Intorno alla metafisica: II. Due esempi per illustrare l'idea di metafisica. Secondo esempio. "Che cosa è la metafisica?" di Heidegger

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II. Due esempi per illustrare l’idea di metafisica

 


2. "Che cosa è la metafisica?" di Heidegger

 

Domanda metafisica e conoscenza scientifica

1. Da Leibniz, un esempio classico, che appartiene ad un passato lontano, ad un esempio, Heidegger, che appartiene certamente, anch’esso, al passato, ma ad un passato di cui forse sentiamo ancora l’eco. Un grande salto, in realtà, che si giustifica tuttavia con lo scopo che ci siamo proposti: dopo aver tentato di introdurre a modo nostro l’idea di un pensiero orientato in senso metafisico, vogliamo fornire di esso qualche esempio tratto dalla tradizione storica, facendo riferimento a testi brevi e densi di significato, che siano in grado di mostrare la ricchezza dei problemi che può svilupparsi in un concreto percorso di pensiero - ricchezza che va ben oltre lo schematismo elementare con cui abbiamo cominciato la nostra discussione.

La Monadologia di Leibniz si prestava a meraviglia a questo scopo. Ma le realizzazioni del pensiero metafisico possono essere molto varie - e alle loro spalle vi possono essere concezioni del mondo e orientamenti intellettuali molto differenti. Heidegger sembra stare all’opposto di Leibniz, e proprio per questo vogliamo rivolgerci soprattutto ad un suo breve e famoso testo: Che cosa è la metafisica? che riproduce una conferenza tenuta il 24 luglio 1929 presso l’Università di Freiburg. Di questo testo, come nel caso della Monadologia, intendiamo proporre non più di un sintetico indice degli argomenti.

M. Heidegger, Was ist Metaphysik, Klostermann, Frankfurt am Main, 1955. - Si è tenuta presente, senza ritenerla vincolante, la traduzione italiana di A. Carlini, Firenze 1953 - ad essa rimandano le indicazioni di pagina. Si può vedere anche la traduzione di H. Kunkler, A. Martone, G. Rajo, Pironti, Napoli 1982. Entrambe queste traduzioni sono corredate da note e commenti.

2. Certo, ora siamo accompagnati dal fresco ricordo delle tematiche leibniziane, la nostra mente è ancora tutta risonante dei grandi temi leibniziani della potenza della logica, della organicità del mondo, della vitalità che permea ogni particella della natura, dell’armonia del tutto, ed anche naturalmente dal vivo senso degli interessi conoscitivi - ovunque debordanti in Leibniz in ogni direzione - di cui, nonostante la povertà della nostra esposizione, si risente la vivace presenza. Che in Heidegger ci muoviamo in tutt’altro orizzonte comincia ad annunciarsi nella prima posizione del problema. Fin dall’inizio veniamo avvertiti del fatto che l’autore non intende spiegare che cosa sia la metafisica, come potrebbe far pensare il titolo; e tanto meno proporre una definizione del termine per poi illustrarla ed argomentarla. Ci si propone invece di esporre ed elaborare una questione metafisica in modo da mettere sotto i nostri occhi che cosa la metafisica sia. Perché in realtà non si dànno questioni metafisiche particolari, ed ogni questione metafisica implica il problema metafisico nella sua totalità. Al più si può ammettere che possano darsi modi diversi di porre un unico problema, quindi diverse domande - ma il punto essenziale è che queste domande convergono verso un’unica domanda fondamentale. Quando si tratta di metafisica, non esistono i problemi, ma solo il problema.

3. La premessa che chiarisce fin dall’inizio la direzione del discorso è che «Nessuna domanda [Frage] metafisica può essere posta se non in quanto colui che pone la domanda è tale da essere coinvolto coinvolto nella domanda, ossia è in questione [Frage] egli stesso» (p. 4).

Ciò non significa che la domanda metafisica verta su colui che la pone, essa non è una domanda sulla soggettività - ma ciò che la caratterizza come tale è il fatto che la soggettività è in essa direttamente implicata. Vi una ambivalenza caratteristica della parola tedesca Frage che in realtà è presente anche nella espressione italiana «questione», che indica una domanda che solleva un problema da discutere ma che può essere impiegata in frasi come «essere messo in questione», «essere in questione», frasi che possono significare «andarne di mezzo».

4. Secondo Heidegger, ciò non si può certamente dire per domande e problemi posti dalle scienze - la soggettività che le pone è qui, al contrario, «fuori questione» - le scienze sono esclusivamente puntate sulle cose da conoscere, esse sono «rivolte al mondo», il loro obbiettivo è «l’ente stesso nel suo contenuto e modo di essere, per farne oggetto di indagine e di determinazione fondamentale». Perciò nella scienza noi diamo «espressamente ed unicamente alla cosa stessa la prima e l’ultima parola», ed in questo modo «ci si sottomette, entro determinati limiti, all’ente stesso, allo scopo che questo si metta in grado di automanifestarsi» (p. 6-7). Vi è dunque una sudditanza all’ente, una sottomissione alle cose da conoscere - che peraltro mira, alla fine, ad un dominio su di esse. Si suggerisce dunque che la conoscenza abbia come scopo il dominio tecnico del reale e come presupposto un atto preliminare di sottomissione alla realtà stessa: le cose ci si debbono manifestare nella loro vera natura, e proprio in quanto ci adeguiamo ad essa - alle leggi che le regolano - possiamo riuscire a dominarle.

All’interno di questa linea di discorso, la specializzazione delle scienze è considerata con un’accentuazione negativa. Specializzazione significa frantumazione: le scienze sembrano essere tenute insieme da puri dati di fatto, o addirittura dalla pura e semplice esistenza di luoghi in cui esse vengono di fatto insegnate insieme (come le università) o dall’esistenza di finalità pratiche che le discipline particolari debbono assolvere. Poste così le cose, Heidegger si chiede se il senso della scienza possa essere veramente ridotto alla risoluzione di problemi tecnico-pratici secondo questo rapporto di dominio sulla cosa che è anche, al tempo stesso (e prioritariamente) un rapporto di sottomissione.

