Questo saggio deriva da una conferenza tenuta all’Università di Pavia
su invito del Prof. Franco Alessio in data 9 febbraio 1993.
Data di immissione: aprile 1998.

icon Una passeggiata sulla collina di Loretto (pp. 26 - Kb. 181)

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§ 1

È assai raro in un testo di Husserl imbattersi in qualche riferimento autobiografico, per quanto tenue. Nelle Lezioni sulla sintesi passiva[1] vi è tuttavia qualcosa di simile ad un piccolo racconto con una intonazione autobiografica e noi lo vogliamo cogliere al volo, perché a partire da esso possiamo introdurre con esempi proprio la nozione che sta al centro di quelle lezioni.

Naturalmente, immedesimandoci nel racconto e appropriandoci di esso ci permetteremo di arricchirlo di particolari e di dettagli, in certo modo di romanzarlo.

È notte fonda e il filosofo, che noi immaginiamo profondamente immerso nei suoi pensieri, passeggia su un sentiero della collina di Loretto che si affaccia sulla valle del Reno (siamo nei pressi di Freiburg im Breisgau). Il panorama è certamente ampio e vasto, ma questa vastità la si coglie appena, tanto esso è immerso nel buio della notte. Nemmeno si vedono le cose che appartengono al paesaggio, il fiume e le sue rive, le case, i prati e le zone boschive. Tutto si trova in una relativa indistinzione. Una fila di luci si scorge appena in lontananza. Ad essa tuttavia non prestiamo attenzione – la passeggiata del filosofo continua assorta e meditabonda. Ma ad un certo punto una delle luci di quella fila comincia a lampeggiare, ed allora ecco che il suo sguardo si volge finalmente ad essa, prima ancora distrattamente senza distogliersi dai suoi pensieri. Ben presto tuttavia egli guarda proprio da quella parte, forse addirittura rallenta il passo e infine si arresta ad una svolta del sentiero per osservarla meglio.


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Ebbene, che cosa c’è di particolare o di importante in questo racconto? E che cosa poi che riguardi la filosofia e le sue speculazioni?

In realtà noi tendiamo ad immaginare che le riflessioni filosofiche comincino sempre da grandi pensieri, abbiamo un’immagine monumentale della filosofia, ma è vero invece che molto spesso tutto comincia da minute osservazioni, da osservazioni piccole piccole che vengono sottoposte ad un’ elaborazione progressiva. A partire da esse si istituiscono relazioni e rapporti facendo leva sia sulla forza delle argomentazioni sia sulla capacità di aggregazione metaforica dell’immaginazione, oltre che sui problemi e sulle soluzioni che la storia della filosofia ci tramanda.

§ 2

Esaminiamo allora quel racconto in ogni dettaglio. Cominciamo da immagini di oscurità e in certo senso di oblio. Il mondo, nella varietà delle cose da cui è popolato, nella ricchezza e nella molteplicità delle sue differenze, è, nella notte, ridotto alla sensazione di un indeterminato spazio vuoto, in una sorta di grande antro oscuro. Nel senso della piccola storia, poi, noi non passeggiamo in esso per sforzarci di scorgere ciò che non si vede, per cercare di identificare le forme che comunque si delineano nell’oscurità. In certo senso possiamo dire che siamo dimentichi del mondo stesso mentre al centro della nostra attenzione stanno gli argomenti dei nostri pensieri. Il filosofo cammina «sovrappensiero», come talvolta si dice – con espressione molto efficace, anche se in questo contesto essa suona molto singolare.

In realtà, queste prime considerazioni tendono ad attirare l’attenzione su una distinzione che riguarda la nozione di consapevolezza nella forma più comune del termine. Potremmo dire infatti che ogni volta che noi siamo intenti in una qualche azione, ogni volta che vi è un interesse verso qualcosa o qualcuno, vi è anche sempre una differenza di piani: qualcosa sta di fronte a noi, al centro dei nostri interessi – e qualcos’altro sta sullo sfondo: è solo oscuramente presente.

Se sono intento a dibattere vivacemente un argomento con un amico per strada, i rumori che mi stanno intorno, e che possono essere molto intensi, li odo appena ed io svolgo magari, in tutto questo fracasso, una argomentazione molto sottile; mentre odo con chiarezza le obiezioni dell’amico. È come se tutti i rumori del traffico fossero smorzati, attutiti. Naturalmente io continuo sempre ad udire questi rumori, eppure in un qualche senso non li odo. Essi appartengono ad un orizzonte indistinto, che sta «alle mie spalle».

Nel nostro racconto tuttavia c’è un dettaglio importante: in questo orizzonte indistinto qualcosa comincia con il distinguersi: quella fila di luci nel fondo valle. Essa ci colpisce appena: si presenta appena alla soglia della mia attenzione: essa ha in sè qualcosa che può trarre su di sè la mia attenzione, ma questa potenzialità non riesce forse ancora ad essere attualizzata. L’attualizzazione è legata ad un elemento ulteriore, ad una variazione interna nella configurazione – il pulsare di una delle luci attrae l’attenzione su di sé, e infine il mio interesse osservativo si dirige esclusivamente su quella configurazione. Quali sono le riflessioni suggerite da un simile dettaglio?

