Questo testo è stato pubblicato come Introduzione a E. Husserl, L'intero e la parte. Terza e Quarta ricerca logica,
Il Saggiatore, Milano 1977
Data di immissione in questo archivio: Agosto 2000
Su questo testo vedi anche in questo archivio Commenti e citazioni
Giovanni Piana, La tematica husserliana dell'intero e della parte (pp. 39 - Kb. 122)
Piana, Tematica husserliana dell'intero della parte , I
Giovanni Piana
La tematica husserliana dell’intero e della parte
Introduzione alla Terza ed alla Quarta Ricerca logica
I.
|
1.
La pubblicazione in volume separato della Terza e Quarta ricerca logica di Husserl sembra incontrare almeno due obiezioni di principio. In primo luogo: è possibile operare un simile isolamento rispetto al contesto complessivo dell’opera? Ed in secondo luogo: ci si può ripromettere da ciò qualche vantaggio al fine di un approccio alla tematica del primo Husserl?
A questi interrogativi io penso si possa dare senz’altro una risposta positiva.
La Terza ricerca logica, dedicata alla problematica dell’intero e della parte, nonostante la sua brevità e la specificità dell’argomento, rappresenta in realtà la chiave di volta dell’opera intera. Ciò vale anzitutto per gli aspetti propriamente attinenti alla tematica di filosofia della logica come è dimostrato dalla Quarta ricerca, che dipende strettamente dalla ricerca precedente; ma vale anche per gli aspetti filosofici e metodologici più generali che nella Terza ricerca vengono, sia pure sotto l’angolatura del problema proposto, messi direttamente in questione.
Proprio questa posizione centrale che assume la Terza ricerca, insieme, naturalmente, alla sua relativa autonomia tematica, potrebbe rendere addirittura consigliabile iniziare la lettura di un’opera tanto complessa e difficile da dominare pagina dopo pagina quali sono le Ricerche logiche proprio a partire di qui. Il consistente vantaggio che si ottiene procedendo in questo modo è un approccio diretto alla tematica del primo Husserl, al suo modo di impostare i problemi e di svilupparli, senza passare attraverso mediazioni superflue e rendendo concretamente possibile l’indicazione di più ampie prospettive di ricerca, secondo una linea interpretativa che tenda fin dall’inizio alla valorizzazione degli aspetti analitici così caratteristici (e, in fondo, così trascurati) dell’impostazione husserliana[1].
2.
Vogliamo esporre in breve il contenuto della Terza ricerca. Si noterà subito, ad una prima lettura, che una buona parte delle difficoltà che si incontrano in essa derivano dall’intenzione di mantenere la mira su obbiettivi diversi, benché tra loro connessi. Colpisce anzitutto la netta differenza di piani su cui si muovono i due capitoli di cui consta la ricerca, e che del resto si intersecano anche all’interno di ciascun capitolo. Il primo di essi è prevalentemente orientato nella direzione di un’illustrazione delle nozioni fondamentali di una teoria dell’intero e della parte in stretta aderenza ad un terreno intuitivo. Nel secondo, invece, si suggeriscono, senza peraltro effettive pretese sistematiche, i principi per un’elaborazione assiomatico-formale della teoria. Questa giustapposizione può in qualche punto apparire sconcertante, ed essere in effetti una sorta di denuncia indiretta di una problematica ancora imperfettamente formulata dal punto di vista del metodo.
Cominciamo intanto con l’attirare l’attenzione sull’uso delle parole «intero» (Ganz) e «parte» (Teil). Esse possono essere applicate alle cose che ci stanno intorno, a contenuti possibili di esperienza quali sono, ad esempio, un cavallo o la testa di un cavallo. Tuttavia esse non circoscrivono nessuna specie determinata di contenuti, mentre ciò accade per parole come «cavallo» o «testa di cavallo». Delle parole «intero» e «parte» possiamo fare un uso formale-vuoto: possiamo parlare di qualcosa (un oggetto) in generale che ha parti; ed allora anche di qualcosa in generale che non ha parti.
Strani enigmi filosofici sorgono se si confondono questi due piani di applicazione delle parole. E se in precedenza abbiamo alluso alla molteplicità di direzioni compresenti nella problematica svolta da Husserl, ad una giustapposizione e ad una intersezione di piani, non volevamo con ciò affermare che venga effettuata una simile confusione. Al contrario: la distinzione tra l’uno e l’altro livello, tra l’uso «concreto» e l’uso formale-vuoto, è sempre chiaramente presupposta.
Notiamo inoltre che, mentre potremmo dire, ad esempio, che la testa di un cavallo è una sua parte, forse esiteremmo a parlare di «parte» in rapporto al colore della sua pelle. Ciò concerne ovviamente soltanto l’uso linguistico corrente: e naturalmente nulla ci impedisce di applicare la parola in un’accezione più lata. Con ciò, tuttavia, non sembra sia senz’altro tolto di mezzo il problema di rendere conto, anche sul piano terminologico, della differenza in questione.
Potremmo allora decidere di parlare di parti indipendenti per riferirci alle parti nel senso in cui diciamo che è una parte la metà di un quadrato tagliato da una diagonale; e di parti non-indipendenti nel senso in cui diciamo che è una parte del quadrato il suo colore. Nello stesso senso, parleremo anche di pezzi o frazioni (Stück) e, rispettivamente, di momenti (Moment).
3.
Il primo capitolo della Terza ricerca è dedicato all’elaborazione della distinzione che è stata or ora così grezzamente introdotta. Per fornire su di essa qualche spiegazione, potremmo proporre di indicare come indipendenti quei contenuti che sono rappresentabili in se stessi, separatamente rispetto ad altri contenuti, mentre ciò non accade per i contenuti che chiamiamo non-indipendenti.
Possiamo forse rappresentare separatamente il colore e la superficie su cui è diffuso? Oppure la lunghezza di una linea e il suo spessore?
Invece, possiamo immaginare facilmente una testa di cavallo «in sé e per sé», e possiamo associare questo contenuto ad un altro contenuto indipendente qualsiasi - possiamo immaginare un uomo con la testa di cavallo o un cavallo con la testa di un uomo.
Tutto ciò sembra anche troppo semplice. Il fatto è che bisogna spiegare che cosa intendiamo quando parliamo di possibilità o impossibilità di rappresentare separatamente un contenuto. Questa stessa formulazione fa pensare ad una sorta di evidenza interiore. Se qualcuno dubitasse della distinzione e della sua applicazione ai casi particolari, dovremmo forse pregarlo di effettuare la prova della separazione nella rappresentazione? E in che altro può consistere questa prova se non in un richiamo all’esperienza interna, all’introspezione, con la tacita o esplicita convinzione che ognuno vedrà dentro di sé esattamente ciò che noi vediamo dentro di noi?
L’impegno di Husserl di fronte a questo problema sta tutto nel mantenere ben ferma questa distinzione liberandola nello stesso tempo da una giustificazione di ordine psicologico. L’antipsicologismo di Husserl, l’intransigente rifiuto nei confronti di qualunque ricorso introspettivo che contraddistingue la sua impostazione filosofica complessiva, appare esemplificato qui (nella discussione sviluppata nei § § 3-6) con particolare chiarezza. Con altrettanta chiarezza si presentano in questo contesto gli obbiettivi e le conseguenze di questo antipsicologismo.
Se vogliamo parlare di «rappresentazione separata» in rapporto alla distinzione tra parti indipendenti e non-indipendenti possiamo farlo, purché si intenda questa espressione come una formulazione che rinvia ad una caratteristica intrinseca dei contenuti come tali, e non ai modi in cui essi vengono concepiti. La distinzione in questione deve essere operata esclusivamente sul versante dell’oggetto. |15|
Se, dopo che questa distinzione è stata introdotta e illustrata richiamando, mediante esempi, la possibilità o l’impossibilità di una rappresentazione separata, qualcuno sostenesse di non riuscire assolutamente a rappresentarsi una testa di cavallo senza al tempo stesso rappresentarsi il cavallo intero - che cosa concluderemmo?
Ebbene, concluderemmo semplicemente che egli è fatto così. La posizione della distinzione non toglie a chicchessia il diritto di rappresentarsi separatamente il colore dalla superficie che esso ricopre. Così come non avremmo nulla da ridire se qualcuno sostenesse, sulla base della propria esperienza interiore, di riuscire a rappresentarsi simultaneamente le sei facce di un cubo.
Oppure, considerando il problema da un altro lato: possiamo senz’altro ammettere che, nel caso dei contenuti che chiamiamo indipendenti, una rappresentazione separata sia effettivamente impossibile da realizzare, sia nel senso per cui ogni rappresentazione è comunque connessa al flusso delle mie esperienze (§ 5); sia nel senso più forte secondo cui affermare che un certo contenuto visivo è una parte indipendente del campo visivo equivale all’incirca ad ammettere la «possibilità che il campo visivo si contragga al punto da abbracciare quest’unico contenuto» (§ 6), e si concederà che una simile possibilità presuppone una procedura idealizzante.
Perseguendo gli stessi obbiettivi, viene criticata (§ 6) la teoria secondo cui i contenuti non-indipendenti sarebbero quelli che possono essere rappresentati isolatamente solo mediante un’accentuazione osservativa ad essi diretta, attraverso una sorta di concentrazione dell’attenzione che si fissa sul contenuto, mantenendo non osservate le altre parti. Appare subito chiaro che una simile giustificazione della distinzione renderebbe tanto poco conto di essa da toglierla semplicemente di mezzo. Infatti si potrà obiettare che qualunque contenuto osservato richiede un qualche grado di attenzione - quindi una figura non meno del suo contorno; o, alternativamente, che non si comprende che cosa potrebbe voler mai dire osservare attentamente il contorno di una figura mantenendo inosservata la figura stessa (di cui il contorno è appunto un «momento»).
4.
Nel quadro della chiarificazione della portata che vogliamo attribuire alla distinzione tra parti indipendenti e non-indipendenti, si presenta un’interessante digressione intorno ad un’altra distinzione che può essere facilmente confusa con la precedente (§§ 8-9).
Abbiamo parlato di «rappresentazione separata». Consideriamo ora un complesso di dati percettivi, un complesso di punti, ad esempio. Fra essi, ve ne è uno che si contraddistingue da tutti gli altri per via di una sua peculiarità (ad es., esso è rosso, mentre tutti gli altri sono gialli).
Potremmo dire: questo punto, questo contenuto percettivo riceve risalto all’interno del contesto complessivo, viene isolato da tutto il resto, almeno per ciò che concerne l’aspetto cromatico.
Non sarebbe allora lecito parlare, anche in questo caso, di una «rappresentazione separata», quindi, in rapporto a questa parte della configurazione complessiva, di parte indipendente?
Sarebbe lecito, certamente: ma anche alquanto inopportuno, perché abbiamo già fissato un’accezione interamente diversa per il termine di «parte indipendente».
Parleremo piuttosto, in casi come questi, di contenuti distinti, di contenuti che, all’interno di un contesto, sono posti in risalto. |25|
Per chiarire la differenza in questione ed i nuovi problemi che essa propone, sarà opportuno variare l’esempio. In generale, possiamo suddividere una superficie in parti indipendenti, in frazioni.
Nella misura in cui una superficie appare effettivamente suddivisa in frazioni, queste saranno ovviamente anche distinte. Tuttavia, l’indipendenza delle frazioni non è affatto la stessa cosa che la loro distinzione. Se parliamo di una superficie uniformemente colorata, ciò equivale a dire che nessuna sua parte è, cromaticamente, posta in risalto. L’omogeneità qualitativa può essere concepita perciò come un caso limite di indistinzione delle parti - e precisamente delle parti indipendenti. Le parti trapassano senza «lacune», senza «intervalli», in modo continuo, l’una nell’altra.
Alla distinzione dei contenuti contrapponiamo perciò la loro fusione. Condizione per il verificarsi della prima è l’istituirsi di una discontinuità, la quale presuppone a sua volta che «momenti di specie differenti» siano «contiguamente diffusi su un momento - quello spaziale o temporale - che varia in modo continuo». La semplice differenza qualitativa, il sussistere di un «intervallo» qualitativo può non essere una condizione sufficiente per la distinzione, come mostra l’esempio di un accordo consonante, nel quale ogni suono è qualitativamente diverso da ogni altro e tuttavia forma con essi una unità di fusione.
L’indipendenza delle parti ha dunque, in questo caso, un senso completamente diverso dal precedente. «Se pensiamo ai contenuti indipendenti nel senso precedente - contenuti che sono ciò che sono, qualunque cosa accada nel loro ambito circostante - essi non avranno bisogno di possedere l’indipendenza, di genere del tutto diverso, della distinzione»[2].
