Questo saggio è stato pubblicato come introduzione a Paolo Spinicci, La visione e il linguaggio - Considerazioni sull'applicabilità del modello linguistico all'esperienza, Guerini Studio, Milano 1992.
Data di immissione: ottobre 1999.

 

icon La fenomenologia come metodo filosofico (pp. 27, Kb. 99)

 


La rivista

"Metodo. International Studies in Phenomenology and Philosophy"

ha realizzato la traduzione inglese di questo saggio

 

 

Giovanni Piana

LA FENOMENOLOGIA COME METODO FILOSOFICO

1. Ingenuità e pregiudizio

arebbe certamente un’impresa senza speranza se si volesse tentare di delineare, sia pure in forma largamente introduttiva, il problema della fenomenologia come metodo filosofico facendo riferimento alla varietà di forme che esso ha assunto nel corso della storia del pensiero nel nostro secolo. Queste forme sono realmente troppe per poter sperare di venirne a capo. Non sarebbe possibile nemmeno una rassegna schematica e sommaria dei modi in cui le tematiche fenomenologiche sono state presentate e ripresentate nelle più varie elaborazioni e integrate in contesti culturali e teorici molto spesso contrassegnati da differenze e profondi contrasti non meno che da somiglianze e da affinità. |1|

E’ tuttavia forse possibile soddisfare un’esigenza che ha un carattere preliminare rispetto ad ogni possibile discussione e approfondimento ulteriore - e precisamente quella di poter disporre di un quadro concettuale passabilmente semplice e completo che ci consenta di acquisire un punto di vista dal quale misurare poi affinità e differenze. |2|

Si tratterà allora di fornire una traccia che ci consenta di circoscrivere il nucleo teorico, a nostro avviso, più solido e più fecondo del metodo fenomenologico, operando così in modo indubbiamente unilaterale, ma forse non privo di efficacia in rapporto agli scopi che ci proponiamo. |3|

Vogliamo cominciare con il prendere posizione con un modo corrente di proporre il problema sul quale cade spesso l’accento dei divulgatori, favorendo rifiuti polemici certamente troppo semplici. |4|

Si tratta di un aspetto che può essere ricollegato ai primi sviluppi della filosofia di Husserl, al motto «Alle cose stesse!» che formulava in positivo ciò che poco più tardi veniva teorizzato come «messa tra parentesi» di ogni teoria e strettamente ricollegato con il tema dell’epoché fenomenologica. |5|

Molto spesso si sono considerate affermazioni volte in questa direzione totalmente al di fuori dei contesti di ricerca nei quali esse erano state primariamente formulate, cosicché esse hanno finito con l’assumere il senso del tutto astratto e generale secondo il quale la porta di accesso alla filosofia fenomenologica sarebbe rappresentata appunto dall’assunzione di un atteggiamento di radicale ingenuità, di assoluta innocenza filosofica, che sembrerebbe costituire la condizione affinché ci si apra alla verità del dato, alla datità fenomenologica come tale non coperta da proiezioni di senso precostituite. Che una simile posizione sia esposta a confutazioni molto semplici, si comprende da sé. |6|

La stessa formulazione della «messa in parentesi» di ogni opinione pregiudiziale è molto dubbia come scelta filosofica consapevole per il semplice fatto che i pregiudizi agiscono realmente come tali solo se si trovano alle nostre spalle, se essi sono, come pregiudizi, fuori dall’ambito della nostra consapevolezza. Cosicché non può esserci nessun gesto generale di liberazione da tutti i pregiudizi, come se essi potessero essere scacciati tutti in un colpo solo - questa sarebbe soltanto una pura astrazione filosofica. Deve invece esserci anzitutto la messa allo scoperto del pregiudizio nella sua determinatezza e nella determinatezza delle sue conseguenze, e proprio in questa operazione, necessariamente particolare, è possibile la sua disattivazione. |7|

Di fatto, quando si parlò di ritorno «alle cose stesse» e di liberazione dai pregiudizi, e talvolta anche di «ingenuità», si aveva di mira un insieme di opinioni ben determinate, con precise conseguenze teoriche, soprattutto nell’ambito di una filosofia dell’esperienza nella quale si facevano valere le istanze della psicologia associazionista. Da questo punto di vista è esemplare il richiamo ad un’osservazione libera da pregiudizi così caratteristica della psicologia della forma ai suoi inizi e poi sempre ribadita - un richiamo che nessuno potrebbe interpretare come espressione di un generico atteggiamento anti-intellettualistico, e nemmeno di una polemica priva di oggetto. Le teorie e le concezioni da «mettere da parte» erano al contrario chiaramente individuate, ed altrettanto lo erano le loro conseguenze nell’interpretazione dei fatti di esperienza: cosicché la sottolineatura della necessità di una visione non pregiudiziale non poteva che essere accompagnata dall’esibizione delle distorsioni indotte nei fatti da quelle interpretazioni. |8|

2. Riduzione fenomenologica

ll’interno di questo orizzonte critico, particolarmente rilevante non solo sotto il profilo filosofico ma anche sotto quello scientifico, si annunciava non già il tema del tutto insignificante dello sguardo filosoficamente innocente, ma il complesso di compiti analitici particolari che venivano prospettati in una grande varietà di direzioni da una teoria dell’intenzionalità degli atti di coscienza. |9|

E’ solo nel momento in cui Husserl ritiene di poter reintrodurre l’idea stessa di fenomenologia attraverso la ripresa del dubbio cartesiano reinterpretato a sua volta alla luce della «sospensione del giudizio» che il motto «alle cose stesse» così come il tema della «messa in parentesi» possono essere proposti come un vero e proprio problema metodologico autonomo. Sorge così la teoria della riduzione fenomenologica. |10|

Essa è ispirata da due esigenze fondamentali: da un lato dall’esigenza di caratterizzare con particolare nettezza l’idea di fenomenologia come metodo filosofico, marcandone la distinzione rispetto ad un livello preliminare della ricerca psicologica; dall’altro dall’esigenza, che non viene esplicitamente formulata, ma che motiva in profondità gli sviluppi della teoria, di dare voce a istanze ed a tensioni d’epoca. |11|

Entrambe queste esigenze trovano il loro punto di fusione e di massima concentrazione proprio nella ripresa dell’argomentazione cartesiana: infatti la filosoficità del metodo riceve certamente la massima accentuazione proprio con questo richiamo; e nello stesso tempo, il tema fondazionale in esso presente - che aveva del resto già in Cartesio il senso di una polemica non puramente speculativa, ma che investiva l’orientamento dominante nella cultura filosofica della propria epoca - è attraversata dalle inquietudini di una vicenda storica che si muove a partire dalla fine del primo decennio del secolo verso la catastrofe della prima guerra mondiale e al di là di essa alle tragedie del fascismo e del comunismo staliniano. |12|

