Questo testo è stato pubblicato in Autori Vari, La percezione musicale, a cura di L. Albertazzi,
Edizioni Guerini e Associati, Milano 1993, pp. 11-35.
Data di immissione in questo archivio: Luglio 2000

 

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Figurazione e movimento
nella problematica musicale del continuo

Giovanni Piana

 

1.

La distinzione-opposizione tra continuità e discontinuità, che io vorrei considerare qui soprattutto dal punto di vista dell’idea del movimento e della figurazione musicale, ha indubbiamente un’importanza fondamentale tra le questioni di principio che una filosofia della musica è chiamata ad elaborare. Ciò merita di essere sottolineato tanto più per il fatto che parole come continuo o discontinuo potrebbero essere avvvertite dal critico, dal musicologo o dal musicista come parole appartenenti ad altri contesti, che poco o nulla avrebbero a che fare con la terminologia musicale. In realtà non è affatti facile reperirle nei testi di teoria musicale, nella manualistica corrente. Ciò non riguarda tanto, io credo, la natura dei problemi in gioco, ma una tendenza alla quale occorre reagire con particolare energia a contenere ed a delimitare la riflessione teorica sulla musica in modo da non implicare gli sfondi di carattere generale che indubbiamente debordano sia dalla dimensione propriamente storica sia da quella analitico-testuale.

Infatti, con questi sfondi si debbono intendere non solo riferimenti storico-culturali, ma anche tutte le tematiche che riguardano le strutture generali dell’esperienza percettiva che formano il presupposto della musica stessa, che stanno alle sue fondamenta. Queste tematiche sono da un lato un oggetto di studio della psicologia e della fenomenologia della percezione, ma dall’altro sono anche il veicolo di problemi che consentono di spingere lo sguardo molto oltre, verso questioni filosofiche di ampio respiro.

Il procedere in questa direzione sembra essere oggi un’esigenza particolarmente sentita sia nell’ambito della cultura filosofica sia in quello della cultura musicale.

Nell’ambito della cultura filosofica è diventata ormai particolarmente evidente la ristrettezza di un punto di vista della riflessione estetica nel quale resta dominante il riferimento alle arti della parola e la necessità conseguente di dare alla musica ben altro spazio di quello che è stato ad essa concesso nel passato. Dal punto di vista della cultura musicale agisce da stimolo soprattutto il crescente interesse verso i problemi dell’analisi musicale, in particolare in un periodo di crisi profonda dell’orientamento semiologico che pure questo interesse ha contribuito in misura rilevante a suscitare ed a tener vivo. La stessa molteplicità di vie e di modelli che vengono proposti, con i loro consistenti rimandi ad elaborazioni che non hanno direttamente origine in problematiche musicali, richiedono che l’attenzione si sposti sempre più da un teoria della musica intesa nel senso più elementare e scolastico della "teoria e solfeggio", alla quale si affida per lo più il compito di fornire un’esposizione di nozioni ben sperimentate e della terminologia specializzata corrispondente, assunte nella loro pura rilevanza tecnico-descrittiva e con una delimitazione indefettibile alla tradizione musicale europea, ad una nozione di teoria della musica considerata in un’accezione più ampia, più "filosofica", che non può non coimplicare la riflessione critica sui concetti costitutivi della musicalità stessa.

Ma forse lo stimolo più ricco, più vivace e più pressante viene proprio dalla musica novecentesca, dagli interessi che in essa si fanno avanti e che si impongono con la concretezza e l’immediatezza dell’espressione musicale. Proprio in rapporto al tema che vorremmo mettere a fuoco, sono in realtà numerosissimi i brani che potrebbero essere citati come modi di mettere alla prova le possibilità della continuità e della discretezza, esibendo connessioni interne con l’idea della stasi e del movimento e i diversi intrecci con le dimensioni della temporalità e della spazialità considerate come dimensioni della musica stessa.