5. Intanto vi è questo fatto: questo modo di rivolgersi al mondo per conoscerlo, e conoscendolo dominarlo, è un atteggiamento liberamente scelto dall’uomo - che con la domanda conoscitiva «irrompe» nell’omogeneità del mondo di cose costituendolo come mondo da conoscere. Lo scopo della scienza si determina in rapporto a questa irruzione: secondo la formula di Heidegger, questo scopo è l’ente stesso - e null’altro (8). Questa formula viene ripetuta più volte: ... e null’ altro; - ...e, oltre questo, null’altro; - ...e al di fuori e sopra questo null’altro (p. 8).

6. La ripetizione non ha qui solo lo scopo di enfatizzare il problema, di drammatizzarlo - ma anche nello stesso tempo, di farlo esistere. Infatti, proprio attraverso questa iterazione viene proposto il primo punto di arrivo di questo percorso: la domanda che ci fa accedere al problema metafisico riguarda proprio questo null’altro che compare nella delimitazione dello scopo dell’indagine scientifica.

7. Vi sono, in questo inizio, alcuni temi che, pur in una forma differente, ci riportano alla metafisica della tradizione, e sarebbe un errore non prestare attenzione ad essi. Il breve ma significativo accenno alla critica della specializzazione, si conclude con l’osservazione: «la sorgente comune delle scienze, che ne dà l’essenza fondamentale, si è inaridita» (p. 5). In negativo, è qui certamente presente ciò che per la metafisica della tradizione era una sorta di indiscussa ovvietà: che le scienze avessero una «sorgente comune» e che in essa fosse da ricercare la loro «essenza fondamentale».

8. Ed ancora certamente non nuova è l’idea che la questione metafisica oltrepassi la dimensione della scienza - perché è questo che dice Heidegger nella prima esposizione del problema. Tuttavia il modo in cui lo dice è del tutto singolare e inatteso. La scienza si occupa della realtà, e di null’altro - e con questo «null’altro» è la scienza stessa che chiude le porte in faccia alla metafisica. Ma implicitamente pone anche la domanda che la metafisica deve far propria.

9. Il tempo del razionalismo metafisico che vede una continuità tra scienza e metafisica e addirittura una identità metodologica fondamentale nel modo dell’approccio sono tramontati. Così come ha perso consistenza quell’orizzontre religioso precostituito che dava immediatamente un contenuto all’oltremondo - un contenuto che certo il filosofo razionalista riteneva di dover ripensare da capo e in certo modo rifondare razionalmente, ma che comunque era là, a sua disposizione, con una certezza primaria da riacquisire. Ora invece ci troviamo di fronte all’affermazione che al di fuori ed al di sopra dell’ente non c’è null’altro che meriti l’attenzione di una indagine conoscitiva: per Heidegger si tratta anzitutto di riguadagnare il problema contro questa polemica antimetafisica. Quell’affermazione viene perciò presa in parola: «Unicamente l’ente e al di fuori di questo - nulla» così da poter chiedere: «Che ne è di questo nulla?» Se come scienziati al di là dell’ente non c’è nulla da indagare, allora come filosofi, più precisamente come metafisici, vogliamo interrogarci proprio su questo nulla.

Il nulla come tema del pensiero metafisico

10. Passaggio alquanto singolare. Non stiamo qui avviandoci verso sbocchi di aperta paradossalità? Interrogarsi sul nulla non equivale forse a non interrogarsi affatto? Può semplicemente l’aggiunta di un articolo - il nulla - mutare questo stato di cose?

Domande più che legittime: ma a cui non vogliamo troppo frettolosamente dare il nostro assenso. Si deve riconoscere anche a Heidegger il diritto di presentarci il suo scarabocchio: e noi gli diremo cos’è.

11. Del resto, l’azzardo appartiene all’ideazione filosofica. E così Heidegger azzarda questo pensiero: se «oggi più che mai» la scienza «deve affermare per la sua serietà e purezza che essa si occupa unicamente dell’ente», l’attenzione del filosofo deve rivolgersi sul versante opposto - il tema della filosofia sarà dunque il nulla stesso. Di ciò Heidegger accetta il rischio. Le obiezioni sono del resto a portata di mano. «Interrogarsi sul nulla - che cosa e come esso sia - converte ciò su cui ci si interroga nel suo contrario. La domanda si priva da se stessa del proprio oggetto» (p. 11). Una simile proposta chiama in causa la sua stessa possibilità logica, e Heidegger lo sa. Ed allora dovrà essere contestata la «supremazia della logica» - viaggiando con il pensiero lungo una strada in cui sono disseminati segnali di permessi e di divieti, che noi non terremo in nessun conto.

12. È presente a Heidegger anche l’obiezione più forte: da un punto di vista logico, la parola «nulla» sarà presumibilmente considerata come una parola che deriva da una operazione di sostantivazione compiuta sulla negazione. La negazione è la nozione primaria, e rimanda ad una pura funzione intellettuale. Se vogliamo interrogarci sul «nulla», saremo dunque rinviati da questo sostantivo alla funzione intellettuale soggiacente. Il nulla c’è soltanto perché c’è il non. Ma se le cose stessero così, il problema perderebbe tutta la pregnanza che Heidegger intende attribuire ad esso. Perciò egli adombra la possibilità che valga piuttosto l’inverso, che «il nulla sia più originario del non e della negazione» (p. 12).