Nel caso della distinzione ciò che importa è la relazione ad un contesto. Una macchia si distingue e prende risalto rispetto allo sfondo nella misura in cui si differenzia qualitativamente da esso: si istituisce così un «intervallo», si individua un contorno secondo gradi di maggiore o minore nitidezza. Si presuppone qui la possibilità di un trapasso continuo «da una parte spaziale ad un’altra parte spaziale»: tuttavia, nel caso, ad esempio, della variazione del colore, in questo trapasso continuo «noi non passiamo in modo continuo anche alla qualità ricoprente, ma almeno in un luogo dello spazio, le qualità "contigue" hanno un intervallo finito (e non troppo piccolo)»[3]. Tutto ciò va inteso - sottolinea espressamente Husserl - «nel senso empiricamente vago in cui nella vita comune si parla, ad esempio, di punti e di spigoli aguzzi, contrapponendoli a quelli smussati o addirittura arrotondati»[4]. La continuità e la discontinuità non vanno assunte «secondo l’esattezza matematica». Tuttavia vi è una nozione di continuità e di discontinuità che viene attinta direttamente ai fatti percettivi e che pone problemi descrittivi ben determinati.
Lo scopo di questa digressione è duplice: si tratta anzitutto di evitare un ulteriore equivoco per ciò che concerne la nozione di parte indipendente e non-indipendente. La problematica ad essa inerente non deve essere fraintesa con quella della distinzione e della fusione che si situa su un piano interamente diverso. Tuttavia, viene anche implicitamente suggerito che l’eventuale elaborazione di questa problematica non richiederebbe, nemmeno in questo caso, analisi introspettive: in essa non verrebbero in questione i modi soggettivo-individuali di «vivere» certi contenuti esperienziali, ma determinate possibilità tipiche di rapporti tra contenuti come tali. La stessa elementare istituzione della differenza descrittiva tra contenuti fusi e contenuti distinti si propone già nell’ambito di una «fenomenologia della percezione», accennando così, subordinatamente agli scopi di chiarificazione più direttamente attinenti al nostro tema principale, ad una problematica più generale[5].
5.
Possiamo ora fare un passo ulteriore che rappresenta il punto di arrivo del primo capitolo della Terza ricerca e nello stesso tempo un’acquisizione fondamentale dell’intero discorso logico e filosofico di Husserl.
Nell’introduzione della distinzione tra parti indipendenti e non-indipendenti, ciò che viene in questione è, come abbiamo spiegato, la «natura» dei contenuti. Che il colore sia una parte non-indipendente significa, per dirla con Husserl, che esso «è predestinato ad essere parte, infatti un colore può esistere puramente in quanto tale ed in generale soltanto come momento di un oggetto colorato»[6].
La problematica della non-indipendenza ci conduce così sul terreno delle connessioni necessarie tra i contenuti dell’esperienza possibile. Queste connessioni necessarie possono essere formulate in proposizioni che meritano il titolo di leggi. E non vi è dubbio che, facendo riferimento alla distinzione classica tra a priori ed a posteriori, dovremmo classificare queste leggi tra le leggi a priori.
A questo punto una domanda si impone come ovvia: nella tradizione empiristica sino ai nostri giorni, a parte i casi in cui si è addirittura giunti a negare il sussistere di leggi a priori in genere, si nega comunque quella terza possibilità che Kant aveva caratterizzato con l’espressione di sintetico a priori. Di questa negazione l’empirismo moderno si è fatto una bandiera.
Come stanno ora le cose con le leggi di cui potremmo parlare nell’ambito della problematica della non-indipendenza? Affermare che esse sono a priori significa affermare anche la loro analiticità? Oppure dobbiamo in qualche modo tener conto della posizione trascendentalistica, nella quale l’ambito dell’a priori giunge ad abbracciare tipi peculiari di proposizioni sintetiche?
Per chiarire questo punto in breve sarà sufficiente dare il massimo risalto al fatto che in Kant la nozione di proposizione sintetica a priori è definita negativamente rispetto a quella di proposizione analitica. Una volta, cioè, fissata la nozione di proposizione analitica, il cui carattere di necessità e di apriorità sembra risultare ovvio, constatiamo che vi sono proposizioni necessarie e non analitiche: perciò queste proposizioni verranno denominate proposizioni sintetiche a priori. È chiaro allora che, se vi è qualcosa che non va in quest’ultima nozione, converrà cercare la ragione dell’errore nella concezione kantiana di proposizione analitica.
Nell’affrontare questo nodo critico, l’empirismo moderno non si è affatto reso conto di questo punto: la concezione di analiticità in Kant viene riconosciuta sostanzialmente corretta, purché sia liberata dai residui psicologistici che sono ancora in essa inerenti e sia riformulata esplicitamente in termini «linguistici». Le proposizioni sintetiche a priori saranno quindi soppresse come costruzioni fittizie di cui si può senz’altro fare a meno.
Al contrario, in Husserl, per una critica della classificazione kantiana ci si deve impegnare anzitutto in una nuova definizione di analiticità.
Stando alla nuova definizione proposta da Husserl (§ 12), non risulta più possibile classificare come analitica la proposizione «ogni corpo è esteso», che è invece l’esempio tipico di analiticità in Kant. D’altra parte non vi è dubbio che quella proposizione non dà espressione ad alcuna generalizzazione induttiva, ma ad una relazione necessaria tra contenuti dell’esperienza possibile, e precisamente ad un rapporto di non-indipendenza.
Una volta chiarito questo punto, una volta chiarito cioè che anche secondo Husserl non vi sono proposizioni sintetiche a priori nel senso di Kant, avremo a che fare unicamente con scelte più o meno opportune dal punto di vista terminologico. La sostanza del problema sta infatti nel riconoscimento, eluso sia dall’empirismo che dal trascendentalismo, del sussistere di una problematica specifica attinente ad un ambito che possiamo circoscrivere con il termine di a priori materiale [7].
6.
Il tentativo di indicare le linee di sviluppo di una teoria dell’intero e della parte come teoria assiomatico-formale viene effettuato nel secondo capitolo della Terza ricerca. In esso si insiste sul «grande interesse scientifico assunto in ogni campo dalla costituzione di una teorizzazione deduttiva»[8]; e si sottolinea che «il progresso che conduce dalle teorie e dalle costruzioni concettuali vaghe alle teorie ed alle costruzioni concettuali matematicamente esatte è qui, come sempre, la condizione preliminare di una piena comprensione dei nessi a priori ed un’istanza irrinunciabile della scienza»[9].
In questo contesto si propongono le linee per un’elaborazione della teoria, ed il primo paragrafo del secondo capitolo (§ 14) comincia addirittura con la presentazione, sia pure a titolo puramente indicativo, di alcuni principi fondamentali che dovrebbero presiedere ad essa. Ciononostante non si può dire che l’esposizione si raccomandi per il suo ordine e la sua chiarezza. Al contrario: proprio questo capitolo presenta notevoli difficoltà di lettura, di cui il lettore ha normalmente la minore responsabilità.
Per tentare una chiarificazione del materiale e mettere in evidenza le idee principali e le distinzioni più significative converrà anzitutto sottolineare che il passaggio al terreno formale è già contrassegnato dal fatto che la nozione di intero qui in gioco viene istituita definitoriamente sulla base della relazione di non-indipendenza, che riceve ora la denominazione di relazione di fondazione. Quest’ultima sarà da intendere come relazione primitiva e il termine di fondazione, dunque, come un termine non definito. Nella «definizione» proposta (§ 14), non si fa altro che introdurre il termine di fondazione rinviando alla nozione di non-indipendenza, della quale si dovrà comunque rendere conto attraverso elucidazioni «informali». Che Husserl intenda la nozione di fondazione come nozione primitiva non definita nel senso in cui abbiamo bisogno di simili nozioni in una qualunque teoria assiomatico-formale diventa infine chiaro nel § 21 dove si dichiara che la nozione di intero fino a quel punto presupposta può, e in realtà deve, essere introdotta «per mezzo del concetto di fondazione»[10].
Procediamo dunque con ordine - precisamente secondo questo ordine, che non corrisponde alla lettera del testo, ma che tenta, nella misura del possibile, una riesposizione che ne faciliti la lettura e richiami l’attenzione sui punti più notevoli.
Avendo presupposto la nozione di fondazione come una forma di relazione possibile tra oggetti, potremo senz’altro proporre la distinzione tra oggetti tra cui sussiste una relazione di fondazione e oggetti tra cui tale relazione non sussiste.
Considerando due oggetti qualunque tra cui sussiste una relazione di fondazione, distingueremo ancora tra l’oggetto fondante e l’oggetto fondato e parleremo di fondazione unilaterale e di fondazione bilaterale (o reciproca) in un’ovvia accezione dei termini.
Sempre in linea di principio, cioè considerando le possibilità a priori dei rapporti di fondazione, si distinguerà tra oggetti che si trovano in un rapporto di fondazione immediato o mediato - diremo, ad esempio, che un oggetto A è mediatamente fondato in un oggetto C, se A è fondato in B e B è fondato in C (§ 16).
Benché nell’introdurre queste distinzioni, Husserl si serva già dei termini di intero e parte, per le ragioni esposte suggeriremmo di fare a meno di essi sino a questo punto e di passare senz’altro (in conformità alla procedura indicata nel § 21) all’introduzione della nozione di fondazione unitaria.
Diciamo dunque che un aggregato di oggetti (contenuti) è abbracciato da una fondazione unitaria se, dato un qualunque oggetto (contenuto) appartenente all’aggregato sussiste tra quell’oggetto ed ogni altro oggetto appartenente all’aggregato un rapporto di fondazione (mediato o immediato).
Si dice infine intero in senso pregnante o intero-di-fondazione o brevemente intero un aggregato di oggetti abbracciato da una fondazione unitaria; e gli oggetti appartenenti ad esso si diranno parti dell’intero.
Distingueremo infine due specie notevoli di intero secondo il modo di connessione delle parti.
Chiameremo intero di prima specie l’intero le cui parti sono connesse le une alle altre senza forme di collegamento. Le parti di un intero di prima specie si chiameranno momenti (parti non-indipendenti).
Con intero di seconda specie intendiamo un intero le cui parti sono connesse le une alle altre mediante forme di collegamento. Le parti degli interi di seconda specie si chiameranno pezzi o frazioni (parti indipendenti).
Notiamo infine che lo stesso intero può essere, in rapporto a certe parti, un intero di prima specie, in rapporto ad altre un intero di seconda specie. In breve: un intero può constare di momenti e di frazioni.
7.
Ciò che richiede subito qualche spiegazione è, ovviamente, la nozione di forma di collegamento a cui abbiamo fatto ricorso or ora senza preparazione alcuna. Per illustrare questa nozione vogliamo ritornare nell’ambito delle considerazioni fenomenologiche. Facciamo perciò riferimento anzitutto agli interi percettivi, quindi all’esperienza percettiva di totalità che possono essere altrettanto bene esemplificate da una fila di alberi, quanto da una costellazione di punti o da una successione di suoni.
Sappiamo già che gli alberi che appartengono alla fila, i punti della costellazione o i suoni della successione sono da caratterizzare come parti indipendenti. Si pone allora senz’altro il problema di rispondere alla domanda che chiede che cosa appartenga al «contenuto effettivo» dell’esperienza percettiva di queste totalità: ed in particolare se a questo contenuto appartiene il rapporto che istituisce tra questi «pezzi» l’unità percettiva complessiva. Se vi appartiene, allora nella percezione di due suoni A e B che si susseguono dovremo distinguere tre componenti: il suono A, il suono B e la loro forma di collegamento, cioè la contiguità temporale. Peraltro, parlando della contiguità temporale come forma di collegamento riduciamo il problema al suo livello minimo: è chiaro infatti che, nella misura in cui si tratta di suoni qualitativamente ben determinati, tra essi intercorreranno in ogni caso relazioni di altra specie, fondate in questa determinatezza qualitativa.
Che nel contenuto percettivo in questione si possano indicare tre componenti è ciò appunto che pensa Husserl, ma con una precisazione importante. Le connessioni di vario genere che sorgono tra le parti sono effettivamente percepite nella percezione delle parti stesse; tali connessioni sono poste nella misura in cui sono posti quei contenuti, esse sono non-indipendenti rispetto ad essi.
Potremmo dunque parlare dei collegamenti tra le parti indipendenti come forme sensibili di unità ovvero come momenti di unità (§ 22).
La posizione di un momento di unità a titolo di «componente» del contenuto percettivo non deve dunque trarre in inganno: tanto più che Husserl si serve talora dell’espressione, indubbiamente equivoca, di «nuovo contenuto». Risulta chiaro, infatti, che ciò che si intende sostenere non è affatto la produzione di un nuovo contenuto che dovrebbe istituire il collegamento tra le parti come se si trattasse di una terza parte della stessa specie dei contenuti collegati. Ci si deve piuttosto orientare sull’espressione di forma sensibile di unità: nella percezione di due suoni che si susseguono, non viene percepito soltanto il suono A ed il suono B, ma anche il fatto che B segue ad A (così il fatto che A ha lo stesso timbro di B; oppure che A è più intenso di B, ecc.).
Di qui la significativa polemica contro l’uso dell’espressione «essere l’uno accanto all’altro» per indicare l’assenza di nessi: questa immagine è inadeguata «anzitutto perché pretende di illustrare la mancanza di forma sensibile con un esempio di forma sensibile». Se parliamo di due cose che si trovano l’una accanto all’altra presupponiamo «evidentemente contenuti relativamente indipendenti che, per il solo fatto di essere indipendenti, sono già in grado di fondare questa forma sensibile dell’essere l’uno accanto all’altro»[11].
