Intorno alla metafisica: II. Due esempi per illustrare l'idea di metafisica. 1. La "Monadologia di Leibniz
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II. Due esempi per illustrare l’idea di metafisica
1. La"Monadologia" di Leibniz
Primo approccio
1. Non appena ci avventuriamo nella lettura della Monadologia di Leibniz, compiuto appena qualche passo, forse ci arresteremo pieni di perplessità e di imbarazzo, ed anche di sorpresa. Già la forma ci sconcerta. Questi brevi capoversi l’uno dopo l’altro, in parte collegati, in parte apparentemente sconnessi, sembrano comunicare qualcosa di particolarmente importante e nello stesso tempo di molto misterioso. Questo libro ci appare anzitutto come pieno di enigmi. Già il titolo non è forse un enigma? Letteralmente significa: «discorso intorno alle monadi», o forse anche «teoria delle monadi». Ma che cosa sono poi le monadi?
G. W. Leibniz, Principes de la Philosophie ou Monadologie, ediz. curata da A. Robinet, PUF, Paris, 1954; questa edizione contiene anche i Principes de la Nature et de la Grace fondés en raison. (Il titolo Monadologia non è originale di Leibniz). Questi due testi sono databili tra il 1713 e il 1715. Vi sono numerossissime buone edizioni di questo libro provviste di commenti assai ricchi e dettagliati a cui si rimanda per ogni approfondimento. Per le traduzioni si è tenuta presente G. W. Leibniz, Monadologia, Introduzione e commento di E. Boutroux, trad. it. di Y. Colombo, La Nuova Italia, Firenze 1970. In «Spazio Filosofico» puoi trovare La monadologie avec études et notes, a cura di C. Piat, Paris 1900 (Internet: http://www.lettere.unimi.it/Spazio_Filosofico).
2. Pensando a questa prima impressione di lettura, e del resto rammentando l’impressione che ci fece l’esposizione del sistema leibniziano sui banchi di scuola, mi viene in mente una bellissima osservazione di Witttgenstein sulla filosofia e sui filosofi: il filosofo è un tale che fa uno strano disegno su un foglio di carta, una specie di scarabocchio. Poi ce lo mette sotto gli occhi e chiede: questo cos’è? (dimmelo tu).
3. Siamo spesso portati a pensare che, quando ci arrovelliamo intorno ad un testo filosofico per cercare di capire, tutte queste nostre difficoltà dipendano da noi più che dall’autore, che certamente aveva le proprie idee chiare e distinte in testa. L’immagine del filosofo che attende dagli altri che cosa rappresenti il suo scarabocchio suggerisce che le cose stanno ben altrimenti, che nella filosofia ci si aggira in strade difficili, ed anche il maggiore sforzo di chiarimento è sempre incompleto. Che cosa sia questo, dimmelo tu: il lettore è un interlocutore che non deve semplicemente registrare la mappa di un cammino che gli si presenta di fronte nitida e ben disegnata, ma deve, appunto, interloquire, accingendosi fin dall’inizio ad un’interpretazione.
4. A dire il vero l’immagine di Wittgenstein ha un contenuto ancora più ricco.
Questo cos’è? dice il filosofo mostrandoci il suo disegno. E Wittgenstein continua: è accaduto qui ciò che accade talvolta tra un adulto ed un bambino. Prima l’adulto propone al bambino dei disegni dicendo: «Questa è una casa»; «Questo è un albero»; «Questo è un cane»... e poi all’improvviso, e inaspettatamente, il bambino strappa la matita all’adulto, fa uno scarabocchio e chiede all’adulto: «E questo cos’è?» - e l’adulto resta di stucco.
Storia ammirevole! L’adulto che fa disegni, che propone le figure delle cose e insegna il loro nome, che mostra quali cose ci sono e come esse sono fatte, intende addestrare il bambino, e precisamente addestrarlo ad un mondo che ha le sue forme, i suoi nomi, le sue regole, il suo ordine già costituito. L’adulto mostra come è fatto il mondo e nello stesso tempo mostra il mondo come un mondo già fatto. In lui dobbiamo certo vedere l’opinione comune, la tradizione, la forza dell’abitudine e della convenzione. Il bambino che reagisce all’adulto in quel modo è invece il filosofo, che si sottrae a questo addestramento proponendo il proprio scarabocchio - nel quale sono dissolte le figure a cui siamo abituati: non ha più disegnato case, alberi, uomini. Forse ha disegnato le monadi.
«Spesso i filosofi sono come bambini piccoli che prima scarabocchiano con la matita su di un foglio di carta dei segni qualsiasi e poi chiedono all’adulto: "Che cos’è?» - È andata così: l’adulto più volte aveva disegnato qualcosa per il bambini e gli aveva detto: «Questo è un uomo»; «questa è una casa», ecc. E ora il bambino fa anche lui dei segni e chiede: e questo cos’è?" (Pensieri diversi, trad. it. a cura di M. Ranchetti, Milano 1980, pp. 41 - 42).
Logica e metafisica
5. Certo è che procedendo nella lettura della Monadologia stentiamo a riconoscere il nostro mondo, le cose con le quali abbiamo direttamente a che fare, il mondo come ci appare, e nelle forme molteplici del suo apparire. La prima operazione che viene presupposta prima ancora che la Monadologia abbia cominciato a recitare la sua prima frase è in effetti proprio questa: l’operazione di oltrepassamento dell’«immediatezza fenomenica», di ciò che ci sta più vicino. Ciò che appare è qualcosa che si manifesta - cosicché sembra che si possa porre un legame tra l’apparire e il concetto di verità. Ma basta una lieve modificazione di accento perché questo legame si allenti al punto da mutare interamente di segno. Così appare, ma così non è. Se vuoi cercare la verità devi andare oltre.
Il trascendimento dell’immediatezza, posto in questo modo, è dunque motivato anzitutto da un’istanza conoscitiva. Il problema metafisico sembra qui trovarsi sul prolungamento del problema della conoscenza. La necessità di oltrepassare il piano dell’immediatezza fenomenica deve essere sostenuta proprio nel momento in cui gli interessi conoscitivi raggiungono un punto abbastanza elevato nel loro sviluppo. Limitare questi interessi all’ambito fenomenico significherebbe limitare gli strumenti di questo processo al puro e semplice uso dei nostri organi di senso, non potersi allontanare di un passo da ciò che possiamo toccare, vedere, udire. Mentre dobbiamo ben presto renderci conto che la realizzazione della conoscenza esige il ricorso a sempre più complesse costruzioni intellettuali, richiede determinate astrazioni, la posizione di entità che non hanno alcun riscontro nell’esperienza diretta che abbiamo del mondo.
Sembra dunque che non ci discostiamo troppo dal terreno della scienza e della conoscenza se facciamo valere questa istanza in modo del tutto generale, ed a maggior ragione se il tema del superamento dell’immediatezza si accompagna, come in Leibniz, e del resto in tutta la corrente della metafisica razionalistica, con l’idea che il mezzo con il quale il campo del sensibile può essere trasceso è la pura argomentazione logica, l’esercizio di un pensiero che si può chiamare puro perché è depurato da ogni componente che rimandi alle apparenze del mondo. Nella metafisica razionalistica, ed in Leibniz in modo particolare, è dominante l’idea della potenza del pensiero: potenza della logica, potenza dell’argomentazione.