§ 3

Richiamiamoci in breve alla filosofia dell’esperienza di David Hume, in particolare alla sua nozione di «impressione» ed alla sua concezione fondamentale secondo la quale «originariamente» non vi sarebbe un mondo fatto di cose, di oggettività già date e costituite, un mondo nel senso adulto del termine, ma piuttosto delle impressioni prive di unità interna, vaganti in un universo mentale fluido e privo di solidi riferimenti – un mondo quale possiamo forse immaginare che sia simile a quello di un bambino a pochi giorni dalla sua nascita.

Ripensando dunque a Hume, e ripensando alle sue distinzioni elementari, intese non come pure distinzioni logico-analitiche, ma interpretate piuttosto come una vera e propria dissoluzione della compagine del mondo nella molteplicità disaggregata delle impressioni, troviamo subito un aggancio con quell’antro oscuro e le sue luci baluginanti in esso. Questo ricordo filosofico comincia ad animare dall’interno la passeggiata notturna sulla collina di Loretto.

Hume non ha certamente scelto a caso il termine di «impressione» ( impression).

Impressione è qualcosa che si imprime e che quindi, in un senso peculiare, esercita un’azione sulla coscienza: nel linguaggio quotidiano talora si parla di qualcosa che «ci colpisce», e proprio questo impiego quotidiano, con gli esempi che potremmo addurre per illustrarlo, ci interessa in modo particolare. Siamo «impressionati» da un incidente stradale al quale abbiamo assistito, siamo colpiti dalla bellezza di un paesaggio, dalla dolcezza di una melodia. Questo termine entra nel linguaggio della fenomenologia come un termine capace di rendere una nozione di stimolo immediatamente comprensibile e che non ha bisogno di misurarsi con considerazioni di ordine fisiologico e psicologico.

Tutti sappiamo che cosa vogliamo dire quando diciamo di «essere colpiti» da un evento a cui abbiamo assistito, da una reazione inattesa, da un dipinto o da un brano musicale. Nello stesso tempo entra nella terminologia fenomenologica, e in particolare proprio nelle Lezioni sulla sintesi passiva, un altro termine di origine interamente diversa, al quale Husserl conferisce un senso analogo, il termine di origine kantiana di affezione(Affektion). Esso deriva dal latino afficere il cui significato primario è quello dell’influire e dunque dell’essere colpiti, dell’essere impressionati, di subire le conseguenze di un’impressione. Questo significato primario è anche quello che vale in Kant e in Husserl. Ma in Husserl, questa scelta in realtà singolare, è dovuta probabilmente all’intenzione di implicare il termine anche nel suo significato più ampio, secondo il quale l’ affectio indica una disposizione del sentire, uno stato che concerne l’affettività, il mondo degli affetti nel comune senso del termine.

L’andamento del nostro esempio si discosta tuttavia subito dal percorso che avrebbe seguito Hume. In Hume queste luci baluginanti – le impressioni – si presentano anzitutto come entità separate che il decorso dell’esperienza si curerà di unificare in unità complesse, le quali a loro volta si andranno sempre più consolidando quando più verranno confermate in questo decorso. Naturalmente si innesta a questo punto il discorso sull’ associazione con le sue famose regole. Qui vediamo invece, e lo vediamo proprio nei pochi elementi del nostro racconto, una vicenda che ha al suo centro anch’essa il problema dell’unificazione, e quindi vengono richiamate questioni attinenti ai modi della connessione. Il termine utilizzato in prevalenza è tuttavia il termine di sintesi, e il proposito è quello di una riscrittura del problema humeano dell’associazione. L’orientamento complessivo è dunque profondamente diverso.

Intanto vi è già da subito un legame con il problema della coscienza. Abbiamo qui anzitutto una coscienza assorta – «meditabonda» – ma in realtà possiamo prescindere dal fatto che questa coscienza sia immersa nei suoi pensieri. Anzi: perché non approfittare dell’espressione che abbiamo precedentemente usata, perché non parlare di una coscienza «sovrappensiero» per sottolineare il tema dell’oblio del mondo? Si tratta dunque di una coscienza puramente latente, di una coscienza dormiente che può essere ridestata da una impressione, da uno stimolo che, proveniendo dal mondo, la colpisce e la ridesta (come quando una mano mi scuote mentre dormo fino a provocare il mio risveglio).

Il problema dell’unificazione si salda dunque con quello di una nozione di coscienza inizialmente inattiva, che diventa a poco a poco attiva. Nello stesso tempo questa nozione di coscienza si presenta subito come essenzialmente caratterizzata dall’esistenza di stratificazioni interne.