L’azzeramento richiesto dall’epoché fenomenologica tende ad assumere il carattere di un’immensa operazione catartica, che deve giungere ad un ripensamento dell’idea stessa della razionalità ed a un rinnovamento radicale della vita della cultura. Alla luce di considerazioni come queste credo si possa arrivare a comprendere i motivi profondi per i quali la tematica fenomenologica nel suo complesso tenda ad assumere sempre più nettamente il carattere di una filosofia della soggettività che non esita a richiamarsi alla tradizione idealistica e nello stesso tempo quello di un abnorme e gigantesco discorso sul metodo, che sconfina di continuo sul terreno della responsabilità etica e della necessità di una presa di coscienza storica. |13|

Si tratta di un aspetto della massima importanza per comprendere l’inclinazione che l’idea di fenomenologia riceve nel corso dello sviluppo del pensiero di Husserl e il modo in cui si innesta con il concetto della crisi. Ma si tratta anche di un orientamento complessivo del problema che sembra non consentirci altro che una riproposizione di quel concetto, riproposizione che è destinata ad impoverirsi ad ogni iterazione. |14|

Detto in una parola: il concetto della crisi non può valere per tutto un secolo, altrimenti deve valere per tutti i secoli. |15|

3. Filosofia e chiarezza

rima di procedere oltre in direzione delle specificità dei temi fenomenologici,E’ indubbiamente necessario ripensare in termini generali all’idea del metodo nella filosofia ed alla sua problematicità interna. |16|

Tra gli scopi della filosofia, e fra i suoi scopi più importanti, vi è certamente quello di portare chiarezza nei nostri pensieri. Talvolta il libero corso dei nostri pensieri si inceppa, e noi vogliamo vederci chiaro. |17|

La matassa si è imbrogliata, e noi dobbiamo riprenderne il filo. |18|

Già in questo possiamo cogliere le difficoltà dell’idea del metodo nella filosofia. Vi è forse un metodo per sbrogliare una matassa che si è aggrovigliata? Avremmo una certa esitazione a rispondere affermativamente ad una simile domanda, perchè ci rendiamo subito conto che non sarebbe affatto facile mettere quel metodo nero su bianco. Non possiamo dire: anzitutto si fa questo, e poi quest’altro, e se succede questo, devi fare quest’altro. |19|

Non vi è dubbio che se parlassimo di metodo nel senso di una determinata successione di passi e di procedure che possano essere chiaramente codificate, avremmo ragione di affermare che nella filosofia non vi è metodo alcuno. Tuttavia è altrettanto certo che per sbrogliare una matassa non possiamo procedere in un modo qualunque, ad esempio non possiamo prendere un filo a caso e tirarlo il più possibile verso di noi; e nemmeno possiamo immergere le mani nella matassa e cercare di tirarla da tutti i lati, sperando che il risultato sia proprio quello di dipanare l’imbroglio. Certo, taluni filosofi fanno proprio così, ma non è questo il modo! |20|

Vi è qui qualcosa di singolare, quasi paradossale: si deve pensare con ordine, c’è un ordine del pensiero - e proprio per questo possiamo parlare di un metodo filosofico. Tuttavia questo ordine non può a sua volta essere riordinato, cosicché un discorso sul metodo sembra essere un’istanza irrinunciabile per la filosofia e nello stesso tempo irrealizzabile in linea di principio. |21|

A meno che l’espressione «discorso sul metodo» non venga intesa nella sua accezione più ampia, e in realtà più ricca di senso: un discorso sul metodo come un discorrere o un dibattere intorno ad esso, come un attraversare con i nostri discorsi le regioni dei metodi. Allora le considerazioni che abbiamo sviluppate poco fa non ci conducono affatto in una sorta di vicolo cieco, ma possono essere considerate come osservazioni iniziali aperte a molti possibili sviluppi. |22|

Abbiamo detto: quando il pensiero si imbroglia, noi vogliamo vederci chiaro. |23|

Del resto per dipanare una matassa che si è imbrogliata è necessario quanto meno prestare ad essa molta attenzione. Ad esempio, in mezzo al groviglio di fili fittamente intrecciati tra loro si dovrà cercare anzitutto di scorgere il capo. Se poi non lo si trova, non resterà forse altra alternativa che appigliarsi ad un filo e tirare un poco, vedere che cosa succede, agendo di conseguenza. |24|

Ci vuole metodo, indubbiamente. E nonostante tutte le precedenti incertezze intorno alla questione del metodo posso dire di sapere per certo che una matassa non si può dipanare a occhi chiusi. Il vedere è comunque importante. Ed in questo modo cominciamo con il porre l’accento sul fatto che la fenomenologia come metodo filosofico è anzitutto un metodo intuizionistico, che essa è una forma particolarmente complessa, particolarmente sofisticata di intuizionismo. |25|