6. Leibniz fu un grande matematico e un grande logico. Ciò che egli ha saputo produrre in questi campi ha profondamente segnato la storia di queste discipline. Ma sarebbe certo un errore separare il logico e il matematico Leibniz dal Leibniz metafisico. In particolare, l’idea della potenza della logica la risentiamo ancora più vivacemente proprio nel considerare il Leibniz metafisico. Alla logica è demandato il compito di delineare il profilo della vera realtà delle cose, e poiché a questa vera realtà appartengono anche quelle verità ultrasensibili che fanno parte della credenza religiosa, è ancora la logica che dovrà dare loro una conferma, facendole approdare al terreno della certezza e della fondazione ultima.
Nell’esempio del sistema leibniziano troviamo anche un modello possibile del rapporto tra problema metafisico e problema religioso. Dappertutto in questo testo di Leibniz è presente la preoccupazione di dare una giustificazione argomentativa alle credenze religiose, a quelle credenze che in qualche modo offrono una soluzione pronta al problema metafisico. Ma questo scopo non deve essere interpretato come una sorta di adeguamento alle opinioni comuni quanto piuttosto come uno scopo che risponde ad un’esigenza di fondazione ultima e nello stesso tempo ad un’esigenza di autonomia. Si tratta dei grandi temi che stanno alla base del cogito cartesiano.
Si assume implicitamente che la credenza religiosa come tale non basti; e nemmeno possa esserle di autentico sostegno l’autorità che deriva dalla religione stessa in quanto Istituzione e dal rimando alla Tradizione. Il filosofo trova direttamente a portata di mano nell’ambiente culturale circostante l’intero ambito delle credenze religiose: esse fanno parte delle opinioni comuni e dell’immagine comune del mondo, e benché pretendano di attingere al campo dell’invisibile, tuttavia per un altro verso sono da considerare all’interno di quell’immediatezza che deve essere oltrepassata. Lo deve in forza di una richiesta conoscitiva portata fino in fondo: ciò che è semplicemente accettato, ciò che è solo passivamente ricevuto, ed è dunque mera opinione, e precisamente opinione degli altri è privo in linea di principio di un autentico fondamento. La ricerca di questo fondamento presuppone a sua volta una decisione per l’autonomia che arricchisce la tensione conoscitiva di una tensione etica. Decidersi per l’autonomia significa: io stesso voglio rendermi conto..., io stesso voglio raggiungere da me stesso il fondamento di questa o quella opinione comune - se ne ha veramente uno. Di essa voglio assumermi l’intera responsabilità.
Nella forma che questo pensiero dell’autonomia assume in Leibniz, l’io che rivendica questa responsabilità non è l’io psicologico, ma è soprattutto l’io raziocinante, l’io che ha in sé la capacità meravigliosa di argomentare. Facendo uso della potenza della ragione, possiamo sperare di poter camminare sicuri anche al di là del campo del visibile, possiamo pensare di avventurarci nei più profondi misteri tramandati dalla credenza religiosa, e forse possiamo persino riuscire a carpire qualcosa dei fini, degli obbiettivi e delle ragioni di dio stesso. Dio è infatti anzitutto ragione - ragione infinita, certamente, e dunque immensamente più potente della nostra, ma pur sempre ragione. I principi che reggono la nostra ragione sono anche i principi della ragione divina - e dunque sono i principi che reggono la totalità del mondo stesso come una totalità che da essa è stata posta in essere.
Il principio di non contraddizione
7. Nella considerazione di questi principi cominciamo a fare qualche passo avanti verso la specificità della posizione leibniziana. Essi sono anzitutto il principio di (non) contraddizione ed il principio di ragione sufficiente (oss. 31 e 32).
Essi sono anzitutto principi che regolano i nostri ragionamenti. Una forte enfasi cade sul primo principio. Ciò che è contradditorio viene senz’altro da noi giudicato falso, e giudichiamo senz’altro vero ciò la cui negazione è contradditoria. Siamo qui nell’ambito delle verità di ragione, secondo la terminologia di Leibniz: esse non riguardano alcuna circostanza di fatto, e non hanno bisogno di alcuna verifica empirica. Tutte le forme delle nostre argomentazioni, per quanto varie e articolate possano essere, sono in ultima analisi riconducibili al principio di contraddizione. Attraverso l’argomentazione possiamo pervenire a verità autentiche, installandoci direttamente sul piano puramente concettuale, saltando qualunque riferimento alla concretezza del mondo, evitando interamente di misurarci con essa. Ma il principio di contraddizione non è solo questo: in quanto vale anche per la ragione divina, da cui scaturisce il mondo stesso, esso riguarda lo stesso progetto del mondo: la sua architettura interna. Perciò esso non è solo norma suprema dell’argomentazione, supremo principio logico, ma viene investito da un’immensa portata ontologica. Esso si presta così ad un impiego metafisico, ovvero ad un impiego nella costruzione di una metafisica della realtà. Ed anzitutto offre il proprio contributo a confermare l’esistenza di dio. Si tratta della dimostrazione «a priori» la cui prima più chiara formulazione risale ad Anselmo (cfr. oss. 44 e 45).
Il principio di ragione sufficiente
8. In forza del secondo principio, «noi giudichiamo che nessun fatto può ritenersi vero o esistente, né alcuna proposizione essere veritiera, se non vi è una ragione sufficiente per la quale sia così e non altrimenti; quantunque il più delle volte queste ragioni non possano esserci note» (oss. 32).
Mentre in precedenza l’ambito dei fatti era posto esplicitamente fuori gioco, qui il riferimento ai fatti si presenta nella stessa formulazione del principio. Ma quale è il suo senso effettivo e la sua portata? Sembra subito abbastanza ovvio intendere la ragione sufficiente nell’accezione del nesso causale. Esso significherebbe allora: nulla accade senza una causa; ed esprimerebbe l’idea della concatenazione causale degli eventi come un principio della ragione. Ma questa interpretazione copre solo una parte del suo senso, e del resto una parte che non è affatto primaria. In effetti, più che dalla nozione di causa e dall’idea di una causalità universale che prospetta il mondo come concatenazione di eventi, dobbiamo prendere le mosse dall’idea della possibilità.
L'idea della possibilita'
9. Ogni grande filosofia ha in realtà alla propria base un ridotto numero di idee dominanti, tra loro correlate, che nel loro insieme costituiscono un punto di vista per l’approccio ai problemi. Esse rappresentano un elemento di organicità interna e nello stesso tempo caratterizzano lo spirito da cui quella filosofia è permeata.