Non è difficile ora rendersi conto che il sussistere di forme di collegamento, o come ora diciamo, di momenti di unità può essere richiamato per contraddistinguere definitoriamente le frazioni dai momenti. Infatti, se due parti sono unificate mediante momenti di unità, esse saranno necessariamente parti indipendenti. Ed inversamente la «compenetrazione» che caratterizza il rapporto tra parti non-indipendenti (se è lecito parlare di «compenetrazione»per indicare, ad esempio, il rapporto tra il colore e la superficie che esso ricopre) esclude che essi fondino un momento di unità.
Con ciò sembra si delinei una via per differenziare frazioni e momenti secondo gli intenti sistematici precedentemente indicati che richiedono la formulazione di queste distinzioni in modo tale che esse non risultino in alcun modo vincolate alla tematica degli interi percettivi.
La portata del problema or ora discusso dal punto di vista logico viene indirettamente illustrata dal modo in cui siamo in grado di venire a capo di un vecchio paradosso che costruisce sul collegamento delle parti una sorta di regresso all’infinito.
Se parliamo delle parti A e B e del loro collegamento C, allora si porrà il problema di un collegamento C1 tra A e C e di un collegamento C2 tra B e C: sic in infinitum. Ma questo argomento sorge palesemente dall’errore di considerare il collegamento tra «pezzi» come se fosse esso stesso un «pezzo». Un momento di unità non ha evidentemente bisogno di essere collegato con le parti che esso collega (§ 22).
8.
L’introduzione della nozione di intero sulla base della relazione di fondazione ha anche lo scopo di determinare in quale accezione vogliamo far uso di questa parola. In se stessa, essa è infatti tanto vaga quanto lo sono in genere le parole che esprimono concetti formali - ed in questa vaghezza essa potrebbe essere usata indifferentemente in luogo di «aggregato», «complesso», «insieme», ecc. Nella tradizione filosofica, inoltre, il termine di «intero» viene spesso usato secondo un’accentuazione che rinvia al problema se sia da porre in generale una distinzione tra enti le cui parti si troverebbero in un’unità che meriterebbe di essere chiamata «organica» ed enti le cui parti si troverebbero in un’unità che non meriterebbe affatto di essere chiamata così. Un muro, potremmo dire, è una unità composta di mattoni, ma in tutt’altro modo dobbiamo concepire l’unità tra un albero e le sue parti. Talora si usa anche contrapporre al termine «intero» (sottintendendo la sua «organicità») all’espressione di «mera somma» (volendo indicare un complesso analizzabile nelle sue parti nello stesso modo in cui un muro potrebbe essere materialmente scomposto nei mattoni di cui è costituito).
In quest’ultima distinzione vi è indubbiamente almeno un aspetto che sembra implicare decisioni sull’essere delle cose e che quindi rinviano ad un terreno che forse sarebbe il caso di chiamare «metafisico». Ciò non toglie, evidentemente, che di quegli esempi si possa fare un uso non impegnativo conferendo ad essi la portata di puri e semplici riferimenti analogico-illustrativi. Ma anche tenendo conto di ciò, la nostra tematica si muove su una diversa direttrice.
In effetti, la nozione di intero determinata sulla base della relazione di fondazione traccia una discriminazione, e precisamente tra complessi di oggetti che sono interi (nell’accezione fissata) e complessi che non lo sono. Poiché potremmo essere tentati, in rapporto a questi ultimi, di parlare di «mere somme», è allora necessario precisare in che senso potrebbe essere usata in questo contesto una simile espressione. Si tratta, in breve, di rispondere con chiarezza alla domanda: rispetto a che cosa la nozione di intero proposta traccia una netta linea di demarcazione?
La nostra nozione di intero si riferisce, attraverso la relazione di fondazione, ad una determinata possibilità di «essere insieme» di oggetti in genere. Per questo non sarà detto intero, nella nostra accezione, un complesso qualunque di oggetti. Complessi di oggetti che non sono interi saranno banalmente caratterizzati in modo negativo dal fatto che essi non sono abbracciati da una fondazione unitaria. Se decidiamo di riservare il termine di «insieme» a questi ultimi, allora distingueremo gli interi dagli insiemi, restando inteso che il nome viene, per così dire, dopo il concetto: la scelta terminologica può essere irrilevante, non invece la distinzione tra i termini.
All’argomento è dedicato un accenno molto breve (§ 23) che è tuttavia sufficiente per indicare l’orientamento complessivo secondo cui la discussione potrebbe essere affrontata.
In esso si contrappone al termine di intero (Ganz) il termine di aggregato o insieme (Inbegriff), e si osserva che quest’ultimo «esprime un’unità "categoriale" corrispondente alla mera "forma" del pensiero, esso indica il correlato di una certa unità dell’intentio che si riferisce a tutti gli oggetti eventuali» [12]L’intonazione psicologistica di questa caratterizzazione è solo apparente e può essere facilmente rimossa attraverso una breve illustrazione del suo senso.
In primo luogo: si parla qui di «unità categoriale, corrispondente alla mera forma del pensiero», e con ciò si opera una contrapposizione rispetto alle forme di unità che si istituiscono sul piano della sensibilità. Ogni formazione unitaria dell’esperienza è debitrice della propria unità alla determinatezza dei contenuti. Così, in generale, sul piano della sensibilità, avremo sempre a che fare con interi nel senso degli interi di fondazione.
Nell’ambito di una considerazione formale, la relazione di fondazione si presenta come una possibilità relazionale che può sussistere a priori tra oggetti in generale: nessuna determinatezza contenutistica viene perciò messa in gioco. Resta tuttavia il fatto che «un intero in senso pieno e proprio è un nesso determinato dai generi inferiori delle "parti". Ad ogni unità intrinseca inerisce una legge»[13]. Come già sappiamo tali leggi saranno «leggi essenziali materiali». La loro determinazione tuttavia non rientra tra i compiti di una teoria degli interi. O, in altri termini: un conto sono le indagini fenomenologiche che si muovono nell’ambito dell’a priori materiale ed un altro è l’elaborazione di una teoria dell’intero nel senso dell’intero di fondazione. Il rinvio a determinazioni contenutistiche che la nozione di fondazione comporta non esige certo uno scambio di compiti così diversi e neppure esclude la possibilità di una teoria dell’intero che si sviluppi all’interno di una considerazione puramente formale (§ 23).
Precisato questo punto, resta ancora aperta la possibilità di una nozione categoriale di unità, cioè una nozione di unità che sia interamente libera da vincoli contenutistici, dal riferimento ai contenuti di un’esperienza possibile. La stessa cosa si può esprimere dicendo, sia pure con una certa equivocità, che l’unità non sorge in questo caso dalle cose stesse, ma dal fatto che gli oggetti sono appunto semplicemente «pensati insieme»; essa è il correlato di una «intenzione» unitaria. Cosicché viene a cadere il problema della non-indipendenza e le distinzioni di principio effettuate sulla sua base.
Alla nozione di intero contrapponiamo la nozione di insieme, ed eventualmente a quest’ultima potremo riferirci con l’espressione di «mera somma» - per quanto possa essere considerata inopportuna. Essa dovrebbe soltanto suggerire l’idea che gli oggetti che intervengono nel complesso non sottostanno ad alcuna unificazione intrinseca, che essi si trovano in linea di principio in rapporti di estrinsecità reciproca per il semplice fatto che sono considerati prescindendo da ogni determinazione contenutistica. Sarebbe privo di senso postulare «momenti di unità» che operino la connessione. È sufficiente che siano pensati insieme - e ciò significa, in fin dei conti, soltanto: è sufficiente che tra il nome di un elemento di un insieme e il nome dell’altro compaia la paroletta «e», o almeno una virgola. Qualora l’unificazione rinvii anche ad una determinazione attributiva comune, il problema non muterebbe nella sostanza, poiché attraverso di essa gli oggetti sono in ogni caso soltanto «pensati insieme» e non anche «intuitivamente dati».
9.
Nella nostra esposizione della tematica relativa al secondo capitolo della Terza ricerca abbiamo tentato una ricostruzione con l’intento di mettere in evidenza l’impostazione di carattere generale, discostandoci dallo sviluppo letterale del testo. In particolare, non abbiamo dato rilievo alla presentazione dei teoremi con cui si apre il capitolo (§14). In effetti essi non solo non possono essere considerati come una sorta di effettivo inizio della teoria, ma non fanno altro che accennare al fatto che, una volta che si disponga del necessario apparato di assiomi e di definizioni e di un simbolismo adeguato, si sarà in grado di elaborare una teoria in piena generalità formale, mettendo in opera procedure puramente dimostrative. Io penso tuttavia che questo aspetto, piuttosto che dalla esibizione, non adeguatamente preparata dal punto di vista metodico, di esempi di teoremi, possa essere meglio illustrato dalla discussione dei «rapporti più notevoli tra le parti», e quindi anzitutto della problematica della «mediatezza» delle parti rispetto all’intero (§§ 18-19) e delle parti tra loro (§ 20).
In generale una parte potrà essere parte di una parte dell’intero, ed in tal caso si dice parte mediata dell’intero. Si dice invece parte immediata una parte che non è una parte mediata dell’intero.
Questa distinzione può essere formulata come una distinzione assoluta, intendendosi con parti assolutamente mediate «quelle parti in rapporto a cui nell’intero vi sono parti nelle quali esse risiedono come parti»; e con parti assolutamente immediate «quelle parti che non possono valere come parti di alcuna parte del medesimo intero».
L’iterabilità di principio del rapporto di mediatezza consente l’introduzione di differenze di grado, consente cioè, per usare la terminologia di Husserl, di parlare di maggiore o minore «vicinanza» (o «lontananza») delle parti rispetto all’intero.
È chiaro che l’introduzione di queste distinzioni elementari e la loro eventuale elaborazione non hanno bisogno di alcun sostegno intuitivo, avendo a che fare puramente con il concetto di parte come tale. L’esposizione di Husserl mira in effetti ad acquisire questa «purezza», avvalendosi tuttavia di continui rimandi all’esemplificazione concreta, che debbono fungere come fili conduttori per l’impostazione preliminare dei problemi.
Possiamo così attirare l’attenzione su esempi in cui si mostra come la distinzione tra immediatezza e mediatezza possa essere meramente relativa alla successione accidentale e arbitraria dei passi del processo di partizione dell’intero. Un segmento può essere suddiviso in sottosegmenti, ed ognuno di essi potrà essere inteso - secondo l’ordine arbitrario della partizione - come una parte immediata o una parte mediata, cioè come un sottosegmento dell’intero oppure come un sottosegmento di un sottosegmento dell’intero. In casi di questo genere, la distinzione in questione è irrilevante nel senso che tutti i sottosegmenti possono essere considerati come «equidistanti» rispetto all’intero. Le differenze concernenti la mediatezza dipendono dall’ordine della partizione e quest’ultimo è «privo di un fondamento oggettivo». Si noterà che, in questi esempi, le parti in questione sono precisamente frazioni e che queste sono «per loro essenza, del medesimo genere inferiore che viene determinato dall’intero indiviso»[14].
A partire di qui viene identificata una possibilità a priori nella forma del riferimento delle parti rispetto all’intero: a tale possibilità si richiama il principio secondo cui «frazioni di frazioni dell’intero sono a loro volta frazioni dell’intero» - principio che è peraltro passibile di dimostrazione formale[15].
Il problema di un fondamento oggettivo nell’ordine della partizione diventa particolarmente chiaro se consideriamo le differenze tra momenti e frazioni, tenendo conto del fatto che in generale possono darsi frazioni di momenti e momenti di frazioni.
Esemplificativamente: i suoni sono parti della melodia. E l’intensità di un suono sarà oggettivamente parte di una parte della melodia. All’intensità del suono, come momento di una frazione della melodia, attribuiremo dunque; una mediatezza non accidentale, ma essenziale; il momento della frazione è «più lontano» dall’intero di quanto lo sia la frazione stessa, con la precisazione piuttosto ovvia che con ciò non ci si riferisce «ad un privilegiamento arbitrario, oppure addirittura ad una costrizione psicologica di un certo processo di partizione, secondo cui ci imbatteremmo prima nel suono ed in un secondo tempo nei suoi momenti qualitativi, ma in se stesso, nell’intero della melodia, il suono è la parte precedente e la sua qualità la parte mediata, successiva»[16].
Analogamente: una superficie può essere suddivisa in parti, e precisamente in frazioni. Come esempio di momento di una frazione si potrà indicare il colore di una di esse. Come nel caso precedente, a tale momento spetterà oggettivamente il carattere di parte mediata. Se consideriamo il grado di chiarezza del colore come momento del colore, otteniamo un ulteriore esempio di parte essenzialmente mediata, secondo un rapporto di mediatezza crescente. La frazione potrà essere considerata come parte primaria dell’intero, il suo colore come parte primaria di una parte primaria, cioè come parte secondaria, il grado di chiarezza come parte terziaria, ecc.
