Antonio Gatti è nato nel 1954 a Milano, dove vive e lavora come operatore e insegnante di shiatsu. Ha acquisito e approfondito le conoscenze intorno allo shiatsu e alla Medicina Tradizionale Cinese sotto la guida di Fabio Zagato, presso l’Istituto di Ricerca Terapie Energetiche di Milano, Istituto nel quale insegna. Dalla fine degli anni Settanta ha sviluppato conoscenze musicologiche, frequentando corsi e seminari tenuti da Luigi Rognoni, Aldo Clementi, Lorenzo Bianconi e altri. E' autore del volume "Il Tao della musica. La concezione della musica e del suono nell’antica Cina e altrove"
Sui "Bisticci giocosi"
29.12.2009
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"Nel primo pezzo mi è piaciuto l'inserimento dei clarinetti, a metà del pezzo, efficaci, ironici sia nella timbrica sia nel ritmo; sorta di presa in giro degli oboe, che duettano saliscendendo e battibeccando. Ma forse è il secondo quello che più mi ha convinto; per l'inizio, grottesco e sospeso, direi sospettoso; e per il tema secondario dell'oboe (data l'alterazione dei suoni non escludo possa essere un clarinetto), sospeso, etereo, di una calma lunare straniata dal contesto che piace (è lo stesso tema che ricompare nella seconda sezione del pezzo). Le ultime battute, che riprendono quelle della prima sezione, anche mi convincono, così rarefatte, con il clarinetto solo a concludere. C'è da dire che sono riuscito a comprendere meglio del primo questo secondo pezzo, perchè ho seguito meglio le diverse voci, che nel primo pezzo mi si confondevano per la povertà del supporto tecnico. Del terzo mi ha colpito l'atmosfera da antica Cina, ironica, pentatonale che cerca di resistere alle coloriture astratte, atonali che avanzano. L'ironia mi sembra il clima dominante. E nella musica è sempre un clima interessante, non facile da creare. A dire il vero non li ho trovati molto bisticcianti, a parte il primo; giocosi sì, ma non bisticcianti".
Antonio Gatti
14.01.2010
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"Nella sua lettera si comprende che ha pensato molte cose, e per me è una grande soddisfazione sapere che esiste un ascoltatore tanto attento. E naturalmente molto competente e con l'udito fino - perché non c'era partitura a cui appoggiarsi. La ringrazio dunque moltissimo per questa attenzione - e per aver espresso le sue opinioni sui "Bisticci". Sono felicissimo che si riescano cogliere le intenzioni che mi hanno guidato nella composizione, e lei riesce a coglierle benissimo. Tanto per fare un esempio all'inizio il titolo era solo "Bisticci" - ma poi procedendo mi sono reso conto che questi brevi brani, come lei dice, erano più giocosi che bisticcianti. Di qui il nuovo titolo. Ma tutte le sue osservazioni sono azzecatissime - compreso il momento ironico, il tentativo contestato di conclusione con una melodia pentatonica, il gioco tra clarinetto e oboe e tutto il resto. Questo problema della composizione che mi ha preso a tarda età è forse una conseguenza di tanta speculazione sulla musica - ora mi piace molto tentare di farla, oltretutto senza le preoccupazioni che un compositore professionista ha e da cui spesso è letteralmente ossessionato. Di qui naturalmente anche la mia scelta di usare strumenti campionati".
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Giovanni Piana
1. Fantasia per sette strumenti - 2. Geometrie per tromba e trombone 3. Dove a loro piacque - 4. Leggenda - 5. Vagabondaggi della luna - 6. Note stillanti - 7. Concerto per gong, cimbali, campane e campanelli cantanti con violino obbligato 8. Il grande canto
25 luglio 2010
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Le composizioni sono ricche di buone suggestioni, molto differenti nei differenti brani. Non riesco a rintracciare derivazioni, paternità… sì, forse qualcosa di qualche autore, ma sempre alla lontana, Ligeti, Messiaen, ma solo per specifici e brevi passaggi. Forse c’è qualche area della musica contemporanea a me ignota, a cui fai riferimento; ma penso abbia anche uno stile molto personale, che non credo di poter ritrovare altrove. In termini complessivi, direi che è musica che non indugia mai, presa da un irrefrenabile spinta in avanti; mai ferma. Non indugia su aspetti melodici o armonici, imprendibili. Anche la scansione dei tempi cambia incessantemente, non lasciando percepire tempi e ritmi di una qualche regolarità. Il timbro sì, spesso permane e viene ad essere l’elemento che dà più di altri senso formale alle opere. E' anche evidente una scelta accurata e non convenzionale degli impasti timbrici, con la scelta di complessi strumentali interessanti, non usuali. Il silenzio mi pare invece elemento formale poco presente, quasi lo si temesse. Musica che non si ferma. Nel suo incessante andare pare quasi sempre musica inesauribile, che può terminare in qualsiasi momento, musica che ama scorrere; senza un elemento, ritmico, armonico o tematico, che permanga e trattenga l’attenzione. Talvolta questo determina una sorta di puntillismo musicale, come nel concerto per gong...