L’idea della possibilità fa certamente parte delle idee dominanti del sistema leibniziano. Essa rappresenta una sorta di trama da cui Leibniz guarda la realtà stessa: è come se, di fronte ad un evento, sorgesse di continuo il pensiero che ciò che accade avrebbe potuto non accadere, che la tal cosa che ha queste e queste altre proprietà, avrebbe in ogni caso potuto averne tutt’altre. La possibilità di essere altrimenti è ciò che caratterizza gli eventi. Ciò che di fatto accade è dunque da intendere soprattutto come una possibilità realizzata. Ma c’erano anche altre possibilità.
10. Dobbiamo riuscire a cogliere questa idea in tutta la sua intensità, e non solo come un’astratta determinazione filosofica. Il mondo prima ancora che concatenazione di eventi, ci appare, nel suo insieme, come mondo possibile: una nozione che è poi essenzialmente plurale. Ci sono altre possibilità - ciò significa che ci sono molti, anzi infiniti mondi possibili.
La regola della possibilità è poi naturalmente ancora il principio di non contraddizione: è possibile anzitutto ciò che non è contradditorio e la condizione affinché un evento sia possibile all’interno di un mondo è che esso sia compossibile (cioè non contradditorio) con gli altri eventi appartenenti a quel mondo. Quanto alla distinzione tra l’uno e l’altro mondo possibile, esso è fornito dalla loro reciproca incompatibilità. Di fronte a questa infinità di mondi possibili, proprio questo mondo, quest’unico mondo si è realizzato - ecco il grande problema. Dalla contingenza dell’evento, intesa secondo la nozione del possibile, operiamo il passaggio alla contingenza del mondo inteso come totalità - e qui riceve inevitabilmente una fortissima pregnanza l’esserci stesso del mondo così com’è proprio per il fatto che esso rappresenta solo uno tra gli infiniti mondi possibili.
Impiego fisico e metafisico del principio di ragione sufficiente
11. Proprio questo: e non un altro qualsiasi, altrettanto possibile. Di ciò ci deve essere una ragione. È solo all’interno del mondo che il principio di ragione sufficiente può ricevere l’interpretazione di un principio causale. La sua formulazione più pregnante può perciò essere considerata quella presentata nei Principi della natura e della grazia: «Perché esiste qualcosa piuttosto che nulla?» (oss. 7).
Essa non mette in questione l’esistenza particolare di qualcosa. Se chiedessimo: perché accade questo, alludendo ad un evento particolare, oppure perché questa cosa determinata ha queste o quelle altre proprietà, allora la risposta a quella domanda avrà sempre la forma del rinvio ad un qualche altro evento che rappresenta la sua causa. In questa formulazione invece si toglie ogni determinatezza e si chiede perché c’è qualcosa in generale, ci si interroga sulla ragione sufficiente della realizzazione del possibile in generale.
Principes de la Nature et de la Grace fondés en raison (ca 1714), oss. 7:« Jusqu’icy nous n’avons parlé qu’en simples Physiciens: maintenant il faut s’elever à la Metaphysique, en nous servant du Grand principe, peu employé communement, qui porte que rien ne se fait sans raison suffisante, c’est à dire que rien n’arrive, sans qu’il soit possible à celuy qui connoitroit assés les choses, de rendre une Raison qui suffise pour determiner, pourquoy il en est ainsi, et non pas autrement. Ce principe posé, la premiere question qu’on a droit de faire, sera, Pourquoy il y a plustôt quelque chose que rien?»
12. Leibniz, da un lato attira l’attenzione sul fatto che il principio di ragione sufficiente quando si applica ai fatti in genere coincide con il principio causale (oss. 36). Questo è il suo impiego fisico. Ma dall’altro sottolinea che in relazione ad ogni singolo evento, si sarebbe rimandati, quanto alle cause, di evento in evento, ad una concatenazione infinita (oss. 37). Dunque bisogna chiedere non: perchè questo? ma piuttosto: perchè qualcosa piuttosto che nulla? Con ciò approdiamo all’impiego metafisico del principio di ragione sufficiente. Segue di qui direttamente la dimostrazione a posteriori dell’esistenza di dio : per render conto, non tanto del legame di anello con anello nella catena degli eventi, ma della catena stessa, «bisogna che la ragione sufficiente ovvero ultima sia fuori dalla successione o serie dei contingenti particolari, per quanto infiniti possano essere» (oss. 37) - operando così il passaggio dal contingente alla sostanza necessaria che è «ciò che chiamiamo dio» (oss. 38).
La nozione di monade
13. Fin qui le grandi premesse. Con la nozione della monade entriamo nel cuore della metafisica leibniziana. Per venire a capo in qualche modo di questa nozione dobbiamo tener ben fermo il fatto che la monade (come dio stesso) giunge al termine di un’argomentazione. Essa prende le mosse da un’evidenza iniziale. Ci sono in generale delle entità (cose) composte. Si dice composto qualcosa che «consta di parti». Abbiamo dunque un concetto della composizione. Ma allora dovremmo avere anche un chiaro concetto della semplicità. Esso sorge infatti dalla negazione della idea della composizione. Semplice sarà detto ciò che non ha parti. Dunque, ci sono entità semplici. A queste diamo il nome di monadi. Questa origine argomentativa deve essere tenuta ben ferma per il fatto che essa ci indica in che modo la nozione di monade debba essere intesa.
14. Intanto è chiaro che, poiché la monade è una nozione posta dalla logica, non devi guardarti attorno per ricercarla, e tanto meno devi cominciare a suddividere un composto per trovare le entità semplici di cui è composto. La monade è una nozione puramente intelliggibile. Con quel termine intendiamo una unità che non ha parti, e niente altro. Ciò che importa è dunque unicamente il pensiero della semplicità.
15. Intorno a ciò naturalmente si può discutere. Anzitutto, da un’evidenza che concerne cose concretamente esperite traggo un’idea chiara di «composizione», ma approdo poi ad un’idea del semplice che viene posta come un concetto del pensiero puro e non ha alcun corrispondente intuitivo. È realmente lecito questo passaggio? E poi: che intelligibilità è mai questa se il pensiero dell’ «unità che non ha parti» non ha alcun sostegno in qualcosa che mi sta intorno? Come posso affermare di comprendere una simile espressione? Saremmo tentati di dire che la nozione di monade è in certo senso una nozione cieca (ma era così anche quella di dio). E si potrebbe avanzare la pretesa di andare oltre il cieco afferramento del significato delle parole. Si vuole intravvedere qualcosa. Come se si dicesse: Anche la mente vuole avere un occhio.
16. Come filosofi leibniziani, forse, risponderemmo: anzitutto non puoi realmente affermare di non comprendere l’espressione «intero che non ha parti» - altrimenti non comprenderesti nemmeno l’espressione «intero che ha parti». A questa frase è stato aggiunto un «non» - e tutto quello che vi è qui da comprendere è proprio soltanto questa negazione. L’occhio della mente è poi la mente stessa. Essa vede ciò che comprende. E quella nozione che hai chiamato cieca risplende invece in tutta la sua evidenza intellettuale.