Con ciò illustriamo la differenza tra parti più vicine e più lontane dall’intero «sul piano puramente descrittivo, ricorrendo ad esempi»; ma questa differenza può comunque «essere ridotta alla mera forma di rapporti di fondazione ed essere in questo modo formalizzata»[17]. La sussistenza o l’insussistenza di una «gerarchia» nell’ordine della mediatezza può essere presentata, in modo interamente libero da esempi, come una differenza nella forma del riferimento delle parti rispetto all’intero.
Che in generale il momento di una frazione sia una parte essenzialmente mediata dell’intero, può essere fatto valere come un principio derivabile dalla differenza formale tra «momenti che possono soddisfare il bisogno di integrazione solo nell’intero completo oppure già nelle sue frazioni»[18]. In quest’ultimo caso, la mediatezza «non è più extra-essenziale, come quella delle frazioni di secondo grado nella suddivisione di un segmento, ma è una mediatezza essenziale che va caratterizzata attraverso la natura formale del rapporto»[19].
Una problematica analoga può essere proposta considerando i rapporti delle parti tra loro (§ 20). Anche in questo caso potremo parlare di rapporti di mediatezza (e quindi di vicinanza e di lontananza) e dei loro gradi, benché certamente questi termini ricevano ora una diversa accezione in corrispondenza alla modificazione di angolatura del problema. Si parlerà, in generale, di connessione tra le parti e si distinguerà tra connessione mediata e immediata. Diremo così che A è connesso mediatamente con C, se esiste un B tale che A è connesso con B e B con C.
Potremo inoltre distinguere tra le connessioni che contengono concatenazioni e connessioni che non contengono concatenazioni, avendo convenuto di dire che «due connessioni formano una concatenazione se hanno qualche membro (ma non tutti) in comune»[20]. Di conseguenza, le connessioni che contengono concatenazioni saranno «complessioni di connessioni che non ne contengono» ed i membri di una connessione priva di concatenazioni saranno immediatamente connessi. In generale, possiamo perciò affermare che in ogni concatenazione «debbono esserci membri immediatamente connessi, cioè appartenenti a connessioni di parti che non contengono più concatenazioni»[21].
Questa tematica, nel suo insieme, converge verso la posizione del problema delle strutture d’ordine. Così, al termine del § 20, si accenna alla possibilità di ricondurre la nozione di numero ordinale alla forma di una concatenazione nella quale sia fissata una «direzione di progressione» ed un elemento rispetto a cui deve essere determinato il grado di lontananza di ogni altro elemento secondo un rapporto di mediatezza crescente. |90|
«Queste idee» avverte conclusivamente Husserl «debbono valere per noi soltanto come semplici cenni in vista di una trattazione futura della teoria degli interi e delle parti. Un’esposizione effettiva della teoria pura a cui qui pensiamo dovrebbe definire tutti i concetti con esattezza matematica e dedurne i teoremi mediante argumenta in forma, cioè matematicamente»[22].
[1] Le Ricerche logiche (Logische Untersuchungen) vennero pubblicate in prima edizione nel 1900-1901 e in seconda edizione riveduta nel 1913 (Sesta ricerca: 1921). La traduzione italiana, da me curata, è stata pubblicata in due volumi da Il Saggiatore, Milano, nel 1968. Questa introduzione è stata premessa alla pubblicazione separata della Terza e Quarta ricerca, in E. Husserl, L’intero e la parte, Il Saggiatore, Milano 1977. Tutti i rimandi di pagina si riferiscono a quest'ultima edizione.
[2] Terza ricerca, § 8, p. 100.
[3] ivi, p. 103.
[4] ivi, p. 101.
[5] In rapporto alla tematica qui accennata, come anche per la distinzione tra parti indipendenti e non-indipendenti, l’influenza di Carl Stumpf è esplicitamente dichiarata nel testo e richiederebbe un esame a parte. Essa fuoriesce tuttavia dai limiti entro cui intendiamo mantenere la nostra esposizione. Per lo stesso motivo abbiamo evitato riferimenti alla problematica della Filosofia dell’aritmetica.
[6] Terza ricerca, § 7, p. 96.
[7] Cfr. G. Piana, Husserl, Schlick e Wittgenstein sulle cosiddette «proposizioni sintetiche a priori», in «Aut Aut», 1971, n. 122, pp. 19-41. (Ora reperibile in questo archivio)
[8] Terza ricerca, p. 123.
[9] ivi, p. 156.
[10] ivi, p. 142. Cfr. anche p. 151: «... secondo la nostra teoria, l’idea dell’unità o dell’intero è basata su quella di fondazione...».
[11] ivi, p. 145.
[12] ivi, p. 149. Nel testo abbiamo preferito tradurre Inbegriff con «aggregato» piuttosto che con «sistema» (modificando la nostra precedente versione). Il termine di «insieme» viene suggerito tenendo conto anche del fatto che, in rapporto allo stesso problema, in Esperienza e giudizio, § 30, si fa senz’altro uso del termine Menge. Notiamo inoltre che nel testo Zur Lehre vom Inhegrifl (1891) pubblicato come Quarta dissertazione in Philosophie der Arithmetik, Husserliana, Bd. XII, Den Haag, 1970, p. 385 si legge: «Se indichiamo con A, B, C... oggetti qualunque, siano essi intuiti o pensati, esistenti o immaginari, purché reciprocamente compatibili, cioè tali che l’essere dell’uno non escluda l’essere dell’altro, allora l’espressione comunemente comprensibile "A e B e C... presenta una definizione del termine Inbegriff degli oggetti A, B, C..."». - Nella Terza ricerca il termine Inbegriff viene utilizzato in un’accezione generica anche al di fuori della contrapposizione in questione.
[13] ivi, p. 150.
[14] ivi, p. 131. Con ciò si determina la nozione di intero estensivo: «Se un intero ammette di essere frazionato in modo tale che le frazioni siano, per loro essenza, del medesimo genere inferiore che viene determinato dall’intero indiviso, noi chiamiamo quest’ultimo intero estensivo, le sue frazioni parti estensive» (ivi).
[15] Cfr. §14, teorema 3. Inoltre, il richiamo a p. 153.
[16] ivi, p. 136. Nel testo, l’esempio viene presentato in una forma lievemente più complessa.
[17] ivi, p. 153.
[18] lvi, p. 154.
[19] ivi, p. 155.
[20] ivi, p. 140.
[21] ivi.
[22] ivi, p. 156. In realtà, la Terza ricerca può essere considerata conclusa con il § 24. Il § 25 contiene una digressione che introduce in una forma troppo concisa e alquanto discutibile una tematica che avrebbe bisogno di uno spazio più ampio e che comunque può essere solo forzosamente ricondotta nel quadro del problema dell’intero e della parte così come è stato finora delineato. Vogliamo comunque accennare brevemente al contenuto di questo paragrafo. In esso si osserva che sembra si possa asserire, in linea generale, che il frazionamento di un momento determina anche il frazionamento dell’intero. Così la durata di un processo può essere considerata come un suo momento. D’altro lato, una durata, in quanto tratto di tempo oggettivo, può essere concepita come consistente di parti indipendenti. Quindi può essere «frazionata». Il frazionamento della durata comporta il frazionamento del processo che la «riempie», così come il frazionamento del colore che ricopre una superficie comporta il frazionamento della superficie. Ciò dipende in particolare dal fatto che non sussiste fra le frazioni in questione alcun rapporto di fondazione unilaterale o bilaterale. Tutto ciò, osserva Husserl, vale unicamente nell’ambito delle legalità essenziali in senso stretto. È possibile tuttavia porre il problema delle legalità che presiedono all’idea di natura in generale. Tali legalità saranno esse stesse legalità essenziali, in un’accezione più ampia. Vogliamo dare per scontato il sussistere di questo problema, come anche che a tale idea di natura in generale appartenga quella di connessione causale. Allora, un certo tratto temporale, considerato come momento del processo che lo riempie, sarà in linea di principio connesso causalmente ad un tratto temporale anteriore, anch’esso ovviamente considerato come momento di un processo concreto. In generale, «ogni decorso deve essere un conseguente necessario di certi antecedenti», e ciò comporta che il frazionamento della durata «non realizzi alcun frazionamento nel concreto temporale»: «ciò viene appunto impedito dalla fondazione causale bilaterale dei contenuti temporalmente separati» (p. 161). Forse più interessante dell’argomentazione è la conclusione che se ne trae: si osserva infatti che, sulla base di queste considerazioni, l’infinità del tempo oggettivo «è una pura e semplice conseguenza della causalità e si riferisce quindi al riempimento temporale». La stessa osservazione vale per lo spazio e per la posizione della sua infinità. La possibilità apriorica di «estendere a piacere nella fantasia segmenti spaziali e temporali» non dimostra «la necessità che lo spazio e il tempo debbano essere realiter infiniti o anche soltanto che essi possano essere realiter infiniti» (p. 163).
1.
Fin dall’inizio abbiamo notato che, per un approccio corretto alla tematica della Quarta ricerca, è necessario tenere presente la connessione che sussiste tra la proposta, in essa avanzata, di una teoria pura delle forme possibili del significato e la problematica di una teoria degli interi nel senso prospettato dalla Terza ricerca
In effetti, come esempi di interi, e precisamente nel senso di interi-di-fondazione, avremmo potuto servirci di espressioni, ed in primo luogo di enunciati completi, più o meno complessamente articolati.
Un enunciato non è un mero cumulo di parole da cui risulta in ogni caso un significato unitario, esso è attraversato da un nesso di fondazione. Tutte le parole da cui esso è costituito sono sue parti relativamente non-indipendenti. Ognuna di esse può essere considerata come una parte che deve essere integrata, secondo forme ben determinate, con le altre parti dell’intero. Parliamo perciò dell’enunciato come di un intero-di-significato e riconduciamo quest’ultima nozione sotto il titolo, certamente più ampio, di intero-di-fondazione. Una concezione funzionale della struttura degli enunciati è con ciò data senz’altro come acquisita.
Così, la problematica della mediatezza, che costituisce uno dei punti focali nella discussione precedente, può trovare un’esemplificazione elementare facendo riferimento agli enunciati. In essi possiamo distinguere non solo parti, ma anche, eventualmente, parti di parti, secondo gradi di maggiore o minore «profondità» o, secondo la terminologia propriamente husserliana, secondo gradi di maggiore o minore «vicinanza» rispetto all’intero di cui sono parti. In rapporto a questo problema si noterà che gli enunciati forniscono esempi di interi nei quali la partizione non può avvenire in un modo qualsiasi e i rapporti di mediatezza non variano arbitrariamente, ma hanno un fondamento oggettivo. Per questo motivo, del resto, possiamo parlare di un’articolazione logico-grammaticale dell’enunciato.
Tuttavia, la nostra tematica non si sposta ora nel campo logico-linguistico solo per attingere nuove esemplificazioni. Si tratta piuttosto di mostrare che, come esiste il problema di rendere esplicito ciò che è contenuto nel concetto di intero - il problema, cioè, di formulare le legalità a priori che lo circoscrivono e lo determinano - così esiste il problema di rendere esplicito ciò che è contenuto nel concetto di unità possibile di significato, quindi il problema di un’elucidazione preparatoria in vista di un’esposizione teoretico-formale delle legalità a priori che presiedono alla formazione degli interi-di-significato.
Questa premessa è importante per indicare in che senso debbono essere intese le discussioni preliminari (§ § 1-9) che Husserl fa precedere alla proposta programmatica di una «morfologia pura dei significati».
2.
Queste discussioni vertono essenzialmente sulla distinzione tra significati semplici e composti (§§ 1-3) e su quella tra significati indipendenti e non-indipendenti (§§ 4-9).
Intendendo con espressione, in generale, l’unità di segno e significato, si dirà composta una espressione quando consta di parti che sono a loro volta espressioni. L’analisi di un’espressione composta nei suoi costituenti espressivi deve infine condurre a espressioni semplici. La semplicità e la composizione delle espressioni rinviano perciò senz’altro alla semplicità e alla composizione dei significati. Il significato dell’espressione «oggetto semplice» è composto - ed è inoltre «del tutto indifferente che un simile oggetto esista o non esista». Inversamente è semplice il significato dell’espressione «qualcosa» (benché con «qualcosa» si possa intendere un composto).
Con ciò viene indicato un criterio linguistico interno della semplicità e della composizione, tagliando corto con concezioni che presuppongono in un modo o nell’altro la specularità del rapporto tra linguaggio e mondo.
Possiamo fondatamente dubitare che espressioni come «uomo», «ferro» «re», ecc., abbiano un significato semplice? Possiamo dubitarlo solo se, in linea generale, riteniamo che la questione della semplicità e della composizione ci obblighi a prendere in seria considerazione la natura degli enti. E se riteniamo ciò, è probabile che alla fine non riusciremo più a raccapezzarci.
Il modo in cui Husserl delinea in pochi cenni la problematica dei «nomi propri» (§ 3) è interessante, nonostante la sua brevità, proprio perché illustra questo motivo di ordine generale.