13. Su che cosa ciò possa significare peraltro Heidegger non offre spiegazioni e naturalmente non possiamo essere costretti noi a produrle al suo posto. Tuttavia, per quanto una simile affermazione possa essere misteriosa, anche in essa si può scorgere un tratto caratteristico che ci riporta alla metafisica del passato. Alla base del ribaltamento qui proposto vi è la tacita assunzione che le funzioni intellettuali in genere presuppongano un qualche stato dell’essere, che esse non siano autonome, ma che abbiano bisogno di una fondazione ontologica. Pensiamo al rimando, così frequente nella metafisica della tradizione, delle funzioni intellettuali e conoscitive superiori agli attributi divini. Tutte le nostre capacità spirituali hanno la loro giustificazione nel nostro rapporto con dio, che è un rapporto di dipendenza d’essere. La posizione che Heidegger assume qui è il residuo che questa impostazione lascia dietro di sé una volta che sia stata privata di tutto il suo contenuto positivo. Non vi è più dio (l’Essere con la maiuscola), non vi sono più gli attributi divini di cui le nostre facoltà intellettuali sono pallida ombra ed in cui esse si radicano, ma resta l’idea di un radicarsi delle funzioni intellettuali altrove.

14. È inutile, contro Heidegger, rivendicare i diritti della logica, se proprio questi diritti sono preliminarmente negati. Che la questione sia formalmente impossibile è dato per ovvio. E di qui si trae come conseguenza che proprio da questa impossibilità non dobbiamo lasciarci fuorviare; dobbiamo anzi deciderci una volta per tutte ad abbandonare il terreno argomentativo. Dobbiamo «mettere da parte l’intelletto» e rivolgerci in tutt’altra direzione. Se il nulla ha una consistenza che non può essere argomentata o semplicemente pensata senza imbattersi in controsensi, esso deve comunque potersi manifestare. Heidegger dice: dobbiamo poterlo incontrare (begegnen) (p.13). Nella nostra vita emotiva, nella sfera delle manifestazioni affettive: qui forse ci accadrà, o forse ci è già più volte accaduto, di imbatterci nel nulla.

Il nesso tra metafisica e totalita'

15. È interessante notare come si presenti in Heidegger il nesso tra problema metafisico e problema della totalità. Una condizione necessaria per far valere il tema della priorità del nulla sulla negazione è certamente il fatto che la parola nulla venga impiegata in modo assoluto. Finché si tiene ferma la priorità della negazione, la parola nulla viene impiegata all’interno di relatività più o meno sottintese. Queste relatività presuppongono sempre una determinata positività che viene appunto negata. Se parlo di uno spazio vuoto - ad es. di un cassetto in cui non c’è nulla - la nozione positiva presupposta è quella delle cose che potrei attendermi di trovare nel cassetto. Ad esempio, cerco un quaderno nel cassetto e rilevo che in esso non c’è. Il non è per così dire applicato al quaderno che era posto come esistente nel cassetto nel momento in cui mi sono accinto a ricercarlo. Eventualmente posso dire: nel cassetto non c’è nulla - e la negazione riguarda ora sia quel quaderno, sia altre cose relativamente indeterminate che comunque ci si può attendere di trovare in un cassetto.

Il modo in cui usiamo ogni giorno la parola nulla ha sempre questo carattere, mentre appare subito chiaro che se ci teniamo fermi ad esso non riusciremo certo a pervenire al tema del nulla nel senso di Heidegger.

16. Di passaggio vorrei attirare l’attenzione su questo rapporto con l’impiego corrente dei termini. Talvolta Heidegger ricorre a situazioni tratte dall’esperienza e dal linguaggio corrente. Ad esempio: «noi conosciamo il nulla, sebbene solo in quanto di esso, per un verso o per l’altro, parliamo ogni giorno» (p. 13): ma il nulla di cui si parla ogni giorno è un nulla volgare, «scolorito nell’incolore uniformità dell’ovvietà» - il niente appunto dei nostri cassetti vuoti. Per Heidegger il linguaggio corrente annuncia il problema ma nello stesso tempo lo appiattisce in modo da renderlo insignificante. Al linguaggio comune si contrappone il linguaggio metafisico, o meglio, l’impiego metafisico delle parole, che sa cogliere il loro senso nascosto e presentarlo in tutta la sua potenza.

17. Dal nulla impiegato relativamente passiamo così al nulla impiegato in senso assoluto: ad un nulla che non nega l’esserci di questo o di quello e nemmeno l’esserci di un insieme più o meno vagamente delimitato di cose, ma nega appunto la totalità di ciò che è, la totalità delle cose che sono. E proprio perché si contrappone a questa totalità, il nulla stesso è un concetto totale.

Le due nozioni si presuppongono l’un l’altra. La nozione di totalità dell’ente deve poter essere in qualche modo data, per consentire al nulla di manifestarsi, ma non può a sua volta essere concepita come una nozione intellettuale: essa non viene ottenuta in un passaggio che chiama in causa la nostra capacità di astrazione, come se si trattasse di formulare il pensiero di tutte le cose possibili a partire dalle cose che ci stanno intorno. Il nulla deve essere dato in un’esperienza e non in un pensiero, e questa esperienza del nulla deve poter essere vissuta anche come una esperienza della totalità, e quindi la totalità stessa deve essere colta nell’atto stesso di annientarsi.

Rimando agli stati affettivi

18. Questo richiamo alla totalità diventa particolarmente significativo quando si passa a tracciare sommariamente l’approccio al problema metafisico attraverso la via delle emozioni.

Stati d’animo come la gioia, la tristezza, l’ansietà, la paura... sono momenti che fanno anzitutto parte della dimensione quotidiana della vita, che Heidegger caratterizza come una dimensione di costante «affaccendamento» (alltägliches Dahintreiben): in essa siamo sempre volti a realizzare un qualche compito particolare, e questi stati d’animo, intrecciati nell’ «affaccendamento», sono per questo legati alla particolarità di un oggetto o di uno scopo.