ANNOTAZIONE

L’immagine della matassa ricorda certamente altre immagini affini proposte da Wittgenstein per la filosofia. Questa connessione con la chiarezza è presente a partire dal Tractatus logico-philosophicus (trad. it. a cura di A. G. Conte, Torino, Einaudi, 1964) fino agli scritti più tardi, con sfumature e tonalità anche profondamente diverse che meriterebbero una discussione dettagliata: inizialmente nella forma esasperata ed utopica di una chiarezza esaustiva ed effettivamente raggiunta che si ribalta, secondo una precisa dinamica interna così caratteristica di quell’opera, in un’oscurità impenetrabile di fronte alla quale lo stesso discorso filosofico si ritrae. Ma l’idea che un’opera filosofica consti essenzialmente di «discussioni che mirano ad apportare chiarimenti» (4112.c - come potremmo svolgere parafrasticamente la parola Erläuterung) ha una storia che va molto oltre i rigidi limiti stabiliti dal Tractatus e raggiunge le formulazioni più tarde nelle quali, in varie forme, si insiste invece sulla chiarificazione come scopo effettivo della filosofia da perseguire con una pluralità di metodi (il costante riferimento al linguaggio non ha, io credo, il senso di un richiamo ad un metodo unico e privilegiato). Eppure si tratta di un percorso che resta controverso, che non trova realmente modo di acquetarsi proprio per ciò che riguarda il nesso tra filosofia e chiarezza. In certo senso si potrebbe dire che le situazioni che richiedono la filosofia sono situazioni «bloccate» - lo sono dal punto di vista concettuale, ma non può sfuggire anche una possibile inclinazione esistenziale che si insinua nelle «figure» della confusione filosofica in Wittgenstein. Particolarmente inquietante, per quanto poco sia stato avvertito questo aspetto, è naturalmente la «mosca nella bottiglia», (Ricerche filosofiche, trad. it. di M. Trinchero, Torino, Einaudi, 1967, oss. n. 309); ma anche, ad esempio «l’uomo prigioniero in una stanza» - «la porta è sbarrata e si apre dall’interno», ma a quell’uomo «non viene affatto in mente di tirare, anzichè di spingere» (Pensieri diversi, trad. it. a cura di M. Ranchetti, Milano, Adelphi, 1980, p. 84) che è una singolare e notevole variazione della precedente. La soluzione è a portata di mano eppure angosciosamente inaccessibile. In frasi come queste si può avvertire anche un altro problema: i problemi filosofici, suggerisce più volte Wittgenstein, derivano da costruzioni artificiose, attraverso una manipolazione ingiustificata delle regole del linguaggio corrente - cosicchè quelle figure di prigionia possono essere considerate figure della complessità della filosofia stessa, all’interno di una contrapposizione irrisolta con la «semplicità» della vita. Il filosofo stesso diventa la mosca nella bottiglia - cosicchè egli non può indicare alcuna strada; ed è ancora il filosofo che spinge ostinatamente la porta verso l’esterno. Ecco una sorprendente reazione alla lettura dei dialoghi di Platone: «Leggendo i dialoghi socratici si ha questa sensazione: che terribile spreco di tempo! A che pro questo argomentare che non dimostra nulla e nulla chiarisce?» (Pensieri diversi, trad. it. cit.,p. 36). La riflessione filosofica assume qui il carattere di un groviglio che sempre più si aggroviglia, di una spirale senza fine alla quale possiamo sottrarci solo balzando nel linguaggio ordinario, ovvero nella vita di tutti i giorni che sta prima e al di fuori della filosofia. Ma se le cose stanno così allora possiamo forse comprendere la frase seguente - il cui senso autentico non lo si coglie certo alla prima lettura: «La vera chiarezza cui aspiriamo è certo una chiarezza completa. Ma questo vuol dire soltanto che i problemi filosofici debbono svanire completamente. La vera scoperta è quella che mi rende capace di smettere di filosofare quando voglio.» (Ricerche filosofiche, oss. 133, trad. it. cit. p.71 ). Le prime due frasi dicono: poichè non possiamo sperare di pervenire a quella chiarezza completa a cui aspiriamo, allora i problemi filosofici non possono svanire completamente. Perciò, ciò che importa è rendersi conto che posso smettere di filosofare in un istante qualunque, ed esattamente nell’istante in cui lo voglio. |26|

Se una simile interpretazione è orientata nella giusta direzione, allora si potrebbe sostenere che il problema entro cui Wittgenstein si era dibattuto nel Tractatus, e che aveva indubbiamente uno dei suoi fulcri proprio nell’esasperazione non tanto del tema della chiarezza, quanto di quello di una chiarezza completa, continui ad agire anche negli sviluppi successivi, all’interno dei quali tuttavia non può prendere corpo, come nel Tractatus, in una forma di dogmatismo, ma al contrario in una venatura di scetticismo, che fa leva sul contrasto tra il vivere «semplicemente» e la riflessione filosofica. Allora si potrebbe rammentare a titolo di grande antecedente della frase di Wittgenstein or ora citata la conclusione humeana di fronte al dibattersi della riflessione filosofica tra alternative insolubili: «non curarsene, non badarci: ecco l’unico rimedio. Al quale mi affido interamente» (Trattato sulla natura umana, I, Parte IV, Sez. III, in D. Hume, Opere, trad. it. a cura di E. Lecaldano e E. Mistretta, Bari, Laterza, 1971, p. 231) «Ecco, io pranzo, gioco a tric-trac, faccio conversazione, mi diverto con gli amici: quando, dopo tre o quattro ore di svago ritrno a queste speculazioni esse mi appaiono così fredde, così forzate e ridicole che mi viene meno il coraggio di rimettermici dentro» (ivi, I, Parte IV, Sez. VII, p. 281) |27|

Questa vicenda, che qui abbiamo solo rapidamente schematizzata, mostra le complicazioni interne del problema, la varietà delle sue possibili direzioni di sviluppo; ma invita anche a riflettere sul fatto che, assumendo un punto di vista fenomenologico, se da un lato possiamo avvalerci inizialmente di un’immagine «wittgensteiniana», dall’altro è molto probabile che le vie finiranno poi con il divergere o in ogni caso che potranno convivere solo in una sorta di complesso gioco di compensazioni reciproche. In particolare vorrei notare che si possono trarre significativi vantaggi dall’associare la corrosività ironica del modo di pensare di Wittgenstein con la serietà costruttiva così caratteristica del pensiero fenomenologico. |28|

4. Intuizionismo

a rivendicazione della fenomenologia come intuizionismo è tutt’altro che frequente - e di ciò non ci si può certamente sorprendere. Più precisamente: questa parola, associata alla fenomenologia, compare certamente con maggiore frequenza nelle polemiche contro il metodo fenomenologico, piuttosto che da parte dei sostenitori di questo metodo. Sembra quasi prevalere presso di essi una sorta di pudore e di timore di fronte a questa parola, certamente per via delle implicazioni che essa ha nella tradizione filosofica. Si tratta di implicazioni che possono essere considerate più o meno desiderabili, ma che in ogni caso hanno sempre esposto la complessità e la ricchezza del pensiero fenomenologico a critiche troppo sbrigative. |29|

Io credo invece che, senza esasperare la questione terminologica più di quanto essa meriti dal momento che essa è comunque meno importante delle tematiche effettive di volta in volta ad esse soggiacenti, ci si possa assumere di quella rivendicazione una responsabilità piena e completa. Non ci si deve preoccupare più di tanto, ad esempio, se parlando di intuizionismo, si potranno mettere sul tappeto, eventualmente con accentuazione polemica, i nomi di un Bergson o di uno Schopenhauer: potremmo infatti approfittare di una simile occasione per ampliare la discussione arricchendo il nostro tema con più precisi confronti e paragoni. |30|