Facendo riferimento esemplificativo ad un nome proprio di persona a noi nota, Husserl insiste soprattutto sul fatto che sarebbe erroneo ritenere che le determinazioni attributive dell’oggetto designato che fanno indubbiamente parte della «coscienza significante», siano da intendere come «significati parziali che sarebbero realmente impliciti nel significato originario»[23]. Il significato del nome proprio è indubbiamente semplice, benché possano, ed anzi debbano, esserci «costituenti rappresentazionali», «anche se di contenuto variabile, senza i quali il significato attuale non può dirigersi all’oggettualità significata»[24].
La semplicità del nome non esclude la complessità della «coscienza significante». D’altro lato, i costituenti rappresentazionali di quest’ultima non sono costituenti effettivi del nome. Ciò che viene in questione è la modalità del riferimento all’oggetto, non in ogni caso la natura dell’oggetto e l’adeguatezza ad essa della struttura linguistica che lo designa.
Del resto, osserva Husserl, problemi analoghi possono sorgere in rapporto ai «nomi comuni». Come nel caso dei nomi propri possiamo fissare il loro uso determinando uno tra i molti possibili costituenti rappresentazionali della coscienza significante, così nel caso dei nomi comuni possiamo proporre definizioni. Così facendo, istituiamo una norma che pone un limite alla «fluttuazione del significato delle parole»[25]. Stabiliamo dunque degli «equivalenti normalizzati» e «al tempo stesso raccomandiamo come regola di usare il più possibile, nell’attività conoscitiva, i termini nei loro significati normalizzati o di regolare i significati dati riportandoli continuamente ai significati normalizzati e ricorrendo anche ad opportune disposizioni d’uso, quando essi svolgono una funzione conoscitiva»[26].
Come la risoluzione «descrittiva» di un nome proprio non autorizza a ritenere che la «descrizione» sia realmente contenuta in esso, così la fissazione di disposizioni d’uso mediante definizioni non autorizza l’assunzione di complessità implicite.
È naturalmente coerente con questa impostazione l’ammissione che «nel processo di slittamento del significato, ad un significato originariamente formato da membri subentri un significato privo di membri, in modo tale che, nel significato dell’intera espressione non corrisponde più nulla ai membri dell’espressione. In questo caso, tuttavia, l’espressione ha perduto il carattere di un’espressione composta in senso proprio, e del resto di solito nell’evoluzione della lingua accade anche che simili espressioni si fondino in un’unica parola»[27].
Nel caso della distinzione tra significati indipendenti e non-indipendenti procederemo all’incirca nello stesso modo.
Facendo riferimenti ad esempi opportuni di espressioni incomplete, mostriamo anzitutto che si può parlare di incompletezza secondo accezioni molto diverse. Le espressioni «abbreviate» e le espressioni «lacunose» saranno messe da parte come casi particolari (§ 6). Quindi rammentiamo la distinzione tra parti dell’espressione che sono espressioni e parti che non lo sono: se consideriamo un’espressione semplice e ne isoliamo una parte, quest’ultima sarà priva di significato, benché possa essere mantenuto il riferimento ad un completamento possibile da cui potrebbe risultare un significato unitario. Questa incompletezza delle parti «meramente sensibili» delle espressioni deve essere distinta dall’incompletezza di una parte di un’espressione che è ancora un’espressione. In quest’ultimo caso, l’incompletezza non esclude una relativa unità di significato. Infine possiamo dare esempi di incompletezza nel senso di parti di espressioni che, pur non essendo prive di significato (come i costituenti meramente sensibili delle espressioni), tuttavia non ammettono nemmeno un’unità relativa di significato. Si tratta dunque di espressioni incomplete nel senso più stretto: di esse diciamo che assolvono una funzione di significato nella formazione di interi di significato.
Con espressioni di significato non-indipendente o «sincategoremi» possiamo intendere le espressioni incomplete in quest’ultima accezione. Ad esse contrapponiamo le espressioni di significato indipendente o «categoremi». I sincategoremi assolvono la loro funzione di significato solo all’interno dei categoremi. Tra questi ultimi, infine, occuperanno una posizione eminente gli enunciati, nella misura in cui i categoremi sono enunciati o parti possibili di enunciati. Un’analisi delle forme possibili dei significati ha nella forma proposizionale il suo centro, nella misura in cui «ogni struttura concreta di significato è una proposizione oppure interviene all’interno delle proposizioni come loro possibile membro»[28]. Con ciò la distinzione tra indipendenza e non-indipendenza viene riproposta secondo i modi in cui era stata senz’altro introdotta all’inizio.
Come nel caso della distinzione tra significati semplici e composti, anche qui si ribadisce che sarebbe erroneo ritenere che, «se un elemento costitutivo qualsiasi dell’oggetto è non-indipendente», esso debba necessariamente essere espresso da un significato non-indipendente. In realtà, «la possibilità di significati indipendenti diretti a momenti non ha nulla di strano, se pensiamo che il significato rappresenta «appunto qualcosa di oggettuale, ma non per questo esso ha il carattere dì un’immagine riflessa; la sua essenza consiste piuttosto in un’intenzione che può essere rivolta «a qualsiasi cosa, a ciò che è indipendente come a ciò che non lo è»[29].
Riconsiderando queste discussioni dentro il quadro concettuale delineato all’inizio, risulta con evidenza l’improponibilità dell’obiezione secondo cui l’istanza aprioristica avanzata da Husserl sarebbe puramente pretesa: parlando di «categoremi» e di «sincategoremi» non si farebbe altro che trasvalutare distinzioni meramente grammaticali in distinzioni logiche, operando una sorta di ipostatizzazione di materiali empirici che hanno una validità solo relativamente ad una lingua determinata o, a voler essere generosi, ad una famiglia di lingue. Su questo punto basterà richiamare la trattazione parallela della problematica degli interi. Affinché quell’obiezione possa essere difesa, ci dovremmo impegnare a sostenere che la distinzione tra parti indipendenti e non-indipendenti derivi a sua volta dalle nostre abitudini linguistiche. Naturalmente, in un’impostazione preliminare del problema, non vi è nulla di pernicioso nel prendere le mosse di qui. Ma il fatto in ultima analisi determinante è che «nelle nostre ricerche sui contenuti non-indipendenti, abbiamo definito in linea generale il concetto di non-indipendenza, ed è proprio questo concetto di non-indipendenza che noi pensiamo debba essere rilevato qui, nel campo del significato»[30].
3.
Per introdurre l’idea di una grammatica logica e per indicare le linee essenziali dell’abbozzo programmatico delineato da Husserl converrà richiamare la critica rivolta nei confronti delle distinzioni kantiane nella Terza ricerca. Questa critica può essere sintetizzata dicendo che Kant, nella definizione proposta di analiticità, a parte la formulazione tendenzialmente psicologistica, ha intersecato tra loro due piani che debbono essere tenuti nettamente distinti.
Se vogliamo indicare nella proposizione «ogni corpo è esteso» un esempio di proposizione analitica, allora dobbiamo precisare che in essa sono in questione i contenuti espressi dalle parole «corpo» e «estensione». Si tratterà dunque di una proposizione materialmente analitica. Ma da questa nozione di analiticità materiale, andrà allora chiaramente distinta una nozione di analiticità formale - potendosi indicare come formalmente analitica una proposizione la cui negazione comporta un’assurdità indipendentemente dai contenuti eventualmente espressi dalla proposizione in questione. L’esempio di Kant non soddisfa questa condizione e poiché si richiama, nella sua definizione di analiticità, all’essere contenuto del predicato nel soggetto e al tempo stesso al principio di non contraddizione come «principio supremo dei giudizi analitici», egli confonde equivocamente i due piani. Nell’empirismo moderno questo errore si ripresenta ancora, sia pure sotto altra veste, e precisamente nel tentativo di ricondurre ogni enunciato che possa in un modo o nell’altro dirsi analitico sotto l’unico titolo dell’analiticità formale.
È dunque di fondamentale importanza, all’interno della prospettiva logico-filosofica di Husserl, ristabilire con chiarezza questa distinzione.
Il passaggio al nostro nuovo problema può essere effettuato attirando l’attenzione sul fatto che le proposizioni analitiche (e le loro negazioni) in entrambe le accezioni sono comunque unità proposizionali. Una proposizione, abbiamo detto, non è un complesso qualunque di parole. Cosicché possiamo proporre la distinzione tra complessi di parole che formano un’unità proposizionale (o una unità di significato in genere) e complessi di parole che non la formano - possiamo, cioè, proporre una terza nozione di assurdità (nonsenso) da distinguere nettamente dalle precedenti. Il passaggio all’idea di una morfologia dei significati sta essenzialmente nel riconoscimento che, nello stesso modo in cui sorge un’assurdità materiale o formale nella misura in cui si contravvengono regole ben determinate, così vi sono regole ben determinate che presiedono alla formazione di significati unitari e dalla cui contravvenzione sorgono assurdità nella terza accezione (nonsensi).
Il problema che una teoria delle forme dei significati deve affrontare consiste nella messa in chiaro di tali regole. E non è difficile rendersi conto che una tale teoria deve assolvere, secondo un’impostazione cosciente dei propri metodi e dei propri obiettivi, i compiti che la tradizione affidava ad una «teoria del giudizio» come presupposto della logica intesa come «teoria dell’inferenza». |117|
Il problema centrale è un’elucidazione preliminare dell’unità del giudizio e delle sue forme possibili in quanto, come abbiamo osservato, ogni unità di significato o è una unità proposizionale o è parte di una unità proposizionale. Dall’analisi della proposizione debbono dunque potersi dispiegare le categorie del significato, cioè le forme delle possibili unità di significato in generale. Questa era appunto l’antica aspirazione di una teoria del giudizio: l’aspirazione ad una «tavola», ad una «sinossi» completa delle forme possibili delle unità giudicative. Questo problema si ripresenta ora sotto una luce completamente nuova.
In primo luogo, diciamo che una certa espressione, cioè un complesso segnico significante, ha una determinata forma oppure che è un esempio di una certa categoria. Essa potrà essere intesa come il risultato dell’applicazione di un certo operatore logico a espressioni, essendo nello stesso tempo una base possibile per l’applicazione di operatori. Se chiamiamo termini le basi possibili per l’applicazione di operatori, possiamo senz’altro ricondurre la nozione di categoria o di forma logica a quella di regola per la formazione di termini da termini. Che vi siano termini che sono soltanto basi per l’applicazione di operatori (e non anche risultati) deve essere ammesso in via di principio, e con ciò si acquisisce una nozione astratta di componente puramente contenutistica delle unità significanti.
Di conseguenza, si distinguerà tra operatori che conferiscono una forma alle componenti puramente contenutistiche delle unità significanti, e quindi, in generale, tra operatori che modificano la forma di una espressione determinando al tempo stesso un ventaglio di connessioni possibili; e operatori che connettono termine a termine.
Questa distinzione si può dire sia, nella Quarta ricerca, appena accennata, o quanto meno essa non riceve nell’esposizione un rilievo corrispondente all’importanza fondamentale che deve esserle indubbiamente attribuita all’interno dell’impostazione di Husserl. Nella Quarta ricerca si parla di modificazione e di complicazione delle espressioni. Con complicazione si allude alla formazione di espressioni per connessione di termini; con modificazione, invece, ad un mutamento di forma di un termine tale da determinare per esso certe possibilità di connessione con altri termini. La distinzione tra complicazione e modificazione rinvia così alla distinzione generale tra due specie nettamente diverse di operatori: gli operatori sintattici e gli operatori non sintattici. L’applicabilità dei primi è, per così dire, subordinata all’applicazione dei secondi, dal momento che, come si è già osservato, sono gli operatori non sintattici che determinano l’apertura sintattica di un termine, cioè la possibilità per un termine di essere connesso con altri formando un’espressione che è un esempio di una determinata categoria.
Operatori sintattici e non sintattici costituiscono l’apparato di regole per ottenere termini da termini, in un’applicazione iterativa e secondo una complessità crescente.
«Quindi, in una morfologia puramente logica dei significati, si tratta in primo luogo dell’accertamento delle forme primitive... Più esattamente, dovrebbero essere fissate le forme primitive dei significati indipendenti, delle proposizioni complete, con le loro articolazioni immanenti e le strutture di queste articolazioni. Inoltre, le forme primitive della complicazione e della modificazione, che sono ammesse dalle diverse categorie dei membri possibili secondo la loro essenza (dove va notato che anche proposizioni complete possono diventare membri di altre proposizioni). Di conseguenza, si tratta di una sinossi sistematica della molteplicità illimitata delle forme ulteriori che possono essere derivate attraverso una continua complicazione e, rispettivamente, una continua modificazione»[31].
4.
Alla delineazione astratta del problema può certamente seguire una esemplificazione che fornisca qualche illustrazione concreta. Occorrerà solo sottolineare che gli esempi dovranno essere intesi con le cautele del caso. In essi, infatti, le distinzioni logiche assumono necessariamente una veste empirico-grammaticale, e può senz’altro darsi che talune distinzioni logiche siano grammaticalmente indifferenti o inversamente che, ad una differenza nella veste grammaticale, non corrisponda un’effettiva distinzione logica. Così, se parliamo di «proposizione predicativa» e citiamo esempi che contengono la paroletta «è», si sottintenderà che non si dia per scontato che qualunque proposizione costruita con la «è» in modo ordinariamente considerato corretto sia da caratterizzare come «predicativa» in senso logico. Eventualmente si richiamerà esplicitamente l’attenzione su questo punto ed in linea generale si potrà sempre ricorrere a spiegazioni atte ad ovviare a questo o a quel possibile fraintendimento.
