Materiali di lavoro per un corso sul tema “Fenomenologia dell'espressione e filosofia della musica” tenuto nel 1986 (Università di Milano, Insegnamento di Filosofia teoretica I). Il testo di riferimento è Feeling and Form, Routledge & Kegan Paul, New York, 1953. Trad. it. Sentimento e forma, a cura di Lia Formigari, Feltrinelli, Milano 1975 (I ed. 1965). Le citazioni e le indicazioni di pagina sono relative alla traduzione italiana con le modificazioni ritenute opportune.Elementi biografici e collegamenti a siti internet relativi a Susanne K. Langer si possono trovare in http://www.bsu.edu/classes/bauer/hpmused/langer.html.


Data di immissione in questo archivio: 2003

Giovanni Piana, Intorno alla filosofia della musica di Susanne Langer (pp. 26 - Kb.114)

 


 

Intorno alla filosofia della musica di Susanne Langer

 

 

1986



Indice

 


- La musica non occupa una posizione significativa all'interno del pensiero novecentesco, nemmeno nell'ambito delle filosofie orientate verso tematiche di ordine estetico. Il caso di Susanne Langer rappresenta una delle poche eccezioni. Da un punto di vista generale, il suo progetto filosofico, esposto nel volume Filosofia in una nuova chiave (Philosophy in a New Key, 1942), consiste nel tentativo di far convivere istanze filosofiche di provenienza diversa: vi è anzitutto la presenza del neoempirismo, con i suoi interessi linguistici; ma questa presenza si incontra con temi cassireriani, prossimi dunque alla tradizione idealistica europea. La nozione che mostra con maggiore chiarezza questa intersezione è quella di simbolo, che da un lato può essere applicato ai segni del linguaggio scritto o verbale, dall'altro può essere estesa, come accade appunto in Cassirer, all'ambito dell'arte o del mito.

- Nella Filosofia in una nuova chiave l'idea di un “nuovo stile filosofico” si specifica già in direzione della filosofia dell'arte, e precisamente di una filosofia dell'arte che ha nella musica il suo centro. Questo progetto viene sviluppato in Sentimento e forma (Feeling and Form. A theory of Art, 1953) nel quale si cerca di elaborare una compiuta filosofia dell'arte a partire da un discorso orientato anzitutto sulla musica.

- Alla parola simbolo dobbiamo prestare particolare attenzione perché essa ricorre di continuo e in una grande varietà di sensi nell'ambito della filosofia della musica. Per ciò che riguarda l'impiego che di essa fa la Langer diremo subito che questa nozione è tanto centrale quanto poco pregnante.

- L'accezione di simbolo qui in questione si illustra unicamente in contrapposizione a segnale. Segnale è ciò che indica l'esistenza di qualcosa. Segnale è il ruggito di un leone, che indica l'esistenza di un leone nelle nostre immediate vicinanze. Segnali della mia ira sono le vampe di rossore che salgono al viso, la concitazione della mia voce. Ora, per Susanne Langer tutto ciò che ha carattere di segno, ma non di segnale, deve essere annoverato nell'ambito dei simboli. Ed allora saranno simboli le parole del linguaggio verbale o scritto - le parole “presentano” un'idea. Presentando un'idea si connettono insieme formando una frase, un discorso. La nozione di simbolo può essere attinta dal linguaggio verbale o scritto - ma esempi tratti soltanto di qui implicherebbero secondo la Langer una indebita restrizione. La sua “scoperta” è che vi sono anche simboli non discorsivi. In essa si riprendono temi di origine cassireriana, che peraltro affondano le loro radici molto lontano.

- Tra i simboli non linguistici annovereremo anche i simboli della musica. La musica consta di simboli, nella musica si operano simbolizzazioni. Questa la tesi di ordine generale. Una tesi che trae tutto il suo senso dalla distinzione tra due specie fondamentali di simboli: quelli linguistici e quelli non linguistici. Per chiarezza potremmo ridurre tutto ciò al seguente schema argomentativo:

a - I suoni nella musica non valgono di per se stessi.
Dunque, essi sono segni.

b - Tuttavia essi non indicano o segnalano l'esistenza di qualcosa.
Dunque essi sono simboli (ovvero non-segnali).

c - I simboli musicali non dicono nulla intorno al mondo, non discorrono intorno ad esso,
come le parole del linguaggio verbale o scritto.
Dunque essi non sono simboli linguistici.

- Siamo peraltro alla presenza di determinazioni puramente negative. In ogni caso il simbolo non linguistico simbolizza; in che modo deve essere concepita questa simbolizzazione? In realtà nella Langer non si trova una posizione esplicita di questa domanda e tanto meno una risposta teoreticamente elaborata. Vi sono comunque nel testo alcune indicazioni chiaramente orientate.

- In primo luogo se c'è simbolizzazione, c'è anche un simbolizzato. La coppia simbolo-simbolizzato è esplicitamente enunciata dalla Langer ed illustrata attraverso l'idea della comunanza di “forma logica” tra l'uno e l'altro. Ciò che essa chiama significanza o portata significativa del simbolo si risolve in questo rapporto. Cosicché quando la Langer differenzia il simbolico-musicale dal simbolico-linguistico intende soprattutto differenziare un modo del rapporto simbolico, che peraltro si articola nei due poli del simbolizzante e del simbolizzato come poli chiaramente differenziati.