19. La noia è l’esempio che Heidegger suggerisce per primo: come stato psicologico essa non è altro che una caduta di interesse per qualcosa che prepara il rivolgersi dell’interesse ad altro, e va dunque considerata come uno stato transitorio, tra una faccenda e l’altra. Mentre ti ascolto parlare ora mi annoio... allora la tua voce passa sullo sfondo diventando sempre più lontana, ed il mio occhio segue stancamente i riflessi che i raggi di sole creano entrando dalla vetrata cercando un qualche oggetto di interesse su cui posarsi. A questa noia legata alla dimensione della quotidianità ne può tuttavia subentrare un’altra che può anch’essa iniziare con il prendere sempre più le distanze da qualcosa di determinato, ma diviene poi sempre più profonda e non cerca nemmeno di riprendersi volgendo l’interesse in altra direzione. L’oggetto a cui eravamo intenti fino a poco fa si allontana nelle sue determinazioni particolari, ma nessun altro oggetto si fa avanti per rivendicare la nostra attenzione. Ogni particolarità tende a rifluire in una totalità che diventa sempre più indifferenziata, una totalità che va dissolvendosi. La noia che raggiunge questa intensità, in luogo di mantenerci nella quotidianità, ci strappa ad essa - e in questo movimento, il nulla ci si fa incontro come una «totalità che si annulla». Nella noia profonda, cioè nella noia che comincia a perdere un significato puramente psicologico per ricevere un significato metafisico, si realizza un livellamento dei gradi di importanza che toglie senso al nostro stesso affaccendamento quotidiano. In essa la totalità c’è come un diffondersi su ogni cosa di un velo di nebbia sempre più fitta. (Si noti di passaggio che, come talora in Leibniz, anche se con senso differente, ci sia una sorta di trasvalutazione dal piano psicologico a quello metafisico).

20. La gioia: l’esempio rimanda ora ad uno stato d’animo positivo. Su di esso tuttavia Heidegger si diffonde ben poco, accennando appena alla situazione dell’innamoramento. Non è difficile tuttavia trasferire alla meglio le considerazioni precedenti a questo sentimento. Anche in questo caso potremo infatti distinguere una gioia che punta in una direzione determinata, e un sentimento volto alla totalità - intesa come indeterminata e priva di articolazioni e differenze interne. Entrambi gli esempi sono in ogni caso sommariamente esposti e vanno intesi come esempi preparatori del passaggio alla situazione emotiva fondamentale, all’esperienza esemplare dal punto di vista metafisico.

L'angoscia

21. Questa esperienza - o stato o disposizione dell’animo - è l’angoscia. Il punto essenziale della differenza tra l’angoscia e la paura sta nella determinatezza dell’oggetto della paura, nella dimensione specifica di pericolosità e di minaccia di ciò che fa paura, indipendentemente dal fatto che il pericolo sia reale o immaginario. Di fronte al pericolo, ci si agita per reagire ad esso, si cercano appigli per fronteggiarlo, e può accadere che «si perda la testa» nell’affanno di questa ricerca. L’angoscia invece - qui non facciamo altro che seguire passo passo il testo heideggeriano -«porta con sé una caratteristica quiete» - e può essere descritta come un distacco da tutto ciò che è, come un affondare delle cose e di noi stessi «in una specie di indifferenza» - uno stato nel quale (e qui la descrizione è abbastanza simile a quella della noia) la totalità dell’ente si annuncia come una totalità che scompare.

Quando ci risolleviamo da questo sgomento e ci chiediamo «di che e perché ci siamo angosciati? Non c’era propriamente - nulla. Ed in realtà il nulla stesso - in carne ed ossa - era là» (p. 19).

22. In questo modo di impostare la questione, la vita corrente di ogni giorno occupa una importantissima funzione di sfondo. Nell’immagine dell’uomo che corre da una cosa all’altra, che è impegnato in questo e in quello, che parla e dice molte cose piene di senso - e che sono tali perché hanno sempre di mira qualche cosa - si ripresenta di continuo il tema della delimitazione, in contrapposizione a quello della totalità. Di fronte a me c’è sempre precisamente questa o quella cosa. Io stesso sono «così e così» - ho le mie determinatezze, compiti reali ed obbiettivi ben definiti. Il passaggio alla totalità come passaggio al nulla ci solleva proprio dall’impegno della determinatezza, e dunque dall’impegno della vita quotidiana. Anche i sentimenti sono per lo più sotto la presa di questa determinatezza, ma alcuni di essi talora riescono a bucare la superficie, ed a mostrare il fondo.

23. La metafisica deve prendere le distanze dall’argomentazione. In luogo di escogitare sempre nuove strutture argomentative, ci viene additata un’altra via, la via dell’esperienza. Occorre prestare la massima attenzione all’impiego di questa parola. Essa non ha una inflessione conoscitiva, non indica una conoscenza, ma essenzialmente un modo di sentire. La vita è fatta di esperienze: vi è l’esperienza della gioia, della tristezza, del desiderare, del volere. Queste esperienze sono intrecciate nella vita di ogni giorno, e finché restano in questa rete non attingono certamente alle profondità della metafisica, ma sono legate all’immediatezza della superficie. E tuttavia, come abbiamo visto or ora, esse, e prima di tutto l’angoscia, possono avere una capacità rivelativa che si contrappone alla capacità argomentativa della logica, d’altronde esplicitamente messa da parte in questo ambito di problemi.

24. L’angoscia viene tuttavia costantemente - in modo consapevole o inconsapevole - rimossa. Anche se essa è sempre sullo sfondo, latente e viva; come se dormisse, ma sempre pronta a ridestarsi - per un nonnulla: «Alla profondità della sua potenza corrisponde l’inezia che basta ad occasionarla» (p. 27).

Nell’angoscia non solo si incontra il nulla, ma si manifesta il problema dell’ente «im Ganzen» - ovvero, come Heidegger si esprime: «l’ente ricondotto e ridotto alla totalità».

25. Il problema della totalità si ripresenta come totalizzazione dell’ente, come problema del farsi totalità dell’ente, e ciò significa: sprofondamento, sommersione, e quindi anche scomparsa dell’ente nella totalità e infine scomparsa della totalità stessa. Heidegger si industria non poco per illustrare questa situazione. Così egli sottolinea che, non solo non vi è una idea astratta della totalità, a cui si possa contrapporre una idea altrettanto astratta del nulla ottenuta per negazione, ma non vi è nemmeno un’esperienza che abbia per oggetto la totalità a cui si contrapponga un’esperienza del nulla, esso stesso a titolo di oggetto.