Da questa circostanza, cioè dall’«inadeguatezza logica» del linguaggio corrente, si traggono tuttavia spesso conclusioni erronee. In certo senso si tende più ad accentuare la possibilità che la «veste grammaticale» nasconda la «reale forma logica», piuttosto che a sottolineare il fatto, ben più significativo del primo, che noi possiamo comunque dipanare queste confusioni, di esse possiamo venire a capo. Il sussistere di questa possibilità rappresenta di per se stesso un buon argomento per sdrammatizzare la pretesa enigmaticità del problema della «forma logica» e per insistere sull’anteriorità di principio delle considerazioni logico-morfologiche rispetto a quelle empirico-grammaticali. Oltre che sul carattere normativo delle prime rispetto alle seconde - normativo non nel senso che una morfologia pura prescriva qualcosa alle nostre lingue, ma perché ci fornisce un apparato per valutare dal punto di vista logico la struttura grammaticale delle nostre lingue.
In ogni caso, ai fini di un’illustrazione che renda elementarmente conto della nostra precedente esposizione, ed in particolare della distinzione tra operatori sintattici e non sintattici, non si richiedono certo decisioni particolarmente impegnative dal punto di vista della problematica più generale che potrebbe essere aperta a questo punto.
Ci possiamo limitare ad osservare, a titolo esemplificativo, che un termine di forma nominale può assumere la forma di soggetto ed un termine di forma aggettivistica la forma di predicato - quindi essi possono essere predicativamente connessi, possono cioè formare un’unità possibile di significato (indipendentemente da ogni considerazione relativa ai contenuti messi in gioco). In tutta evidenza, forma di soggetto e forma nominale si dicono «forme» in sensi interamente diversi: con forma di soggetto intendiamo infatti niente altro che una possibilità sintattica del nome. Lo stesso vale, ovviamente, per la forma di predicato e la forma aggettivistica.
D’altra parte, termini di forma nominale o di forma aggettivistica saranno sintatticamente aperti anche, ad esempio, rispetto alla connessione congiuntiva. In generale, l’operatore «congiunzione» può essere applicato a termini di forma qualunque purché i termini congiunti appartengano alla stessa categoria. In questo caso, inoltre, l’espressione che ne risulta appartiene a sua volta alla stessa categoria dei termini a cui l’operatore logico è stato applicato. La congiunzione di due proposizioni è una proposizione; la congiunzione di due aggettivi un aggettivo, ecc.
Inoltre, un termine che non ha forma nominale potrà assumere forma di soggetto solo se la sua forma viene corrispondentemente modificata - e dunque, in questo caso, nominalizzata. Un nonsenso sorge non già perché accumuliamo parole a caso, ma perché (eventualmente a caso) si contravvengono regole ben determinate.
«Solo in certi modi, preliminarmente determinati, i significati sono reciprocamente congruenti e costituiscono ulteriori significati unitari sensati, mentre le restanti possibilità combinatorie sono escluse secondo una legge: esse producono soltanto un cumulo di significati invece di un unico significato. L’impossibilità della connessione è conforme ad una legge essenziale... ogni volta che, in rapporto ai significati dati, comprendiamo con evidenza l’impossibilità della connessione, questa impossibilità rimanda ad una legge incondizionatamente generale, secondo cui i significati delle corrispondenti categorie di significato, connessi nello stesso ordine e secondo la norma delle medesime forme pure, debbono necessariamente essere privi di un risultato unitario - in una parola: si tratta di un’impossibilità a priori.»[32].
Gli esempi presentati nel testo da Husserl intendono unicamente illustrare questo orientamento di principio e sarebbe palesemente erroneo ritenere che essi abbiano lo scopo di giustificarlo. Essi indicano, se mai, i limiti entro cui viene contenuta la tematica della Quarta ricerca: come nel caso della Terza, ci troviamo di fronte alla delineazione sommaria di uno spunto programmatico. Prima ancora di indicare la via per effettive realizzazioni, Husserl sembra voler anzitutto legittimare questa problematica su un piano generale, e ciò conferisce ad alcune pagine un respiro insolitamente ampio, oltre che un rilievo più generalmente culturale. Husserl è infatti pienamente consapevole della portata polemica che veniva ad avere, «nella nostra epoca di naturalismo scientifico», tanto ricca di «ricerche generali di carattere empirico», il prendere le difese di una grammaire générale et raisonnée, di una grammatica «filosofica»[33]. Oggi, l’importanza storica della Quarta ricerca è generalmente riconosciuta. Nonostante il fatto che la parola «a priori» continui ad essere ritenuta, in ogni caso, sospetta.
Il punto che sembra talvolta così difficile da spiegare è quanto poco la determinazione di «legalità a priori» vincoli l’ambito dei fatti. Da questo punto di vista, è particolarmente importante fissare chiaramente il luogo del nostro problema nel campo della logica, e non in una sorta di terra di nessuno che si troverebbe da qualche parte tra logica, linguistica e analisi del linguaggio ordinano. La morfologia dei significati, sottolinea Husserl, appartiene alla logica pura e costituisce in essa una «sfera fondamentale in se stessa prima». «Considerata dal punto di vista della grammatica, essa mette a nudo una impalcatura ideale che ogni lingua fattuale riempie e riveste in modi diversi con materiale empirico, seguendo motivazioni empiriche, in parte di carattere universalmente umano, in parte variabili in modo accidentale»[34].
Ciò che può rendere perplessi in questa frase è l’espressione «impalcatura ideale» - qui si evoca qualcosa di simile ad un impalpabile reticolo sottostante alle lingue naturali. In certo modo, l’asserita idealità di questa impalcatura non riesce a sopprimere la concretezza dell’immagine. |133|
Eppure, tutto ciò significa soltanto questo: che «è necessario avere di fronte agli occhi questa «impalcatura per poter chiedere sensatamente: come esprime il tedesco, il latino, il cinese, ecc., «la» proposizione esistenziale, «la» proposizione categorica, «la» antecedente dell’ipotetica, «le» modalità di «possibile», «probabile», il «non», ecc.?» [35].
Si potrebbe obiettare: e se ci fosse una lingua in cui il «non» non venisse affatto espresso? - Ne prenderemmo semplicemente atto (non senza prima aver tentato di renderci conto di che cosa propriamente prenderemmo atto).
L’equivoco sorgerebbe inevitabilmente qualora si ritenesse che questa impalcatura ci fosse veramente e che prima o poi, sia pure in un giorno molto lontano, arriveremo a toccarla con mano anatomizzando con ogni possibile sottigliezza le lingue naturali. Alla frase sopra citata secondo cui «ogni lingua riempie e riveste in modi diversi con materiali empirici» quella «impalcatura ideale», sarà dunque opportuno accostare l’affermazione molto netta secondo cui «in base agli sviluppi precedenti, nessuno ci attribuirà l’idea che noi riterremmo possibile una grammatica universale che abbracci in sé tutte le grammatiche particolari come casi particolari accidentali, nello stesso modo in cui la teoria matematica generale includerebbe in sé tutti i casi particolari possibili a priori risolvendoli in un colpo solo» [36].
Note alla seconda parte
[23] Quarta ricerca, p. 174.
[24] ivi.
[25] ivi p. 177.
[26] ivi.
[27] ivi, p. 182.
[28] ivi, p. 211.
[29] ivi, p. 192.
[30] ivi, p. 189.
[31] ivi, p. 212.
[32] ivi, p. 198.
[33] ivi, p. 222.
[34] ivi.
[35] ivi, p. 223.
[36] ivi, p. 224.
III
La riformulazione della problematica dell’intero e della parte in Esperienza e giudizio
1.
Tenendo conto degli scopi introduttivi che la nostra esposizione si propone, ci potremmo arrestare a questo punto. Tuttavia conviene spingersi un poco oltre. Le distinzioni fondamentali presentate nella Terza ricerca vengono infatti riprese e ribadite in Esperienza e giudizio [37], in particolare nei §§ 30-32. E può essere interessante prendere in esame queste pagine dal momento che in esse non si ha una pura e semplice ripetizione del problema, ma una sua impostazione ex novo.
Come abbiamo visto, nella Terza e Quarta ricerca viene proposta una duplice istanza. L’istanza dominante è indubbiamente quella della costruzione sistematica: in entrambi i casi, si tende essenzialmente a prospettare la possibilità di una teoria formale degli interi in generale e, rispettivamente, delle unità di significato. Sullo sfondo è tuttavia presente anche. il problema di una giustificazione delle nozioni e delle distinzioni che si trovano alla base del sistema e che, in certo senso, delineano la cornice entro cui esso è istituito.
In Esperienza e giudizio, il problema della costruzione sistematica passa in secondo piano: l’istanza dominante diventa quella della giustificazione. È bene sottolineare che questo problema può assumere la forma di compiti analitici precisamente determinati che, in se stessi, non sono necessariamente avvolti dalle vesti ideologiche che ricevono in Husserl stesso, soprattutto nel quadro della teorizzazione della fenomenologia come «filosofia prima», con la conseguente presentazione di compiti fenomenologico-fondazionali volti indeterminatamente in ogni direzione e per ciò stesso del tutto vacui. Di fronte a questa espansione del problema, che conduce alla sua completa vanificazione, Esperienza e giudizio documenta invece il permanere, anche in questa nuova dimensione di ricerca, di quelle tendenze analitiche che formano indubbiamente l’aspetto più valido della teorizzazione husserliana.
Che forma assume ora il problema della giustificazione?
In breve, possiamo dire che ci dobbiamo disporre in un’ottica nella quale le distinzioni logiche fondamentali, quelle distinzioni che venivano una volta raccolte sotto il titolo di «teoria del giudizio» possano essere ricondotte ad una base esperienziale. Il terreno dell’esperienza deve essere coimplicato nell’elaborazione di una teoria del giudizio. E deve essere coimplicato in modo tale da esibire forme di rapporto che possano essere estratte da esso e riportate su un piano interamente diverso, sul piano del «pensiero» - per utilizzare ancora la nostra vecchia terminologia filosofica.
Alcune brevi considerazioni sulla forma della proposizione a soggetto-predicato potranno servire ad illustrare questo assunto e ad introdurci direttamente al nostro problema particolare.
In rapporto a tale forma potremmo chiedere: vi è nell’esperienza qualcosa che accenna ad essa, alla distinzione in cui essa consiste e che, in certo senso, la prepara?
Ci richiamiamo allora senz’altro all’osservazione percettiva e, prescindendo da qualunque tentativo di descrizione di ordine psicologico-introspettivo, facciamo notare che gli atti di osservazione percettiva hanno caratteristiche strutturali peculiari. Distinguiamo anzitutto, dal lato soggettivo, un interesse nei confronti della cosa. Quest’ultima assume il carattere di tema dell’interesse, il cui «contenuto» si dispiega progressivamente nel corso del processo. Seguendo la terminologia di Esperienza e giudizio, vogliamo chiamare esplicitazione il processo dell’osservazione percettiva; sostrato dell’esplicitazione, l’oggetto tematico dell’interesse osservativo; determinazione, tutto ciò che viene dispiegato nell’esplicitazione del sostrato.
La coppia sostrato-determinazione rappresenta così un naturale filo conduttore per lo sviluppo del problema della base esperienziale della connessione predicativa. Diciamo ancora più impegnativamente: per giustificare la distinzione soggetto-predicato come una distinzione logica, indipendentemente da considerazioni di ordine linguistico. Disponendoci in questa ottica, ciò che avviene dentro il linguaggio diventa irrilevante. Potremmo arrivare a sostenere che quella distinzione non la abbiamo «tratta» dal linguaggio - benché questa affermazione significhi propriamente soltanto che non intendiamo giustificarla attraverso di esso. Il centro del problema diventa il rapporto tra logica e esperienza, e precisamente tra forme logiche e strutture dei processi esperienziali. Con ciò, tutte le questioni attinenti al nesso tra linguaggio e logica da un lato e tra linguaggio ed esperienza dall’altro non vengono certamente soppresse, ma si attribuisce ad esse uno spazio autonomo ed in ogni caso relativamente indipendente rispetto al problema della giustificazione.
2.
Queste premesse, che risultano da una estrema semplificazione del ben più complesso e articolato discorso di Esperienza e giudizio, sono tuttavia sufficienti per mostrare in che modo si possa pervenire a riproporre le distinzioni essenziali relative alla nozione di intero che, seguendo tutt’altra via, erano già state introdotte nella Terza ricerca.
Vogliamo anzitutto fissare una prima accezione - l’accezione più lata del termine intero. Con intero intenderemo qualunque cosa possa essere resa sostrato di un processo di esplicitazione. Parte, in un’accezione altrettanto lata, sarà detta ogni possibile determinazione di un sostrato.