17. Peraltro la semplicità di per sé sola è una determinazione troppo povera per caratterizzare la monade. Nuovi attributi vengono immediatamente aggiunti seguendo seguendo il filo conduttore della semplicità. Si stabilisce così che la sostanza semplice non può né cominciare né finire «naturalmente», ovvero come una cosa della natura (oss. 4-5-6). E questo perché in rapporto ad una cosa naturale il nascere è un aggregazione di parti, il perire una disaggregazione. Di conseguenza il nascere e il perire appartengono ai composti (corpi), mentre sono logicamente esclusi dalla semplicità della monade. Non si può infatti ammettere senza contraddizione la semplicità e l’idea di un cominciare e di un finire in rapporto alla stesso ente. A titolo di ulteriore conseguenza: ammesso che le monadi possano cominciare e finire, allora deve mutare il modo di intendere questo inizio e questa fine: essi non possono avere carattere temporale e processuale, ma debbono risolversi in un inizio ed in una fine istantanei. L’istantaneità nega la processualità della natura - e già per questo si suggerisce che la monade abbia una origine sovrannaturale.
18. Procediamo dunque per rarefatte argomentazioni, ci muoviamo tra concetti ciechi che sembra non abbiano alcun corrispondente nel mondo. Questi concetti contengono tuttavia delle significative allusioni. Prendiamo le mosse dall’idea della composizione, come idea pura (ciò che ha parti) ma anche come un’idea che trova i suoi esempi nelle cose materiali, nei corpi - come se essa fosse soprattutto attinta di qui. Questa origine resta appresa allo sviluppo dell’argomentazione, cosicché quel rimando esemplificativo affiora qui e là: il composto è ciò che puoi manipolare, fare concretamente a pezzi, è la cosa, il corpo in senso fisico-naturale. Ma allora in tutto questo percorso argomentativo vi è un’allusione parallela: la nozione della monade allude all’anima, alla spiritualità, all’incorporeo: il tema delle monadi come elementi ultimi delle cose prospetta in realtà il tema dell’elemento spirituale a cui ci si appresta a conferire la massima dignità metafisica.
19. Per lo stesso motivo per il quale deve essere negato per la monade il cominciare e il finire naturali, deve essere anche esclusa la possibilità del diventare altro all’interno della monade, del suo interno differenziarsi, quindi dell’alterazione e del mutamento (oss. 7). A meno che non si possa, come nel caso precedente, operare una riformulazione del senso in cui parliamo di mutamento. Ciò che si esclude infatti è che possa darsi nella monade alterazione e mutamento intesi come processi materiali-naturali, poiché in tal caso il riferimento alle parti è inevitabile: si dovrà parlare di fusione tra una cosa e l’altra come fusione delle loro parti, di distacco, di aggiunta, di aumento e diminuzione di parti, di mutamento di disposizione interna o di modificazione delle forme di rapporto tra esse.
20. Nulla tuttavia è più estraneo allo spirito della concezione leibniziana dell’idea della Monade come unità statica, immobile, che riposa su se stessa. Certo, il problema di fronte al quale subito ci si trova volendo sostenere il dinamismo della monade riguarda il fatto che sembra non possa esservi dinamismo senza che vi sia processualità, e quindi anche una molteplicità di stati che si vanno processualmente diversificando.
Come può esservi nell’unità monadica, intesa come unità senza parti, una qualche modalità del molteplice che consenta di parlare del suo dinamismo?
D’altro lato, come potremmo concepire la differenza tra le monadi - che sono fin dall’inizio poste al plurale - se non ammettiamo aspetti qualitativi attraverso i quali esse possano differenziarsi?
Il principio degli indiscernibili
21. Riflettiamo allora sulla possibilità di differenziazione. Tra le cose in genere possiamo porre una distinzione qualitativa ed una distinzione quantitativa. Come modello della distinzione qualitativa potremmo proporre figure con forme e colori differenti:
Una sequenza di punti potrebbe essere invece il modello della distinzione quantitativa ovvero puramente numerica (solo numero):
In questo caso il punto B si distingue dal punto A solo perché è un altro punto - la distinzione sembrerebbe dunque essere solo numerica. Essi sono in ogni caso due punti.
Ora, se la semplicità della monade fosse assimilabile a quella del punto, forse potremmo ammettere la pluralità delle monadi senza chiamare in causa una molteplicità di qualità interne. Per Leibniz tuttavia le cose non possono stare così. Vi è un altro grande principio della logica leibniziana che deve essere ora richiamato: il principio degli indiscernibili. Questo principio che riguarda proprio la differenziabilità degli oggetti, stabilisce che se due cose sono numericamente distinguibili, allora la distinzione non può essere solo quantitativa (numerica), ma deve esserci anche una distinzione qualitativa. Inversamente due cose che non siano qualitativamente distinte, non possono essere distinte nemmeno numericamente (oss. 9). Una formulazione un po’ più complicata potrebbe essere: se due cose o stati di cose fossero indiscernibili, allora essi sarebbero un’unica cosa o un unico stato di cose. Tenendo conto di quest’ultima formulazione si comprende perché Leibniz parli del principio come principio dell’identità degli indiscernibili.
«Il n’y a point deux individus indiscernables. Un gentilhomme d’esprit de mes amis, en parlant avec moy en presence de Madame l’Electrice dans le jardin de Herrenhausen, crut qu’il trouveroit bien deux feuilles entierement semblables. Madame l’Electrice l’en defia, et il courut longtemps en vain pour en chercher. Deux gouttes d’eau ou de lait regardées par le Microscope, se trouveront discernables» - Streitschriften zwischen Leibniz und Clarke. 1715 - 1716, Gerhardt, VII, p. 372 (Quarto scritto di Leibniz). «Poser deux choses indiscernables, est poser la même chose sous deux noms» (ivi). -«J’avoue que si deux choses parfaitement indiscernables existoient, elles seroient deux. Mais la supposition est fausse, et contraire au grand Principe de la raison. Les philosophes vulgaires se sont trompés, lors qu’ils ont crû, qu’il y avoit des choses differentes solo numero, ou seulement parce qu’elles sont deux; et c’est de cette erreur que sont venues leur perplexités sur ce qu’ils appelloient le principe d’individuation. La Metaphysique a eté traitée ordinairement en simple doctrine des termes, comme un dictionnaire philosophique, sans venir à la discussion des choses». (ivi, p. 395) -«Au reste je suis si éloigné de la pluralité d’un même individu, que je suis même tres persuadé de ce que S. Thomas avoit déja enseigné à l’égard des intelligences et que je tiens estre general, sçavoir qu’il n’est pas possible qu’il y ait deux individus entierement semblables ou differens solo numero». Briefwechsel zwischen Leibniz, Landgraf Ernst von Hessen-Rheinfels und Antoine Arnauld. 1686-1690. IX. Leibniz an Arnauld, Gerhardt, II, p. 54.