Abbiamo visto la nozione di primo piano e di sfondo e del localizzarsi di tutti gli atti di coscienza all’interno di questa distinzione: ma a sua volta la nozione di sfondo ha le sue differenze interne. Vi sono cose che, pur appartenendo allo sfondo, possono essere dette più lontane o più vicine all’io. Qualcosa appartiene già, dice una volta Husserl, «all’anticamera dell’io», qualcos’altro invece si perde nell’indistinzione delle regioni più lontane.

Ma soprattutto vi è una differenza significativa nel problema stesso dell’unificazione. Stiamo ancora presso il nostro esempio: ciò che comincia ad entrare nell’«anticamera dell’io» è una «fila di luci» – e qui l’accento deve cadere non tanto sulle luci come tali, dunque sulle impressioni come entità separate, ma proprio sulla fila come una determinata configurazione unitaria.

§ 4

Riflettiamo su questo punto: che cosa significa propriamente il parlare di una «fila di luci», o di una «fila di alberi», quindi anche ad esempio «uno stormo di uccelli», una «schiera di soldati» ed altre espressioni come queste che alludono ad una molteplicità unitaria? A che tipi di oggetti rimandano queste espressioni? Dobbiamo ritenere, ad esempio, che ci sono effettivamente dati solo gli oggetti singoli e che vi sia poi una qualche operazione mentale che organizzi in unità questa molteplicità? Queste erano le domande che Husserl si rivolgeva già nella Filosofia dell’aritmetica, quindi quando non aveva ancora formulato un progetto filosofico di ampio respiro come quello fenomenologico Si tratta del resto di domande che molti psicologi dell’epoca si rivolgevano in varie forme. La risposta verso la quale egli si orienta già allora e che poi riconferma in vari modi è la seguente: ciò che ci fa parlare di una fila di alberi o di uno stormo di uccelli è il modo stesso in cui gli oggetti di cui è composto il complesso sono in relazione gli uni con gli altri.Sulla base di queste relazioni sorgono delle tendenze sintetiche – delle tendenze interne all’unificazione, dal cui gioco il complesso assume una configurazione caratteristica – una Gestalt, secondo la terminologia che comincia a diffondersi nella psicologia dell’epoca – che si impone come tale all’osservatore.

§ 5

Ecco dunque come si prospetta ora il nostro problema: anzitutto va osservato che la differenza, sulla quale abbiamo attirato l’attenzione sul lato soggettivo, tra ciò che sta al centro degli interessi dell’io e ciò che sta invece ai suoi margini, deve essere naturalmente riproposta, secondo un diverso orientamento, in rapporto al campo percettivo.

Questo è caratterizzato dal fatto che «qualcosa» emerge da uno sfondo – quindi non vi sono dati singoli come tali, atomi percettivi – ma anche il dato più elementare, un punto o una linea su un foglio di carta è già una emergenza. Questo termine, con il quale abbiamo proposto a suo tempo, di tradurre il tedesco Abgehobenheit, è in molti casi preferibile a quello corrente di figura, proprio per la sua maggior generalità e per il suo possibile riferimento anche ad entità non visive come sono, ad esempio, i suoni. Con emergenza si indica il contraddistinguersi di qualcosa rispetto ad uno sfondo. Presupposto dell’emergenza è il contrasto, ma l’idea del contrasto non può che essere correlativa a quella di un’unificazione che forma il suo presupposto. Consideriamo a titolo esemplificativo l’immagine seguente:

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Qui in realtà vediamo molte cose, ma queste molte cose sono in realtà raggruppate fra loro. Precisamente, se dovessi descrivere la figura direi che vi sono due raggruppamenti.

      1. un raggruppamento, particolarmente in evidenza, dei grandi cerchi che ci appaiono in
        primo piano
      2. la nostra fila di luci che è stata portata di peso in questo nuovo contesto.

Le sfumature cromatiche ad andamento circolare fanno invece da sfondo entrando in un gioco di una certa complessità con le figure raggruppate ed emergenti. È appena il caso di notare che è proprio questo questo sfondo che conferisce all’intera immagine una notevole profondità e questo «effetto» è una conseguenza della sfumatura cromatica e dei suoi gradi. Osservando una figura come questa non è difficile rendersi conto del perché si parli qui di sintesi – ed anzi di tendenze sintetiche, come si potrebbe meglio dire accentuando la componente dinamica del problema.

Il problema della sintesi è legato anzitutto al motivo della somiglianza: ecco un altro grande tema humeano che qui riprendiamo e rivediamo sotto una luce nuova: i due raggruppamenti emergenti sono in realtà attraversati da almeno tre tendenze sintetiche. Una tendenza che deriva dalla somiglianza di forma, un’altra dalla somiglianza di colore e una tendenza che deriva da quella che potremmo chiamare dalla somiglianza di direzione.