Si pensi, per fare solo qualche esempio fra i molti, ad Artikulation o ad Atmosphères di Ligeti, che naturalmente possono essere citati in una significativa opposizione; oppure a Kontrapunkte di Stockhausen ed in generale alle opere "puntilliste" del periodo; ma anche, su tutt’altro versante, agli interessi per la musica percussiva delle prime opere di Cage, di cui fanno certamente parte i brani per pianoforte preparato; oppure a Winter Music dello stesso Cage, in cui si susseguono ampi cluster pianistici separati da pause immense; a Extension Three di Feldmann, nel quale si sviluppa un elementare e raffinato gioco tra continuità in senso temporale e discontinuità nell’ordine delle altezze. Con particolare pregnanza va poi certamente citata la produzione di Iannis Xenakis, che ha teorizzato esplicitamente e in modo ricco di interesse l’importanza di questo problema. Basti qui citare una composizione come Metastaseis; oppure la composizione per sedici strumenti a fiato intitolata Akrata - titolo che significa all’incirca "cose non mescolate", "distinte", "non fuse insieme" - nella quale con ammirevole semplicità viene costruita un’architettura a strati fatta di punti e linee, di pulsazioni puntiformi e di semplici sviluppi lineari.

Composizioni come queste, a cui se ne potrebbero affiancare altre più recenti e recentissime, possono essere citate come vere e proprie riflessioni direttamente musicali sul problema del continuo e del discreto; e poichè questa opposizione viene spesso proposta in certo senso nella sua forma più grezza e immediata, è suggestivo pensare che, esponendola come tale all’ascolto, si intenda anche sottolineare la sua radicalità, cioè la sua appartenenza alle radici dell’espressione musicale.

2

Vogliamo avviare la nostra riflesssione ribadendo che le nozioni del continuo e del discreto andranno assunte come nozioni costituite anzitutto sul terreno della percezione - e ciò va subito detto perchè la tentazione di cominciare dall’alto, e cioè da concetti formalmente elaborati, sembra essere sostenuta e sollecitata da una garanzia di scientificità che non seduce solo i filosofi, ma si associa ad un abito mentale molto diffuso anche fra i teorici e musicisti con interessi teorici.

Di questo abito mentale fa parte l’idea secondo la quale l’elaborazione matematico-formale rappresenterebbe la vera essenza del rapporto costituito intuitivamente. In questa elaborazione verrebbe proposta la spiegazione di questo rapporto nel senso del dispiegamento, dell’esplicitazione di nessi interni, dapprima oscuri.

Noi sosteniamo invece la necessità di prendere le mosse dal basso, cioè da concetti prossimi alla percezione, da nozioni modellate sull’esperienza, come potremmo dire con una formulazione efficace. Ciò comporta l’idea che vi sia già un’intrinseca ricchezza di significato delle nozioni proposte all’interno di "giochi linguistici" nei quali gli interessi matematico-formali e in generale propriamente conoscitivi non svolgono ancora alcuna parte, e nello stesso tempo che vi sia qualcosa di profondamente sbagliato nel modo di intendere la spiegazione razionale nel senso in cui ne parlavamo poco fa. La spiegazione razionale non è un dispiegamento dell’essere vero, ma è piuttosto una vera e propria operazione di razionalizzazione, che da un lato riprende fili e tracce già presenti nella costituzione primaria, dall’altro riannoda questi fili e queste tracce in un nuovo reticolo, ed in questo modo rimodella quei concetti e li ripropone in una nuova forma. Quando si fanno valere interessi propriamente conoscitivi, interviene dunque un’ elaborazione di secondo grado nella quale diventano operanti nuove regole della costituzione concettuale, nuove tendenze e nuovi orientamenti, cosicché la tenatica originaria riceve una complessiva e radicale riconfigurazione[1].

Noi vorremmo dunque indugiare un poco sul limitare di queste operazioni razionalizzanti, allo scopo di esplorare e portare alla luce la ricchezza di senso delle nozioni del continuo e del discontinuo colte in prossimità della loro origine percettiva, effettuando una vera e propria analisi del loro contenuto. Per certi versi si potrebbe presentare il nostro problema - anche se una simile formulazione si presta forse ad interpretazioni troppo riduttive - come se si trattasse di introdurre il senso delle parole continuo/discontinuo facendo riferimento a situazioni descrittive che siano in grado di illustrare questo senso.