Come aspetto emozionale, prevale spesso una sensazione vagamente cupa di desolazione, stranamente non priva di un’inesorabile vitalità, cosa apparentemente contradditoria. Ma anche nel tappeto drammatizzante che, come avrò modo di dire, si presenta nelle composizioni, non pare mai esserci qualcosa come una partecipazione emozionale al dramma, quanto piuttosto una sua descrizione disincarnata, che non ferisce; che semmai fa riflettere. In genere mi risultano ben riusciti gli aspetti timbrici, sia quando gli archi drammatizzanti sostengono altri strumenti; sia quando i fiati si rarefanno e creano suoni isolati; sia quando, come nel brano per piano e vibrafono, gli strumenti creano una fantasia di timbro liquido. Ne parlo poi specificamente per i singoli brani.
Vedendo il sito, ho letto di una composizione per qin, cosa che mi ha molto colpito, perchè conosco la tradizione di questo strumento che anche nel sito viene ricordata.
1.
Fantasia per sette strumenti
Il clima di attesa introduttivo è efficace, con la nota isolata del violino, particolarmente significativa, pregnante, che caratterizza bene questa introduzione. Il carattere giocoso della successiva sezione svela una delle caratteristiche di stile che mi pare di trovare spesso in queste composizioni. Con qualcosa che somiglia a una microcitazione dal dies irae, ironica, e il carattere quasi danzato poco prima della conclusione. Noto in questa composizione una logica architettonica non sempre presente, con la ripresa tematica alla fine, che rende logica e convincente la conclusione.
2.
Geometrie per tromba e trombone
Dati gli strumenti in gioco, domina una sorta di improvvisazione, specie nella sezione iniziale, poco determinata formalmente. Successivamente (dall’emergere del tema pentatonico alla tromba) sembra ritrovare una logica formale maggiore, e mi pare più convincente. Nel finale ritorna uno stile improvvisato, e un finale un po’ estemporaneo, come se si trattasse di un pezzo sperimentale che a quel punto, avendo concluso la ricerca, poteva chiudersi.
3.
Dove a lor piacque
Fiati e pianoforte sembrano agire su piani differenti (come in "Vagabondaggi della luna"). I fiati sono più strutturati, definiti, musica scritta – il piano invece procede più con istinto improvvisativo. Più che dialogare con i fiati, commenta a posteriori, come se i fiati dettassero nel loro isolamento la tematica, e il piano la riprendesse a piacimento, come non ascoltato dai fiati, come se li commentasse esternamente, senza poter incidere sul loro procedere. Come in altre composizioni, si crea una sorta di straniamento tra le due parti che arrichisce la musica, le dà un senso più ambiguo. I fiati, in questo caso, sembrano quasi sempre procedere su un misterioso piano di intangibilità. Nella seconda parte i fiati si fanno più rarefatti, con timbri che vengono in evidenza, e si fanno anche più interessanti. In tutte le composizioni i timbri mi paiono sempre interessanti quando gli strumenti lavorano per suoni isolati, per rarefazione.
4.
Leggenda
Il coro iniziale è efficacemente sostenuto dagli archi, che disegnano un’atmosfera cupa, rituale, iniziatica; riuscita. Senza gli archi il coro poteva creare una sensazione piuttosto superficiale, mistoriosofica. Con gli archi si arrichisce e se ne rende più ambiguo il senso. La base inquietante degli archi è fondamentale anche quando interviene il coro soprano, che rischiava di apparire elegiaco, rassicurante, ma che gli archi riportano a un senso oscuramente drammatico. Quando i due cori, maschile e femminile si uniscono, sembrano scivolare su piani sonori paralleli, con buon effetto spaziale. La base degli archi sostituisce l’elegia con un senso di spaesamento, come se i cori non fossero spiriti spinti nell’iperuranio, ma anime perse, spaesate. A questo contribuisce anche la lontana presenza dei timpani, che non introduce alcuna regolarità ritmica, ne sottolinea anzi l'assenza.L'introduzione del violino mi pare, come si suol dire, toccante (con un effetto timbrico particolare, probabilmente perchè campionato?). Il complesso ne fa una composizione ricca di buone suggestioni, che mi richiamano ad alcune sezioni del Grande Canto.
5. Vagabondaggi della luna
Similmente a "Dove a lor piacque", dove erano in gioco fiati e piano, qui abbiamo le viole e il pianoforte che sembrano agire su piani differenti; paralleli, parzialmente estranei uno all’altro; gli archi più strutturati, il piano più improvvisato che commenta più che dialogare. Come in "Come a loro piacque", la cosa produce un senso di sdoppiamento che pare arricchire il pensiero musicale, anche se a volte il pianoforte sembra faticare a inserirsi legittimamente nella composizione, come se restasse inascoltato, isolato dagli archi. Le viole, come in altre composizioni gli archi, calmamente inquiete; direi: quietamente inquiete. Sono già uno strumento che inclina all'introspezione, almeno per me; sicuramente per alcune opere, come l'ultima sonata di Shostakovic. Il piano commenta, meno drammatizzante degli archi; non sembra essere coinvolto dalla desolazione espressa dagli archi; sembra quasi sdrammatizzare, non sentendosi pienamente responsabile del climax che le viole creano. Un osservatore.
6. Note stillanti
Questa è una composizione che mi risulta ben riuscita sul piano timbrico. E mi pare votarsi pienamente a questo piano, anche per lo "stillanti" del titolo. Gli strumenti creano un clima improvvisativo, con bella sonorità, liquida, favorita dalla vicinanza timbrica e dall'uso frequente di registri simili. Pare essere una sperimentazione largamente improvvisata, con un nucleo sonoro ben riuscito, e mi pare che la sperimentazione suggerisca esiti musicali anche più ampi.