Quest’ultima tendenza è messa in rilievo nel disegno dalle frecce che abbiamo aggiunto ad esso – le quali, dunque, secondo le nostre intenzioni, non dovrebbero essere considerate come appartenenti, al disegno stesso. Non stiamo a discutere peraltro perplessità e dubbi che potrebbero essere proposti in rapporto a questa nostra descrizione e che richiederebbero una analisi ancora più ricca.

Per i nostri scopi, è invece particolarmente importante notare che vi sono anche controtendenze alle sintesi, ovvero tendenze volte ad altre forme di unificazione. Ad esempio la luce più luminosa e di colore diverso della fila rappresenta indubbiamene, da un lato, una chiamata di attenzione sulla fila stessa, cioè sulla configurazione unitaria; dall’altro potrebbe anche agire come una controtendenza al raggruppamento, ad imporsi in se stessa, nella sua singolarità rispetto alla fila a cui appartiene. Inoltre la fila nel suo complesso, essendo dello stesso colore dello sfondo, emerge in modo particolarmente debole.

Vi è qui un gioco di tendenze e controtendenze, ed è esso che fa del campo percettivo un campo attraversato da tensioni.

Queste possono riguardare gli elementi emergenti tra loro o i rapporti tra questi elementi e lo sfondo. Quest’ultimo, nel nostro esempio, è relativamente omogeneo, ma non è a sua volta privo di differenze. Anche in esso possiamo parlare dell’unità di una direzione in un senso un po’ diverso poiché riguarda l’andamento dello sfumatura cromatica. Di conseguenza le varie emergenze si distaccano da questo sfondo in un grado talora maggiore e talora minore – ogni elemento di omogeneità con il fondo rappresenta una attenuazione del contrasto, e quindi una controtendenza rispetto alla forza «impulsionale» della singolarità considerata.

§ 6

Questi temi meritano di essere arricchiti ed illustrati mediante ulteriori situazioni esemplificative.

Per comprendere in che senso parliamo di sintesi, è importantissimo, sottolineare che questa parola è strettamente legata alla dialettica emergenza-sfondo. Di conseguenza svolge un ruolo fondamentale il contrasto nelle sue possibili differenze di grado. In generale ciò che viene in questione non è un puro e semplice «stare insieme», ma una formazione unitaria di vari gradi di complessità, che è in ogni caso il risultato di tensioni interne al campo percettivo.

La parola sintesi non deve essere dunque essere separata da parole come tendenza, tensione, emergenza, contrasto.


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In questa figura abbiamo delle «emergenze» che si trovano in varie relazioni con lo sfondo: sulla sua base possiamo dare evidenza alla relatività che spetta a queste nozioni. Vi è infatti uno sfondo scuro rispetto al quale il grande ovale rappresenta un’ emergenza. Questo grande ovale rappresenta a sua volta uno sfondo per i più piccoli ovali che in parte giacciono interamente su di esso in parte si trovano ai suoi margini. Si noti poi il gioco delle differenze, dei contrasti e delle somiglianze.

Forse ciò che attira maggiormente la nostra attenzione è l’ovale azzurro chiaro, che è in realtà piuttosto piccolo – e la ragione interna di ciò sta sta nel fatto che tutti gli altri hanno una relazione o con il fondo blu o con il fondo arancione, e quindi hanno un contrasto minore, cosa che naturalmente ha delle conseguenze sul grado del loro emergere. Il fatto che l’ovale a sinistra sia di colore blu scuro può anche far pensare ad una foro all’interno di una superficie.

Le figure successive invece illustrano il problema dell’unità di direzione:

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È inutile dire che siamo qui alla presenza di due configurazioni unitarie. L’unità dovuta alla «somiglianza della forma» è tuttavia più debole dell’unità fondata sul cromatismo e sulla dimensione. Cosicché prevale l’andamento-verso ed i triangoli si vanno associando secondo due diversi «cammini».

Basta scompaginare un poco questa struttura, anzitutto unificando il colore e quindi potenziando la direzione sintetica che era già caratteristica della forma e rovesciare qualche triangolo in modo da attenuare la somiglianza, per indebolire il senso della direzione, senso che non viene del tutto a mancare per il fatto che i triangoli che sembrano procedere verso il fondo sono in realtà accomunati dal fatto di essere di più piccole proporzioni.

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Parlare di direzioni significa anche alludere alla nozione di «luogo» – quindi ad una partizione ed a un’articolazione dello spazio. Ci si dirige infatti verso un luogo. Le due nozioni sembrano essere correlative. Anche nozioni tipicamente spaziali come quella di luogo possono riportate all’interno della problematica delle sintesi della percezione? Lo possono se consideriamo non il concetto del luogo come tale, ma l’apparire del luogo.

In realtà il problema centrale che ha fatto spesso sembrare la nozione di luogo come una sorta di difficile enigma (ed insieme ad esso naturalmente quella di spazio) consiste in questo: i luoghi non si vedono, essi non possono essere «propriamente» percepiti in se stessi.