La nostra ricerca non potrà dunque che assumere l’andamento di un’esibizione e di un commento di esempi - ciò dipende dalla natura stessa dell’argomento e dall’orientamento metodico adottato in rapporto ad esso. È opportuno tuttavia sottolineare che non si tratta di fornire un elenco di casi di applicazione e di impiego delle parole, con il rischio che si realizzi una dispersione del tema in discussioni di cui non si riuscirebbe a cogliere un autentico filo conduttore. Gli esempi non possono essere scelti alla cieca, ma debbono essere in grado di "riempire" il senso delle parole nel modo migliore. L’esemplificativo deve essere soprattutto esemplare. L’illustrazione del significato deve valere anche come illustrazione della costituzione del concetto.

3

Un buon esempio per illustrare la nozione della continuità richiamandosi ad una situazione che possa essere intesa come una base attraverso cui quella nozione viene forgiata e plasmata primariamente è indubbiamente rappresentato da una superficie il più possibile omogenea a vedersi. Ma certamente non il solo: un esempio altrettanto buono potrebbe essere quello della percezione di un movimento - anche se naturalmente si tratterà ancora di decidere, tra i vari tipi di movimenti, quale si presti ad assolvere questa funzione esemplificativa nel modo migliore. Dalla necessità di prendere in considerazione per i nostri scopi situazioni esemplicative tanto diverse possiamo in realtà trarre subito un’indicazione preziosa: se tentiamo un’analisi del concetto del continuo riportandolo alla sua origine nel mondo di esperienza, non ci troviamo affatto di fronte ad un’origine unitaria, ma al contrario dobbiamo cominciare con il prendere atto di una duplicità dei processi della costituzione. Ad una costituzione statica dobbiamo contrapporre una costituzione dinamica, anche se è prevedibile che l’una e l’altra possano riconfluire insieme in modo variamente complesso già sul piano di una considerazione intuitiva.

Cominciamo dunque con qualche prima annotazione sui temi proposti dalla costituzione statica. Abbiamo parlato di una superficie visibilmente omogenea - in essa, potremmo dire per cercare di spiegare che cosa si intenda con omogeneità, domina la piena similarità delle parti: nessuna parte è distinguibile per qualche speciale caratteristica da ogni altra. Formulazioni come queste sono tuttavia imprecise: forse dovremmo anzi dire anzitutto che la superficie appare come indivisa, che essa non mostra divisioni nel suo interno; ovvero che in essa non è data attualmente alcuna parte. Naturalmente ciò non significa che non si possano operare suddivisioni: al contrario. È sempre possibile tracciare delle linee su un foglio bianco o su una lavagna, operando in questo modo un’evidente ripartizione (dove "evidente" significa che la si vede).

In un’accezione della parola "continuo" modellata su una simile situazione esemplificativa l’idea dominante sarà quella dell’assenza di differenze: ma in realtà anche quella di parte, anche se solo in modo indiretto. Potremmo dire infatti che, quando parliamo di una superficie che appare indivisa, in una simile formulazione è incluso soltanto il pensiero della parte, cosicché la nozione della parte è richiamata indirettamente come diseguaglianza potenziale e come possibilità della suddivisione.

Queste sono anzitutto le idee contenute nell’omogeneità considerata come condizione della continuità.

Tuttavia in un’illustrazione del senso della parola "continuità" si parla talora anche di "assenza di lacune", ed è importante sottolineare che le parole "lacuna" e "differenza" non hanno affatto lo stesso significato benchè siano formalmente riducibili l’uno all’altro: tracciando linee su una superficie, realizzando un disegno potremmo indubbiamente affermare di aver operato in questo modo una ripartizione, di aver fatto apparire delle parti, mentre il nostro interlocutore si sorprenderebbe se affermassimo che nella superficie vi sono ora delle lacune - come se in essa avessimo praticato dei fori.

Se dunque di fronte ad una superficie priva di parti distinguibili facessimo notare l’"assenza di lacune", evocando così, come caso contrapposto, una superficie tutta piena di buchi, in realtà ci richiameremmo ad un aspetto della questione di cui non riusciremmo a rendere conto a sufficienza sulla base delle considerazioni precedenti.

Una lacuna è qualcosa che manca (il mancare di qualcosa); l’assenza di lacune allude allora ad una condizione di completezza. Come se dicessimo: vogliamo farvi notare che qui, dopo tutto, non manca proprio nulla. Cosicchè mentre in precedenza veniva in primo piano l’idea della parte e di una partizione possibile, ora ad assumere il massimo risalto è se mai l’idea di una saturazione completa.