- La forma del simbolico-linguistico a cui pensa è fondamentalmente il rapporto denotativo, ovvero il rapporto tra un nome - o addirittura tra un nome proprio - e la cosa denominata. Di fronte ed anche in opposizione a ciò vi sarebbe un rapporto che si stabilisce in quanto il simbolizzante è caratterizzato da uno schema strutturale analogo a quello del simbolizzato. Sembra alla Langer che questo tema, pur ponendo la musica al di fuori del simbolismo discorsivo (cosa che per la tradizione neopositivistica rappresenta sempre un sospetto di irrazionalità), mantiene invece un legame con una considerazione razionale in un senso ampio del termine che rimanda in generale ad un ordine e ad un'articolazione possibile. “Ogni consapevolezza di strutture dell'esperienza è ragione” (Sentimento e forma, pp. 45-46) e perciò vanno rifiutati i richiami all'ineffabilità o all'intuizione, così frequenti nelle considerazioni filosofico-musicali. In questa stessa direzione va interpretata l'insistenza con la quale la Langer parla, per indicare il rapporto di simbolizzazione, di analogia formale o di forma logica comune.

- Se possiamo porre una differenza tra simbolizzante e simbolizzato allora dobbiamo anche poter dire qual è il simbolizzato dei simboli musicali, decidendo una volta per tutte quale sia il “significato” della musica. Se poi la parola “significato” dovesse comportare equivoci nel senso della denotazione possiamo usare termini tendenti ad evitare questo equivoco, come “portata significativa” (import), “significanza” (significance), “forma significante” (significant form). Ed ecco la chiara risposta che Susanne Langer ritiene di poter dare alla domanda intorno alla portata significativa della musica. “La musica è un corrispondente sonoro della vita emotiva” (ivi, p. 43). (“The music is a tonal analogue of emotive life” - evidentemente è assai poco opportuno tradurre “tonal” con “tonale”, come avviene normalmente nella traduzione italiana).


- Se qualcuno afferma che la musica è il corrispondente sonoro della vita emotiva, non siamo affatto obbligati a credergli sulla parola! In realtà si tratta di una risposta che, oltre a non essere troppo nuova, è piuttosto abborracciata nel modo in cui viene proposta ed argomentata. Parlando di “corrispondenza” sonora si evita di porre il rapporto con il simbolizzato come un rapporto di rappresentazione, cosa che richiamerebbe da vicino una nozione denotativa del significato. Tuttavia sorge subito un problema. Nella rappresentazione in genere così come nella denominazione vi è una disparità tra i due poli. Il ritratto di Pietro rappresenta Pietro, ma Pietro non rappresenta il suo ritratto. Ponendo invece il problema in termini di corrispondenza tra strutture, la relazione diventa simmetrica. Il simbolizzato può valere come simbolizzante, il simbolizzante come simbolizzato. Ed è piuttosto imbarazzante accettare la conseguenza che se parliamo dei suoni come simboli dei sentimenti, dovremmo anche poter parlare di sentimenti come simboli dei suoni. La Langer avverte la difficoltà ma la risolve in modo grossolano, platealmente pragmatico. Essendo la relazione di simbolizzazione simmetrica, ci deve “essere un motivo per decidere fra due entità o due sistemi che l'uno è simbolo dell'altro (e non inversamente). In genere la ragione decisiva sta nel fatto che l'uno è più facile dell'altro da percepire e da usare” (ivi, p. 43). I suoni diventano simboli dei sentimenti e non i sentimenti dei suoni per il fatto che i suoni sarebbero molto più facili da dominare (produrre, combinare, percepire, identificare) di quanto lo siano i nostri sentimenti. Da una falsa impostazione del problema, non si possono che trarre soluzioni stravaganti.

- Parlando di corrispondente sonoro si intende anche negare che il significato della musica sia da ricercare nella molteplicità disparata dei sentimenti considerati nel loro contenuto determinato. Ciò che importa non è il contenuto del sentimento, ma la sua forma. Già il titolo del libro Sentimento e forma dice questo, e lo dice anche la nozione di simbolo nel modo in cui è stata proposta. Siamo dunque nell'ambito di quella tendenza “formalistica” che si può far risalire a Kant e che ha ricevuto popolarità nel volumetto di Hanslick Il bello musicale (1854). Molte affermazioni sembrano tratte di peso dal testo di Hanslick ed è soltanto sorprendente che questo autore riceva solo un paio di citazioni non molto significative. Peraltro il lavoro di Hanslick, che era critico musicale piuttosto che filosofo e speculatore, si inseriva in un movimento di reazione ad una critica “sentimentalistica” e trae di lì gran parte del suo senso.