7. Concerto per gong, cimbali, campane e campanelli cantanti con violino obbligato
E’ interessante come in questa composizione le percussioni si compenetrino bene con il violino, pur essendo usato questo in termini tutt’altro che percussivi. Misteriosa la ragione. Sia violino sia percussioni si ritrovano in un clima vagamente desolato, misterioso, dove gli strumenti vivono isolatamente, e forse anche per questo non si contraddicono e se ne coglie anzi una superiore unità. Anche questa pare musica inesauribile, che può terminare in qualsiasi momento. Non c’è una struttura forte (come d’altronde spesso nella musica degli ultimi decenni). Musica eraclitea, che scorre. Non c’è un elemento, ritmico, armonico o tematico che permanga e trattenga l’attenzione. Si determina qui una sorta di puntillismo timbrico, riuscito, anche per le preziosità dei timbri percussivi.
8.
Il grande canto
L’inizio mi ha subito fatto pensare a Ligeti, mi pare Lux aeterna, con la lacerazione dell’unisono iniziale in una seconda minore che apre lo spazio musicale.
E’ il pezzo più impegnativo, a cui i versi danno una sorta di unità, una logica formale. Ritroviamo gli archi quietamente inquieti; desolati, nervosi.Come altrove, questo uso degli archi permette di moltiplicare le prospettive, o almeno di sdoppiarle. come nella lettura della prima strofa, dove il testo ci restituisce una sensazione non drammatizzante, ma l’atmosfera di imminente pericolo disegnata dagli archi ne arricchisce la prospettiva, moltiplicandone i significati. La pioggia di fiori dei primi versi è evocata musicalmente in modo efficace, con discrezione. Successivamente, quando fiati e percussioni dominano, isolati, sembra preludano a un ritmo, a una regolarità ritmica, che non arriva; sensazione spesso presente in queste composizioni. Incisivo l’intervento di archi e fiati (o tastiere) minacciosi, drammatici (più o meno a 9’). La seconda strofa è sottolineata dagli archi, con la stessa dinamica e ambivalenza già presente nel primo intervento. Al Grande Canto espresso nei versi regala le maiuscole la musica, regale, maestosa; una specie di corale destrutturato. Chissà perché mi viene in mente la scena del Grande Appello nella Seconda di Mahler; per associazione immediata: i fiati che annunciano qualcosa di grandioso. Significativo, e anche riequilibrante per le sue sonorità moderate, raccolte, l’intervento dei flauti (verso i 17’). La terza strofa sembra alleggerire l'aspetto drammatico: ha ancora archi inquieti, ma anche fiati rassicuranti. Le percussioni che seguono paiono giudicanti, definitive; un editto.
Ma ancora più incisivo, pur nell’apparente semplicità, è l’uso del timpano, in nobile e regolarissima scansione, dopo la quarta strofa. Molto bello, ieratico, inesorabile. Un po’ mi è spiaciuto non fosse questa la conclusione della composizione, che continua ancora brevemente; mi pareva una conclusione eccellente.
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4 agosto 2010
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Per quanto riguarda il mio modo di comporre, ti dirò candidamente che non cerco di darmi uno "stile" - anche se poi riascoltandoli mi sembra affiori se non altro qualche affinità interna tra i vari brani. Sono invece interessato a fare tutte le prove possibili in ogni direzione. Una "cifra stilistica" è quella che mi interessa di meno, mentre mi interessa proprio provare che cosa si possa fare con tutta l'esperienza accumulata negli anni in rapporto alla tanta musica antica e moderna studiata e praticata una vita intera. In certo senso mi piacerebbe dilagare di qui e di là, approfittando del resto anche del vantaggio di non scrivere propriamente per un pubblico determinato o addirittura su commissione. Mi piacerebbe perciò studiare gli stili e gli autori più diversi , e poi sperimentare a modo mio, usando a fondo i programmi informatici, le loro potenzialità a mio avviso ancora abbastanza misconosciute dal "musicista da concerto", fare prove con i sintetizzatori, software ecc. Senza evitare qualche scorribanda nel passato. Dovrei però avere almeno vent'anni di meno per potermi dedicare a fondo ad una simile attività! Come sempre le tue osservazioni sono assai pertinenti e ancora non posso che esserti molto grato della pazienza del tuo ascolto. E' giustissima l'osservazione sulla scansione temporale - che è spesso è annientata semplicemente cambiando pesantemente l'indicazione metronomica.
Vi è in proposito una riflessione da fare su queste possibilità che implicano anche la scrittura e quindi il modo in cui si presenta la "partitura" che la renderebbe ben poco accetta al compositore di educazione conservatoriale. E mi piace molto anche quanto tu dici sull'aspetto espressivo emozionale. Io credo che la musica per quanto possa essere "costruita" - e quindi implicare una notevole dose di riflessione concettuale - debba, all'ascolto, colpire in particolare sul piano emotivo. La costruzione stessa d'altronde può colpire come colpisce un edificio ben realizzato. O una articolazione cromatica del tutto astratta.
Nel pezzo del violino con i gong, campanelli ecc. naturalmente si è trattato si una sorta di "sfida" - può reggere una simile associazione? Domande come queste me le pongo prima del pezzo, e non esito a dichiarare che la risposta viene solo dopo averlo realizzato - io non ho fin dall'inizio la composizione tutt'intera in testa, all'inizio ho una vaga idea che va prendendo corpo cammin facendo ed a volte cambia radicalmente dopo le prime prove. Si tratta di un comporre legato al mio stesso ascolto. Alla fine l'aderenza tra violino e strumenti percussivi è stata per me sorprendente. Quanto tu dici su questa composizione mi sembra perfetto - e in generale i tuoi commenti brano per brano sono per me, lo ripeto, preziosissimi e mostrano una sensibilità fuori del comune nell'afferramento dei nessi musicali.