22. Se vogliamo mantenere la pluralità delle monadi e la loro mutabilità, e con ciò processualità e dinamismo, dobbiamo allora cercare nella monade l’elemento qualitativo come base di ogni differenza. Possiamo affidarci ancora ad argomentazioni logiche per dimostrare che la monade deve necessariamente avere qualità e possibilità di mutamento, cosicché dev’esserci «molteplicità nell’unità o nel semplice» (oss. 13 e 14) - ma in rapporto a questo problema diventa fondamentale piuttosto il far emergere in modo sempre più esplicito il riferimento alla vita soggettiva che è implicato fin dall’inizio dalla nozione di monade, attirando l’attenzione sulla peculiarità di ciò che muta in essa (détail de ce qui change, oss. 12). La monade è fatta di percezione (perception): la pluralità sorge dal fatto che la percezione esiste solo come stato passeggero (état passager) (oss. 14), cosicché ogni stato trapassa di continuo in un altro, secondo un movimento il cui elemento propulsore sta in ciò che Leibniz chiama appetizione (appetition) (oss.15). Entrambi i termini - percezione, appetizione - debbono essere intesi in un’accezione molto generale. La percezione rimanda ai vissuti rappresentativi in genere, l’appetizione invece a quelle tensioni che spingono all’oltrepassamento continuo dei vissuti rappresentativi verso altri: si addensano in questo termine istinto, passione, desiderio, volontà. Nell’osservare la peculiarità di quel che muta abbiamo scoperto che vi possono essere «parti» che non sono tuttavia «pezzi» - elementi divisibili dall’intero di cui sono parti; e che dunque vi può essere molteplicità anche in ciò che deve essere posto come rigorosamente semplice.
23. Qui vi è in nuce una intera teoria della soggettività di grande respiro. «Monade» sono intanto io stesso. Eppure converrà tenere sullo sfondo questo riconoscimento. E come non dobbiamo subito far coincidere la monade con la nostra soggettività, così la terminologia psicologizzante qui utilizzata non deve essere senz’altro intesa nel senso usuale dei termini e delle loro esemplificazioni correnti, anche se non possiamo fare a meno di ricorrere ad esse. Infatti, mentre da un lato si vuole mantenere un legame con la nostra esperienza soggettiva - questo legame rappresenta anzi una condizione di comprensibilità dei concetti e dei termini - dall’altro esso non deve essere spinto troppo oltre perché deve poter mantenere l’elasticità necessaria per piegarsi alle esigenze della costruzione sistematica. In rapporto alla monade deve restare dominante il tema dell’elemento ultimo delle cose, come qualcosa che sussiste indipendentemente dalla corporeità e che ha in se stesso il principio del proprio movimento.
Anime e corpi
24. Si è proceduto a rigor di logica - e tuttavia a poco a poco ci rendiamo conto che in questo procedere assumono un rilievo crescente considerazioni di altra natura, come se l’argomentazione fosse una veste che assumono pensieri maturati altrove. Inoltre, nello sviluppo della teoria delle monadi, si comincia a profilare una «visione del mondo», un «modo di vedere le cose» che dobbiamo riuscire a cogliere attraverso i difficili percorsi argomentativi che ci vengono proposti.
25. La soggettività può essere concepita come una macchina che produce pensieri, sentimenti, percezioni. Tuttavia se immaginiamo questa macchina come un grande mulino, penetrando in esso potremo scorgere «soltanto dei pezzi che si spingono gli uni con gli altri, e nulla che possa spiegare una percezione» (oss. 17). Si fa avanti sempre più esplicito il pensiero dell’essenza spirituale della realtà stessa e dell’irriducibilità delle anime rispetto ai corpi, come se le une e gli altri appartenessero a due sfere dell’essere regolate da leggi e principi autonomi. Questa differenza è marcata anche dalla ripresa dell’antica distinzione tra cause efficienti e cause finali, quindi da due modi nettamente distinti di causazione: un conto è un movimento generato dall’urto di due corpi, ed un altro è il perseguimento di un fine che determina i nostri comportamenti.
26. Esclama una volta Leibniz: quanto stupidi e imperfetti sono gli atomi, e i corpi senza anima in genere, che sanno soltanto andare per moto rettilineo! La curva si addice invece ai corpi che sono anche anime.
A e B siano corpi in movimento, e B sia un corpo «animato». A procederà in moto rettilineo nella direzione indicata dalla freccia. Urterà dunque contro l’ostacolo C e devierà da quella direzione di movimento avviandosi ancora in modo rettilineo in una nuova direzione.
B invece si dirige verso l’ostacolo e lo aggira.
La curva è il movimento dello spirito. Tanto poco saprà il corpo andare in cerchio, richiedendosi una continua correzione del tragitto. È assai bella la fantasia di Leibniz che descrive la difficoltà della materia di realizzare un moto circolare - essa manca di memoria, cosicché «si ricorda soltanto di ciò che è accaduto nell’ultimo istante», sfugge perciò nella direzione della tangente alla circonferenza, «senza avere il dono di ricordarsi della regola che ad essa è stata data di deviare da questa tangente per restare sempre nella circonferenza».
«Il est bon de remarquer, avant qu’on passe plus avant, une grande difference entre la matiere et l’ame. La matiere est un etre incomplet, elle manque de la source des actions. Et quand une impression luy est donnée, elle ne renferme que cela precisement, et ce qui y est dans le moment. C’est pour cela que la matiere n’est pas même capable de garder par elle même un mouvement circulaire, parceque ce mouvement n’est pas assez simple pour qu’elle s’en puisse souvenir pour ainsi dire. Elle se souvient seulement de ce qui luy arrive dans le dernier moment ou plutot in ultimo signo rationis, c’est à dire elle se souvient de la direction selon la droite touchante, sans avoir le don de se souvenir du précepte qu’on luy donneroit de se detourner de cette touchante, pour demeurer tousjours dans la circomference. C’est pourquoy le corps ne garde pas le mouvement circulaire, quoyqu’il ait commencé de l’exercer, à moins que quelque raison ne l’y oblige. C’est pourquoy un Atome ne peut apprendre que d’aller simplement en ligne droite, tant il est stupide et imparfait; il en est tout autrement d’une Ame ou d’un esprit». Eclaircissement des difficultés que Monsieur Bayle a trouvées dans le système nouveau de l’union de l’ame et du corps, Gerhardt, vol. IV, p. 543.
27. Nell’immagine si fissa efficacemente quella capacità di trovare la via verso il fine, che caratterizza un essere come essere spirituale. Il termine di derivazione greca di entelechia che Leibniz attribuisce alle monadi sottolinea proprio questo punto: il principio del loro movimento è sempre uno scopo, il loro essere è essere per un fine. In realtà questa potenza del fine come motivazione dei nostri comportamenti fa parte dell’esperienza che noi stessi abbiamo delle nostre azioni. Ma Leibniz non si appella ad essa, anche se non può che presupporla tacitamente.