In Bergson, ad esempio, la parola intuizione allude soprattutto ad una fonte di conoscenza inattingibile con mezzi razionali - e dunque come un’illuminazione che proviene da profondità insondabili. In certo senso l’idea della chiarezza è qui associata strettamente con quella di una oscurità necessaria - un’oscurità fitta e profonda che l’intuizione riesce qualche volta a perforare. Siamo perciò molto lontani dal «vedere» nel senso comune ed in particolare dal vedere come esperienza percettiva, caratteristicamente legata alla superficie delle cose. Al contrario: in questo contesto intuire significa entrare in comunanza con l’interno delle cose, con ciò che non si vede e che perciò non si può neppure rappresentare. La stessa nozione di punto di vista appartiene al vedere, e non all’intuire, al piano della rappresentazione e infine a quello della mediazione «simbolica» e discorsiva che non intuisce, ma analizza e descrive. L’intuizione diventa così la via di accesso alla metafisica, ciò che consente di superare l’esteriorità e di andare oltre la superficie. |31|

In Schopenhauer le cose stanno in realtà in maniera un po’ diversa. In lui è certamente presente l’idea dell’intuizione come una speciale modalità della conoscenza che ci consente di accedere al livello metafisico del reale, ma questa idea è comunque fortemente caratterizzata dalla possibilità di «vederci chiaro». Così, proprio nelle prime pagine della Quadruplice radice del principio di ragione sufficiente egli associa l’idea del veder chiaro all’esercizio della riflessione filosofica in genere: la filosofia, egli dice, deve essere in tutto simile ad un lago svizzero - la superficie calma e tranquilla mostra in trasparenza ciò che giace alla massima profondità. La metafisica, il sistema del mondo non può più essere costruito mediante argomentazioni logiche, e tuttavia resta in Schopenhauer l’ideale fondamentale di tutta la tradizione del razionalismo, e cioè l’ideale di una metafisica chiara, pienamente comprensibile, pienamente evidente. E’ il principio metafisico che può avere le sue oscurità abissali, non il modo in cui possiamo pervenire ad esso attraverso le vie della filosofia. |32|

In ogni caso, nella fenomenologia viene meno proprio questo nesso tra intuizione e metafisica, e con ciò cambia radicalmente il senso e la portata di questo richiamo. Il modo in cui il tema dell’intuizione si presenta con forza all’interno di una prospettiva fenomenologica è caratterizzato non già dall’idea di una forma speciale di conoscenza che ci farebbe attingere verità altrimenti inattingibili, ma dal legame con la riduzione fenomenologica, a cui ora dobbiamo ripensare, riconsiderandola nel quadro delle questioni del metodo. |33|

ANNOTAZIONI

1. In taluni casi, nei testi di Husserl i riferimenti al vedere, al guardare, all’osservare sono, anche sotto il profilo stilistico, particolarmente insistenti e persino fastidiosi. Si veda la lezione seconda dell’Idea della fenomenologia (trad. it. di A. Vasa a cura di M. Rosso), e in particolare p. 66-67 dove si possono contare non meno di quattordici contesti che rimandano al guardare (schauen, rein schauend, hinblicken, vor Augen stehen, schauende Wahrnehmung, herausschauen, die geschaute Fülle der Klarheit, ecc.: Husserliana, II, Die Idee der Phänomenologie, 1958, pp. 30-31): anche se la pesantezza che in molti casi ne deriva nella traduzione italiana è talvolta dovuta alla scelta - sicuramente non obbligatoria - di M. Rosso di evitare l’impiego della terminologia dell’« intuire» in rapporto a «schauen», scelta motivata (p. 45, nota 5) con ragioni di aderenza letterale. Ciò che lascia perplessi tuttavia non sono tanto quelle espressioni forzate («conoscenza guardante» (p. 45), «indagine guardante» (p. 94), ecc.) che il curatore stesso riconosce come «scostanti» - tutte le traduzioni di Husserl debbono pagare uno scotto da questo punto di vista - ma quei passi che minacciano di diventare, senza necessità, incomprensibili proprio a causa di una simile accentuazione della fenomenologia come una filosofia ossessionata dal bisogno di aver sempre qualcosa da guardare. Ad esempio, un conto è notare che, in rapporto al problema della conoscenza, «dobbiamo, operando con lo sguardo (im schauenden Verfahren), approfondire una per una tutte le sue figure fondamentali» (operando con lo sguardo?) - e un altro è notare che questo approfondimento deve avvenire secondo procedure intuitive. |34|

2. H. Bergson, Introduzione alla metafisica, trad. it, a cura di V. Mathieu, Bari, Laterza, 1971: «Intuizione chiamiamo qui la simpatia per cui ci si trasporta all’interno di un oggetto, in modo da coincidere con ciò che esso ha di unico e, conseguentemente di inesprimibile. L’analisi, al contrario, è l’operazione che riporta l’oggetto a elementi già conosciuti, vale a dire comuni a questo oggetto ed a altri (...) Nel desiderio, eternamente insaziato, di abbracciare l’oggetto intorno a cui è condannata a girare, l’analisi moltiplica senza fine i punti di vista per completare una rappresentazione sempre incompleta; varia senza soste i simboli, per perfezionare una traduzione sempre imperfetta (...) Se esiste un mezzo per possedere una data realtà assolutamente, invece di conoscerla relativamente, per porsi in essa invece di assumere punti di vista su di essa, per averne l’intuizione invece di farne l’analisi, insomma per coglierla all’infuori di qualsiasi espressione, traduzione o rappresentazione simbolica, la metafisica è proprio questo. La metafisica è, dunque, la scienza che pretende di fare a meno dei simboli» (pp. 45-46). |35|

3. Il filosofo, scrive Schopenhauer nel bellissimo terzo paragrafo della Quadruplice radice del principio di ragione sufficiente (trad. it. di A. Vigorelli, Milano, Guerini, 1990) non può aver dubbi sulla parte che gli spetta rammentando la favola del topo di campagna e del topo di città che Orazio racconta nel libro secondo delle sue Satire. Certamente quella topo di campagna: anzitutto perchè «il poco, ma posseduto con sicurezza e certezza incontrovertibili, deve essere per noi meglio del molto, in gran parte costruito sulle belle parole, sulla capacità di imporsi e di affermarsi, il cui godimento può perciò venire turbato in un attimo da una critica imparziale e intrepida». Vi è dunque un intento rivolto alla costruzione solida, dalle giuste e meditate proporzioni, anche se priva di lussuosità magniloquenti; ma di questo intento non può far parte anche un’esposizione provvista della «massima intelligibilità possibile», «ottenuta mediante la precisa definizione del significato di ogni espressione, un requisito estremamente necessario per la filosofia, che ci assicura dell’errore e dall’inganno intenzionale e rende ogni conoscenza ottenuta nell’ambito della filosofia un possesso sicuro, e non tale da poterci essere di nuovo strappato da un equivoco o da un’ambiguità scoperti in seguito». Per questo «il filosofo cercherà sempre la limpidezza e la chiarezza, e si sforzerà di assomigliare non ad un torrente torbido e impetuoso, ma piuttosto ad un lago svizzero che, grazie alla sua calma, benché così profondo, ha grande trasparenza, ed è proprio questa a renderne visibile la profondità» (pp. 22-23). |36|

