Questo volume è stato pubblicato dalla casa editrice CUEM, Milano 1999
Data di immissione in linea: giugno 1999.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

icon Numero e figura (800.61 kB) (pp. 188)

Vedi Aldo Scimone

 

 

 


 

L'antico monogramma cinese qui riportato suggerisce il tema fondamentale di questo libro: esso significa «numero», ma l'analisi delle sue componenti rivela uno strato di senso più profondo. Il principio femminile della ripetizione, alla sinistra della figura, si ricollega infatti al principio maschile dell'azione, connettendo il numero all'idea del  calcolo e del conteggio. Al fine di chiarire questo nesso, in questo testo viene tracciato un singolare itinerario che si avvale della «storia» del numero, con l'intento di cogliere in essa un processo di formazione ideale capace di esplicitarne il concetto. La ripetizione rappresenta il tramite per il passaggio alla seconda parte, non meno ricca di inattesi colpi di scena, nella quale si mostra come l'idea del calcolo ci possa condurre anche sul terreno delle figure e delle forme spaziali, secondo un'elaborazione che sa trarre profitto  dalle antiche speculazioni pitagoriche così come dai più recenti linguaggi di programmazione.

 


 

Parte I, § 1

Chiarimenti intorno al quadro teoretico-conoscitivo entro cui intendiamo muoverci – La vera filosofia tende all’elementare – La costituzione primaria dei concetti –  Il riproporsi su questo terreno di antiche domande – Cenno sul tema dell’«intuizione» nella tradizione filosofica – La  «crisi dell’intuizione» – I molti equivoci sull’argomento richiedono una riflessione critica.

Il percorso che vorremmo tracciare comincia dal problema del numero e prosegue poi in direzione di quello della «figura», della forma spaziale. Sullo sfondo, ma destinato ben presto a passare in primo piano, vi è il tema della ripetizione: la ripetizione ha una qualche funzione in rapporto al concetto di numero? Nella discussione intorno ad esso questo tema può o addirittura deve essere richiamato? Ed ancora: il richiamo alla ripetizione nel campo delle figure merita almeno di essere considerato interessante? Si tratta di domande che non verranno poste astrattamente, ma che si imporranno ben presto in forza dell’impostazione della nostra ricerca.

Vi sono infatti delle linee ben determinate  entro le quali si muove la nostra indagine, e solo facendo riferimento ad esse diventa per noi possibile accingerci a questa ricerca, senza gettarci in modo scriteriato dentro una discussione che potrebbe apparire ora troppo complessa ed ora troppo vaga. È necessario invece che i nostri problemi siano ben delimitati. Ciò può accadere attraverso la determinazione degli interessi che ci guidano, dagli scopi che vorremmo perseguire, e persino dalle nostre  prese di posizione filosofiche di ordine generale.

Certe domande non sorgerebbero nemmeno se non vi fosse un atteggiamento filosofico a partire dal quale ed in funzione del quale esse assumono il loro senso.  Questo atteggiamento orienta poi naturalmente anche  il modo in cui la discussione tenderà a svilupparsi.

Il quadro entro cui intendiamo muoverci rientra nel titolo di una teoria della conoscenza, inteso nel senso più ampio, e precisamente in un senso che non chiama in causa, da subito, la scienza e i suoi metodi, ma piuttosto il modo in cui concetti che sono per essa rilevanti cominciano ad essere primariamente forgiati nell’esperienza del  mondo.

Da questo punto di vista  numero e figura sono nozioni che hanno una portata esemplare proprio per il fatto che essi possono essere considerati come concetti-base dell’a-ritmetica e della geometria, cioè come concetti che ne definiscono le rispet-tive regioni ontologiche. Nello stesso tempo essi non compaiono belli e pronti all’interno di una sistematica teorica definita e chiusa che quelle regioni ontologiche dovrebbe rispecchiare.