28. «Anima» (Âme) e «spirito» (Esprit) sono termini a cui Leibniz conferisce un’accezione molto precisa. Il primo andrà riservato non alle monadi in genere ma «soltanto a quelle sostanze semplici la cui percezione è più distinta ed accompagnata da memoria» (oss. 19). Il termine «spirito» invece sarà riservato a quelle monadi che, oltre alla percezione ed alla memoria, sono «anime raziocinanti», cioè in grado di elevarsi alla conoscenza delle verità necessarie ed eterne, che sono capaci di argomentare e di produrre la scienza e di giungere alla conoscenza di sé e di dio (oss. 29). Si contraddistinguono dunque tre livelli di possibilità conoscitive: il livello inferiore che riguarda la pura conoscenza sensibile di ciò che accade nell’immediatezza del presente, senza capacità di ritenere il passato e di progettare l’avvenire; il livello intermedio nel quale alla semplice percezione si aggiunge anche la memoria e quindi la formazione di abitudini (oss. 26-28); il livello della razionalità nel senso più ampio, nel quale è compresa la possibilità della scienza, della conoscenza di dio e di noi stessi. In realtà questa idea dei «gradi di perfezione» delle monadi, apparentemente così tradizionale, conferisce a tutto il tema un impulso ad uno sviluppo interamente nuovo.
Piccole percezioni
29. La novità sta soprattutto nel modo di intendere le monadi pure e semplici (monades toutes nues, oss. 24), che non sono anime e nemmeno spiriti: le monadi che hanno soltanto percezioni. E si tratta di percezioni «di cui non ci si accorge» (perceptions, dont on ne s’aperçoit pas, oss. 14) - di percezioni inconscie. Eccoci dunque di fronte ad un altro grande tema della filosofia leibniziana.
In realtà potrebbe sembrare, ed è sembrato così ad una lunga tradizione filosofica, che l’associazione di questi due termini, l’attribuzione alla percezione di un carattere di inconsapevolezza fosse intrinsecamente contradditorio. In effetti come posso percepire - quindi afferrare con lo sguardo, con l’udito, ecc. - in modo inconsapevole? Come può accadere che mentre io guardo un albero non sia consapevole di vederlo?
Ma questa volta Leibniz, prima ancora che alla «logica» del concetto, presta attenzione alla sua «psicologia», ovvero ai processi concreti del percepire come possiamo sperimentarli direttamente. Allora appare ben presto chiaro che il percepire non ha sempre e soltanto il carattere di un’azione soggettiva che ha direttamente di mira questo o quell’oggetto determinato come una freccia scoccata in direzione di esso. Ciò certamente accade quando la percezione è, secondo la terminologia di Leibniz, una percezione distinta, nella quale l’oggetto è afferrato in ciò che esso è e nelle sue articolazioni interne. Ma già una percezione distinta è situata su uno sfondo di percezioni i cui oggetti sono solo confusamente presenti e ad essi non è diretto alcun atto dell’attenzione. La percezione confusa è anche al tempo stesso una coscienza stordita: in presenza di «una grande moltitudine di piccole percezioni, dove non si può distinguere nulla», la coscienza è presa da vertigini, come quando giriamo più volte su noi stessi nello stessa direzione ed arriviamo sul punto di svenire, mentre ogni oggetto intorno a noi perde i suoi chiari contorni e va sfumando in un variegato ed inafferrabile scenario di immagini sfuggenti (oss. 21 e 24).
30. Il suono dell’onda marina che si infrange sulla riva, o del mare in lontananza fornisce un’immagine, spesso ripetuta da Leibniz, per intendere il senso del tema delle «piccole percezioni» e, nello stesso tempo, della «percezione confusa».
«Et pour juger encor mieux des petites perceptions que nous ne saurions distinguer dans la foule, j’ay coustume de me servir de l’exemple du mugissement ou du bruit de la mer dont on est frappé quand on est au rivage. Pour entendre ce bruit comme l’on fait, il faut bien qu’on entende les parties qui composent ce tout, c’est à dire les bruits de chaque vague, quoyque chacun de ces petits bruits ne se fasse connoistre que dans l’assemblage confus de tous les autres ensemble, c’est à dire dans ce mugissement même, et ne se remarqueroit pas si cette vague qui le fait, estoit seule. Car il faut qu’on en soit affecté un peu par le mouvement de cette vague et qu’on ait quelque perception de chacun de ces bruits, quelques petits qu’ils soyent; autrement on n’auroit pas celle de cent mille vagues, puisque cent mille riens ne sauroient faire quelque chose. On ne dort jamais si profondement qu’on n’aye quelque sentiment foible et confus, et on ne seroit jamais eveillé par le plus grand bruit du monde, si on n’avoit quelque perception de son commencement qui est petit, comme on ne romproit jamais une corde par le plus grand effect du monde, si elle n’estoit tendue et allongée un peu par des moindres efforts, quoyque cette petite extension qu’ils font ne paroisse pas». Nouveaux Essais, Preface, Gerhardt, V, p. 47.
«Chaque Ame connoit l’infini, connoit tout, mais confusement; comme en me promenant sur le rivage de la mer, et entendant le grand bruit qu’elle fait, j’entends les bruits particuliers de chaque vague, dont le bruit total est composé, mais sans les discerner; nos perceptions confuses sont le resultat des impressions que tout l’univers fait sur nous. Il en est de même de chaque Monade. Dieu seul a une connoissance distincte de tout, car il en est la source». Philosophische Abhandlungen. 1702-1716. VIII. Principes de la Nature et de la Grace. Gerhardt, VI, p. 604.
31. Dalle stesse formulazioni proposte da Leibniz di questa immagine, potrebbe sembrare che l’accento cada sul fatto che la grande percezione abbia bisogno delle piccole, e che quindi l’una sia nient’altro che una somma di esse. In realtà si scorge il suo senso effettivo quando si insiste sul fatto che le piccole percezioni, ognuna di per se stessa inudibile, si fondono insieme, ed in questa fusione, che è qualcosa di interamente diverso da una somma, esse sono confusamente percepite. Ma la percezione confusa, la coscienza stordita, il cui tema ha certamente origine dall’osservazione psicologica, viene da subito proiettata sul mondo stesso, sulla totalità della natura e questa totalità viene in certo senso trasfigurata da questa proiezione. Di monadi stordite - si avvia a sostenere Leibniz - è fatta l’intera natura che ci appare inanimata: essa è dunque attraversata da un principio di animazione. Monadi stordite sono la sostanza di cui è fatta la natura stessa, dalle sue forme inferiori a quelle superiori: la vita pienamente cosciente, la vita spirituale è un’emergenza che si realizza gradualmente e in modo continuo da questo sfondo indistinto di una vita stordita, che comunque è già una vita.
32. In questo ribaltamento metafisico del problema psicologico della percezione inconscia, la grande onda marina cessa forse di essere un semplice ausilio illustrativo di un concetto astratto: è come se a noi stessi, mentre vaghiamo meditabondi sulla riva del mare, all’improvviso la natura stessa apparisse come un’onda grandiosamente prorompente fatta di un’immensità innumerabile di onde infinitesime. Al di là di una natura che deve continuare a presentarsi allo sguardo della conoscenza come dominata dalle cause meccaniche e dalle loro leggi, al di là della fisica, il pensiero filosofico è in grado di delineare una metafisica nella quale si coglie la natura come una molteplicità infinita di viventi.