5. Evidenza

’essere degli enti deve essere ridotto al loro modo di apparire: questo è ciò che dice la teoria della riduzione fenomenologica. |37|

O anche, riprendendo e in realtà anche un poco modificando una formula estremamente concisa che si trova nelle Meditazioni cartesiane (V, §46): Tanto d’essere, quanto di apparire. |38|

Dobbiamo tuttavia essere in grado di cogliere l’enorme distanza che separa il senso in cui questa formula va intesa dell’esse est percipi di Berkeley, alla quale è letteralmente così vicina. Più precisamente: il principio di Berkeley intende cogliere l’essenza del mondo stesso, la «vera natura delle cose» e dunque non può essere separato dalla metafisica immaterialista così come dalla nuova dimostrazione dell’esistenza di Dio la cui necessità sta nella perennità di uno sguardo che mantiene in essere il mondo stesso. Ma non sfugge certo a Berkeley il profondo significato epistemologico di quel principio, come è attestato dalla sua Teoria della visione: una discussione critica di questo testo si presta in modo in particolare per un’introduzione alle tematiche fenomenologiche. Nella riformulazione fenomenologica dell’esse est percipi di Berkeley non si vuol dire assolutamente nulla sulla vera essenza del reale. Si tratta invece di un sorta di gesto filosofico, come se si stendesse il braccio per indicare un orizzonte di ricerche possibili il cui filo conduttore è rappresentato dall’idea di una caratterizzazione degli enti attraverso l’esibizione di differenze che riguardano i loro modi di manifestazione, piuttosto che attraverso formulazioni definitorie. |39|

Ad un’ontologia oggettiva deve subentrare un’ontologia soggettiva, ma questa non è altro che una onto-fenomenologia, ovvero un’ontologia fenomenologicamente fondata. |40|

Vi sono qui diversi aspetti particolarmente significativi in rapporto alla nozione di intuizione - se vogliamo ancora usare questo termine nonostante tutti gli equivoci di cui è portatore e che ne scoraggiano l’impiego. |41|

In primo luogo l’intuizione non è più una specie di sonda che peraltro dovrebbe essere applicata proprio a qualcosa che viene posto come insondabile in via di principio. |42|

Ma è soprattutto notevole il modo in cui viene qui effettuato il richiamo all’evidenza. A questo proposito è tutt’oggi necessario sottolineare - nonostante la molta acqua passata sotto i ponti del dogmatismo epistemologico di un tempo - che del tutto a torto ci si è talvolta lasciati intimorire dalle critiche così frequentemente rivolte da logici ed epistemologi allo stesso impiego della parola evidenza nel nome autorevole delle geometrie non euclidee o del metodo assiomatico, o di entrambi insieme. In quelle critiche infatti, che si astenevano di norma da qualsiasi analisi storica o concettuale, si assumeva implicitamente una nozione di evidenza psicologizzante - mentre l’evidenza fenomenologica di cui ora si parla non ha proprio più nulla a che vedere con quella sorta di impedimento psichico, di severo ammonimento interno di fronte alla contraddizione o al contrario di compiaciuto assenso interiore al quale così spesso ci si è appellati nella tradizione nel tentativo di giustificare l’immediatezza delle evidenze logiche. |43|

Inoltre è degno di nota che in questo contesto non svolga più alcuna funzione la concezione che fa dell’intuizione una speciale facoltà della mente con la quale si attinge un’altrettanto speciale forma di conoscenza, inaccessibile attraverso altre vie. |44|

Ma se non ci troviamo alla presenza di nessuna speciale facoltà della mente e così anche di nessuna forma speciale di conoscenza che essa possa attingere - di che si tratta dunque? |45|

Si tratta sopprattutto di fare riferimento - in rapporto ad un problema nel quale la matassa dei nostri pensieri si è imbrogliata o rischia di imbrogliarsi - ad una situazione esemplare che può essere colta dalle nostre capacità immaginative e percettive e che può dunque essere descritta e liberamente variata e nuovamente descritta; di attirare l’attenzione sulle relazioni e sui rapporti interni che la caratterizzano. |46|

Molte risposte più complesse e apparentemente più profonde rischiano sempre di lasciarsi sfuggire il punto essenziale, che sta proprio nel fatto che l’intuire e il mostrare a cui si richiama la fenomenologia consiste anzitutto in questo attirare l’attenzione, in questo mettere in rilievo qualcosa che potrebbe passare inosservato, in questo far notare. E tutto ciò può avvenire naturalmente soltanto se il «guardare» che qui si richiede non è una pura registrazione passiva di tutto ciò che c’è, ma un guardare indagante che cerca risposte a problemi e che ha quindi di mira degli scopi. |47|

ANNOTAZIONI

1. La frase citata delle Meditazioni cartesiane dice propriamente: «Soviel Schein, soviel (durch ihn nur verdecktes, verfälschtes) Sein...» - (Husserliana, I, Den Haag, 1950, p. 133) dove si sottolinea in parentesi che il principio enunciato, del quale si parla come «legge formale apodittica», non sopprime affatto la possibile copertura dell’essere da parte dell’apparire. Su questa frase si sofferma E. Paci in Tempo e verità nella fenomenologia di Husserl, Bari, Laterza, 1961, pp. 12 sgg. |48|

2. Sul significato di Berkeley per Husserl, cfr. E. Husserl, Storia critica delle idee, trad. it. di G. Piana, Milano, Guerini, 1989, lez. XXI, «La scoperta di Berkeley e il fraintendimento naturalistico del problema della costituzione del mondo reale» (pp. 163 sgg.). - Richiamandosi alla propria nozione di «fenomenologia sperimentale», P. Bozzi (Fenomenologia sperimentale, Bologna, Il Mulino, 1989) rammenta positivamente Berkeley: gli oggetti di cui si occupa la fenomenologia sperimentale «esistono come oggetti per la sperimentazione in quanto sono presenti e disponibili all’ispezione diretta (...), ossia, per seguire la terminologia corrente, in quanto sono percepiti. L’enunciato di Berkeley, esse est percipi, può essere una buona guida nella definizione del metodo fenomenologico. Questo esse est percipi, naturalmente, è di natura del tutto metodologica e non contiene neppure un’ombra del soggettivismo berkeleyano. L’esse est percipi metodologico insegna a guardare ai fatti con atteggiamento libero, svincolato da ogni forma di conoscenza precostituita, anche se fondatissima, e allena lo spirito di osservazione distraendolo dalle convinzioni del ’dover essere’» (p. 26). |49|