E' un peccato che la lontananza non ci consenta di intrattenerci su questa o quella osservazione, aggiungendo elementi di discussione e di informazione. Ma ancora una volta il tempo è tiranno anche su queste cose.
Mi piacerebbe sapere qualcosa di più sui tuoi interessi relativi alla musica cinese. In realtà io sono un po' più attratto dalla musica indiana ma il qin ha avuto per me un fascino particolare. Se mi vorrai informare di questo tuo interesse te ne sarò grato.
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Giovanni Piana
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28 Dicembre 2010
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Nell'ultima tua mail mi chiedevi ragione del mio interesse per il qin. Strumento affascinante, sottile, forse non per caso esoterico, nella tradizione taoista. Questo interesse tocca un tema complesso e per me centrale, che riguarda la congiunzione del mio interesse per la musica con la mia attività, lo shiatsu, una tecnica di lavoro corporeo di derivazione taoista. Era inevitabile che nel tempo ricercassi la relazione tra una e l'altra.
Agli inizi ero affascinato dall'idea di leggere il pensiero musicale secondo le categorie del pensiero cinese, e innanzitutto secondo il modello yin/yang. Applicare queste categorie alla musica europea ne determinava una lettura interessante: per dare un esempio, l'evoluzione della forma-sonata diveniva leggibile come un'evoluzione della relazione tra yin e yang, osservata attraverso la relazione tra maschile e femminile, così come si presentano nei due gruppi tematici della forma-sonata (pur se la riduzione della forma-sonata alla relazione maschile/femminile risulta superata dalle analisi musicologiche recenti). L’analisi di come il rapporto tra i due gruppi tematici viene intesa dai diversi autori come identificazione reciproca (Haydn), dialettica tesa e contrastata (Beethoven), inconciliabile scissione (Mahler) e così via, può essere letta alla luce del modello yin / yang, che proietta questa dialettica in una relazione analogica con ogni altro aspetto della realtà. Ne potrebbero venire buone intuizioni. D'altronde è anche possibile rivedere secondo il modello yin/yang le teorie che leggono la musica come un'alternanza di slanci e riposi, tensioni e stasi, e perciò di yin e yang... come nella Brelet o nella Langer... Il rischio è sempre quello di scoprire l'acqua calda, e di definire con nuovi termini quanto già detto, senza aggiungere nulla di nuovo; ma in realtà al rischio è possibile sfuggire, e ricomporre una lettura per alcuni aspetti anche nuova del fenomeno musicale.
Ma la lettura dei testi taoisti mi ha allontanato da questa direzione di ricerca, che ho abbandonato dopo un primo approfondimento. Mi sembrava più interessante comprendere direttamente quale senso l'enigmatica letteratura taoista assegnasse alla musica. La ricerca si è allora spostata dapprima sull'uso magico-taumaturgico che della musica faceva il taoismo. L'argomento pareva interessante, e iniziai a scrivere qualcosa con l'intento di pubblicare un qualche articolo sulle riviste di shiatsu e di medicina cinese, vista la pesante carenza di riflessioni intorno alla relazione tra pensiero cinese e pensiero musicale. E soprattutto, devo dire, perchè detesto l'abitudine ad usare musica a scopo sedativo (e seduttivo) invalsa nell'ambito new age con cui lo shiatsu, e perciò anch'io, si trova accidentalmente e sventuratamente a confinare.
Ma anche questa rassicurante ricerca si è incrinata, quando ho letto nel Tao Te King l'enigmatica enunciazione “la grande musica è senza note”; e, colpo di grazia (nel doppio senso) nello Zhuangzi “la mia musica finisce nello sconvolgimento dell'anima tutta intera che porta a uno stato di stupidità; lo stato di stupidità provoca l'esperienza del Tao”. Ho immediatamente compreso che la faccenda si faceva drammaticamente intricata. Che se la prima delle citazioni richiamava alla mente analoghi elogi platonici della musica delle sfere come musica silenziosa, la seconda non dava scampo: permaneva nella totale oscurità, e andava indagata. Così ho speso gli ultimi mesi a decifrare le criptiche enunciazioni taoiste consultando tutto quel che si poteva consultare: investigazione appassionante quant'altre mai, tra testi sulla musica cinese ignari della cultura cinese e testi di cultura cinese ignari della musica cinese. Era evidente, per quanto arduo sia capire qualcosa di aristotelicamente logico dai paradossi taoisti, come fosse banale ridurre le loro riflessioni musicali al ristretto ambito magico-taumaturgico (ambito d'altronde che mi pareva ben ristretto rispetto alla varietà dei sensi simbolici, cifrati, ludici, numerologici che si impongono concretamente all'ascolto).