Prospettivismo
33. Nell’idea del prospettivismo, si approfondiscono le considerazioni relative a quella teoria della soggettività che si annuncia fin dalle prime elaborazioni della nozione della monade. La monade è percezione - si è detto. Ed il mondo è ciò che in essa è percepito. Vi è perciò per essa una molteplicità di rappresentazioni del mondo - esattamente come vi è per me una molteplicità di rappresentazioni dello stesso oggetto; esattamente come vi è per uno stesso oggetto una molteplicità di «ombre» che una sorgente luminosa, al variare della sua posizione, proietta su una parete bianca. Tutte queste «ombre» sono correlate le une alle altre, ed in questa correlazione possono manifestare l’identità dell’oggetto, per il fatto che vi è un unico fascio di regole che sta alla base della loro produzione. Analogamente il mondo si presenta come uno ed identico nella molteplicità delle sue rappresentazioni prospettiche per la monade singola. Questa identità non è semplicemente data, ma si va costruendo nel loro avvicendamento: la cosa, e dunque il mondo stesso, si offre nell’alternanza secondo regole della percezione distinta e della percezione confusa. Il lato della cosa che mi appare ora chiaramente allo sguardo comporta dei lati oscuri, che mi appariranno con chiarezza mutando opportunamente il punto di vista, mentre il lato prima chiaro ora si nasconde.
34. Questa dialettica si ripete nel rapporto tra monade e monade. Il mondo è per tutte lo stesso. Eppure ciascuna ha un mondo che è rigorosamente suo. La particolarità sembra dominare sull’elemento comune. L’identità del mondo diventa un problema; il rapporto tra monade e monade un nuovo enigma. Non dice forse Leibniz in una sua frase famosa, che «le monadi non hanno finestre attraverso le quali qualche cosa possa entrare o uscire»? (oss. 7: «"Les monades n’ont point de fenêtres par lesquelles quelque chose y puisse entrer ou sortir»). Questa frase sembra stabilire il totale isolamento della monade, e il frantumarsi del mondo nella molteplicità potenzialmente infinita delle sue rappresentazioni. Ma di essa si può dare una interpretazione piuttosto diversa.
Vi è anzitutto un senso particolare che è subito chiaramente illustrato: «Gli accidenti non possono affatto distaccarsi e neppure passeggiare fuori dalle sostanze, come un tempo facevano le specie sensibili degli scolastici. Così né la sostanza, né l’accidente può entrare dal di fuori in una monade». Leibniz ha qui di mira una vecchia teoria scolastica, ricorrente di continuo sotto varie forme, per spiegare la rappresentazione delle cose e in particolare la loro percezione. In essa si cerca di rendere conto di come possano entrare in rapporto la cosa e la soggettività nella percezione. Se consideriamo questo rapporto con attenzione filosofica ci rendiamo conto che occorre spiegare in che modo due cose essenzialmente eterogenee - l’occhio da un lato e l’oggetto percepito dall’altro - possano «incontrarsi» nella percezione. Una soluzione piuttosto rozza del problema, che può tuttavia essere elaborata anche in forme sofisticate, è quella di assumere che dalle cose si stacchino delle immagini intese come entità intermedie in parte concrete, in parte fantomatiche, che penetrano attraverso l’occhio nell’animo umano. L’occhio verrebbe così reso analogo ad una finestra attraverso la quale penetrano dentro di noi frammenti del mondo. Gli accidenti che «passeggiano» fuori delle sostanze di cui si parla qui sono appunto queste immagini «corpose» che si staccano dalle cose e di cui parlavano gli scolastici usando il termine di «specie sensibili».
Ecco dunque il primo senso dell’affermazione secondo cui le monadi sono senza finestre. Stando ad esso, questa affermazione intende contestare polemicamente quella teoria, negando che il processo percettivo possa avere quel tipo di descrizione ed in particolare che il rapporto soggetto-oggetto nella percezione possa essere inteso attraverso «immagini materiali» migranti da un corpo all’altro. Questo significato polemico particolare va tenuto ben fermo per rendere conto del significato più generale che conferisce a quell’affermazione un respiro più ampio. A mio avviso, in essa non si vuole affatto asserire la chiusura della monade, ma al contrario la sua totale apertura. La monade non ha finestre per il semplice fatto che è essa stessa una finestra sul mondo - l’occhio non è un pertugio, in cui si insinuano immagini; attraverso l’organo corporeo la monade diventa essa stessa un grande occhio aperto sul mondo: un punto di vista che ha il mondo intero nel proprio orizzonte. L’idea di prospettiva e di punto di vista suggeriscono proprio una simile interpretazione, anche se questa apertura della monade si arricchisce in Leibniz di numerose altre complesse implicazioni.
Questa maggiore complessità è illustrata dalla citazione seguente: «Car nostre ame exprime Dieu et l’univers, et toutes les essences aussi bien que toutes les existences. Cela s’accorde avec mes principes, car naturellement rien ne nous entre dans l’esprit par dehors, et c’est une mauvaise habitude que nous avons de penser comme si nostre ame recevoit quelques especes messageres et comme si elle avoit des portes et des fenestres. Nous avons dans l’esprit toutes ces formes, et même de tout temps, parce que l’esprit exprime tousjours toutes ses pensées futures, et pense déja confusement à tout ce qu’il pensera jamais distinctement. Et rien ne nous sçauroit estre appris, dont nous n’ayons déja dans l’esprit l’idée qui est comme la matiere dont cette pensée se forme. C’est ce que Platon a excellement bien consideré, quand il a mis en avant sa reminiscense qui a beaucoup de solidité, pourveu qu’on la prenne bien, qu’on la purge de l’erreur de la preexistence, et qu’on ne s’imagine point que l’ame doit déja avoir sçeu et pensé distinctement autres fois ce qu’elle apprend et pense maintenant». II Abhandlung (Discours de Mataphysique), Gerhardt, IV, p. 451.
Armonia
35. Nel tema del prospettivismo convergono infine i due altri grandi temi dell’armonia e dell’ottimismo. Essi debbono essere colti nella loro reciproca connessione. Entrambi debbono essere considerati come due grandi temi metafisici, e sottolineare questo punto è importante soprattutto in rapporto all’ottismimo, che si presta a interpretazioni psicologizzanti, come se si volesse con esso caratterizzare un sorta di atteggiamento mentale o disposizione dello spirito. Entrambi riguardano invece anzitutto il mondo stesso inteso come totalità - e l’ottimismo mette in questione addirittura l’atto creativo con il quale il mondo viene in essere.
Prima di questo atto vi sono i «mondi possibili». L’atto divino pone in essere questo mondo; e perché proprio questo? La ben nota risposta di Leibniz è: perché questo è di tutti i mondi il migliore.