Tutta la tematica viene giocata invece sul fatto che l’esperienza del nulla è, ad un tempo, l’esperienza dell’essere, e precisamente di un essere che scompare: cosicché può essere citata la formula hegeliana «il puro essere e il puro niente sono dunque lo stesso», che riceve tuttavia un senso interamente diverso. In Hegel questa identificazione avviene tenendo conto della totale vuotezza dei concetti. L’essere trapassa nel nulla e inversamente perché l’uno è altrettanto indeterminato quanto l’altro. Qui invece non si fa affatto questione di una simile vuotezza concettuale, ma di una esperienza che è ad un tempo manifestazione dell’essere e del nulla.

L'esistenza umana come trascendenza

26. Was ist Metaphysik? si conclude con passi che riconducono alla condizione umana. Come abbiamo osservato all’inizio, la domanda metafisica mette in questione colui che la pone, che è anche colui che fa esperienza dell’angoscia, colui che in essa incontra il nulla. Questi è l’uomo stesso, l’uomo nella sua esistenza concreta (Dasein). La domanda metafisica è anche una domanda che porta ad una caratterizzazione del mio esserci (Dasein), dell’esistenza umana in generale: l’esserci è caratterizzato dalla capacità di cogliere l’ente nel suo totalizzarsi, quindi di andare «al di sopra» e «al di là» del particolare e del determinato. Andare «al di là» e «oltre» si dice anche «trascendere». L’esistenza umana si caratterizza come trascendenza.

27. Il tema dell’esserci come trascendenza richiama, per un verso, la capacità umana di fronteggiare le cose, di non aderire passivamente ad esse, di attuare decisioni, di atteggiarsi di fronte ad esse, di assumere un atteggiamento autonomo. In questo contesto assumono il massimo rilievo gli atteggiamenti «nullificanti» - il respingere, il rifiutare, il proibire, il rinunciare. E naturalmente assume rilievo il tema della libertà, un tema che affiora in vari punti così come affiora l’idea che le sue radici stiano proprio nella prossimità dell’esserci al nulla.

28. «Il fatto che l’esserci sia tenuto dentro al nulla, fondato sull’angoscia latente, fa dell’uomo la sentinella del nulla» (p. 27). La traduzione di «sentinella» è qui non troppo appropriata. Il testo dice Platzhalter letteralmente: colui che tiene il posto di un altro, cosicché l’immagine non è tanto quella del guardiano, quanto quella del «vicario», di una presenza che manifesta ed attesta un’assenza. Sullo sfondo vi è l’antico tema filosofico-religioso dell’effimero. L’essere dell’uomo vacilla tra l’essere e il nulla.

29. Questa è la rivelazione della metafisica, rivelazione che è assai meno una rivelazione filosofica di quanto non sia invece qualcosa che è dato in un’esperienza vissuta. In questo senso la metafisica è un «accadimento» e precisamente l’accadimento fondamentale nell’esserci. Nello spirito di queste considerazioni non vi è dunque nessuna metafisica filosofica. Vi sono invece accadimenti metafisici su cui la filosofia può rivolgere la sua attenzione riflessiva.

Perchè qualcosa piuttosto che nulla?

30. In queste conclusioni la vecchia idea secondo cui la scienza trae dalla metafisica la possibilità della sua esistenza ha modo di essere riaffermata. Non certo nel senso antico del richiamo ad una unità di ordine superiore, ad un completamento e ad un’integrazione necessaria. Si tratta invece della possibilità di quel «perché» che pone in moto l’indagine conoscitiva. In certo senso vengono qui contraddette le nostre considerazioni introduttive iniziali che ponevano la domanda metafisica come la domanda che può essere proposta dopo che ha ricevuto risposta l’«ultima domanda» del processo conoscitivo giunto al suo termine: una domanda conoscitiva in genere non potrebbe nemmeno essere formulata, e quindi un processo conoscitivo non avrebbe potuto nemmeno avere inizio, se l’ente non ci apparisse estraneo, se non provassimo «meraviglia» intorno ad esso. Questa meraviglia può sorgere solo se il piano dell’ente come tale viene oltrepassato, cosicché condizione della scienza è la stessa condizione umana come trascendenza. C’è una scienza in quanto c’è l’accadimento metafisico fondamentale che ci pone ad un tempo di fronte all’essere ed al nulla, che mostra l’esistenza umana come impregnata di nulla, come vacillante tra essere e nulla. Detto in un altro modo: tutti i perché particolari che ricevono una risposta all’interno dello sviluppo delle conoscenze poggiano nella loro possibilità su un’unica grande domanda, con la quale si chiude questo saggio: «Perché c’è qualcosa piuttosto che nulla?» (Warum ist überhaupt Seiendes und nicht vielmehr Nichts?)

31. Domanda leibniziana - certo. Ma essa giunge al termine di uno sviluppo che ne modifica radicalmente il senso. La domanda di Leibniz è una domanda autentica alla quale segue senz’altro una risposta: esiste qualcosa piuttosto che nulla perché dio sceglie secondo il principio del meglio, e qualcosa è meglio che nulla...

In modo ben diverso questa domanda si ripresenta qui: nel passaggio dalla parola «qualcosa» (ente) alla parola «nulla» dobbiamo scorgere quello scivolamento dall’essere al nulla, e ad un nulla che rivela l’essere, che caratterizza l’esperienza dell’angoscia, come se in questa formulazione verbale si volesse imitare il senso di quell’esperienza o sintetizzarlo.

La domanda di Heidegger poi non è affatto una autentica domanda, nel senso che essa non attende affatto una risposta. Naturalmente diciamo questo come cattivi interpreti (o anche come interpreti cattivi): infatti, dal punto di vista di un filosofo heideggeriano, questa è la più autentica di tutte le domande, proprio perché non attende alcuna risposta.