- Da Hanslick in particolare deriva l'idea della musica-arabesco. Il problema che propongono i disegni che vengono chiamati “decorativi” e che appartengono alle fasi più antiche della civiltà, è anche nello stesso tempo il problema della musica stessa. Un brano musicale può essere assimilato ad disegno puro, ad un disegno senza oggetto, a figure che non raffigurano nulla. E tuttavia esse hanno una direzione di insieme che le caratterizza. La decorazione esibisce percettivamente una parvenza di movimento. Essa ha infatti normalmente la forma di una sequenza, spesso costituita di elementi eguali o molto simili tra loro, e proprio in questa forma sequenziale essi sembrano riprodurre l'andamento di qualcosa che si muove.

- Che si parli di parvenza di movimento è da un lato piuttosto ovvio - nulla infatti si muove realmente; ma questa parola “parvenza” (semblance) per la Langer ha un significato meno banale e chiama in causa l'intera sua impostazione. È l'arte in genere che ha a che fare con oggetti illusori, con oggetti virtuali. Si pensi ad un dipinto: nella stanza che in essa viene rappresentata noi non possiamo addentrarci. Così come non è mai entrata in quella stanza la mosca che vediamo in essa. Quella stanza è una stanza illusoria - ed anche il dipinto più schiettamente raffigurativo consta di combinazioni di linee e di colori che hanno lo scopo di far sorgere in noi - così sostiene la Langer - l'illusione di una stanza. Esempi di oggetti virtuali sono per la Langer cose come l'arcobaleno, i miraggi in genere, eventi e cose che compaiono in sogno. Compito dell'arte in genere - la Langer ci insegna - è quello di produrre illusioni.

- Ma che cosa c'è di vero in una simile affermazione - che sembra a tutta prima persuasiva e che è stata così spesso autorevolmente sostenuta? A tutta prima verrebbe voglia di contestarla così: compito dell'arte in genere è quello di produrre opere dell'arte. Nessuno guarda un paesaggio dipinto così meditando: ora è come se guardassi una mera evanescenza, questo paesaggio è fantomatico nello stesso senso in cui potrei dire che è fantomatico l'arcobaleno. Di quegli alberi laggiù non potrò mai godere l'ombra tranquilla. - Vi è tuttavia un'altra via per rendere conto della possibilità di parlare di parvenze prodotte dall'immaginazione artistica. Susanne Langer si avvale anche di essa, senza tuttavia avvertire la profonda differenza qui in questione. Vi passa accanto quando nota, ad esempio, che un quadro appeso alla parete di un museo viene considerato in se stesso senza integrarlo con gli altri quadri e in genere con le altre cose presenti in sala (ivi, p. 51). E così anche quando sottolinea che l'impressione più immediata che una opera d'arte “ben riuscita” (successful) ci fa “è una impressione di alterità” (ivi, p. 61) rispetto al reale (The most immediate impression it creates is one of “otherness” from reality). Ma che queste formulazioni non siano orientate nel giusto senso lo si comprende proprio da alcune loro singolarità. Che bisogno mai vi è della precisazione della bontà dell'opera, del suo essere “ben riuscita”? Forse che una stanza dipinta in modo mediocre si integrerà con il reale meno di altre riuscite meglio? E perché parlare di “impressione di alterità” come se nella fruizione dell'opera questo fosse il primo dato che ci colpisce? Tanto peggio poi se si afferma che in forza di questa impressione di alterità l'opera acquista una sorta di “atmosfera di illusione” (aura of illusion). Susanne Langer non ha la minima idea del senso autentico dell'alterità dell'opera in quanto oggetto dell'immaginazione. E confonde l'illusorietà come contraltare di un'effettiva posizione d'essere e la situazione nella quale la posizione d'essere è semplicemente neutralizzata. Solo se mi dirigo verso il ritratto di Pietro per stringergli la mano, dovrò poi rendermi conto che in quel ritratto vi è un Pietro “illusorio”. Perciò non vi è nessuna ragione di definire “illusoria” la figura di Pietro nel dipinto.

- Tornando alla decorazione: l'illusione suscitata dalla decorazione, ovvero dal puro disegno, è quella del movimento. Tanto più ciò potrà essere detto per quei disegni ornamentali che sono disegni sonori. Questi, a differenza delle sequenze visive, che sono in ogni caso statiche, sono sequenze temporali. “Essenza della musica è il movimento” - scrive senz'altro Susanne Langer (p. 127). E con ciò entra in questione la tematica della temporalità che è necessaria per rendere conto dell'affermazione secondo cui la musica sarebbe il “corrispondente sonoro della vita emotiva” - affermazione che fino a questo punto non è ancora stata giustificata.

- La tematica del tempo può essere richiamata in un discorso sulla musica da un lato come un momento che fa parte della sua costituzione intrinseca, dall'altro come un momento che può essere giocato sul piano espressivo in una grande molteplicità di modi. Nella Langer questo problema dell'uso espressivo della temporalità non entra in linea di conto. Il richiamo al tempo intende unicamente rafforzare e integrare le idee generali che sono state prospettate. In particolare l'accento cade sulla “parvenza” nel senso or ora illustrato, sull' immagine del tempo che si intreccia necessariamente con quella del movimento. Ci si chiede dunque: di che cosa è immagine il tempo (image of time) nella musica, qual è l'originale rispetto al quale il tempo nella musica è pura parvenza ?