Noi abbiamo un’esperienza del numero così come abbiamo un’esperienza della figura. La parola «esperienza» sembrerebbe inclinare verso atti puramente contemplativi ed osservativi, mentre secondo le nostre intenzioni essa ha piuttosto il senso di un molteplice aver-a-che-fare, nel quale numeri e figure sono messi in pratica. A sua volta questa pratica non va intesa come una più o meno rozza applicazione di quei frammenti di teoria che si sono imparati a scuola fin dalla più tenera infanzia. Si tratta piuttosto del fatto che il problema del numero sorge, come problema concettuale, per il fatto stesso che vi sono intorno a noi delle molteplicità; e quello della figura o della forma per il fatto stesso che vi è uno spazio articolato, che può essere variamente suddiviso, modificato, trasformato. L’interesse pratico-empirico precede l’interesse teorico, lo anticipa e lo prepara. Quando poi questo interesse arriva a bastare a se stesso, ha inizio il cammino della teoria – un cammino vertiginoso, non solo per le altezze che riesce a raggiungere, ma anche perché sa sopportare le vertigini di un sentiero che, sempre più salendo, si libera progressivamente da ogni protezione procedendo in bilico sul vuoto, forse persino creando da se stesso il terreno per il prossimo passo. Aritmetica e geometria sono una splendida illu-strazione di un simile cammino.

Ci si può chiedere allora che interesse potrebbe avere il rammentare i primi inizi. In realtà potremmo fare semplicemen-te a meno di questi ricordi – l’oblio non recherebbe  certamente  dànno alle conoscenze ormai solidamente acquisite. Si tratta del resto di ricordi che pur riguardando certi dati di fatto che sono attinenti ai concetti, sembra si trovino in realtà all’esterno del loro statuto logico autentico, e non siano dunque in grado di insegnarci nulla in rapporto ad esso: dati di fatto storici o addirittura preistorici che potrebbero interessare l’antropologo, ed eventualmente richiamare l’attenzione dello psicologo o del pedagogista potendo essere ricollegati al modo in cui i concetti si formano nella nostra mente. Qualcuno potrebbe  sostenere che chi ha di  mira l’acquisizione di chiarimenti nel quadro dei problemi di una teoria della conoscenza, e che è perciò interessato proprio allo statuto logico-concettuale, dovrebbe  volgere lo sguardo interamente altrove, orientando la propria riflessione sul piano evoluto della teoria: dovrebbe dunque avventurarsi su quel sentiero piuttosto che esitare presso quei primi inizi.

Eppure, per quanti stimoli la riflessione epistemologica possa ricevere dalla considerazione delle elaborazioni teoretiche evolute, dalla riflessione sulle strutture definitorie e sulle connessioni e relazioni istituite nel presupposto di un’unità teorica compiuta, tanto più questi stimoli potranno essere fecondi se si ribadisce quella che è forse la vocazione più profonda della filosofia, che è in realtà assai diversa da quella dell’indagine scientifica. È  mera retorica non voler prendere atto di questa diversità, benché l’una e l’altra si trovino all’interno di un orizzonte comune.

La vera filosofia tende all’elementare. E dunque non ha fretta di correre oltre, indugia in quei punti rispetto ai quali si potrebbe benissimo soprassedere. In certo senso si fa custode del ricordo di cose che si potrebbero facilmente dimenticare.

Il riferimento alle situazioni iniziali, all’interesse filosofico specifico che questo riferimento può rivestire, si situa in questo contesto. In realtà si tratta di un interesse che propone, se-condo una particolare angolatura, questioni che non solo non sono estranee ad un’epistemologia autentica, ma appartengono anzi al suo nucleo più interno. Qui si rinnovano infatti antiche domande: esse riguardano intelletto e sensazione, astrazione e concretezza, logica ed empiria. L’angolatura particolare sta nel fatto che le domande proposte intorno a questi grandi titoli oppositivi vengono riformulate nei termini di una «genealogia fenomenologica», cioè nei termini di una riflessione sulla costituzione primaria dei concetti. In questa riflessione vengono considerati  certi fatti  solo in quanto implicano e suggeriscono una trama teorica, e naturalmente verso di essa è puntata tutta la nostra attenzione. Questo è il modo in cui si può realizzare una vera e propria analisi della costituzione interna del concetto. La parola costituzione ha una duplice e interessante inclinazione di senso, statica e dinamica ad un tempo: da un lato indica l’intelaiatura fondamentale che sostiene una costruzione, i suoi nodi, il suo scheletro; dall’altro il modo in cui una simile intelaiatura è stata processualmente ottenuta, si è andata via via formando in un processo.