Una discussione approfondita sui rapporti tra Heidegger e Leibniz, il cui principio di ragione sufficiente viene nuovamente tematizzato da Heidegger in Vom Wesen des Grundes (1929) e in Der Satz vom Grund (1955 - 56) ed altrove, viene realizzata da R. Cristin, Heidegger e Leibniz. Il sentiero e la ragione, Bompiani, Milano 1990. Naturalmente si tratta di una discussione che riguarda più l’interpretazione del pensiero di Heidegger che quello di Leibniz.

Enfatizzazione della domanda

32. Uno sguardo un poco oltre, al primo capitolo del corso di lezioni tenute da Heidegger nel 1935 e pubblicate sotto il titolo di Introduzione alla metafisica è certamente opportuno per fornire qualche chiarimento aggiuntivo e qualche integrazione ai temi emersi. Vi sono peraltro alcuni significativi mutamenti di accento. Il riferimento ad un’esperienza fondamentale che rivela il nulla viene qui appena sfiorato. Si accenna soltanto ai vissuti emotivi, non tanto come una vera e propria via di accesso alla questione metafisica, quanto piuttosto per sottolineare che una comprensione autentica di essa non può essere una comprensione astratta, ma richiede una partecipazione che sia in grado appunto di afferrare la sua «forza nascosta». Il centro del discorso è invece occupato proprio dalla domanda «Perché qualcosa piuttosto che nulla», che ha ora bisogno anzi di essere fortemente enfatizzata.

M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, trad. it. di G. Masi, Mursia, Milano 1972.

33. Essa è la domanda più vasta, più profonda, più originaria: ci insegna Heidegger. È la più vasta perché non riguarda questo o quell’ente, ma la totalità stessa. La più profonda perché mira alle profondità per il fatto stesso che cerca il fondamento -«Tale domanda sul perché non ricerca, per l’ente, cause della stessa natura o poste sul medesimo piano di esso» (trad. it. cit. p. 15). Anche questo tema fa parte del bagaglio tradizionale di un orientamento metafisico del pensiero. Se chiedo il fondamento di B -«Perché B?» - , potrei rispondere indicando A e mostrando la concatenazione causale tra A e B. In tal caso ci muoviamo sul piano omogeneo dei fatti. Questo è il Satz vom Grund della scienza. Mentre il fondamento richiesto dalla filosofia si dirige dalla superficie verso il fondo - e d’altronde, essendo il Perché rivolto alla totalità stessa, la risposta non ammette in via di principio una concatenazione.

La più originaria perché riguarda le nostre origini. In precedenza si diceva: mette in questione colui che la pone. Ma ora ciò viene detto in modo più complicato. Ursprung - origine, da springen, saltare, scaturire, emergere. Essa è la domanda più originaria perché presuppone un venir fuori, un emergere da (springen) ogni mia anteriore sicurezza d’essere (Geborgenheit, essere al sicuro, al riparo, protetto).

34. Proprio questa domanda sottrae l’uomo all’effimero. Anzitutto guardiamo questo essere infimo da molto lontano, da un’altezza stellare. Citando Nietzsche, Heidegger allude a questo sguardo dall’alto e da molto lontano come il modo in cui si annuncia il problema metafisico: «Raffiguriamoci la terra nell’universo, entro l’oscura immensità dello spazio. Al suo confronto, essa è un minuscolo granello di sabbia fra il quale e il più prossimo granello della stessa grandezza si estendesse un chilometro e più di vuoto: sulla superficie di questo minuscolo granello di sabbia vive un ammasso caotico, confuso e strisciante, di animali che si pretendono razionali e che hanno per un istante inventato la conoscenza». «E che cosa è ormai l’estensione temporale di una vita umana nel giro di tempo di un milione di anni? Appena uno spostamento della lancetta dei secondi, un breve respiro».

Ma poi, attraverso la posizione della domanda «Perché qualcosa piuttosto che nulla», avviene il ribaltamento: essa irrompe nella totalità insignificante e morta -«irrompe» nel senso che contiene una soppressione latente di questa insignificanza, rompe l’omogeneità della concatenazione. «Il porsi di questa domanda, nei confronti dell’ente come tale nella sua totalità non costituisce un fatto qualsiasi che si verifichi accidentalmente nell’ambito dell’ente, come ad esempio il cadere delle gocce di pioggia». «Di conseguenza tale domandare non istituisce di per sé un fatto qualunque, ma un accadimento preminente, ciò che noi chiamiamo un evento (Geschehnis). »(p. 16).

35. La condizione della sicurezza d’essere (Geborgenheit) ci preserva dalla domanda stessa e dai suoi rischi, tenendoci lontani da essa: un tema che naturalmente si ricollega all’ «affaccendamento» della quotidianità. Come faremmo mai, con tutto quello che abbiamo da fare, con tutti gli assilli che derivano dai nostri bisogni pratici e dalle nostre minute passioni, dai nostri odi e dai nostri amori, a proiettarci nell’immensità interstellare e di qui essere riportati indietro a risentire il peso di quella domanda? Eppure queste passioni, questi bisogni, le inquietudini da cui essi sono accompagnati, fanno parte dello stato protetto - della Geborgenheit. Si tratta infatti di inquietudini ben localizzate, esse non sono inquietudini radicali, inquietudini originarie - che vanno alle radici della mia intera esistenza. Di questa condizione di protezione fa parte anche l’intero universo delle opinioni comuni, a cui da sempre ci siamo adeguati, le tradizioni, le credenze religiose.