- Nel rispondere a questa domanda gli sviluppi della Langer precipitano rapidamente verso semplicismi bergsoniani. In primo luogo converrà distinguere il tempo presentato nella musica dal tempo reale, cioè dal tempo “in cui si svolge la nostra vita comune e pratica” (ivi, p. 129) - il cosiddetto “tempo degli orologi”. Ed è inutile dire che questa distinzione serve anche a sottolineare con insistenza l'illusorietà della temporalità nella musica. Questa temporalità non è reale, il suo tempo non è “tempo del mondo”, ma non è nemmeno l'immagine del tempo nel mondo. Si tratta invece del tempo-durata nel senso di Bergson, del tempo come puro flusso che si contrappone al tempo “obbiettivo” pensato come giustapposizione di istanti. Il fatto che per questa via si pervenga ad affermare che l'esperienza del musicale è essenzialmente esperienza della transizione, e non dunque esperienza di un punto sonoro e di un altro punto sonoro, ma del passaggio che porta da un suono ad un altro suono potrebbe attirare fortemente la nostra attenzione - ma si tratta di uno spunto che per crescere avrebbe bisogno di ben altro contesto. Qui esso si riduce a consentire il passaggio dalla musica all'esperienza vissuta. Infatti - così argomenta la Langer - noi abbiamo originariamente esperienza della durata, intesa come puro flusso, anzitutto nella percezione del fluire dei nostri stessi vissuti. Questo tempo vissuto è appunto l'originale di cui il tempo musicale è l'immagine. “La parvenza di questo tempo vitale, di questo tempo esperito è l'illusione primaria della musica” (ivi, p. 129) (The semblance of this vital, experiential time is the primary illusion of music).

- Il riferimento a Bergson affiora così insistentemente nei dibattiti filosofici sulla temporalità musicale, che sembra quasi diventare obbligatorio ogni volta che quel tema viene appena sfiorato. Invece bisognerebbe sottolineare anzitutto l'intrinseca povertà dei temi che possono essere tratti da Bergson in direzione di una filosofia della musica - cosa che naturalmente non impedisce un uso creativo e geniale di essi in questo campo (si pensi a Jankélévitch). In particolare questa sottolineatura andrebbe fatta all'interno di un orientamento fenomenologico - che sembra condividere alcuni aspetti importanti proprio con la posizione bergsoniana. È opportuno allora riferire in una rapidissima sintesi sulle differenze.

- Il “tempo vissuto” di Bergson si contrappone al “tempo degli orologi”, al tempo obbiettivo. Il tempo obbiettivo è d'altronde un'astrazione operata proiettando categorie statiche di natura spaziale sulla nozione “autentica” della temporalità vissuta. Per Bergson il punto importante è proprio quello di fissare questa grande distinzione, anzi quest'opposizione come un'opposizione che forma in certo senso la guida per la fissazione di una vera e propria catena di opposizioni dalla quale è atttraversata tutta la sua filosofia. Da una parte vi è il tempo come flusso, quindi la mobilità, la flessibilità, il passaggio, la transizione. Da questo stesso lato vi è la vita stessa nella sua concretezza che non può essere colta mediante astrazioni intellettuali, ma soltanto afferrata interiormente. Sul lato opposto vi è invece lo spazio - l'astrazione intellettuale e concettuale si trova da questo versante. E così anche il linguaggio in quanto attraverso di esso si tenta in qualche modo di irrigidire nella parola ciò che è invece per essenza mobile e fuggevole. È appena il caso di dire che su questo versante si troverà la scienza stessa. All'interno di queste opposizioni, Bergson tende a riproporre una filosofia intesa come metafisica, cioè come indagine sulla dimensione profonda della vita che deve avvalersi in linea di principio di facoltà “intuitive” dal momento che l'esercizio dell'argomentazione comporta astrattezza e rigidità.

- Il contesto entro cui la tematica temporale viene proposta da un punto di vista fenomenologico è tanto diverso da rendere le somiglianze pure assonanze estrinseche. Il problema centrale qui non è in alcun modo quello di pervenire ad una metafisica di carattere intuizionistico, ma piuttosto di individuare una metodologia di indagine sulle strutture dell'esperienza che sappia rendere conto della molteplicità delle formazioni di senso che in essa vengono operate. Certo, da un punto di vista fenomenologico la tematica temporale comincerà con l'opporre il tempo dato nell'esperienza e la nozione obbiettiva del tempo. Le Lezioni sulla coscienza interna del tempo di Husserl cominciano con la “messa da parte” del tempo obbiettivo. Ma questa messa da parte è soltanto una operazione metodica di isolamento tematico - in base ad essa isoliamo il tema che intendiamo mettere a fuoco. La domanda è: “che cosa è il tempo nella coscienza interna che abbiamo di esso?”. Questo tema dovrà poi essere esplorato in tutte le sue stratificazioni secondo una descrizione positiva che non rifugge per nulla da momenti di astratta schematizzazine. Del resto ciò è connesso con il fatto che queste lezioni che pure hanno nel titolo il riferimento alla “coscienza interna” non vengono realizzate attraverso un'indagine introspettiva. Nell'insieme questa tematica andrà poi considerata nel quadro più generale delle sintesi dell'esperienza, dove il tempo si presenta come come “forma” delle sintesi (e dunque anche loro condizione) sia in rapporto alle formazioni che rinviano al mondo stesso, sia a quelle che rimandano invece alla strutture della vita soggettiva. L'intuizione infine - a cui ci si può ben giustamente richiamare anche da un punto di vista fenomenologico - non è nulla di simile ad una sorta di partecipazione alla sostanza intima delle cose, ma questa parola trae il suo senso dalla tensione descrittiva che caratterizza la ricerca fenomenologica. Da un punto di vista fenomenogico non vi è nessuna intuizione del tempo vissuto, ma niente altro che una descrizione dell'esperienza del tempo che può muoversi in una grande molteplicità di direzioni.