Ora, come un monaco medioevale nel suo eremo (e per nulla spiaciuto di questo), ho redatto pazientemente i nessi tra le forme del pensiero taoista e le forme della musica, entrambe letteralmente intraducibili. Tra le scoperte più sorprendenti, ho trovato le regolarissime corrispondenze tra la musica cinese antica e la nostra musica del XX secolo, specie quella degli ultimi decenni. Anche nell'antica musica cinese vi era assenza di una direzionalità e di un'architettura del tempo. Anche quella privilegiava il timbro tra i parametri musicali, determinando una strana congiunzione tra il nostro pianoforte preparato e il qin (nei manuali, venivano descritti 52 modi diversi di suonare una singola nota sul qin; trascurando peraltro spesso di dettagliare le melodie da eseguire). E l'estensione dei silenzi nella musica cinese spiazza i nostri strumenti di registrazione, che li interpretano regolarmente come conclusivi dei brani. Il silenzio, come nella nostra musica contemporanea, non è assenza di suono ma presenza in sé fortemente significativa.
L'intrigo si è reso ancor più appassionante per la strettissima somiglianza tra cultura cinese e greca, nell'originario metodo di definizione delle note (matematicamente il metodo è lo stesso, applicato nello stesso periodo storico sul bambù dai cinesi e sul monocordo da Pitagora, secondo quanto riporta la tradizione), tanto che si è a lungo dibattuto se la Cina abbia appreso il metodo dai greci, o i greci dai cinesi, o ecumenicamente se entrambi l'abbiano appreso dai mesopotamici. Tutte le tre teorie avendo severi, inflessibili sostenitori.
Alla fine il testo che sta definendosi è una specie di percorso iniziatico tra i paradossi del taoimo e i paradossi della musica. Il tutto ovviamente espresso con ferrea logica cartesiana. E chissà se mi riuscirà di pubblicarlo. Potrei tentare con “il Tao della musica” visto che c'è già quello della fisica. Al limite a mie spese: non dev'essere impossibile...
E' questa per me un'avventura sorprendente, che mi ha dato modo di ricomprendere la musica in genere, specie quella del secondo novecento, in un modo totalmente nuovo.
Ora capisci come il qin abbia per me particolare interesse. Tra l'altro era strumento privilegiato del mondo taoista (e poi buddhista), usato nel culto e nei rituali; e la sua storia è costellata da numerose leggende, come quella di un maestro di qin che lo distrusse alla morte del discepolo, l’unico che riteneva potesse comprendere le sue esecuzioni.
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Antonio Gatti
Le Chateau Noir
29.11.2011
L'introduzione strumentale mi par disegnare il vissuto dei viandanti nell'imminenza dell'uragano. Ho ritrovato in questo prologo sonorità di altre tue opere, con accordi lenti e drammatici, un prologo che già sembra un postludio a una devastazione già avvenuta, con caratteristiche sonore molto personali, che ormai riconosco e che caratterizzano bene la composizione nel suo inizio. Questa drammaticità la percepisco alleggerita dagli arpeggi acuti e liquidi che seguono.
La composizione mi sembra in questa introduzione disegnarsi a fasce: le parti di cui ho detto si aggiungono l'una all'altra più per sovrapposizione che per un'autentica polifonia; a queste fasce si aggiungeranno gli accordi violenti successivi, ulteriore fascia sonora indipendente. Fasce sonore di timbro e dinamica nettamente distinte, che presentano aspetti diversi della natura e del vissuto dei personaggi, scorrelati gli uni dagli altri. La visione è quella di accadimenti contemporanei ma distinti, una narrazione di più cose che attendono uno sviluppo.
Nella sonorità e nella dinamica ho la sensazione che tutte le parti siano pensate per strumenti a tastiera (mi viene in mente soprattutto l'organo), più che per un'orchestra. E’ come se ascoltassi più registri di un organo, cosa che determina una certa uniformità, e ne frena l’evidente varietà di accenti.
Nella sezione conclusiva dell’introduzione strumentale lo scenario si fa più tragico, con sonorità anche timbricamente più incisive e suggestive, accordi dissonanti e brevi frasi nervose, saettanti che aumentando la drammaticità. Presumo essere questo l'inizio della tempesta.
Molto efficace mi pare la creazione di diversi spazi, attraverso piani sonori più vicini e interrogativi, e altri più lontani, di calma e ineluttabile tragicità; pochi passaggi ma molto intensi e a parer mio ben riusciti (siamo a 4’ dall’inizio del Chateau, poco prima dei cluster).
L'esplosione dei cluster sono resi particolarmente efficaci dai rimandi da una voce all'altra (soprattutto terze minori ascendenti, se non sbaglio) che generano concitazione, come cori che si incitino l'un l'altro ad intervenire nella vicenda. Voci della natura, presumo; sicuramente minacciose. Anche la timbrica dei cluster, sintetizzati, è spesso accattivante nella sua violenza.
Ed ora siamo nel castello. Le sonorità si fanno più delicate e lontane, suggestive; anche qui a pare mio ben riuscite. A queste si sovrappone una voce, che nel tuo commento leggo essere una sorta di tromba, che io percepisco come un'improvvisazione e, forse essendo prodotta dal sintetizzatore, sento più di associarla a un organo, o comunque a uno strumento a tastiera, più che a uno strumento a fiato. Nel carattere liberamente atonale non mi rimanda al senso della festa in corso; la interpreto piuttosto come una sorta di interludio che separa la fase strumentale da quella cantata. Lo sfondo disegna sempre un alone timbricamente molto gradevole, direi suggestivo, se del termine non si fosse tanto abusato da renderlo denigratorio. I suoni, in sé dissonanti, risultano gradevoli e fin pacificanti per la caratterizzazione timbrica, così morbidamente liquida.