Problema metafisico e problema religioso

36. Nella tradizione filosofica del passato la connessione tra problema metafisico e problema religioso è del tutto esplicita. La religione è anzitutto un dato di fatto dell’ambiente culturale circostante. La filosofia che giunge alle altezze della metafisica, deve solo effettuare una riappropriazione autonoma del contenuto della religione secondo mezzi propri. Nella riproposizione della metafisica in Heidegger il problema religioso sta sempre alle porte. Si tratta infatti di proporre una nozione di esistenza tale da porre il problema metafisico-religioso nel suo stesso interno. Certo, Heidegger deve prendere le distanze dagli sviluppi positivi caratteristici della metafisica del passato. In esse le domande hanno in ogni caso una risposta. La fede appartiene essa stessa alla Geborgenheit - è una componente essenziale di essa. E tuttavia queste considerazioni non debbono farci perdere di vista il fatto che, in Heidegger, il nesso tra problema metafisico e problema religioso non è meno stretto che nelle elaborazioni metafisiche del passato. Solo che assume un’inclinazione diversa. La metafisica non può più essere sistema speculativo, non può più orientarsi secondo le credenze riconosciute, non può più parlare lo sciolto eloquio della persuasione e dell’argomentazione. La metafisica è passata da una metafisica del contenuto ad una metafisica istanziale - dallo sciolto eloquio dell’argomentare e del dibattere ad una forma di sapiente balbettio, ad un arrovellarsi del linguaggio per evitare la caduta dell’istanza alla posizione. Saremmo tentati di dire che la pura iterazione della domanda «Perché qualcosa piuttosto che nulla?» - che è ancora l’espediente letterario per la sua enfatizzazione in questo testo come il «null’altro» in Che cosa è la metafisica? - sembra essere ormai l’unica dimostrazione possibile dell’esistenza di dio.

L'essere delle cose ed il loro senso

37. L’ente è ciò che è, dunque ad es. una cosa, un pezzo di gesso. Esso ha determinate proprietà, è leggero, friabile, bianco. Facendo riferimento ad esso possiamo descriverlo avvelendoci di proposizioni predicative dove compare appunto il verbo essere. Ora in questa descrizione ciò che non viene ancora colto è proprio l’essere dell’ente, il fatto che questo pezzo di gesso anzitutto «è» - e questo è non coincide con la leggerezza, né con la friabilità o con qualunque altra proprietà. «Dove dunque è andato a cacciarsi l’essere? Qualcosa del genere deve pure appartenenere al gesso, in quanto questo gesso è». Se poi prescindiamo dalla particolarità dell’essere di questo ente ed operiamo una generalizzazione, ci troviamo di fronte alla domanda sull’essere stesso -«Che ne è dell’essere?» (pp. 42 e 43).

38. Qui si gioca del tutto apertamente su un equivoco logico-grammaticale, da tempo ben noto. Infatti si assume la «è» anzitutto come copula. In questa modalità di impiego, questa paroletta non fa altro che operare una connessione predicativa; ad una certa cosa viene attribuita questa o quest’altra proprietà. Ma poi si pone il problema come se l’essere fosse a sua volta una proprietà della cosa, da ricercare in qualche modo in essa o comunque attraverso di essa. E naturalmente questa «proprietà» non la si trova.

Heidegger approfitta espositivamente di un simile equivoco, ma non ne fa un impiego troppo ingenuo. Prima diamo ad intendere di ritenere che l’essere sia una proprietà della cosa accanto alle altre - e così la ricerchiamo tra esse. Voltiamo e rivoltiamo la cosa senza venirne a capo: «Dove dunque è andato a cacciarsi l’essere?» Ma così facendo mostriamo invece che l’essere non può essere cercato così, ovvero: se la parola essere indica qualcosa, non indica qualcosa di simile ad una proprietà delle cose: «Importa prima di tutto attenersi costantemente all’esperienza del fatto che l’essere dell’ente non lo possiamo cogliere direttamente, in senso proprio, né presso l’ente, né nell’ente, né da qualsiasi altra parte» (p. 43).

39. Eppure si resta perplessi. La parola «è» indica una connessione predicativa oppure significa «esiste». Ma nel contesto precedente si toglie l’equivoco che fa dell’«essere» un predicato, e nello stesso tempo fin dall’inizio è chiaro che questa parola non significa «esistere». Ed allora quale è il significato che si vuole attribuire ad essa? È utile andare agli esempi. Essi rimandano tutti a modi di sentire la cosa, nei quali essa appare non tanto compresa e conosciuta nelle sue qualità oggettive, quanto «ricca di senso».

40. Si pensi all’immagine dei fanciulli che giocano all’ombra del portale di una chiesa romanica in un giorno di sole (p. 45) - in questa situazione l’essere della chiesa e della piazza è qualcosa di intrinsecamente diverso da ciò che può trovarsi nella descrizione della chiesa di una guida turistica. Come non concordare con questo? Ma si tratta di un essere della chiesa e della piazza per i fanciulli che giocano in essa oppure per chi li contempla.

41. Istruttivo è anche l’esempio dell’odore della scuola dell’infanzia. L’essere della scuola può essere addirittura fiutato «e questo odore dà l’essere di questo ente in maniera assai più immediata e veritiera di qualunque visita o descrizione» (p. 44). Ma perché l’essere? Se riteniamo di esprimerci così, possiamo naturalmente farlo, essendo in ogni caso chiaro che si tratta di un essere per me, dunque del modo in cui la scuola è stata presente nella mia esperienza vissuta.

42. Di fronte ad esempi come questi, si dovrebbe mettere l’accento sul fatto che in essi si tratta di investimenti di significato che hanno la loro origine e la loro fonte nella vita e nell’esperienza della soggettività. Ciò che è qui in questione non è l’essere della cosa, eventualmente integrato nella totalità delle cose, ma è la relazione tra la soggettività e la cosa. Queste esperienze derivano da «donazioni di senso» che hanno il loro fondamento in questa relazione. Un commento in uno spirito heideggeriano sarebbe invece profondamente diverso, anche se ci troviamo qui di fronte ad una sottile ambiguità. Infatti è necessario far inclinare la portata di questi esempi, che si potrebbe arrestare ad una dimensione puramente fenomenologica, in modo che essi mantengano la presa sulla questione ontologica.