Alla base delle considerazioni che seguono vi è la convinzione che l’intelaiatura interna possa essere esibita dal processo costitutivo – o per dir meglio: dal pensiero di un possibile pro-cesso costitutivo, evitando così l’equivoco richiamo ad una «storia» in senso empirico-concreto. Una simile formulazione suggerisce tra l’altro, molto opportunamente, l’idea che i processi costitutivi possano essere più d’uno: è infatti lecito ritenere che una nozione possa essere essere illuminata da diversi lati e che presenti caratteri che possano essere meglio illustrati seguendo itinerari differenti.

Parlando di tendenza all’elementare, ed in rapporto ad essa, di una «genealogia fenomenologica», si allude  ad un altro problema, che ha una lunga tradizione dietro le proprie spalle. La riflessione filosofica ha spesso rivendicato, all’interno di diverse prospettive teoriche e talora con significati ed intenti profondamente diversi, la necessità che le operazioni intellettuali ed i loro prodotti, che hanno la loro sedimentazione nel linguaggio, fossero di continuo messi alla prova nel loro senso, nella loro portata effettiva e nella specificità del loro contenuto. Ed ha spesso avanzato il dubbio che la via dell’astrazione non possa pretendere di trovare ogni garanzia in se stessa, ma che fosse invece un compito privilegiato della teoria della conoscenza rammentare ed elaborare il nesso, per dirla in breve, tra «concetti» e «intuizioni».

È opportuno sottolineare che  non si tratta affatto di un’istanza che cresce dentro atteggiamenti filosofici in via di principio ostili alla logica o alla scienza. Al contrario essa si fa sentire con particolare pregnanza proprio all’interno delle grandi filosofie razionaliste, come quella di Cartesio o di Leibniz. Nella tradizione empiristica, naturalmente, il nesso tende a diventare opposizione – e nella storia complessa del problema trovano spazio anche tendenze in cui l’opposizione diventa una esasperata contrapposizione.

La parola stessa di «intuizione», il cui senso peraltro non è mai stato univoco, assume valenze di significato che sembrano non poter essere rese esplicite se non in modo meramente negativo: l’intuitivo come l’alogico, l’arazionale. Come se si trattasse ancora di un conoscere, ma per un’altra via. In questa modificazione di senso ci troviamo certamente lontani dalla tradizione razionalistica, ma anche da quella empiristica, nella quale il riichiamo alla priorità delle impressions sulle ideas aveva comunque un senso ed una portata analitica, ed assolveva dunque un importante compito critico-conoscitivo: l’idea viene illustrata e chiarita attraverso l’esibizione delle sue origini «impressionali». Oppure essa viene dimostrata come puro flatus vocis, mera costruzione linguistica senza contenuto, quando questa esibizione non risulta possibile. Se ponessimo l’accento sulla contrapposizione ci troveremmo altrettanto lontani dalla concezione kantiana dell’integrazione necessaria tra il piano intellettuale e quello intuititivo – parole che del resto in un contesto trascendentalistico ricevono a loro volta un senso interamente nuovo. Con la nozione di intuizione pura ed a priori, nell’accezione kantiana del termine, ciò che viene intuitivamente colto assume una nuova dignità, in quanto deve appartenere alla forma stessa del reale.