L'invocazione alla Bella Venere appare quanto mai apollinea, per l'essenzialità del canto, sospeso in un diatonismo privo di ritmo, che lo fa apparire evanescente, quasi astratto. Rafforzato dalla poesia del Metastasio, il canto, più che l'invocazione per i novelli sposi, mi par essere la quintessenza dell'invocazione, l’invocazione in sé. All’ascolto mi pare addirittura una rappresentazione onirica della scena nuziale, avulsa dalla concretezza delle nozze che han luogo nel Castello. E potrei dire che mi fa pensare più ad un Oratorio sacro che a un'Opera. Nella sua essenzialità mi richiama alcune composizioni degli ultimi decenni, fondate su monodie quanto mai semplici, essenziali, che gli stessi compositori ricollegano alle prime polifonie di Notre Dame, a Mastro Leoninus… (un esempio ne è Arvo Part, che trovo spesso affascinante ancorchè denigrato per il suo successo).
Anche l'intervento dei servitori presenta ancora un andamento ieratico e aritmico, ed è nella tensione armonica del canto che si rivela l'agitazione di servitori e convitati. L'atteggiamento compositivo mi richiama, seppur alla lontana, più come atteggiamento che come esito concreto, la severa Messa di Stravinsky, per l'architettura marmorea, statica ma ricca di tensione. C’è qualcosa della tragedia greca in questa controllata tensione corale. Questo per dare un'idea delle mie sensazioni all'ascolto, pur nell'espressione di una diversa personalità musicale, in cui non rintraccio alcuna chiara matrice in compositori a me noti. Ad esempio, il verso “un misterioso passo”, all'inizio della sezione del coro maschile, è sottolineato da una sorta di respiro, prodotto dal sintetizzatore, sullo sfondo, debole ma proprio per questo ancor più misterioso e minaccioso; respiro che forse rappresenta il vento, ma che mi vien da associare al respiro e alla voce arcana di cui si parla più avanti. Questo accompagnamento, pur delicato e lontano, allontana da riferimenti ai compositori citati, e distoglie da facili parallelismi. Diversamente, la parola “misterioso”, nell'ultimo verso, dà origine a un canto ritmicamente ben diverso, più ricco e frammentato.
Il coro femminile successivo mi è giunto inatteso, perchè riporta al tono distaccato, oggettivo del primo coro femminile, pur dichiarando l'uragano, cui si aprono le finestre. Non so se la cosa sia voluta, ma questa sezione mi suona strana, con le sue note lunghe e ieratiche, direi quasi serene. Lo potrei interpretare come una dissociazione emotiva del coro all'azione, cosa del tutto abituale nella musica moderna; ma pure una forma di serenità, e perciò una emozione specifica, mi pare traspaia, contraddicendo il testo. Ciò che mi è parso più efficace nella sua drammaticità è lo sfumare delle voci verso la conclusione del canto, poco prima dell’irrompere della pioggia, attraverso le finestre aperte; una realizzazione che aumenta il carattere fantasmatico, etereo, con una sensazione di tragica ineluttabilità. (al minuto 22, per intendersi).
Va detto che le voci, sintetizzate, le devo costantemente ripensare per restituire loro la sonorità “umana” più naturale, e determinano una certa difficoltà nel dare una giusta interpretazione al canto.
Nella sezione finale abbiamo l'apparizione dei Capricci di Paganini. Perchè di apparizione si tratta. Quando compare il 4° Capriccio sembra come un lento condensarsi di una melodia eterea, come fosse stata già presente ma inudibile. Curiosamente, più dell'originale, l'incipit mi ricorda un passaggio simile in Schubert (credo nel Divertimento all'ungherese, per 2 pianoforti); per cui mi è parso come una doppia apparizione, di Paganini e di Schubert. Mi sembra riuscita la scelta, perchè più di altre composizioni di Paganini questa appare velata da una malinconia estenuata, rassegnata, che crea una forte tensione in questo punto della narrazione. Poi rapide volate degli archi ci riconducono alla realtà del Castello.
Anche il 5° Capriccio appare straniato, anch'esso lo percepisco come un'apparizione, come se nel Castello si riudisse il violino di un antico avo (d'altronde solo ora mi accorgo questo Capriccio essere in tonalità minore, come d'altronde gli altri due citati, mentre per la sua straordinaria vitalità l'ho sempre pensato in tonalità maggiore). Lo straniamento non è estraneo alla dinamica musicale presente all'inizio di questo Capriccio, così estremo nella dilatazione inverosimile, astratta, degli intervalli. Per queste ragioni non sento il compositore presente alla scena, ma piuttosto una presenza eterea, spiritica, evocata dall'uragano (e l’associazione tra Paganini e l’uragano determina un’evocazione quanto mai appropriata). Non credo che questa sorta di apparizione fantasmatica fosse quanto tu prevedessi; nelle intenzioni era forse pensata la reale presenza del musicista in scena, ma all'ascolto il compositore lo sento sempre come un ricordo aleggiante più che come un personaggio in carne ed ossa. Forse anche per la presenza del sintetizzatore. Questo non diminuisce l'esito musicale, anche se credo non fosse nei tuoi intendimenti. D'altronde, con tutte le evocazioni in musica di fantasmi, dall'Orfeo al Macbeth al Giro di Vite, questa è in buona compagnia. Mi sembra di percepire in questa fase un breve frammento dal 1° dei Capricci.