- La ripresa di Bergson in direzione delle tematiche musicali è generalmente tutta giocata sul tema della “durata”, nel quale si è subito tentati di intravvedere una sorta di importante suggerimento per ciò che riguarda la temporalità nella musica. Sul piano puramente esemplificativo questa connessione è del resto già proposta da Bergson. Ecco come in che modo viene proposto il tema della durata nel Saggio sui dati immediati della coscienza:

«La durata assolutamente pura è la forma che assunta dalla la successione dei nostri stati di coscienza quando il nostro io si lascia vivere, quando si astiene dallo stabilire una separazione tra lo stato presente e gli stati anteriori. Esso non ha bisogno per questo di immergersi interamente nella sensazione o nell'idea che passa, altrimenti cesserebbe di durare. E nemmeno ha bisogno di dimenticare gli stati anteriori: è sufficiente che, ricordandosi di questi stati, non li giustapponga allo stato attuale come un punto ad un altro punto, ma li organizzi insieme, come accade quando ci ricordiamo fuse insieme, per così dire, le note di una melodia fuse - per così dire - insieme. Non si potrebbe forse dire che, sebbene queste note si succedano, noi le percepiamo nondimeno le une nelle altre e che il loro insieme è paragonabile ad un essere vivente le cui parti, benché distinte, si compenetrano per effetto stesso della loro solidarietà? La prova di ciò è che se noi rompiamo la misura insistendo più del necessario su una nota della melodia, ciò che ci avverte del nostro errone non è tanto la lunghezza eccessiva in quanto tale, ma il cambiamento qualitativo che in questo modo abbiamo apportato all'insieme della frase musicale» (Opere 1889-1996, a cura di P. A. Rovatti, trad. it. di F. Sossi, p. 59).

- Questo passo letto con attenzione critica è in grado di insegnarci svariate cose. Intanto, per cogliere la durata nella sua purezza dobbiamo disporci in un particolare atteggiamento nel quale l'io, piuttosto che essere intento in questo e quello, “si lascia vivere” e in questo lasciarsi vivere si auto-osserva, cercando di afferrare in che modo i suoi stati interni si succedano l'uno all'altro. In che cosa consista propriamente questo “lasciarsi vivere” che è una premessa così importante per tutto il resto? A dire il vero, non è così facile capirlo. L'io si lascia vivere e nello stesso tempo non si fa assorbire interamente dalla sensazione o dal ricordo da cui esso viene eventualmente colto: altrimenti la sensazione, con il suo contenuto o il ricordo verrebbe in primo piano, attirerebbe su di sé l'attenzione dell'io, mentre il momento temporale passerebbe in secondo piano inavvertito. In queste condizioni l'io avvertirà che uno stato succede all'altro, ma questa successione non verrà intesa come una “giustapposizione”, ma come un trapassare di uno stato nell'altro. Mi sembra che Bergson dica all'incirca questo, facile o difficile che sia da capire.

- A questo punto cade l'esempio “musicale”. Nello stesso modo noi ci rammentiamo di una melodia, l'un suono sembra compenetrarsi con l'altro formando un intero organico nel quale un elemento non può essere variato se non variando nello stesso tempo la struttura melodica. Analogia musicale generica ed equivoca. In che senso si parla qui di melodia? Evidentemente non si tratta di una successione sonora qualunque e nemmeno di una sequenza di note qualunque - ma di una sequenza di note per le quali si possa parlare sensatamente di organicità interna. E qui sono implicite, e sottaciute, scelte musicali di un certo peso. Ma a parte questo, la strutturazione e l'organizzazione delle note poste in sequenza non dipende certamente solo al momento temporale, ma anche - ed in modo determinante - ad altri fattori che attengono piuttosto alla “sostanza” sonora - all'altezza, al timbro, ecc. Restiamo poi debitori di una spiegazione in rapporto al senso dell'affermazione secondo la quale le note di una melodia sarebbero fuse insieme, benché rimangano distinte. Certamente, forse ci potremmo anche esprimere così. O addirittura potremmo far riferimento, da fenomenologi, alla dinamica ritenzionale e protenzionale - la quale tuttavia renderebbe del tutto dispensabile il porre l'accento sull'“organicità” della melodia, dal momento che questa dinamica agisce per una sequenze di suoni qualunque, anzi agisce per ogni formazione di esperienza in genere; l'esempio della melodia diventerebbe così poco pregnante da poter essere soppresso senza problemi. Se poi poniamo l'accento sulla strutturazione della melodia, l'esempio diventa addirittura assai poco calzante. Infatti la tematica bergsoniana della durata pone la massima enfasi sul tema della continuità, sul fluire indistinto e indeterminato, sulla mobilità, mentre è certamente sostenibile che la strutturazione e l'articolazione richiedano differenza e discontinuità, sia pure dentro l'ovvia condizione di una percezione sintetizzatrice. Si tratta dunque di una esemplificazione in parte ovvia, in parte insignificante, in parte profondamente equivoca. Eppure questa concezione della durata e proprio questa esemplificazione ha in qualche modo colpito la fantasia speculativa degli interpreti.