Si potrebbe tuttavia osservare che tutte queste diverse possibilità di intendere il termine e la problematica corrispon-dente sono di fatto confluite insieme e, ad un tempo, superate e sop-presse da quella «crisi dell’intuizione» il cui risultato dovrebbe essere ritenuto del tutto acquisito. In questa crisi non deve forse anche essere travolta l’idea stessa della necessità di un’indagine volta in direzione dei rapporti tra concetti e processi dell’esperienza e la sua appartenenza di diritto al campo degli interessi epistemologici?

Secondo una semplice schematizzazione che è stata per lungo tempo in auge, e forse lo è ancora, la domanda «filosofica» – ma di una filosofia che sarebbe digiuna dello sviluppo della scienza – pone l’istanza dell’«intuizione», laddove la scienza, ed una filosofia che si attenga ad essa come propria stella polare, ha già relegata questa istanza tra le anticaglie del passato. A titolo di esempio: la consistenza delle geometrie «non euclidee» e nello stesso tempo il loro carattere controintuitivo sembrano avere il valore di dati di fatto che stanno in luogo di mille discettazioni. L’antico concetto dell’assioma, e la cogenza razionale ad esso associato, si mostra ora in tutta la sua decrepitezza e consunzione. Persino autorevoli «leggi logiche» – si pensi al rapporto intero-parte – hanno perduta tutta la loro autorevolezza in un giorno solo, esattamente nel giorno in cui si ebbe l’idea di contare tutti i numeri pari scoprendo che essi erano tanti quanti i numeri pari e dispari insieme. Il vecchio neopositivismo fece di tutto ciò una sorta di bandiera – e la nuova logica sembrò trovare nell’idea della definizione implicita, strettamente solidale con questa «crisi dell’intuizione», la risposta effettiva alla domanda filosofica sull’essenza.

Ad esempio: se si chiede «Che cosa è il numero?» si risponderà non già dicendo o tentando di dire la cosa, ma indicando un insieme di condizioni (gli «assiomi» appunto in quanto «assunzioni», e non in quanto «evidenze») che la cosa deve soddisfare per essere chiamata numero. L’ente resta «concettualmente» indeterminato – mentre esattamente determinate sono le condizioni del suo comportamento. «Concettualmente» significa qui «psicologicamente», «mentalmente», o qualcosa di analogo. Infatti anche la terminologia del concetto diventa decrepita. A quanto sembra non sappiamo più attribuire a quel termine altro senso che quello di «contenuto mentale» – e allora dei concetti se ne occupi lo psicologo, se ritiene di doverlo fare; oppure l’antropologo se è interessato alle pratiche con i numeri, alle usanze aritmetiche di questa o quella tribù.

La definizione implicita ci consente da subito di navigare nelle acque alte del pensiero astratto, non ci obbliga a fare i conti con il vero e con il falso, distingue nettamente tra costru-zione teorica e applicazione, non ci impegna né sulla natura del concetto né su quella della realtà. Essa dunque ci libera da molti problemi, ed ha molti vantaggi.

Eppure basta un nonnulla – una sua ripresa senza che sia accompagnata da una necessaria riflessione critica, una stanca ripetizione da manuale, il presentare le cose come se si trattasse di una straordinaria scoperta piuttosto che di una possibilità interessante – perché essa, considerata dal punto di vista epistemologico, non sia altro che un modo di soprassedere, di alzare le spalle, di «dimenticare»: una vera e propria dissennata apologia della cecità. La quale è peraltro molto spesso – e per fortuna – una finzione ad uso dei profani. Ciò che si dice di non pensare più, lo si è già pensato prima. Questo pensiero anteriore, che precede gli scarabocchi dei simbolismi, viene chiamato in causa dalle nostre considerazioni precedenti e dai dubbi in esse formulati: una riflessione filosofica epistemologicamente orientata può avere il senso di una pausa nel cammino sempre avanti su quel vertiginoso sentiero, una sorta di temporaneo ritorno a terra dal mare alto, sulla spiaggia,  dove potremo in piena tranquillità, forse giocherellando con i sassolini tra i nostri piedi, tentare di mettere un poco di ordine nei nostri pensieri.