Se ad esempio voglio caratterizzare come luoghi l’angolo in basso a destra e l’angolo in alto a sinistra di uno spazio rettangolare dovrò ricorrere alle frecce che abbiamo già utilizzato in precedenza all’interno del disegno, ma che debbono invece essere intese come non appartenenti ad esso.

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Diversamente stanno le cose se affidiamo l’individuazione del luogo ad emergenze ed alle loro loro possibilità di raggruppamento.

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In questo caso non abbiamo soltanto due gruppi di oggetti, che sono unificati dalla forma e dal colore: ma vi è anche per ciascun gruppo una «somiglianza di luogo» – cosicché potremmo dire che il «luogo» comincia ad esserci (ad apparire) quando ci sono emergenze nel campo percettivo e si attivano dunque processi della sintesi. In base a questi processi anche il campo spaziale riceve un’articolazione ed una strutturazione.

Naturalmente si potranno proporre diversi tipi di esempi di configurazioni che potremmo definire non articolate, caotiche, disordinate, prive di struttura.

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Occorre prestare attenzione tuttavia a non commettere l’errore di ritenere che in casi come questi non siano in azione le tendenze sintetiche. Anche in questi casi infatti dobbiamo «applicare delle regole»: ad esempio è chiaro che non si verificano raggruppamenti interni – e dunque non vi sono direzioni o luoghi o emergenze più «importanti» di altre – proprio per il fatto che ogni «pezzo» di cui è fatto questo aggregato è simile ad ogni altro cosicché al più si può parlare di un unità globale che ha in sè delle parti non gerarchizzate, delle parti che si trovano tutte allo «stesso livello». Ci si approssima qui a una molteplicità di emergenze che potrebbe anche fungere da «sfondo».

Nella figura seguente invece si presenta un raggruppamento sulla destra della figura, mentre la distanza separa la piccola macchia sulla sinistra. In queste condizioni saremmo tentati di assimilare il raggruppamento sulla destra ad un’isola o ad un continente con i suoi isolotti, avendo così un tutto unitario con una propria articolazione interna. Gli «isolotti» dipendono in certo senso dalla figura più grande, come se vi fosse qui qualcosa di simile alla legge di gravitazione. Questa circostanza è, a pensarci bene, abbastanza singolare.

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Potremmo osservare che in realtà non a caso qui parliamo di isola e di isolotti. Questa immagine infatti ci rammenta una configurazione nota, che abbiamo visto mille volte sulle carte geografiche – e questo ricordo è del resto stimolato anche dai colori che sono stati scelti per il disegno. Il blu ricorda il mare, così come i colori dell’isola e degli isolotti la terraferma.

Si tratta naturalmente di un’osservazione del tutto giusta che tuttavia potrebbe essere intesa ed impiegata in modo sbagliato. La si potrebbe infatti integrare all’interno di una obiezione di tipo empiristico. L’effetto del raggruppamento, ed anche quello che ho chiamato una sorta di forza gravitazionale che le masse più grandi eserciterebbero sulle più piccole, non sarebbe dovuto, come noi anzitutto sosteniamo, alla configurazione fenomenologica, cioè al modo in cui si presenta la figura, ma al fatto che la figura ci è familiare, che essa ci è già nota nel suo senso.

L’associazione qui sarebbe allora , nello stile di Hume, un’ associazione tra l’esperienza presente e le esperienze passate.

Posta in questo modo la giusta osservazione precedente pretende di fornire una spiegazione che non è affatto soddisfacente. Si confondono in essa due piani molto diversi: da un lato vi è la circostanza che la configurazione ha un senso primario che dipende dal modo stesso in cui essa è fatta e quindi dal complesso di regole sulla base della quale è costruita; e dall’altro, questo senso primario si arricchisce di ulteriori rimandi e quindi di nuovi strati di significato. Su tutto ciò naturalmente ha rilevanza e peso l’esperienza passata.

In ogni caso, è certo che in modo molto più netto che nei casi precedenti la configurazione va oltre se stessa, non si limita a presentare forme e rapporti tra forme, ma attraverso di esse il disegno ci appare come una «carta geografica»: la pura e semplice combinazione grafica, attraverso le fome e i rapporti che essa presenta, tende dunque ad assumere un significato «rappresentativo». Il disegno assume i tratti di una una raffigurazione.

Questo è un punto ha naturalmente una portata generale: sulla base di certi rapporti strutturali la configurazione percettiva può assumere diversi e più o meno complessi orientamenti di senso che sono fondati in essa, ma che nello stesso tempo la superano.

Non necessariamente tuttavia questo superamento va in direzione di una raffigurazione. Si considerino ad esempio le immagini seguenti nelle quali due semplici figure geometriche vengono proposte in contrasto l’una con l’altra.