- Il caso della Langer ci fornisce un esempio certamente significativo. A partire dai suoi presupposti tuttavia la posizione di Bergson non può che essere parzialmente criticata. In particolare viene respinta la diffidenza caratteristicamente bergsoniana nei confronti del linguaggio in genere, e quindi anche di ogni attività di simbolizzazione che, nel contesto della filosofia bergsoniana, viene intesa come un'attività di irrigidimento e di fissazione. Giustamente poi Susanne Langer mette in rilievo che la concezione bergsoniana della durata intesa come un “fluire assolutamente privo di forma” (ivi, p. 136) è la concezione del tempo meno adatta per rendere conto del modo effettivo di presentarsi del problema della temporalità nella musica. Si tratta di rilievi critici molto forti. E tuttavia la Langer ritiene Bergson un riferimento obbligato per due motivi essenziali: in primo luogo perché trova teorizzato nel quadro della tematica temporale ciò che essa chiama l'esperienza diretta del passaggio. In secondo luogo per il fatto che questa esperienza, introspettivamente avvertita nella nostra stessa vita psichica, rappresenterebbe l'originale di cui la musica stessa, nella sua temporalità sarebbe l'immagine (il simbolo): un'immagine che ripresenta la transizione caratteristica della vita psichica in una forma ad un tempo esaltata e depurata, proprio per il fatto che in essa vengono neutralizzate tutte quelle ansie, preoccupazioni, tensioni concrete che sono elementi ineliminabili della vita psichica reale.

-“L'esperienza diretta del passaggio (direct experience of passage), come esso si verifica nella vita di ciascun individuo, è naturalmente qualcosa di effettivo... esso è il modello del tempo virtuale creato dalla musica. Qui noi troviamo la sua immagine completamente articolata e pura; ogni sorta di tensione è trasformata in tensione musicale; ogni contenuto qualitativo, in qualità musicale; ogni fattore estraneo è sostituito da elementi musicali. L'illusione primaria della musica è l'immagine sonora del passaggio, astratto dalla realtà effettiva per farsi libero e plastico e interamente percepibile” (ivi, p. 133). (In margine: in rapporto a questo tema, la Langer critica il tentativo della fenomenologia di “descrivere in termini discorsivi questa complessa esperienza”, ottenendo come risultato “una tremenda complicazioni di 'stati'” (a tremendous complication of 'states').

- Ogni sorta di tensione, si dice qui, è trasformata in tensione musicale. Ciò ha naturalmente ancora a che vedere con la temporalità. Il tempo “vissuto” è in ogni caso un tempo riempito di tensioni di ogni genere, e delle distensioni che sempre subentrano ad esse. “I fenomeni che riempiono il tempo sono tensioni: tensioni psichiche, emotive o intellettuali. Il tempo esiste per noi perché sentiamo le tensioni e le loro risoluzioni” (ivi, p. 132). Ora, queste tensioni debbono essere liberate dalla loro particolarità, e ciò accade nella loro sublimazione nel tempo “virtuale” prodotto dalla musica, che diventa così immagine della vita “come tale”. Già in rapporto al disegno decorativo, la Langer osserva che il motivo profondo dell'attrazione esercitata da esso sta nel movimento in quanto esso è “una diretta proiezione del sentimento vitale in forme visibili e colori” (ivi, p. 79). La decorazione sarebbe l'espressione di “ritmi vitali fondamentali” (ivi, p. 79). Il movimento che appare nella decorazione “è una illusione artistica del tutto elementare (di illusione, e non di inganno perché, a differenza di quest'ultimo, essa sopravvive all'analisi), che noi chiamiamo 'forma vivente'. Questo termine, a sua volta, è giustificato da una connessione logica che esiste fra il dato parzialmente illusorio e il concetto di vita per cui il primo è un simbolo naturale del secondo: con 'forma vivente' infatti si enuncia direttamente quella che è l'essenza della vita, moto incessante, o processo, che articola una forma permanente” (ivi, p. 82). Ciò che l'arte è, diventa poi compito che l'artista deve perseguire cosicché “compito dell'artista è di produrre e alimentare l'illusione essenziale, separarla in modo netto dal circostante mondo reale, e articolarne la forma al punto che essa coincida inequivocabilmente con forme di sentimento e di vita” (p. 85).