3. Una polemica vivacissima con l’impostazione «psicologistica» della tematica dell’evidenza, che può essere ricondotta all’idea che la differenza tra la condizione dell’evidenza e della non evidenza sia riconducibile alla presenza di una speciale sensazione interiore che sarebbe presente nel primo caso e mancherebbe nel secondo è contenuta nella lezione quarta dell’Idea della fenomenologia di Husserl. «I teorici empiristi della conoscenza, che tanto parlano del valore dell’indagine sull’origine e intanto rimangono così lontani dalle vere origini quanto i più accaniti razionalisti, vogliono farci credere che tutta la distinzione fra giudizi evidenti e non evidenti consista in un certo sentimento (Gefühl) per il quale si contraddistinguono i primi. Ma che cosa potrebbe rendere intelligibile un sentimento? Quale dovrebbe essere il suo compito? Dovrebbe forse gridarci: Alt! Qui è la verità? Ma in questo caso perchè dovremmo credergli? Questa credenza deve avere a sua volta un indice di sentimento (Gefühlsindex)? E perchè un giudizio che dice due per due fa cinque non ha mai questo indice di sentimento e perché non può averlo? Come si arriva propriamente a questa dottrina degli indici di sentimento?» (op. cit. p. 90) In questo contesto si ripresenta la distinzione tra livello intuitivo e livello simbolico che è presente anche in Bergson, e sarebbe sicuramente interessante rilevare analogie e differenze. Il passo precedente continua infatti in questo modo: «Ebbene, si dice: lo stesso giudizio, lo stesso logicamente parlando, ad es. il giudizio due per due fa quattro, può essermi una volta evidente ed un’altra no, lo stesso concetto del quattro può essermi dato una volta intuitivamente (intuitiv), con evidenza, ed un’altra in una rappresentazione meramente simbolica. Dal punto di vista del contenuto, ci sarebbe quindi da entrambe le parti lo stesso fenomeno, ma solo da una parte una prerogativa di valore, un carattere che conferisce valore, un sentimento privilegiante. Ma ho veramente da entrambe le parti la stessa cosa, tranne che una volta ho un sentimento annesso, l’altra volta no?... Se una volta vedo che due per due fa quattro, e un’altra volta lo dico in un giudicare vagamente simbolico, intendo una medesima cosa, ma intendere una medesima cosa non significa avere lo stesso fenomeno. Il contenuto è nei due casi distinto: una volta vedo, e nel vedere è dato lo stato di cose stesso; l’altra volta ho l’intendere simbolico. Una volta ho intuizione (Intuition), l’altra volta intenzione vuota... Prendiamo un esempio ancora più semplice: se una volta ho il colore rosso in una viva intuizione e un’altra volta penso al rosso in una vuota intenzione simbolica, forse che nei due casi è materialmente presente lo stesso fenomeno di rosso, ma una volta con un sentimento e l’altra volta senza sentimento?» (p.91). La vecchia protesta «alle cose stesse!» può ben risuonare di fronte a questa teoria degli indici di sentimento: «Ma si guardino da vicino i fenomeni stessi, invece di parlarne dall’alto e di abbandonarsi a costruzioni!» (p. 91). |50|

4. E’ il caso di porre il problema di una componente «intuizionista» anche in Wittgenstein? Certamente lo è - e da diversi punti di vista. Il riferimento dominante al linguaggio ha portato spesso l’attenzione degli interpreti in altre direzioni. Ma, almeno io credo, si può parlare già in rapporto al Tractatus logico-philosophicus di «intuizionismo linguistico» fornendo una precisa interpretazione della frase secondo la quale «alla domanda se per risolvere i problemi matematici l’intuizione serva, si deve rispondere nel senso che appunto il linguaggio fornisce qui l’intuizione necessaria» (prop. 6.2331). Qui il tema dell’intuizione viene anzitutto riportato a quello del semplice vedere, e la questione del simbolismo si ripresenta in forma nuova - non più dal punto di vista della mera rappresentazione ed eventualmente della pura intenzione vuota, ma come semplice segno (disegno), come cosa della percezione, che viene anzitutto visivamente colta. Il «mostrare» di cui si parla nel Tractatus non ha affatto solo il senso magniloquente, che tanto piace ai topi di città, del silenzio mistico, ma è collegato ad una filosofia del calcolo ed in generale dei linguaggi simbolici, così come in generale agli sviluppi successivi della ricerca di Wittgenstein, e in modo particolare proprio allo stile filosofico delle Ricerche filosofiche (trad. it. a cura di M. Trinchero, Torino, Einaudi, 1967) dove nel contesto di considerazioni metodiche particolarmente rilevanti per il senso dell’opera si legge, come una frustata, la frase: «Non pensare, ma guarda»: «Denk nicht, sondern schau!» (oss. 66) (In certo senso fa comprendere le difficoltà e la complessità del problema il fatto che mentre in precedenza ci lamentavamo degli eccessi del linguaggio del «guardare», ora dobbiamo esprimere il nostro rincrescimento per il fatto che nella traduzione italiana quell’imperioso «guardare» si converta nell’innocuo e riflessivo «osservare»). |51|

6. Richiami platonici

onendo le cose in questo modo, è difficile non ripensare al Menone platonico. |52|

Ripensiamo a Socrate che traccia un quadrato sul terreno e dice: |53|

«Dimmi ragazzo, riconosci in questo un quadrato?» |54|

Il ragazzo risponde: «Sì!» - e questo è naturalmente della massima importanza. La «dimostrazione» inizia esattamente in quella sillaba. E poi prosegue di passo in passo, anzi di figura in figura, giungendo infine alla costruzione finale che assume questa forma:

Il doppio del quadrato dato ABCD è il quadrato costruito sulla sua diagonale, come si trae dal modo della costruzione e da questo suo risultato conclusivo. |55|

Il modo poi in cui si sviluppano i discorsi e le azioni di Socrate può essere descritto proprio con le espressioni che noi stessi abbiamo impiegato. Socrate attira l’attenzione, Socrate fa notare questo e quest’altro, finchè la giusta relazione, il giusto rapporto viene finalmente colto. |56|

Ma nel ripensare a questo straordinario momento della storia del pensiero dell’Occidente, il momento che rappresenta forse l’autentico luogo d’origine della strenge Wissenschaft, occorre forse mettere un poco ai margini il motivo innatistico, che è sempre stato ad esso ricollegato, naturalmente in connessione con la tematica platonica della reminiscenza. |57|