43. Anche ammesso che la donazione di senso derivi dalla soggettività, il problema allora semplicemente si sposta: donde trae la soggettività questa sua capacità di dare senso? Gli esempi alludono ad una molteplicità di sensi dipendenti dalle relatività soggettive. Ma fa parte dello spirito di queste considerazioni non già il limitarsi ad attestare questa molteplicità, ma ritenere che alla base di essa vi sia una sorgente unica ed assoluta. La parola essere se non indica esattamente questa sorgente, ne apre comunque il problema.

44. Le significazioni soggettive debbono fondarsi su una significazione assoluta. «Se dio non c’è, io che capitano sono?» - esclama il capitano di Dostoevskij ne I demoni. (A lui non basta la fenomenologia dei suoi galloni).

45. Una così esplicita chiamata di dio è esclusa in Heidegger. L’elaborazione filosofica di Heidegger altro non è che una metafisica degradata, una metafisica residuale. La costruzione sistematica cede di fronte alla pura evocazione.

Metafisica e decadenza

46. Heidegger rivendica l’inattualità della filosofia: «La filosofia è per sua essenza inattuale; essa appartiene infatti a quel genere di cose il cui destino è di non trovare mai un’immediata risonanza nel presente, e anche di non doverla mai incontrare» (p. 20). Meglio forse sarebbe stato se egli si fosse strettamente attenuto ad un’affermazione come questa. Invece egli effettua anche un tentativo di auto-storicizzazione. La riproposizione del problema dell’essere assume tanta più enfasi nel discorso heideggeriano quanto più l’accento cade sull’epoca come del tutto sorda al richiamo evocativo di quella parola. Per questo la nostra epoca viene caratterizzata come una epoca di «decadenza» (p. 47).

47. E in che cosa si manifesta più vistosamente questa decadenza? La decadenza sta nella desolante frenesia della tecnica scatenata, nella massificazione dell’uomo, nella diffusione dei mass media (p. 48), nella distruzione della terra prodotta dall’industrialismo; ed ancora nell’abbandono di ogni dimensione di profondità e nel livellamento di ogni valore; nel predominio della dimensione quantitativa; nel prevalere della mediocrità (p. 55): «l’invadenza di cose che attaccando ogni valore, ogni spiritualità capace di misurarsi con il mondo, la distruggono e la fanno passare per menzogna» (p. 56). Tutto ciò viene raccolto e sintetizzato dalla metafora dell’«oscuramento del mondo» (p. 55) oppure da quella della «fuga degli dei» (p. 48).

48. Nessuna di queste frasi trae senso esattamente da se stessa, e perciò non converrà sottoscriverle troppo frettolosamente. Il loro senso dipende dal contesto, da obbiettivi polemici determinatamente individuati, dai modelli a cui si guarda per giudicare tecnica e industria, per puntare il dito sulla mediocrità, per fare l’elogio dei valori perduti; e per questa determinazione è importante anche da che parte esse vengono enunciate. Tanto meno ci si può lasciar troppo toccare dalle ultime metafore: esse non insegnano chi oscura e come, e quali dei siano fuggiti e quali debbano ritornare. Heidegger storicizza la propria filosofia, e dunque anche se stesso dentro l’epoca. La domanda metafisica non è, nemmeno da questo punto di vista storico, una pura accidentalità: in essa, è l’essere stesso che richiama l’epoca dalla propria decadenza. Ed il primo ad essere richiamato è il popolo tedesco. E perché mai il popolo tedesco? Risponde Heidegger: perché esso è il centro dell’occidente, perché esso può rappresentare l’unica alternativa per una riscossa della spiritualità di fronte a Russia ed America che «rappresentano entrambe da un punto di vista metafisico, la stessa cosa» (p. 48). Perché è infine esso è il «popolo metafisico per eccellenza» (p. 49). Purtroppo, in quegli anni - siamo nel 1935 - Heidegger stava in Germania dalla parte sbagliata. E questo modo di proporre la redenzione attraverso la metafisica dà i brividi.

Come Heidegger concepisce la filosofia

49. La concezione che i filosofi propongono della filosofia è sempre molto indicativa dell’atmosfera e dell’orientamento intellettuale che sta alla base delle loro elaborazioni. Ad essa bisogna prestare particolare attenzione. In Heidegger la concezione della filosofia manifesta ovunque enfasi, sublimazione, surriscaldamento. La filosofia «è una delle poche cose grandi di cui l’uomo è capace» (p. 27). (A mio sommesso parere: forse sono molte le cose grandi di cui l’uomo è capace. E quando la filosofia è fra queste?). Qui si sancisce in ogni caso l’abissale distanza tra il pensare filosofico e il pensare comune; tra i problemi filosofici i problemi ordinari della vita e dell’esistenza. Certamente i problemi filosofici non sono esattamente problemi come tutti gli altri. E occorre certo prendere le distanze dalle nostre faccende quotidiane per provare interesse ad un problema filosofico. Ma una simile affermazione può avere sensi differenti, e le frasi che seguono sono utili per esplicitare il senso che essa ha in Heidegger:

«Ci poniamo al di là di ciò che è all’ordine del giorno... Filosofare significa interrogarsi su ciò che è fuori dell’ordinario» (p. 24).

«Il fatto è che è proprio dell’essenza della filosofia rendere le cose non più facili, bensì più difficili... il compito vero della filosofia consiste in realtà piuttosto nell’appesantimento dell’esserci storico e in ultima analisi dell’essere stesso» (p. 22).

«Un filosofo è un uomo che vive, vede, ascolta, sospetta, spera e costantemente sogna cose straordinarie» (p. 24).

50. Ma forse più di tutte è rivelatrice la citazione che Heidegger trae da Nietzsche e di cui si appropria: «La filosofia... è la scelta di vivere fra i ghiacci e le alte cime» (p. 74).

51. Wittgenstein, senza sapere di avere un tale interlocutore, con efficacia straordinaria risponde così: «Discendi sempre dalle nude alture dell’intelligenza nelle valli verdeggianti della stupidità». «Nelle valli della stupidità per i filosofi cresce pur sempre più erba che sulle nude alture dell’intelligenza» (Pensieri diversi, 1948 e 1949).