L'idea di introdurre infine il 6° Capriccio mi è parsa ben pensata, per la sua enigmatica bellezza, profondamente malinconica, con qualcosa che mi richiama come un'estasi ricordata: tratto enigmatico non certo assente in Paganini, nel suo tormentato romanticismo. Hai ragione a sottolineare l’impoverimento cui lo si sottopone, ricordandolo solo come un virtuoso dello strumento; buona parte della sua produzione (più o meno tutti i tempi lenti, ad esempio) alludono alla vocalità operistica, al lirismo della melodia; e spesso questa vocalità viene da lui presagita, più che ripresa (date alla mano, spesso Paganini sembra precorrere Bellini, anche se all'ascolto ci sembra sempre citarlo a posteriori).
Tornando al 6° Capriccio, quello che mi piace della separazione che hai operato tra canto e accompagnamento, è che questo, invece che fare tutt'uno con il primo (come nel violino solitario di Paganini), si trasforma in una sorta di mandolino sintetizzato (fantasma anch'esso di un mandolino reale), che aggiunge una nota struggente a un canto che già è massimamente nostalgico ed emozionale, con un effetto emozionalmente intenso.
In questo finale credo inevitabile percepire assieme alla conclusione liberatoria della vicenda, un tributo commosso al grande compositore.
Ci sono musicisti, e tra questi Paganini, che sento consanguinei, pur riconoscendo ad altri, con cui mi sento meno emozionalmente vicino, pari grandezza o anche superiorità negli esiti musicali. Dovessi incontrare Mefistofele, tra i primi desideri che vorrei esaudire in cambio dell'anima ci sarebbe quello di assistere ad un suo concerto (da cui, curiosamente, l'anima ne uscirebbe arricchita).
Nb: la tua composizione me ne ha richiamata subito un'altra, per la traccia del racconto. Certamente tu la conoscerai: è la Valse di Ravel, che presenta tratti simili a Le Chateau Noir, per l'ambientazione e in parte per la trama. Ma lì il riferimento letterario è Poe e l'esito inesorabilmente drammatico. E abbiamo un precedente con cui sarebbe temerario confrontarsi.
Ti ringrazio per l'ascolto e per l'allargamento nella comprensione della musica che mi ha sollecitato.
[Antonio Gatti]
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11 settembre 2011
Caro Antonio,
a fine giugno mi mandasti la tua bellissima lettera con le tue osservazioni su Le Chateau Noir - ed io ora ti rispondo alla fine dell'estate e ti posso intanto dire che molte cose della tua lettera mi sono rimaste fortemente impresse e in varie occasioni mi sono sorpreso a ripensare tacitamente a questa o quella tua annotazione. Avere i tuoi commenti mi riempie di gioia, tanto più che questa mia musica, benché sia a disposizione di un pubblico potenziale del tutto aperto, è elaborata in solitudine e per lo più resta solitaria. Un commento così pregnante come il tuo gli dà quella realtà che ha per me quando la compongo e che tende poi a diventare in certo senso evanescente.
Ti dirò intanto che il racconto (benché in esso in effetti l'elemento aneddotico sia prevalente) mi aveva molto colpito per i significati che poteva rivestire in una elaborazione musicale (tra l'altro credo che forse convenga non limitarsi a dare l'indicazione bibliografica, ma addirittura a proporre il testo letterario insieme alla musica - che cosa ne pensi? Forse si eviterebbe qualche equivoco e forse anche si potrebbe fornire un materiale esemplificativo di riflessione più preciso sul rapporto tra testo e musica in genere). Nello stesso tempo ho esitato su vari punti del progetto, e credo che tu abbia colto anche queste esitazioni. Ad esempio, quando parli della festa al castello - inizialmente pensavo di inserire qualcosa di simile ad un valzer ma appunto il modello di Ravel mi ha fatto rinunciare subito ad un simile progetto "temerario" - ed io direi anche suicida. Nella soluzione che poi mi è sembrato di poter proporre (tra le molte che mi sono venute tormentosamente in mente) l'elemento festivo c'è in effetti assai poco - ma credo che l'ambiguità o l'ambivalenza sia in questo caso interessante, lo sfondo resta "noir" mentre il matrimonio c'è in qualche modo in forza del coro (la cui natura e carattere tu descrivi benissimo) e dell'invocazione a Venere. Quanto a quella che io chiamo nella presentazione una "specie di tromba", vorrei sottolineare che per musica come la mia che nasce "nativamente" attraverso il computer e che non è destinata ad essere eseguita dal vivo (anche se recentemente sono stati eseguiti i miei Vagabondaggi della luna in una scuola civica di musica) non ci si dovrebbe nemmeno dare il nome agli strumenti proprio perché cambia la natura dello strumento (meglio ancora: il concetto di strumento) e dovrebbe cambiare corrispondentemente la modalità dell'ascolto. Si tratta di un problema che mi piacerebbe approfondire insieme a tutta la problematica legata all'uso degli strumenti digitali (come ormai preferisco dire, dal momento che "strumento virtuale" è normalmente sentito come "strumento falso"). Per adesso comunque, anche se considero questa mia attività come un prolungamento dei miei interessi teorici, preferisco la pratica diretta e la sperimentazione onnidirezionale. Bisognerebbe in altri termini mettersi realmente in un atteggiamento "fenomenologico" e badare al materiale sonoro così come viene proposto - più che mai in questi casi la musica è essenzialmente suono; e una determinata timbrica viene ascoltata ed afferrata in modo sbagliato se la si ascolta pensando se somiglia o meno alla timbrica di questo o quello strumento di tradizione. Per me in altri termini non ha nessuna importanza se il materiale sonoro viene da un sintetizzatore, da un suono campionato, se faccia parte della famiglia degli strumenti colti o popolari di tradizione europea o se sia un corno a conchiglia dei maori o dei cacciatori di teste. Considera questa una parentesi.