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Il parlare di contrasto sembra del tutto naturale ed appropriato, eppure questa espressione non ha qui un significato troppo ovvio. Naturalmente essa non ha un senso geometrico – dal momento che nella geometria un cerchio è un cerchio e un triangolo un triangolo, ciascuno con le sue differenti proprietà geometriche, e non avrebbe affatto senso contrapporre l’uno all’altro. Ma qui non si parla di contrasto nemmeno nel senso in cui ne parlavamo in precedenza, quando alludevamo al rapporto tra sfondo ed emergenza.

Naturalmente potremo ripetere in rapporto ad esse le considerazioni già proposte in precedenza. Ma con particolare chiarezza in questo caso vi un «senso» che viene realizzato su relazioni oppositive come rigidità e mollezza, curvilineo e rettilineo, ecc. che sono ricche di valenze immaginative. Difficilmente si può ritenere appropriato il parlare di contrasto senza far riferimento a queste valenze; e nello stesso tempo le due figure, entrambe emergenti sullo sfondo, formano una unità non solo in forza della «contiguità», ma proprio in forza di queste relazioni oppositive e delle direzioni immaginative ad esse connesse. Si tratta naturalmente di un’unità internamente tesa, e fino a che punto questa tensione sia dovuta all’opposizione è mostrato dall’appiattimento, dalla «perdita di interesse», dall’attenuazione della capacità «impulsionale» che si ottiene con un semplice arrotondamento delle punte del triangolo, come viene mostrato dalla figura successiva:

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Hume riteneva anche di poter distinguere piuttosto nettamente percezione da immaginazione, l’impressione dall’idea. L’idea dell’immaginazione è una copia illanguidita di un’ impressione. Se così fosse le figure che abbiamo presentato or ora non avrebbero in sé alcuna componente immaginativa. Esse non hanno nulla di “languido” e non vi è nessun originale di cui esse possano essere una copia. Cosicché potremmo addirittura esibirle come una confutazione di quella posizione in quanto mostrano la presenza di una componente immaginativa che è difficile districare dall’elemento percettivo.

Come nel caso precedente del continente e delle isole, anche ora il dato percettivo come tale viene oltrepassato ma questo oltrepassamento non avviene in direzione della raffigurazione, ma piuttosto in direzione espressiva, e dunque in direzione immaginativa. Il triangolo è l’elemento appuntito, il cerchio è l’elemento curvilineo con tutti i sensi aggiunti, i sensi allusivi che l’immaginazione può dare all’uno o all’altro, la spada, l’idea del ferire, dell’incidere, dello scalfire ovvero, sul lato opposto: la mollezza che non oppone resistenza o che si presenta indifesa rispetto a questa aggressione.

È singolare che anche in Husserl questo aspetto del problema così importante per una teoria della percezione così come per una teoria dell’espressione non sia quasi per nulla preso in considerazione. Ci sono solo cenni sporadici, ma in lui è assente quasi interamente proprio l’idea fondamentale di sintesi di carattere immaginativo, che operano in modo diverso dalla pura produzione dell’oggetto fantastico. Io credo invece che la tematica delle sintesi debba prendere in esame approfondito l’operare sintetico dell’immaginazione.

§ 7

Vogliamo conclusivamente tirare le fila sulla nozione di sintesi passiva e su quelle ad essa connesse, cercando di metterne brevemente in rilievo la rilevanza filosofica e nello stesso tempo di intravvedere le conseguenze di più ampia portata che si possono estrarre da un problema che può avere un avvio così minuto.

Anzitutto deve essere portato l’accento sulla critica alla filosofia empiristica dell’esperienza, nella forma esemplare che diede ad essa Hume, al quale peraltro la fenomenologia deve molti dei suoi problemi: i dati dell’esperienza non sono dati disciolti e disparati, nemmeno quando essi siano considerati al loro livello più elementare. Essi sono invece dati determinatamente articolati e ci colpiscono proprio di questa loro organizzazione interna.

Se poi ci chiediamo da che cosa dipenda questa organizzazione, allora ci troviamo nell’ambito del problema delle sintesi. La differenza con Hume non sta naturalmente nel puro fatto terminologico: egli parla infatti di associazione piuttosto che di sintesi. Tuttavia, presi in se stessi e prescindendo dalla loro storia, le parole «sintesi» o «associazione» si richiamano entrambi alla tematica dell’unificazione[2]. La differenza sta piuttosto nel modo di intendere l’unificazione: in Hume si tratta di processi essenzialmente fondati sulla ripetizione costante di una relazione. Da un punto di vista fenomenologico invece – accanto le unificazioni e le sintesi che indubbiamente avvengono in forza dell’esperienza passata – si effettua l’importante riconoscimento dell’esistenza di tendenze sintetiche interne alla configurazione percettiva, che si impongono come tali alla soggettività percettiva.