La struttura argomentativa elementare che consente questa risposta attira l’attenzione sugli attributi di dio - ricavati analiticamente dal suo concetto: saggezza, bontà e potenza. Proprio perché dio per essenza ha questi attributi non può che scegliere il mondo migliore (oss. 55). Il distacco da una visione empirico-quotidiana del mondo non potrebbe essere più netto. La risposta è - o tenta di essere -«puramente logica», chiamando in causa sia nella posizione del problema che nella sua soluzione il principio di ragione sufficiente che tende a trasformarsi in questa sua applicazione estrema - dove si cercano giustificazioni per la stessa azione di dio - in una sorta di principio del meglio.
36. Ma che cosa è il meglio? La risposta suona all’incirca così: il meglio è il più conveniente, ciò che più si adatta, che è più adeguato: in un’accezione che può essere spiegata rammentando un gioco di incastri. In esso ogni pezzo «conviene» all’altro. Il principio di ragione sufficiente come principio del meglio mette in questione la convenienza (convenance) dell’insieme (oss. 54). Armonico è un intero le cui parti «convengono» le une alle altre, privo dunque di lacune interne, perché le lacune manifesterebbero una sorta di incompletezza, mentre l’idea dell’armonia richiede una totalità interamente satura - ogni pezzo si incastra esattamente nell’altro. Secondo Leibniz la scelta originaria del meglio che presiede alla creazione del mondo vale anche per ogni evento del mondo considerato nel suo senso metafisico. Se accade un certo evento, esso non può non «convenire» all’intero, inserendosi come un tassello nell’armonia del tutto.
37. Armonia e prospettivismo a loro volta entrano in relazione anzitutto come opposti che si richiamano a vicenda. La prospettiva implica un punto di vista, quindi una visione unilaterale della cosa. Questa unilateralità può essere superata solo se un punto di vista viene «compensato» da un altro punto di vista. Da un certo punto di vista, alcuni aspetti della cosa sono chiari, altri sono invece oscuri e non chiaramente visibili. Ma in via di principio vi è un altro punto di vista, nel quale si invertono i rapporti della chiarezza e dell’oscurità. Se armonia significa equilibrio, incastro funzionale, compensazione, qui vediamo come si possa passare dal tema della prospettiva a quello dell’armonia.
38. Sarebbe dunque sbagliato ridurre il tema dell’armonia solo ad una sorta di soluzione artificiosa ed estrinseca ad una difficoltà interna al sistema leibniziano. Non si tratta solo di rendere conto della relazione tra le anime e i corpi posti come enti eterogenei. «L’anima segue le sue proprie leggi ed anche il corpo le sue; ed essi si incontrano in virtù dell’armonia prestabilita tra tutte le sostanze, poiché esse sono tutte rappresentazioni dello stesso universo» (oss. 78). «Le anime agiscono secondo le leggi delle cause finali per appetizioni, fini e mezzi. I corpi agiscono secondo le leggi delle cause efficienti o dei movimenti. E i due regni, quello delle cause efficienti e quello delle cause finali, sono tra loro armonici» (oss. 79). In effetti, ad una significativa difficoltà si risponde qui con l’idea di un accordo prestabilito ab aeterno. Tuttavia, portando l’attenzione sul tema del prospettivismo, il problema dell’armonia si propone anche come problema della ricostituzione di una totalità che superi le relatività dei punti di vista. Attraverso l’armonia il prospettivismo viene superato: ma questo superamento può essere colto solo se si vede profilarsi la totalità come emergente nella sua assolutezza al di là della relativizzazione prospettica, e ciò significa in ultima analisi che ci si deve dislocare nel luogo stesso di dio, nel suo grande occhio a-prospettico. L’armonia c’è solo per questo occhio, per questo luogo assoluto che coglie la totalità direttamente e in una volta sola: in rapporto ad esso, è improponibile anche la differenza tra percezione distinta e percezione confusa: questo è infatti il luogo della ragione assoluta, della logica, della verità necessaria, della piena e compiuta chiarezza e trasparenza concettuale.
39. Il prospettivismo è infine in grado di rafforzare quella visione della natura che coglie ovunque la pulsazione del vivente. Il mondo «è come una medesima città, vista da diversi lati, quasi moltiplicata in prospettive, così avviene che, data la molteplicità infinita delle sostanze semplici vi sono come altrettanti universi differenti, i quali tuttavia non sono che le prospettive di un universo solo, derivanti dai diversi punti di vista di ogni monade» (oss. 57). Ma questo tema può moltiplicarsi in modo indefinito. Non solo ciascun abitante della città ha i propri punti di vista, ed io sono con tutte le mie immagini prospettiche, all’interno delle sue prospettive come egli è nelle mie, secondo quel movimento di piani e quella dinamica tra distinzione e confusione che è propria della nozione di prospettiva. Ma ogni pietra della città, ogni essere inanimato è fatto di monadi stordite ed è dunque portatore di un’immagine di essa. Ovunque vi sono occhi aperti sul mondo. Ovunque vi sono percezioni. Ma ciò è quanto dire: ovunque vi è il vivente, ed ovunque la totalità stessa è rappresentata nel vivente.
«Di qui si vede che nella più piccola parte di materia vi è un mondo di creature, di viventi, di animali, di entelechie, di anime» (oss. 66). In ogni goccia d’acqua di uno stagno vi è uno stagno; in ogni gemma di una pianta di un giardino vi è un giardino, in ogni corpo vivente vi è un vivente. Sono tutte famose immagini leibniziane, immagini seducenti ed anche in ogni caso misteriose, nelle quali il tema prospettivistico, con la sua tendenza interna alla moltiplicazione, si salda con quello dell’organismo vivente.
In questa visione del mondo confluisce persino l’entusiasmo per la scoperta degli spermatozoi a cui Leibniz accenna una volta (oss. 75). Guardando al microscopio, ecco colti di sorpresa, dentro il grande animale, i piccoli animali, alcuni dei quali, gli eletti, «passano a più grande teatro», aprendo una nuova prospettiva sul mondo. La scoperta naturalistica genera entusiasmi metafisici: mediante il microscopio riusciamo a vedere sempre più a fondo nell’inesauribile intreccio che mostra la vita nella vita.
40. «Existere nihil aliud esse quam harmonicum esse». L’esserci è null’altro che partecipare all’armonia del tutto. Questa proposizione potrebbe essere letta come un puro corollario di una nozione astratta, puramente filosofica dell’esistenza. Il mondo è armonico solo da un punto di vista assoluto. Si tratta, si potrebbe allora osservare, di un’armonia lontana ed estranea, di un’armonia puramente pensata. Non può sfuggire tuttavia che il fatto stesso che questo pensiero possa essere formulato, e per di più con la pretesa di essere integrato in un sistema di pensieri protetto dalle più forti garanzie della ragione, fa sì che nelle sue pieghe esso prospetti un modo di rapportarsi al mondo, o addirittura lo suggerisca. La metafisica diviene allora una tacita esortazione; e profonda saggezza.
Riprendo la citazione di Leibniz da A. Gurwitsch, Leibniz: Philosophie des Panlogismus, De Gruyter, Berlin1974, p. 46.