Ritornando allo Chateau le tue osservazioni sul coro sono veramente notevoli. Hai ragione di notare il carattere "oratoriale" dell'insieme - questa parte mi ha veramente molto preoccupato. Il pericolo della "canzone", anzi della "canzonetta" era in agguato - e, detto francamente, se si sbagliava questo passaggio l'ascoltatore avrebbe potuto giustamente scoppiare in una risata. Oltretutto era la prima volta mi azzardavo a scrivere per coro, cosa che mi sembra particolarmente difficile. Per fortuna qualcosa segretamente ci guida di passo in passo nel processo compositivo - che potrebbe prendere varie strade ma che poi sa scegliersene bene o male una e accade così che anche nella musica (forse soprattutto in essa) una parola tira l'altra. Tu trovi un contrasto nella fase dell'"apertura delle finestre" - può darsi! Ma si tratta di uno straordinario grido liberatorio che invita a superare le oscure ansie interiori per gettarsi nelle braccia della natura - che poi nient'altro è che musica.
Paganini era nelle mie intenzioni proprio come tu dici: non un Paganini reale, realmente presente, ma un Paganini fantasmatico, ad un tempo una voce della natura e della musica. Scopriamo così anche di avere passioni comuni: sono lietissimo che tu condivida il rifiuto della riduzione a Paganini a puro virtuoso (lo stesso è accaduto al grande Liszt) e che tu sia di questo autore un cultore raffinato. L'omaggio a Paganini in effetti c'è, al violinista ed al compositore e tutto il pezzo è attraversato anche da questa ambiguità: Paganini come pretesto ma anche Paganini come passione. Sullo sfondo di una grande cultura musicale e di una grande "mitologia" o "mitema" della musica stessa che per me resta irrinunciabile.
Ti ringrazio ancora del tuo ascolto. E come vanno i tuoi studi "cinesi"? Dammi qualche breve tua notizia, quando ne avrai tempo e voglia...
Giovanni Piana
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12 settembre 2011
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"Le tue considerazioni mi sono sempre di chiarificazione: scopro sempre in modo più limpido radici del pensiero musicale da me non sufficientemente comprese. E difficilmente trovo persone che possano offrirmi questo approfondimento. Un pò come i mistici, il vissuto musicale posso descriverlo solo per cenni ed allusioni, e regolarmente essere frainteso; non frequento molte persone che abbiano questa passione, o anche solo questo interesse...
La riflessione intorno all'atteggiamento fenomenologico da tenere di fronte al materiale sonoro è molto interessante; è questa la modalità di ascolto indispensabile, specie per la musica del secondo Novecento. Penso, più che alla musica diciamo materica o bruitista, come alcuni la chiamano, all'uso degli strumenti tradizionali da parte di autori come Berio: anche in questi casi si rischia, un pò come io ho fatto sforzandomi di ascoltare trombe dove semmai era presente la loro evocazione, di voler ascoltare qualcos'altro, il violino che quasi non si riconosce, o una voce ben impostata al posto di sussurri, brusii e singhiozzi. E' come se si negasse la realtà della musica che abbiamo di fronte, sostituendola con una serie di stereotipi. Tra l'altro anche l'ascolto diventa terribilmente noioso.
E' una riflessione molto interessante questa perchè, per estensione, mi sono accorto di come si tenda a prevedere gli esiti anche di una semplice melodia, invece di ascoltarla (e rispettarla) nel suo unico, irrevocabile svilupparsi. E' sempre come se una parte di noi, razionalista e conservatrice, volesse scoprire schemi e modelli noti, laddove ci si dovrebbe aprire costantemente all'imprevedibile, alla sorpresa, alla meraviglia di un pensiero musicale inevitabilmente ignoto che ci si svela. E la musica è sempre questa apertura all'ignoto, al mai ascoltato (in questo senso, per estremizzare, non dovrebbe essere riprodotta, ma sempre eseguita dal vivo, come se fosse sempre la prima volta - c'è di buono che noi costantemente cambiamo, e quindi la musica che ascoltiamo non è mai la stessa, perchè si colora di un nostro vissuto sempre diverso). E forse la canzonetta è proprio il tentativo di fornire agli ascoltatori un materiale sempre già noto, prevedibile quanto possibile, che si possa ascoltare senza consapevolezza, conoscendolo paradossalmente già prima di averlo conosciuto... Capisco perciò la tua preoccupazione sulle canzonette che rischiavi di richiamare... rischio pienamente evitato. L'ascolto disattento, non consapevole, esce dalle tue composizioni fortunatamente frustrato.
Il mio testo procede - è quasi concluso: l'ho rivisto tutto, rivoltandolo da cima a fondo, profittando come sempre delle vacanze. Ne è venuta una cosa ben differente rispetto a quel che mi ero prospettato agli inizi, e ne sono molto soddisfatto: gli dedico tutto il tempo che mi rimane libero con un entusiasmo, che toglierei ore di sonno per lavorarci; anche se, pensando alla fatica o ancor più al tormento, non mi ci metterei mai ad iniziarne un altro.
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Antonio Gatti