Intervento tenuto nel corso del Convegno «Husserl e Heidegger» -
Università degli Studi di Milano (4-6 dic. 1989) durante la tavola rotonda intitolata «La fenomenologia e il destino del pensiero»
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Data di immissione in questo archivio: giugno 2002

Giovanni Piana, Il filo di Arianna. Nota su Husserl e Heidegger (63.65 kB)


Giovanni Piana

Il filo di Arianna
Nota su Husserl e Heidegger

A me sembra che, se guardiamo senza pregiudizi l’andamento del dibattito filosofico attuale, si avverta una sorta di saturazione, di esaurimento di una linea di tendenza che si è protratta negli anni con convergenze piuttosto ampie - una sensazione che fa tutt’uno con il bisogno di ritrovare il senso delle differenze, l’importanza delle distinzioni, anzi: ancor prima: il bisogno di ritrovare criteri per istituire differenze e per valutarne il peso. È vero che, in una considerazione di superficie, il dibattito filosofico sembra procedere in una direzione opposta, e non solo sul piano della filosofia generale, ma anche su quello delle problematiche specificamente epistemologiche e logico-filosofiche. In realtà stiamo assistendo ad un processo nel quale si va affermando sempre più un’idea di filosofia come di un grande contenitore nel quale possono coesistere istanze teoretiche molto diverse e persino contrapposte, stili filosofici del tutto eterogenei. Si va accentuando una tendenza al sincretismo che può essere realmente professata solo deviando l’attenzione rispetto ai punti critici.

Caratteristica da questo punto di vista è l’enfasi spesso irragionevole posta sulle «contaminazioni» - un’enfasi che va talvolta oltre la circostanza del tutto ovvia che ciascuno può attingere ovunque alimento per i propri pensieri e che un contenuto di pensiero può essere liberato da qualunque luogo in cui esso si trovi: invece spesso traspare l’idea affatto diversa che la «contaminazione» possa essere considerata come un vero e proprio strumento di creatività filosofica.

All’origine di questi sviluppi vi è il giusto rifiuto di vecchi dogmatismi, e in particolare la consapevolezza della eccessiva rigidezza e della conseguente sterilità di categorie oppositive - si pensi soltanto alla coppia razionalismo/irrazionalismo oppure a quella idealismo/realismo - il cui impiego spesso non conduceva ad altro che alla cancellazione di interi ambiti di ricerca ed alla soppressione di problematiche di grande interesse. In proposito va rammentata anche l’attenuazione del peso delle critiche ideologiche, in se stesse non solo legittime, ma anche utili all’intelligenza ed alla comprensione dei testi, condotte tuttavia molto spesso senza la minima consapevolezza dei loro limiti metodologici e dell’autonomia che va riconosciuta in via di principio alla problematiche filosofiche.

Tuttavia, mentre attiro l’attenzione sui motivi polemici positivi che stanno alla base di questa linea di tendenza e che conferiscono ad essa una sua giustificazione, credo che si debba sottolineare anche il fatto che questi motivi stanno ormai per esaurirsi ed agiscono in direzione di uno spappolamento del discorso filosofico che genera perplessità e disorientamento.

Tutto ciò può valere come premessa per qualche considerazione più direttamente pertinente al tema del convegno. Dirò allora che a me sembra che una delle ragioni del valore permanente della fenomenologia nella forma che essa riceve in Edmund Husserl - e questa precisazione deve ricevere la forza che le compete, data la molteplicità di accezioni in cui il termine fenomenologia può essere utilizzato - sta nell’aver nuovamente ribadito l’esistenza di requisiti irrinunciabili che delimitano e caratterizzano la filosofia stessa. Di aver ribadito, ad esempio, la prossimità della filosofia alla dimensione conoscitiva in genere, di aver attirato l’attenzione sul fatto che esiste un metodo filosofico, o più precisamente, che esiste il problema di un metodo filosofico con tutto ciò che questo comporta; di aver riportato l’attenzione sul fatto che il discorso chiaro non è la stessa cosa del discorso confuso, ed anche che vi sono temi specifici della riflessione filosofica la quale non è obbligata ad avere sempre e necessariamente di mira la totalità stessa, i problemi ultimi e sommi - che anzi possono trovare il loro più sicuro avvio proprio nelle questioni che appaiono superficialmente come questioni di dettaglio.

Proprio in rapporto a quest’ultimo punto - ripensando alle tematiche discusse in questo convegno che è stato così ricco di insegnamenti e di proposte - non si può tuttavia non notare che proprio in rapporto alla fenomenologia si è prestata una attenzione quasi esclusiva alle questioni più generali, e in particolare si è trascurato il fatto che ciò che chiamiamo fenomenologia deve essere in grado di specificarsi in una molteplicità di fenomenologie, dirette a campi tematici particolari e capaci di svilupparsi in ricerche determinatamente rivolte a mettere in luce le loro articolazioni interne e i loro nessi strutturali. Cosicché, ponendo ad esempio il problema della costituzione o il problema del mondo della vita, andrebbe a mio sommesso parere almeno rammentato che in fin dei conti chi non è interessato ad una problematica strettamente esegetica, ma a sviluppi teoretici effettivi, forse potrà mettere da parte gli enigmi troppo profondi dell’intenzionalità fungente o della soggettività originaria - enigmi nei quali Husserl si impiglia e nel quale si era già impigliato del resto gran parte dell’idealismo tedesco. Mentre è della massima importanza rammentare che dietro i titoli della costituzione o del mondo della vita vi sono le tematiche della chiarificazione genetica del numero, delle forme logico-predicative e ontologico-formali, di ogni idealità concettuale in genere, delle strutture della temporalità e della spazialità, delle funzioni della percezione e dell’immaginazione, delle strutture delle vita affettiva - vi è insomma l’intera tematica di un’elucidazione descrittiva e strutturale dell’esperienza in genere.