- Tutto ciò avrebbe la sua massima evidenza nella musica. Si comincia dalla considerazione secondo cui “la musica rende udibile il tempo e sensibili la sua forma e continuità” in quanto immagine sonora del passaggio per poi proporre in modo sempre più accentuato il legame tra la musica e il sentimento della vita, tra la musica e la vita stessa - legame che supera a sua volta le particolarità delle espressioni musicali. Questo legame, a forza di ribadirlo, diventa per la Langer semplicemente evidente: “Qualunque sia la modalità particolare del pezzo o la sua portata emotiva, il ritmo vitale del tempo soggettivo (il tempo “vissuto” che Bergson ci invita a cogliere nell'esperienza pura) permea il simbolo musicale complesso, pluridimensionale, come sua logica interna, che lega intimamente e in modo evidente la musica alla vita (ivi, p. 148). È appena il caso di dire che il modo in cui in questa frase si presenta la parola “ritmo” fa presagire che nella Langer non sarà dato trovare alcuna effettiva penetrazione della problematica specificamente musicale del ritmo - e che essa verrà richiamata soprattutto per accentuare la componente “vitalistica”, che diventa via via sempre più greve. Essa permea anche l'idea di matrice musicale (musical matrix), espressione con la quale la Langer intende una sorta di nucleo fondamentale, di idea musicale che starebbe alla base della composizione musicale e da cui l'opera stessa sorgerebbe per estensioni e variazioni successive. Si tratta di una nozione che la Langer tiene a differenziare dalla Urlinie di Schenker, e che peraltro è priva di qualunque interesse in rapporto ad un approccio analitico di un testo musicale, sembrando piuttosto il frutto di una rozza psicologia della creazione musicale.

- La filosofia della musica della Langer, e così in generale la sua filosofia dell'arte, cerca di stabilire ciò che l'arte, e in particolare la musica, essenzialmente è - una domanda a cui occorrerà dare una risposta univoca e inequivoca. La musica è proprio questo e niente altro. E di conseguenza anche cerca di fornire dei criteri per la discriminazione tra cià che è opera d'arte e ciò che non lo è. In essa è strettamente implicata - anche se non affrontata in maniera diretta ed esplicita, ma lasciata come un presupposto tacito ed irrinunciabile - una problematica relativa ai criteri di una valutazione. Cosicché non vi è da sorprendersi se talvolta si parla di vera opera d'arte, oppure se si deriva dall'essenza della musica il compito del musicista, oppure se si parla di una qualità specificamente estetica (ivi, p. 49) che sarebbe presente nell'opera; oppure se si pone l'esigenza di entrare in possesso di un “criterio atto a decidere che cosa sia o che cosa non sia importante nel giudizio delle opere d'arte” (ivi, p. 40). Si tratta naturalmente di problemi che da sempre sono stati presenti all'interno della riflessione estetica, talora hanno anzi occupato il suo centro. Eppure, io penso che sia possibile avviare una riflessione filosofica sulla musica senza subito essere preoccupati dal problema della valutazione, che è forse meno centrale di quanto spesso si pensi e che richiede in ogni caso una corretta delineazione metodica nella quale l'idea che il problema della valutazione dipenda da una decisione sull' essenza della musica dovrebbe essere preliminarmente esclusa.

- Il modo più ingenuo di proporre il problema della valutazione è forse proprio quello di pretendere che vi sia una “qualità specificamente estetica” che l'oggetto in esame dovrebbe possedere per essere ammesso nel novero delle “opere d'arte”. Procedendo in questo modo è inevitabile un'inflessione normativa e prescrittiva, che renderà a sua volta inevitabile la proiezione di modelli e dunque di un insieme di concezioni pregiudiziali. Ciò accade naturalmente nella Langer, benché essa in apparenza tenti di mostrare che la propria concezione della musica non presuppone alcun modello.

- In realtà, la questione del simbolismo dovrebbe essere affrontata in primo luogo in rapporto al materiale sonoro come tale, tenendo conto delle sue potenzialità espressive. Nella Langer invece essa viene proposta presupponendo già la musica come prodotto spirituale, come modalità della creazione artistica. È significativo da questo punto di vista che la separazione di cui essa parla rispetto alle cose circostanti sia riferita alle opere in quanto “opere d'arte”, ed è lontano di qui persino il sospetto che questa separazione possa essere intesa come una condizione per fare emergere una direzione espressiva che è anche una direzione simbolica, senza che per questo si debba implicare l'arte, l'opera d'arte o addirittura l'opera d'arte ben riuscita.