La relatività delle nozioni di intero e parte dovrà allora essere ricondotta alla relatività della distinzione tra sostrato e determinazione. Che qualcosa sia un sostrato o una determinazione, dipende unicamente dalla direzione dell’interesse. Si richiede soltanto che ci si attenga, in rapporto a queste nozioni, al punto di vista processuale a partire dal quale esse sono state istituite. Dire, ad esempio, che un certo contenuto si presenta come determinazione equivale a postulare un processo di esplicitazione in corso, e dunque a presupporre il rinvio ad un sostrato tematico. Inversamente, la posizione di un contenuto come sostrato equivale alla posizione di un processo di esplicitazione iniziale, quindi alla posizione di determinazioni possibili.
Possiamo concepire la situazione come se, all’inizio, l’oggetto dell’interesse fosse dato «all’ingrosso», in modo relativamente indifferenziato: nell’osservazione percettiva si vanno via via chiarendo i suoi «dettagli».
Considerando la struttura possibile dei processi di esplicitazione, mettiamo ora in evidenza una differenza per noi particolarmente interessante.
Può accadere che, nel corso di un processo di esplicitazione, nel quale le determinazioni vengono via via dispiegate l’una dopo l’altra, abbia luogo una modificazione dell’interesse, che si rivolge ora all’ultima determinazione acquisita. Tale determinazione viene così, a sua volta, resa sostrato, e nella misura in cui l’interesse per il sostrato anteriore viene a cadere, avremo l’apertura di un nuovo processo di esplicitazione. Tuttavia, può anche accadere che l’interesse per il sostrato anteriore venga mantenuto. In tal caso, si tratterà propriamente dell’emergere di un interesse subordinato ad un interesse principale, e di conseguenza il processo di esplicitazione, rivolto ora tematicamente all’ultima determinazione acquisita, sarà da intendere come un’articolazione di un unico processo.
Distingueremo dunque tra esplicitazione semplice ed esplicitazione ramificata[38].
Alla base di questa distinzione vi è indubbiamente la relatività della differenza tra sostrato e determinazione. Qualunque cosa può essere resa sostrato, poiché la nozione di sostrato si risolve in quella di oggetto tematico di un interesse. Nel caso dell’esplicitazione ramificata, facciamo solo notare una complicazione in più: qualcosa può essere resa sostrato e tuttavia mantenere il carattere di determinazione rispetto ad un altro sostrato. Facciamo dunque notare una possibile ramificazione dell’interesse e corrispondentemente del processo di esplicitazione.
Dovremo in base a ciò concludere senz’altro che la distinzione tra sostrato e determinazione non possa essere proposta, da nessun punto di vista, come una distinzione assoluta? Oppure, in altri termini: non è possibile reperire una qualche accezione legittima per l’uso dell’espressione «sostrato assoluto» e, correlativamente, «determinazione assoluta»? [39]
Chiediamoci anzitutto che cosa potremmo intendere con «sostrato assoluto». A quanto sembra, si tratterà di un sostrato che non può assumere il carattere di sottotema rispetto a qualunque altro. Se un simile sostrato esiste, esso dovrà essere unico. Il termine di «sostrato» non potrebbe essere usato al plurale. Il sostrato assoluto sarebbe un tema che abbraccia ogni tema. Ogni processo di esplicitazione dovrebbe poter essere inteso come un ramo di un unico processo di esplicitazione. Rispetto al sostrato assoluto, ogni sostrato avrebbe il carattere di sostrato relativo.
Qui evochiamo l’idea maiuscola del Tutto. Ed appena evocata converrà metterla da parte. Basterà notare che, stando al modo in cui abbiamo introdotto la nozione di esplicitazione, facendo riferimento agli atti elementari dell’osservazione percettiva, escluderemo che possa darsi un processo di esplicitazione che sia direttamente rivolto ad una simile totalità onniabbracciante. Cosicché, ammesso che questa nozione possa essere istituita, essa comporterà inevitabilmente una sorta di operazione idealizzante che dovrà peraltro essere sufficientemente critica da evitare il consolidamento metafisico del suo risultato.
In linea generale, dunque, escluderemo che vi sia un tema che non possa essere sottotema e corrispondentemente ammetteremo che qualunque processo di esplicitazione possa essere considerato come ramo di un processo di esplicitazione. Si tratta allora di accertare se questa ammissione escluda altre possibili accezioni per l’uso del termine «sostrato assoluto». In effetti resta ancora aperto il problema se vi siano processi di esplicitazione che debbono essere intesi come rami di un processo. Se così fosse, avremmo una nozione di sostrato che potrebbe essere caratterizzato come relativo nella misura in cui risulta necessariamente dalla «sostratizzazione» di una determinazione. Si tratterebbe di un tema che è, essenzialmente, un sottotema, ed in rapporto ad esso sarebbe lecito parlare di determinazione assoluta. Correlativamente, un sostrato che non è essenzialmente un sottotema potrebbe essere detto sostrato assoluto. Una simile distinzione sarebbe chiaramente improponibile se si considerasse unicamente la forma dei processi. Altrimenti stanno le cose se entrano in gioco considerazioni di ordine contenutistico. La nozione di un contenuto la cui esplicitazione rinvia necessariamente ad un processo di esplicitazione in corso - la nozione, dunque, di determinazione assoluta, diventa concretamente esemplificabile. E così anche la nozione correlativa di sostrato assoluto.
Con sostrato assoluto intendiamo dunque un oggetto tematico che può essere sottotema, ma non è necessario che lo sia. E tale espressione ammette ovviamente l’uso plurale. Qualora invece un certo processo di esplicitazione sia intrinsecamente connesso con un altro per via del contenuto che esso rende tematico, qualora cioè esso sia in linea di principio ramo di un processo, la determinazione che in esso è stata resa tematica sarà detta determinazione assoluta. Nel caso dei sostrati assoluti, l’assunzione di un tema rispetto a cui essi sono sottotemi è sempre possibile, ma arbitraria. Nel caso delle determinazioni assolute, qualora esse siano rese sostrato, vi è in linea di principio un tema rispetto a cui essi sono sottotemi. Il rinvio ad una esplicitazione ramificata è qui presupposto.
Nella terminologia dell’intero e della parte, i sostrati assoluti si chiameranno interi in una seconda accezione - più ristretta; oppure parti indipendenti (pezzi o frazioni). Le determinazioni assolute si chiameranno invece parti non-indipendenti (o momenti) (e in luogo di parti indipendenti e non-indipendenti potremo parlare ovviamente anche di determinazioni indipendenti e non-indipendenti).
Possiamo infine fissare una terza accezione per il termine di intero, che chiameremo intero in senso pregnante. Parlando di interi in senso pregnante intendiamo gli interi «che sono composti di parti indipendenti e sono frazionabili in esse»[40]. «Al concetto di intero in senso pregnante appartiene la proprietà di essere divisibile in frazioni; ciò significa che la sua esplicitazione conduce a determinazioni indipendenti»[41].
3.
Abbiamo così riproposto la distinzione fondamentale su cui si regge la tematica della Terza ricerca logica. Il passaggio alle ulteriori distinzioni non presenta, a questo punto, particolari difficoltà, benché si debba tenere presente che ormai è determinante il riferimento alle strutture dei processi di esplicitazione e tale riferimento implica che tutte le distinzioni a suo tempo introdotte vengano sottoposte ad una reinterpretazione che le adegui al nuovo punto di vista che qui è stato adottato.
In particolare va notato che riportando la tematica dell’intero a quella dei processi di esplicitazione, le distinzioni in gioco e la nostra stessa terminologia vengono strettamente vincolate ad una dimensione descrittiva che non va mai perduta di vista.
Se diciamo ad esempio che con intero nella terza accezione intendiamo un intero che consta di parti indipendenti, l’espressione «constare» avrebbe un senso del tutto indeterminato se non facessimo notare che quando parliamo di qualcosa che ha «la proprietà di essere divisibile in frazioni» intendiamo dire soltanto che nel processo di esplicitazione percettiva ad essa diretta perveniamo a determinazioni indipendenti. La «scomposizione» di un intero in parti non deve dunque essere intesa in qualche senso logico, fisico o addirittura metafisico.
Considerazioni analoghe rendono chiara la differenza tra pluralità e singolarità. Nella caratterizzazione proposta di sostrato assoluto non è in alcun modo implicito che un sostrato assoluto debba essere singolare. Un sostrato assoluto può «constare» di sostrati assoluti, e questo è anzi il caso degli interi nella terza accezione. Se a ciò aggiungiamo che vi dovranno comunque essere dei sostrati assoluti che sono singolarità ultime, ciò potrà sembrare ancora una volta enigmatico, qualora non si tenga presente la reinterpretazione del problema nei termini richiesti dal riferimento alla struttura dei processi di esplicitazione, e quindi in termini fenomenologico-descrittivi.
Se di fronte a noi, disegnati su una lavagna, vi sono tre cerchi, la figura complessiva come oggetto tematico di un interesse può ben essere indicata come un esempio di sostrato assoluto; ed all’interno di questa figura complessiva, ogni cerchio vale come sostrato assoluto che è una singolarità ultima. Infatti, uno qualunque di essi può essere «osservato in se stesso» - gli altri cerchi possono ben essere cancellati e di essi non è affatto necessario che se ne conservi il ricordo; ed in secondo luogo l’esplicitazione ad esso rivolta non «mette in evidenza» alcuna parte indipendente. Certo, potranno ancora essere «messi in evidenza» dei momenti, come il colore del cerchio o la sua circonferenza, ma non per questo parleremo di una pluralità, avendo fissato questa nozione in connessione con l’indipendenza delle parti.
Potremo notare che le singolarità ultime vengono attinte procedendo alle parti, ed alle parti delle parti - intendendo sempre le parti indipendenti. Come già sappiamo questi rapporti di mediatezza possono risolversi arbitrariamente in rapporti di immediatezza, cosicché è inessenziale che le singolarità ultime siano considerate come parti di parti: le frazioni delle frazioni sono frazioni dell’intero. L’origine fenomenologica di quel principio non poteva essere del tutto ignorata nemmeno nella esposizione della Terza ricerca, nella quale esso viene formulato anzitutto all’interno di una considerazione puramente formale.
In modo analogo può essere illustrato il principio secondo cui la frazione di un momento non può valere come frazione dell’intero, il principio, cioè, secondo cui la frazione di un momento è una parte essenzialmente mediata dell’intero. Variando l’esempio precedente, supponiamo che la circonferenza di uno dei cerchi sia tratteggiata. In tal caso non diremo che i tratti della circonferenza sono singolarità ultime della figura complessiva costituita dai tre cerchi, poiché l’esplicitazione deve articolarsi secondo il percorso prescritto dalla struttura della figura. Del resto, tali tratti non possono valere nemmeno come parti indipendenti immediate del singolo cerchio nella misura in cui la loro esplicitazione in quanto determinazioni presuppone come tema dell’interesse la circonferenza, e quest’ultima rinvia al cerchio come tema essenzialmente sovraordinato.
La distinzione tra mediatezza essenziale e inessenziale, già illustrata nella Terza ricerca, viene qui risolta illustrativamente nel quadro di riferimento fornito dai processi di esplicitazione e dai loro rapporti possibili. Di conseguenza riceve anche una indubbia chiarezza la nozione di singolarità ultima, di unità non composta di parti, di oggetto semplice o in qualunque altro modo la si voglia chiamare. Certamente, alla nozione di sostrato assoluto come singolarità ultima occorrerà riconoscere una certa relatività soggettiva. Di lontano ci può apparire come un segmento ciò che da vicino ci appare come un segmento tratteggiato. Tuttavia questa mobilità, così come le eventuali complicazioni delle situazioni esemplificative che potrebbero richiedere approfondimenti descrittivi di vario genere, nulla tolgono alla determinatezza della distinzione concettuale - ed è ovviamente quest’ultima che qui ci interessa.
4.
Ricorrendo alle differenze di struttura tra i processi di esplicitazione ed in particolare alla nozione di esplicitazione ramificata non facciamo altro che riproporre da un diverso punto di vista le considerazioni che nella Terza ricerca gravitavano intorno al problema della «rappresentabilità separata» dei contenuti. Nel complesso, tuttavia, seguendo questa diversa via, il nostro discorso si presenta più sicuro dal punto di vista metodico e la distinzione fondamentale tra parti indipendenti e non-indipendenti viene vincolata al terreno di una fenomenologia della percezione più strettamente di quanto lo fosse nel quadro della Terza ricerca.
Quella distinzione può ora essere illustrata anche facendo riferimento ai modi in cui un certo contenuto è appreso come parte di un intero. Considerando il problema da questo lato, è chiaro che, nel caso delle parti indipendenti, si richiede non solo che il contenuto possa essere appreso come «isolato dal resto», ma che questo «resto» sia implicato come tale all’interno dell’apprensione stessa. In altri termini, nell’apprensione di un contenuto deve essere implicato il rimando ad un altro contenuto in quanto sua parte complementare rispetto all’intero. La complementarità richiede ad un tempo l’esteriorità reciproca delle parti e il loro collegamento - ed è appunto la presenza di queste condizioni che qualifica l’apprensione come apprensione di un contenuto che è parte indipendente dell’intero. «Prendiamo, per semplicità, un intero che consti solo di due pezzi... Se pensiamo al caso in cui l’esplicitazione sia rivolta ad uno dei due pezzi, nella sua essenza è insito il fatto che, nell’isolamento esplicitativo di un pezzo dell’intero, emerga una eccedenza, un plus, che abbia la forza di colpirci di per se stesso e che possa essere colto come un secondo pezzo, collegato con il primo». «Qualora un pezzo sia stato messo in rilievo, allora riceve risalto attraverso di esso e "al di fuori di esso" benché con esso in collegamento, il "resto" che non è stato ancora reso esplicito»[42].