Già in Platone infatti tutto il problema sembra essere ricondotto alla soggettività conoscitiva che riscopre dentro di sé evidenze dimenticate, evidenze che appartengono peraltro alla costituzione ideale del mondo oggettivo. |58|

Vorrei invece suggerire che forse potremmo anche attenerci, ed in certo senso arrestarci, al primo ed essenziale momento del racconto platonico, nel quale si dà per acquisito che la giusta relazione, il giusto rapporto è in ogni caso afferrabile direttamente, visivamente all’interno della figura, nel modo e nella maniera in cui sono connesse insieme le sue parti, anche se questo modo, questa maniera non cade affatto subito sotto gli occhi, ma ha bisogno di essere messa allo scoperto, deve essere fatta notare passo dopo passo. |59|

ANNOTAZIONE

C’è un punto in cui Schopenhauer, nel Mondo come volontà e rappresentazione, dovrebbe rammentare il Menone platonico, e proprio la dimostrazione socratica, e invece curiosamente la citazione manca. In luogo di essa ci viene messa sotto gli occhi la figura seguente:

In essa noi dovremmo scorgere con evidenza la relazione affermata nel teorema di Pitagora, almeno nel caso dei triangoli isoscele. Affinchè questa relazione salti veramente agli occhi è forse opportuno far ruotare il quadrato platonico di 45 gradi:

fig. 3

oppure disegnare anzitutto il triangolo rettangolo secondo la disposizione che ci è più familiare, costruendo poi i quadrati sui cateti. |60|

fig. 4

L’una figura è dunque contenuta nell’altra. Nel corso di una discussione nella quale Schopenhauer attacca il metodo assiomatico e dimostrativo euclideo con una fortissima tensione provocatoria, rilevando la profonda incomprensibilità e oscurità della dimostrazione più chiara, cogliendo l’occasione per dire che nella dimostrazione euclidea del «teorema di Pitagora» «vengono tirate delle linee senza che se ne sappia il perchè: più tardi ci accorgiamo che erano dei nodi scorsoi che si stringono all’improvviso per strappare l’assenso dello studioso: il quale, tutto compreso di meraviglia, è ora costretto ad ammettere una cosa la cui connessione intrinseca gli resta perfettamente incomprensibile» (trad. it. di A. Vigliani, Mondadori, Milano 1989, p. 108), la figura viene contrapposta duramente alla dimostrazione, per esaltare la sua capacità di mostrare l’esistenza di un rapporto assai complesso da dire, e con un balzo veramente geniale veniamo riportati indietro da Euclide a Platone, da un’elaborazione che ha ormai di mira una scienza deduttiva sistematicamente esposta alle tematiche che stanno alla sua origine. Naturalmente l’intuizionismo di Schopenhauer può essere citato anche come un pensiero che non era in grado nemmeno di sospettare di lontano quale partita teorica si giocasse nei tentativi di dimostrazione dell’« assioma delle parallele». Così egli scrive, nel Capitolo XIII dei Supplementi al primo volume del Mondo: «Il metodo dimostrativo di Euclide ha generato dal suo stesso grembo la più indovinata parodia e caricatura di sé, con la celebre disputa sulla teoria delle parallele e con i continui tentativi di dimostrare l’undicesimo assioma (...) Questo scrupolo di coscienza mi ricorda la questione di diritto posta da Schiller:’Da anni mi servo del naso per sentire gli odori: ma avrò davvero su di esso un diritto incontestabile?’» (op. cit. p. 901). |61|

7. Per un’analitica dei concetti bastardi

nche in rapporto al platonismo fenomenologico sono certamente possibili diverse inclinazioni interpretative, ed il modo or ora proposto di illustrare la ripresa all’interno dell«intuizionismo» fenomenologico dello spirito del platonismo individua una precisa linea di tendenza all’interno delle molteplici possibilità di intendere e sviluppare le tematiche fenomenologiche. |62|

La stessa espressione di "intuizione delle essenze" ha sempre fatto pensare soprattutto all’afferramento della pura idealità nel caso empirico, mettendo in secondo piano le operazioni tendenti a dare rilievo ai nessi strutturali interni della situazione esemplare che si dànno nella manifestazione; ed ha anche distolto l’attenzione dalla problematica della formazione e della genesi dei concetti a partire dall’esperienza fenomenologicamente riconsiderata. |63|

La linea di tendenza che abbiamo cercato di prospettare porterà invece l’accento sul problema fondamentale di una analisi che prenda le mosse non già dai concetti logicamente in ordine, in quanto essi sono già il risultato di operazioni razionalizzanti, ma da concetti prossimi all’esperienza e modellati su di essa. |64|

Vi è tutta una tradizione di pensiero che ha operato una svalutazione di questo problema fondamentale, come se questi concetti «intuitivi», questi concetti che mi piacerebbe chiamare - in realtà ancora con un ricordo platonico - concetti bastardi, fossero null’altro che formazioni vaghe e inarticolate, validi al più sotto l’aspetto pragmatico, per gli scopi delle pratiche quotidiane, ma privi di qualsiasi consistenza e di interesse teorico. |65|

Contro queste svalutazioni occorre invece rivendicare come un autentico compito filosofico una vera e propria analitica dei concetti bastardi, dimostrandone la possibilità e la portata. |66|

Una simile indicazione non deve in nessun modo essere interpretata cone un tentativo di limitare dal basso l’autonomia delle operazioni del «pensiero puro». Si tratta invece di dispiegare il ventaglio dei significati possibili e quindi dei problemi che sorgono all’interno di un processo di «formazione del concetto» che ha il suo inizio nelle forme della nostra costituzione primaria del mondo. All’interno di queste considerazioni deve allora ricevere il massimo risalto l’importanza delle operazioni di razionalizzazione così come deve essere chiaramente riconosciuta la funzione di superamento dell’esperienza che a queste operazioni spetta in via di principio. Ciò di cui si sente il bisogno, sotto questo profilo, non è affatto un generico rifiuto dei concetti «intuitivi», ma il poter misurare effettivamente le distanze rispetto ad essi, così come una chiara individuazione del senso e della direzione delle operazioni di razionalizzazione. Ciò può essere compiuto solo se si assume un punto di vista processuale, e non attraverso un salto che non sa nemmeno di avere un trampolino sotto i propri piedi. |67|

ANNOTAZIONE

Platone parla di «ragionamenti bastardi» nel Timeo, 52 b () a proposito della problematica della spazialità, ed a questa espressione faccio riferimento nel saggio intitolato «Riflessioni sul luogo» in La notte dei lampi, Milano, Guerini, 1988, p. 250. |68|

