  del mio esserci di fatto (p. 52), della «possibilità, immanente nel suo stesso essere fattuale, di questo io di fatto», «oggetto nel mondo, di trascendere questa oggettività» (p. 53): ma l’aporia psicologistica di origine cartesiana non permetterà di comprendere il più profondo senso della soggettività, e si dovrà concludere a un «soggetto che, nella sua pienezza, non è altro che l’uomo nella sua vita intersoggettiva e storico-naturale» (p. 104). Husserl afferma che «qualsiasi uomo ‘reca in sé un io trascendentale’»; ma le virgolette hanno qui il significato della trasformazione in fenomeno di una proposizione naturalistica: «ciò non ·va inteso nel senso che l’io trascendentale sia una part.e reale o uno strato dell’anima (il che sarebbe un controsenso), bensi nel senso che l’uomo, attraverso la considerazione fenomenologica di sé, diventa un’obiettivazione dell’io tra scendentale» (Crisi, p. 212). Si tratta in fondo, ancora una volta, della vecchia questione : realismo o idealismo della fenomenologia? Quando Husserl afferma che “non esiste dunque un realismo più radicale del nostro, purché questa parola non significhi che questo: io sono certo di essere un uomo che vive in questo mondo, ecc.”(p. 3; Crisi, p. 213), egli sa bene che il realismo, nell’accezione comunemente accolta, si caratterizza nel rifiuto di ogni riferimento alla certezza.


Guglielmo Forni

 


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