Le sintesi sono appunto «sintesi passive». Qui ci imbattiamo in un altro importante richiamo. Si tratta naturalmente del richiamo a Kant. La parola «sintesi» è appunto parola kantiana. Ma il continuo insistere sulla tematica della soggettività come tematica portante della fenomenologia ne ha da un lato esaltato l’orientamento idealistico-trascendentale, dall’altro ha portato spesso al misconoscimento dell’importante presa di posizione implicita nel tema della passività – che certamente è assai lontano dallo spirito della filosofia dell’esperienza di impronta kantiana.

Vi sono a questo proposito almeno due elementi a cui deve essere dato particolare rilievo:

1. la problematica della sintesi che in Kant si presentava come un rovello sulla ricerca di poche categorie generali, si frantuma nell’impostazione fenomenologica in una grande quantità di problematiche particolari, esemplificativamente determinate, e lo scopo della ricerca diventa la realizzazione di un ampio quadro di differenti tipologie fenomenologiche degli interi percettivi.

2. che il rovello kantiano assuma il giudizio come proprio tema e filo conduttore mostra che in Kant si attribuisce la sintesi al lato soggettivo-intellettuale, e quindi questa tematica viene ascritta essenzialmente all’attività ed alla spontaneità delle operazioni di coscienza.

A volte è molto istruttivo cercare di rendere una posizione filosofica in uno schema grafico. Naturalmente si tratta di una impresa che non deve avanzare troppe pretese, ma che risulta essere di una certa utilità, persino nelle ovvie difficoltà in cui è destinata ad imbattersi.

Per ciò che riguarda il tema della soggettività e del suo rapporto con la sensibilità in Kant si potrebbe forse proporre lo schema seguente:

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L’intero campo è dominato dalla distinzione tra fenomeno e noumeno. Il noumeno, ovviamente, è la parte scura, nella quale nulla si riesce a distinguere. Si noti che una parte della soggettività trascendentale appartiene proprio al noumeno – essa viene disegnata come un semicerchio, ma l’altra metà del cerchio non può vedersi su quello sfondo scuro. Si tratta della parte che chiama in causa l’io etico-pratico: forse anche, secondo una suggestiva e importante indicazione interpretativa di Schopenhauer, di quella parte dell’io che riguarda ciò che Schopenhauer chiama «carattere intelligibile» – una nozione che per Schopenhauer rimanda alle scelte primarie e insondabili nei loro motivi dell’io stesso.

Tutto il resto, la zona chiara rappresenta invece la tematica kantiana delle sintesi di esperienza. La prima condizione generale della sintesi è l’unità dell’io stesso (la cosiddetta appercezione trascendentale); sul lato opposto vi è «il molteplice dell’esperienza»: questa espressione è tipica di Kant e manifesta la volontà di aggirare una terminologia di origine psicologica ed empiristica. Il molteplice dell’esperienza è un termine rarefatto, di intonazione logico-concettuale in quanto allude all’esperienza sensoriale di base come ad una mera «molteplicità». Di fatto, si tratta naturalmente del campo humeano delle impressioni, concepito, proprio come lo concepiva Hume, come fatto di «atomi sensoriali».

Tuttavia il termine di impressione viene evitato proprio perché allude ad un dato di fatto psicologico. Kant preferisce impiegare invece un’espressione che porta piuttosto l’accento sulla forma più che sul contenuto sensoriale come tale, quindi sul fatto che tale contenuto è una molteplicità priva di unità intrinseca.

Dalla soggettività trascendentale promanano i mezzi (media) delle sintesi, le categorie e le forme apriori dello spazio e del tempo. Nel caso delle categorie siamo nettamente nel campo dell’ attività intellettuale, quindi le operazioni sintetiche saranno «spontanee» – come è spontanea l’attività giudicativa in genere. La sintesi di cui parla Kant è una sintesi «attiva».

È sintomatico da questo punto di vista il fatto che in rapporto al primo livello di unificazione del materiale sensoriale attraverso lo spazio e il tempo, Kant eviti di parlare di sintesi così come di categorie – due termini che sono per lui concettualmente collegati – preferendo parlare dello spazio e del tempo come forme (di unificazione) a priori dell’intuizione.

Ciò mostra che Kant da un lato è passato nei pressi del problema della passività, dall’altro che non ha saputo trovare la via per una sua elaborazione. Il timore di una «ricaduta» in una prospettiva psicologistico-empiristica ha agito da ostacolo e da impedimento. Così, invece di andare ad attingere le regole presso il materiale di esperienza attraverso una analisi onnilaterale di essa, Kant pensa ad un piccolo numero di regole preformate – regole che la geometria e l’aritmetica hanno reso esplicite e che vengono proiettate sul materiale sensibile conferendo ad esso l’unità di cui ha bisogno. Si noti di passaggio come si commetta anche l’errore di non distinguere con chiarezza il livello di una teoria dell’esperienza da quello di una teoria della conoscenza.