8. I dati e le regole

l problema di una chiarificazione genetica dei concetti si situa peraltro in un ambito tematico più ampio. |69|

La riduzione fenomenologica, lo abbiamo osservato poco fa, riconduce l’essere degli enti al loro modo di apparire, e ciò rappresenta soprattutto una formula per indicare l’apertura di una molteplicità di compiti descrittivi diretti alle formazioni di senso che si realizzano su questo terreno. All’assolvimento di questi compiti è naturalmente demandata la realizzazione di un’onto-fenomenologia come campo di indagine che giace all’interno del grande titolo di una filosofia dell’esperienza. |70|

Ma ora che prestiamo particolare attenzione alle questioni metodiche dobbiamo chiederci: in che modo deve essere concepita questa descrizione? Io credo intanto che si debba anzitutto escludere ciò che sembra implicito nello stesso impiego della parola. Quando si parla di descrizione sembra subito che si evochi una sorta di passiva registrazione di piccoli dettagli, quasi che alla fine del compito il risultato debba essere qualcosa di simile ad una lista o ad un elenco di oggetti e delle loro proprietà. Lo sbaglio qui non consiste tanto nel richiamo al dettaglio, all’osservazione minuta, che non è affatto disprezzabile, quanto l’idea di una raccolta di dettagli in funzione dell’esibizione di elenchi, e per di più di elenchi di oggetti. La situazione non migliorerebbe poi in modo significativo se in luogo di oggetti o di cose parlassimo di dati. Parole come dato o datità ricorrono spesso nel linguaggio fenomenologico, ed a maggior ragione dobbiamo mettere in guardia da un fraintendimento. Non solo ciò che interessa la descrizione fenomenologica non è il dato empirico nella sua accidentalità e nelle determinatezze del suo qui ed ora: questa è una circostanza ovunque ribadita. Bisogna invece precisare che ciò che viene ricercato, l’obbiettivo autentico della descrizione, non sono affatto in generale dati, ma regole, e precisamente quelle regole che determinano la manifestazione di questa o quella formazione percettiva, di questa o quella formazione oggettuale in generale. |71|

Si tratta di stabilire in che modo variando determinate condizioni della situazione percettiva, si modifichi anche il suo senso, e ciò fa tutt’uno con l’evidenziazione di nessi e rapporti funzionali, di modi di articolazione, di rapporti di determinazione reciproca. In questo senso mi sembra più importante parlare piuttosto che di dati, di regole fenomenologiche, e dunque di strutture, il cui afferramento rappresenta il vero obbiettivo della ricerca. |72|

La nozione della regola va infatti posta insieme con quella di struttura ed insieme contribuiscono a determinare più precisamente l’idea stessa di descrizione. Ciò va detto non solo in rapporto ai modi di apparire, ma anche agli aspetti noetici necessariamente correlativi, in rapporto dunque ai modi dell’intendere. In altre parole: anche nel campo dei vissuti vi sono nessi e articolazioni, e dunque anche in rapporto ad essi si impone l’esigenza di una descrizione che miri all’afferramento della struttura. |73|

ANNOTAZIONE

L’osservazione che P. Bozzi fa valere in rapporto alla nozione di «fenomenologia sperimentale» secondo la quale si tratta di vedere in «quell’innesto di caratteristiche osservabili» che è l’oggetto stesso «che cosa dipende da che cosa, che cosa varierà variando qualche cosa, che cosa resterà togliendo qualche cosa» vale in realtà anche per la «fenomenologia pura» (op. cit. p. 26). |74|

9. Geometria dell’esperienza

orrei concludere richiamando ancora una volta il Menone platonico e l’insegnamento fondamentale che di cui possiamo trarre per la delineazione di un’idea di fenomenologia che porti l’accento sul tema della struttura. Con il Menone platonico ci troviamo alle origini della geometria, e in queste origini possiamo cogliere un preciso punto di connessione tra intuizionee concetto, tra schema formale e visione intuitiva. |75|

Già in Euclide, nel quale peraltro sono ancora vivi i rapporti con i concetti modellati sull’esperienza, comincia con il prevalere un ordine di tipo nuovo, nel quale la chiarezza e la connessione concettuale debbono essere anzitutto ricercate sul piano linguistico, cioè sul piano delle forme proposizionali nelle quali le conoscenze geometriche trovano espresssione. Si tratta del passaggio ad una nozione essenzialmente nuova della dimostrazione, nella quale dimostrare non significa più semplicemente mettere davanti, far notare, attirare l’attenzione sulle relazioni interne tra gli oggetti. |76|

E’ appena il caso di rammentare che questo concetto della dimostrazione, e quindi l’idea della deduzione che Euclide pratica sistematicamente per la prima volta è ciò che ha sempre giustificato il carattere di modello della geometria per il razionalismo filosofico della tradizione. |77|

Ora, l’esemplarità della geometria può essere rivendicata anche in rapporto alla nozione di fenomenologia, purchè questo richiamo venga proposto ripensando alle origini della geometria nell’autentico spirito platonico, nel quale si impone soprattutto l’idea di regolarità generali direttamente afferrabili nelle configurazioni dei dati. |78|

Più precisamente: la metafora della fenomenologia come disciplina «geometrica» può essere considerata particolarmente espressiva non in rapporto ad una nozione qualunque di fenomenologia, ma in rapporto ad un’interpretazione del metodo fenomenologico come un metodo fenomenologico-strutturale. Essa traccia in certo senso una linea di demarcazione. Le diverse fenomenologie pretendono ovunque di proporsi come filosofie dell’esperienza. E potranno anche, con varie inflessioni e con diverse sfumature, rivendicare per sè una matrice intuizionistica. Non è facile invece trovare nelle varie direzioni in cui hanno preso forma le tematiche fenomenologiche la tesi fondamentale secondo la quale l’esperienza ha una struttura come una tesi che può essere esplicitata ed illustrata parlando di una «geometria dell’esperienza». |79|

Ed è infine interessante notare che una simile tesi fondamentale, intesa secondo l’angolatura proposta da quella metafora, non la si ritroverà certamente per motivi di principio, e in primo luogo per lo spostamento intervenuto nell’idea stessa dei compiti attribuiti alla filosofia, in tutti gli sviluppi fenomenologici in cui si sono sovrapposti o nei quali sono intessuti motivi e punti di vista di origine e di ispirazione esistenzialistica. Al contrario quella metafora può suggerire la fondatezza della critica dell’astrattezza della fenomenologia, a partire dalla quale del resto quei motivi e quei punti di vista avevano preso forma. |80|