In rapporto alle parti non-indipendenti, questa descrizione sarebbe del tutto inadeguata. Nell’apprensione di un contenuto come momento di un intero non è implicato alcun rinvio ad un’eccedenza, ad un resto, ad una parte complementare: «Nel caso del momento non-indipendente, nel nostro esempio, del colore rosso che ricopre, per così dire, l’intero posacenere, non vi è nulla che emerga "al di fuori di esso". Gli altri suoi momenti non-indipendenti non ci colpiscono separatamente dal colore, e soltanto in collegamento con esso, ma il sostrato che è stato reso esplicito come rosso e come tale tenuto sotto presa ci colpisce al tempo stesso come ruvido o liscio, ecc., e può essere colto, nell’esplicitazione ulteriore, solo in questo modo. Con questa descrizione diventa comprensibile dal lato soggettivo ciò che già nella Terza ricerca logica (§ 21) era stato fissato unicamente dal punto di vista noematico: il fatto che le parti non-indipendenti "si compenetrano" a differenza di quelle indipendenti che sono "l’una al di fuori dell’altra"»[43].
Converrà a questo punto ribadire l’avvertimento interpretativo che era già stato avanzato nel corso dell’esposizione della Terza ricerca. A proposito dell’intero nella terza accezione, Husserl ripete che esso non è «in ogni caso una semplice somma»[44]. Eppure, si potrebbe osservare, non abbiamo forse detto che le parti si trovano qui necessariamente l’una al di fuori dell’altra? Non abbiamo parlato di «parti complementari», dunque di parti che, «sommate insieme», producono l’intero? Nella posizione di questi interrogativi si rischia di fraintendere la natura effettiva del problema proposto. In realtà, non si tratta di differenziare certi interi percettivi da altri interi percettivi che sarebbero mere somme. Con l’espressione di «mera somma» si traccia una linea di demarcazione tra classi di oggetti in quanto sono soltanto «pensati insieme» (ed eventualmente che sono pensati insieme come «oggetti di un concetto») e complessi di oggetti percettivamente dati. Potremmo dire: tra complessi logici e complessi percettivi. Di ogni complesso percettivo si può dire che non è, in questo senso, una «mera somma».
Perché allora insistiamo sull’indipendenza delle parti e non piuttosto, come sembrerebbe più ragionevole, sulla loro interdipendenza? La ragione di ciò sta nel fatto che, l’indipendenza, nel senso fissato, rappresenta una ovvia condizione preliminare per possibili rapporti di interdipendenza. Anche in rapporto al solito esempio della melodia, diremo anzitutto che essa consta di pezzi: i singoli suoni. Essi sono l’«uno al di fuori dell’altro» e proprio per questo è possibile che si istituiscano sulla loro base collegamenti di vario genere.
Gli interi nella terza accezione sono dunque caratterizzati dall’indipendenza delle parti e dal sussistere tra essi di determinate forme di collegamento. A proposito di queste ultime non è necessario ripetere qui ciò che, è già stato illustrato, nel contesto della Terza ricerca, in rapporto al cosiddetto «momento di unità». Per ciò che concerne la nostra problematica attuale, è invece importante rammentare che tali momenti sono essenzialmente mediati. «Il collegamento si presenta dunque - scrive Husserl - non già come una terza parte che l’intero avrebbe nello stesso senso in cui ha le altre due, ma come una determinazione mediata dell’intero, ovvero come un momento mediato che non è un momento immediato né dell’una né dell’altra parte, ma del loro essere insieme. Esso può presentarsi solo quando l’essere insieme è dato come tale, vale a dire quando l’intero è stato esplicitato nelle sue parti e suddiviso in esse»[45].
Si sarà probabilmente notato che nel corso della nostra esposizione non è finora comparso il termine di «proprietà» (Eigenscbaft). In effetti, lo abbiamo accuratamente evitato. Ma è chiaro che avremmo potuto usarlo già per indicare le determinazioni di un sostrato nell’accezione più lata. Otteniamo una seconda accezione, più ristretta, di questo termine, se lo usiamo per indicare le parti non-indipendenti. In tal caso, tuttavia, verrebbero compresi sotto questo termine anche i momenti che sono «collegamenti». Questi ultimi possono essere esclusi, determinando una terza , accezione del termine, qualora si convenga di impiegarlo solo in rapporto ai momenti immediati dell’intero. Parlando di momenti escludiamo le parti indipendenti, mentre facendo riferimento all’immediatezza escludiamo quelle parti non-indipendenti che sono i collegamenti. Questi ultimi, infatti, sono parti essenzialmente mediate.
Questo modo di determinare un’accezione ristretta del termine di «proprietà» può essere considerato esemplare dal punto di vista del metodo qui applicato. Ricorrendo, come abbiamo fatto, al problema della mediatezza e dell’immediatezza, riceve risalto la tendenza a porre in opera una procedura che riconduca differenze che sono eventualmente già presenti negli impieghi correnti delle parole a differenze chiaramente indicabili di ordine strutturale. La parola «parte», come abbiamo notato all’inizio, si applica normalmente alle parti indipendenti. Così, in rapporto all’esempio dei tre cerchi, diremmo che ognuno di essi è una parte della figura complessiva, e non già che è una sua proprietà. Mentre parleremmo di «proprietà»del cerchio per indicare il suo colore. In quest’ultimo caso l’uso del termine «parte» sarebbe sentito come una forzatura. Forse altrettanto forzato ci apparirebbe l’uso di «proprietà» per indicare la somiglianza di colore tra due figure. Saremmo piuttosto propensi a parlare, in questo caso, di relazione o di rapporto. Si tratta di pure e semplici propensioni psicologiche derivanti da consuetudini linguistiche? Sia pure. Ma allora, sulla base delle nostre considerazioni, possiamo almeno giudicare quelle consuetudini come ben fondate.
5.
Ciò che colpisce maggiormente, nel confronto tra l’esposizione della Terza ricerca e di Esperienza e giudizio, è probabilmente il diverso modo di affrontare il rapporto tra la problematica dell’intero e della parte e quella delle «categorie del significato». In precedenza abbiamo insistito in modo particolare sulla connessione tra la Terza e Quarta ricerca, e non c’è dubbio che molti equivoci interpretativi vengono meno se essa non viene perduta di vista. Tuttavia questa connessione si presentava essenzialmente nella forma di una trasposizione al campo dei significati di un certo apparato concettuale elaborato in vista di una teoria dell’intero e della parte. Ora invece il problema dell’intero viene introdotto all’interno di uno sviluppo che ha già di mira la struttura della predicazione. Le distinzioni fondamentali rilevanti ai fini di una delimitazione della nozione di intero vengono acquisite in stretta unità con l’indicazione di una via che dovrebbe condurre alla «deduzione» delle «categorie», cioè all’introduzione ed alla giustificazione delle nozioni di base di una teoria del giudizio. Nonostante i limiti entro i quali è stata contenuta la nostra esposizione, si intravede tuttavia con sufficiente chiarezza che è possibile delineare un percorso di complessità crescente nella struttura dei possibili processi di esplicitazione; e che ogni passo di questo percorso è contrassegnato dall’acquisizione «antepredicativa» di forme che possono essere ripresentate come forme logiche di connessione e di trasformazione possibili.
In linea generale, il progetto di Husserl deriva dalla convinzione che, una volta istituita la correlazione tra predicazione e esplicitazione, sia possibile procedere ad un’analisi strutturale dei processi di esplicitazione ribaltandone i risultati sul terreno «predicativo». Questo progetto, che riceve in Esperienza e giudizio uno sviluppo molto ricco, è già, in certo senso, interamente contenuto nell’indicazione iniziale: il richiamo alla distinzione tra oggetto tematico dell’interesse e contenuti che vengono via via resi espliciti come determinazioni implica il riconoscimento di un’articolazione interna dei processi esplicitativi, suggerendo l’idea di correlare ad essa l’articolazione del «pensiero» nell’unità proposizionale. Si tratterà allora, in primo luogo, di individuare le forme elementari di tali processi, muovendo poi alle forme più complesse secondo passi che sono predelineati dalla stessa impostazione del problema.
A titolo di forma elementare si impone un processo che termina sulla prima determinazione acquisita. Questa potrà essere una proprietà nell’accezione più ristretta oppure una parte indipendente. Questa differenza comporterà una differenza correlativa sul piano del giudizio[46]. Il processo esplicitativo che termina dopo l’acquisizione di più di una determinazione apparterrà ad un passo successivo, nella stessa misura in cui, sul piano del giudizio, si richiederà la complessità dalla parte del predicato, aprendo nello stesso tempo il problema della congiunzione come operatore logico[47]. Si ottiene una nuova struttura, sempre seguendo la linea di una complicazione crescente dei processi di esplicitazione semplice, qualora si consideri un processo di esplicitazione in cui si faccia valere l’orizzonte aperto di determinabilità del sostrato, dopo l’ultima determinazione acquisita, con il conseguente ribaltamento sul piano del «pensiero» della funzione «ecceterante»[48].
La considerazione dell’esplicitazione ramificata, così come la messa in gioco di una molteplicità di processi e delle loro possibili relazioni conduce all’introduzione di forme sempre più complessamente articolate.
Questi eventuali sviluppi sono comunque condizionati nel loro senso dalla posizione iniziale del problema: al di là della forma della proposizione dobbiamo essere in grado di scorgere lo schema di un processo. Le «forme del pensiero» non possono essere semplicemente presupposte - di esse si deve poter rendere conto. Ciò riguarda sia le nozioni che appartengono al campo delle unità di significato (logica), sia quelle che debbono invece essere ascritte al campo di una «ontologia formale», di una «teoria degli oggetti in generale» (matematica). Il presentarsi della problematica dell’intero (che è una nozione ontologico-formale) nel quadro di uno sviluppo che ha di mira una «teoria del giudizio» rappresenta un’indicazione consistente del fatto che entrambe queste sfere debbono essere considerate da un punto di vista strettamente unitario.
L’intera problematica viene proposta sotto il titolo generale di una «genealogia della logica» - ed in questo senso le correlazioni istituite vengono prospettate nella direzione di un discorso che intende sottolineare l’origine delle forme del giudizio dall’esperienza. Ciò può suggerire equivoci di vario genere. Certo, non vi è dubbio che l’origine di cui qui si parla non è riducibile, nemmeno nella forma più debole, ad una sorta di origine semifattuale e tanto meno ad una trascrizione speculativa di circostanze di ordine psicologico. Non si segue la via dell’analisi del linguaggio. Ma nemmeno quella dell’analisi introspettiva. In realtà, il richiamo all’esperienza può assolvere il suo scopo solo se vengono messe in opera procedure schematizzanti che si avvalgono di esemplificazioni concrete solo per dare chiarezza a rapporti di ordine strutturale. Andrà dunque sottolineata l’idealità di questa origine. Ma il senso effettivo dell’impostazione proposta può forse essere colto più chiaramente se si mette l’accento sul fatto che essa rappresenta anzitutto una possibile metodologia di chiarificazione filosofica.
Giovanni Piana
Note alla terza parte
[37] L’opera Esperienza e giudizio (Erfahrung und Urteil) venne pubblicata postuma da L. Landgrebe, a cui è dovuta la sua stesura, nel 1938, in un’edizione che non poté essere distribuita al pubblico. La seconda edizione risale al 1954. Nel testo citiamo dalla terza edizione immodificata, Hamburg, Claassen Verlag, 1964. La traduzione italiana edita da Silva, Milano, 1960, a cura di F. Costa, è inutilizzabile. Eventualmente si potrà ricorrere alla traduzione francese Expérience et Jugement, Paris, P.U.F., 1970, a cura di D. Souche.
[38] Erfahrung und Urteil, op. cit., § 28.
[39] La discussione sulla nozione di sostrato assoluto e di determinazione assoluta viene sviluppata da Husserl nel § 29 ed anche in questo caso tendiamo a mettere in luce i punti essenziali ricorrendo ad opportune semplificazioni.
[40] ivi, p. 162. Si noti che qui intendiamo con «intero in senso pregnante» ciò che nella Terza ricerca si indica con «intero (in senso pregnante) di seconda specie». Per evitare equivoci, in seguito si parlerà semplicemente di interi nella terza accezione.
[41] ivi.
[42] ivi, p. 164.
[43] ivi, pp. 164-65.
[44] ivi, p. 162.
[45] ivi, p. 160.
[46] Cfr. § 52.
[47] Cfr. § 51a.
[48] Cfr. § 51b.