Si comprende subito che non è possibile proporre un grafico di insieme per la posizione fenomenologica, proprio perché questa posizione non propone un ordine precostituito e poggiante su pochi pilastri fondamentali, ma rimanda ad una indagine su una molteplicità di ordini possibili che debbono essere estratti dalle situazioni esperienziali concrete. Si può invece tentare di schematizzare graficamente almeno un aspetto della concezione fenomenologica della soggettività, tenendo conto delle indicazioni che abbiamo esposto all’inizio di questo saggio.

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Questa immagine è assai carente sotto più di un riguardo. Ma proprio discutendone i limiti avremo modo di compiere alcune precisazioni.

Una prima carenza sta nel non rendere conto della natura non puntuale dello stimolo, anzi essa fa pensare al contrario a «punti» da cui hanno origine le frecce (le «affezioni»). Per questo lato della questione l’immagine è assai fuorviante: il punto da cui ha origine la freccia deve essere inteso come un complesso percettivo strutturato.

Tuttavia vi è un aspetto che questa immagine riesce a rammentare abbastanza efficacemente. Si tratta dell’idea di una soggettività considerata sotto la presa dell’affezione, anzi di molteplici tendenze affettive (le frecce che si dirigono su di essa).

Una di queste tendenze affettive sta per «impressionare» l’io, sta per colpirlo, mentre le altre non lo raggiungono ancora, e sono più o meno lontane da esso. La gradazione dal chiaro allo scuro allude ad una differenziazione interna del campo della presenza – che sarà delimitato da un orizzonte oscuro che indica l’al di là di questo campo.

A questo proposito ci rendiamo conto di un altro importante limite e di un’ interessante ambiguità, che parte della natura del problema.

Il limite sta nel fatto che l’immagine non mostra che vi è una interazione, nel fenomeno del «colpire», tra l’elemento soggettivo e l’elemento oggettivo. Di questo aspetto importantissimo si è trattato assai poco anche in precedenza, ma occorre avvertire che questa interazione è destinata a svolgere un ruolo particolarmente importante. Detto in breve: il campo delle «forze impulsionali» (affettive) è in parte predisposto dalla configurazione dell’oggetto, in parte viene ri-orientato dalle «predisposizioni» della soggettività, dalla sua «temporalità» concreta, dalla sua storicità.

L’ambiguità sta nel problema della delimitazione interno-esterno. Questa delimitazione non può essere chiaramente rappresentata – perciò non può essere nemmeno esattamente delimitata la regione della soggettività. Il campo di presenza dell’io non è solo il centro più luminoso, ma è un campo degradante da questo centro, verso i limiti oscuri dell’inconsapevolezza.

Ciò significa anche che questa immagine può assumere una diversa inclinazione di senso, così come la può assumere l’intera tematica della sintesi passiva. La differenza e le relatività, le dinamiche più o meno complesse che abbiamo segnalato in precedenza possono forse trovare dei significativi parallelismi e corrispondenze qualora siano reinterpretate riportandole all’interno della soggettività stessa ed alla sua dimensione temporale. Che il campo della presenza conosca gradazioni richiama una nozione di consapevolezza che comprenda la possibilità di un «avvertire inavvertito», di una forma peculiare di essere dentro la coscienza e, ad un fuori di essa. Lo «sfondo» può essere inteso come «sfondo di vissuti» – come passato dell’io, in parte obliato, in parte potenzialmente attivo, che è ancora in grado di premere sulla soggettività con le sue «forze affettive». Vi sono certamente, anche in questa diversa angolatura del problema, delle unificazioni dinamiche che possono essere intese come «sintesi passive».

Ma allora si ci può chiedere: è possibile, dentro il quadro di una impostazione fenomenologica, che ha sempre messo l’accento sulla chiarezza e sull’evidenza, estendere al problema delle oscurità dell’inconscio il grande tema delle sintesi passive, naturalmente tenendo conto di tutte le differenze e della novità dei problemi che si dovrebbero affrontare?

Questa è la domanda che finisce con l’insinuarsi tra i pensieri che accompagnano il filosofo nella sua passeggiata notturna sulla collina.

 


Note:

[1] Il testo così intitolato rappresenta la traduzione italiana realizzata da Vincenzo Costa con la cura di Paolo Spinicci delle lezioni contenute in E. Husserl, Analysen zur passiven Synthesis, Husserliana XI, a cura di Margot Fleischer, Martinus Nijhoff (ora: Kluwer Academic Publishers B.V., Dordrecht), Den Haag 1966 ed è stato edito dall’Editore Guerini e Associati, Milano 1993.

[2] In Husserl si usano intenzionalmente entrambi i termini in quanto la tematica delle forme di ordinamento indotte dalle sintesi passive può essere presentata come un’elaborazione di una «teoria dell’associazione» secondo lo spirito e il metodo della fenomenologia. Si veda in proposito la Sezione terza delle Lezioni sulla sintesi passiva, op. cit., pp. 167 sgg.