Nello spirito di queste considerazioni vorrei ricollegarmi al titolo che si è voluto a dare a questo incontro. In esso si parla impegnativamente di destino del pensiero, e ad esso si connette anzi la fenomenologia stessa, come se essa fosse per così dire disposta dentro questo destino. Noi vorremmo però ricollegarci a questo titolo in tutt’altra maniera, cominciando con il proporre una piccola e inappariscente modifica. La parola «destino» comunque la si voglia determinare - ha un singolare rapporto con la dimensione temporale. In essa si può cogliere il rimando ad un passato immemorabile nel quale qualcosa è stato già deciso oppure ad un futuro remoto, ad un futuro tanto lontano che non è possibile coglierne i tratti. A questa parola così impegnativa noi ne vorremmo sostituire un’altra. Vorremmo parlare di destinazione, vorremo poter dire: la fenomenologia, ed anzi la filosofia stessa deve avere una destinazione. Così dicendo si dà subito evidenza a due punti particolarmente importanti: la ricerca filosofica è un movimento del pensiero che deve darsi una mèta, ed una mèta non troppo lontana. Essa ha dunque degli scopi, deve raggiungere un luogo: in questo senso essa ha una destinazione. Inoltre essa ha una destinazione per il solo fatto che è un discorso - un discorso autentico, che non solo ha un oggetto e un tema, ma come ogni altro discorso deve avere qualcuno a cui è destinato, qualcuno a cui si rivolge. Il filosofo deve forse venire dalle solitudini della montagna, ma poi deve scendere in pianura, a parlare fra la gente.

Parlare della destinazione in questo senso impone certamente degli obblighi: impone una presa di posizione che si precisa come un richiamo alla linearità che deve infine prevalere sulle tortuosità e i tormenti del pensiero, un richiamo al filo di Arianna il cui ricordo deve prevalere sull’apologia del labirinto. Oggi molti sono gli apologeti del labirinto - e quasi senza eccezione essi sono

riconducibili alle posizioni di Heidegger. In effetti quando sono andato dicendo acquista il suo vero senso sullo sfondo delle problematiche heideggeriane. A questo proposito - di fronte alle molte voci che vedono una continuità o in ogni caso una stretta solidarietà tra Husserl e Heidegger - vorrei solo rammentare, riportandomi molto indietro negli anni e precisamente al periodo di innesto delle tematiche fenomenologiche in Ialia ad opera di Enzo Paci, che era già convinzione di Paci che la ripresa degli interessi fenomenologici all’interno della cultura filosofica italiana - una ripresa che era in realtà un effettivo inizio - avesse il senso di un superamento delle problematiche heideggeriane, e quindi di una inversione teoretica dell’ordine storico. Prima di Heidegger, per oltrepassarlo. Husserl che leggevamo allora ci appariva venuto dopo Heidegger e non prima di lui. Questa convinzione era propria di Paci ed era condivisa, se ben ricordo, dall’intera sua scuola.

Credo che, a quasi trent’anni di distanza, di debba prendere atto che le linee di tendenza della cultura filosofica italiana hanno avuto uno sviluppo ben diverso da quello che faceva intravvedere quella convinzione; si è avuta infatti, in varie forme una predominanza delle problematiche di derivazione heideggeriana, in parte dovuta ad un arricchimento delle conoscenze e delle interpretazioni intorno a Heidegger, ma in parte certamente anche a ragioni più profonde. Questa predominanza non è motivo che mi può dissuadere dal sostenere oggi ciò

che mi sembrava giusto e soprattutto interessante sostenere allora. Certamente oggi quello stesso problema si presenta in una forma diversa, come un problema che appartiene ad una vicenda culturale passata. Eppure, proprio per procedere oltre, nel senso di quelle esigenze messe in evidenza all’inizio, resta ancora significativa proprio la decisione teoretica che ciascuno assume nei confronti della divergenza storica tra Husserl e Heidegger. Mi sembra allora doveroso da parte mia che io corra il rischio di affermare che la riproposizione heideggeriana di una tematica ontologica come orizzonte della ricerca fenomenologica, rappresenta un ritorno alla metafisica (al di là della tergiversazioni che dovrebbero consentirci di parlare del suo superamento), ma di una metafisica a cui è venuta mancare la parola. La vera differenza con le grandi e belle metafisiche del passato - da Leibniz a Schopenhauer - sta nel fatto che esse sono metafisiche apertamente parlanti, e proprio per questo si mantengono costantemente in una dimensione di apertura con tutti gli ambiti della vita spirituale, a partire dalle tematiche epistemologiche sino a quelle etiche, estetiche e politiche nel senso ampio del termine, ponendosi in un dibattito aperto con l’esperienza religiosa, ora per riaffermarla in tentativi di dare ad essa un fondamento argomentativo, ora per contestarla alle sue radici. In rapporto a questa vitalità e vivacità discorsiva, gli sviluppi heideggeriani non possono che apparire che nel loro insieme come orientati verso un progressivo immiserimento di questi nessi, come un movimento che tende a rinchiudersi su se stesso, in una circolarità che deve culminare nell’assenza del discorso. Si perviene così ad un’apologetica del silenzio nella quale riconfluisce infine, come sembra giusto, ogni apologetica del labirinto.

Mi sia consentito di concludere con un fugace pensiero alla maggiore vittima di questa doppia apologetica: alludo naturalmente a Ludwig Wittgenstein, il quale, avendo voluto incautamente insegnare alla mosca la strada per uscire dalla bottiglia, è stato in essa rinchiuso e ben tappato dai suoi più o meno recenti interpreti heideggeriani.

 

Milano, 6 dicembre 1989

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