- Ciò che fuorvia da questo problema è del resto proprio la nozione langeriana di simbolo. Essa è strettamente modellata sul rapporto rappresentativo, per quanto la Langer lo neghi. Ciò che qui risulta effettivamente negato è soltanto che si possano assegnare ad un suono o ad una sequenza di suoni significati che portano su cose o stati di cose nello stesso modo in cui ciò accade nel linguaggio verbale. Ma è essenziale per la Langer che nella nozione di simbolo sia mantenuta la distinzione tra simbolizzante e simbolizzato - e dunque il rapporto rappresentativo viene di fatto mantenuto. Ciò che la musica è, quindi il significato della musica ci viene insegnato da ciò che è il simbolizzato dei simboli musicali. Come abbiamo già notato, questo simbolizzato non presenta i sentimenti nella loro particolarità, ma la forma del sentimento.

- Noi ci chiediamo allora con grande serietà filosofica che cosa sia propriamente la forma del sentimento. Ci chiediamo ad esempio: l'ira ha una forma? Proviamoci a rispondere affermativamente. E se qualcuno ci chiedesse di fornire delle spiegazioni, potremmo tentare di rispondere così: “Guarda non tanto a ciò per cui sei adirato, e nemmeno alle manifestazioni concrete della tua ira, a ciò che fai quanto sei adirato; e nemmeno a come ti senti nell'ira. Bada piuttosto al fatto che l'ira ha un andamento. Prima vi è una certa agitazione, poi a poco a poco questa agitazione cresce sempre più, finché raggiunge un punto culminante - e quando sei giunto nel punto culminante certamente non starai irrigidito nell'ira: nel punto culminante l'ira esplode, e dopo che è esplosa tenderà a decrescere, a sbollire, e infine tornerà nuovamente la calma”. Ecco che cosa si potrebbe intendere con forma dell'ira e questa forma la potresti descrivere con un grafico non troppo difficile da immaginare. Ma la forma della gioia non sarà dal più al meno eguale a quella dell'ira? Vi è un punto culminante della gioia, ed allora un crescere verso quel punto ed un decrescere a partire da esso - e lo stesso si può dire del dolore, per non dire del desiderio sessuale... Del resto se vi fosse più di una forma del sentimento, se ciascuno avesse la sua forma particolare, allora tanto varrebbe affermare che la musica esprime sentimenti determinati, ora la gioia, ora il dolore. Mentre la Langer afferma (secondo del resto lo spirito del formalismo): “Non gioia e dolore, ma forse ciò che nell'una e nell'altro è in grado di toccarci ” (Not joy and sorrow perhaps, but the poignancy of either and both (ivi, p. 43)

- Che nella musica vi siano tensioni e distensioni è fuori discussione. Ma l'interessante non è affatto attestarsi su questa affermazione generale - essa può servire come semplice inizio, a cui molto deve seguire, mentre nella Langer a questa affermazione non segue nulla. Essa è un punto di arrivo.

- Quanto all'illusorietà di una stanza o di un paesaggio dipinto, chi vorrà negarla? Ma il punto importante è che questa illusorietà non fa parte dell'apprensione del paesaggio o della stanza dipinta. Questo problema affiora nel testo quando si fa notare che all'illusione artistica non è un vero e proprio inganno dal momento che l'inganno non sopravvive al suo svelamento, mentre l'illusione artistica sì. Ma in realtà dovremmo dire che lo svelamento dell'illusione artistica come illusione è un problema privo di senso. L'illusione di cui si parla infatti non illude, il carattere fittizio, ad esempio, degli eventi che vengono messi in scena in un teatro “va da sé”, ovvero non fa parte dell'apprensione, ma delle condizioni dell'apprensione.

- È singolare come nella Langer ciò che essa chiama forma del sentimento si sposti tanto facilmente in ciò che essa chiama sentimento della vita. Questo passaggio non è affatto ovvio. È suggerito tuttavia dal modo in cui si presenta in questa filosofia della musica la tematica del tempo. Nella “durata” musicale apparirebbe nella sua forma più pura la durata vissuta che soggiace ai dinamismi del sentimento ed è permeata da essi. Attraverso questi dinamismi noi diventiamo partecipi del movimento della vita. Per questo, forma del sentimento e sentimento della vita sono espressioni che si possono sostituire l'una all'altra. Di qui l'accentuazione vitalistica presente ovunque, e naturalmente in particolare nei luoghi in cui viene enfatizzata l'“organicità” dell'opera.

- Infine: che cosa apprendiamo quando ci viene insegnato che tutta la musica è espressione del sentimento della vita? Non sapremmo se calcare la mano più sulla vuotezza intrinseca di quell'espressione che sul fatto di attribuire a tutta la musica un unico senso simbolico. Entrambe le cose sono insopportabili - e ciò che a noi sembra insopportabile è qui invece uno scopo tenacemente perseguito.

- Una filosofia dell'arte, ed in particolare una filosofia della musica non dovrebbe affatto sentirsi obbligata a proporre una definizione semplice e generale. Non dovremmo mai essere costretti a dire: la musica è....

- Ad una filosofia della musica noi chiederemmo ciò che chiediamo alla filosofia in genere: che aguzzi la nostra capacità di distinguere; che attiri la nostra attenzione su questo e quello, che ci fornisca strumenti svariati e criteri, guide ed orientamenti per discutere problemi che sorgono sul terreno, e soprattutto che sappia insegnarci la complessità e ci fornisca alcune tracce per penetrarla.


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