Alla nozione di continuità costituita staticamente appartengono dunque le condizioni dell’omogeneità e della completezza - condizioni che tengono naturalmente conto anche della polarità opposta della discretezza e della discontinuità. È interessante notare a questo proposito che forse nessuno, dovendo proporre una situazione fenomenologica di discontinuità, farà riferimento ad un foglio di carta millimetrata, o comunque all’immagine di una partizione molto fine e regolare. E questo perchè un simile esempio - pur rientrando sotto la nozione del discontinuo in quanto è in esso comunque presente una suddivisione attuale in parti - potrebbe essere considerato troppo debole per due buone ragioni.

Anzitutto si tratta di una partizione regolare, e l’espressione di omogeneità può certamente abbracciare un caso come questo; in secondo luogo la finezza della partizione fa sì che la superficie possa apparire come continua, se la guardiamo ad una distanza tale da non poter appunto distinguere l’una parte dall’altra.

Forse si avverte già, in queste prime considerazioni, che ci troviamo su un terreno scivoloso: da un lato diciamo di voler mantenere la presa su una forma di concettualizzazione che si modella sugli esempi dell’esperienza, dall’altro, non appena, come non possiamo non fare, cominciamo a commentare questi esempi - si tratti di una lavagna, di una superficie tutta bucherellata, oppure di un foglio di carta millimetrata - ci rendiamo conto che i pensieri che sono in certo senso annidati in essi stanno per "spiccare il volo". Si sta mettendo in opera la forza dell’argomentazione e noi non possiamo fare a meno di assecondarla per qualche qualche tratto.

4.

Abbiamo parlato di possibilità della suddivisione, di potenzialità che deve essere attualizzata. Ed è naturalmente della massima importanza stabilire in che modo debba essere intesa una simile attualizzazione. La suddivisione potrebbe essere concepita come un operazione iterativa che trae parti dalla parte e che termina negli indivisibili, negli atomi di cui parlava Democrito.

È chiaro che qui siamo tentati di riprendere in una rapida sintesi i termini di un antico dibattito: il progresso che conduce dalla possibilità della suddivisione alla discretezza, la quale viene così caratterizzata eminentemente attraverso l’indivisibilità, ha come conseguenza un’ope-razione di soppressione dell’opposizione tra continuo e discontinuo che deve assumersi il compito di ridurre la nozione di continuità fondandola sulle entità atomiche e puntiformi.

In Democrito questa operazione avviene naturalmente all’interno di una prospettiva metafisica che chiama in causa le componenti ultime del reale. Le condizioni della continuità - l’omogeneità e la completezza - dovranno infatti essere in qualche modo ricostruite a partire unicamente dagli atomi: ma ciò significa soprattutto relegare queste condizioni al regno delle pure apparenze.

Una superficie omogenea e priva di lacune sarà da considerare come puramente apparente, essendo in realtà costituita da parti indivisibili, separate oltretutto da piccolissimi interstizi.

In effetti questa negazione della continuità è accompagnata dalla difesa del vuoto: e ciò è significativo sia perchè in precedenza abbiamo parlato della completezza come pienezza e saturazione, sia perchè il vuoto viene difeso come condizione di possibilità del movimento, cosicché l’intera operazione riduttiva della nozione di continuità sembra poter essere giustificata proprio dall’istanza di rendere conto del movimento. Ciò rappresenta naturalmente, dal nostro punto di vista, mettendo da parte la questione metafisico-ontologica, una conferma dell’orientamento statico di questo livello della costituzione della nozione del continuo.

Una conferma che ci viene poi, con forza raddoppiata, dall’obbiettivo polemico principale dell’atomismo democriteo. È suggestivo pensare che l’intero stile di pensiero eleatico, che culmina con i paradossi di Zenone, non sia subito e anzitutto determinato da considerazioni astrattissime e generalissime sul modo di concepire l’Essere, ma abbia piuttosto, più concretamente e significativamente, il suo nucleo e la sua origine in una riflessione sulla continuità e sulla possibilità della suddivisione, una riflessione che ha di mira proprio la custodia e la difesa della continuità come un dato originario e irriducibile.

Nello spirito dell’atomismo, il prendere le mosse dalla possibilità della suddivisione per giungere agli indivisibili rappresenta un puro percorso argomentativo che non corrisponde alla realtà delle cose: ciò che sta prima, ciò che è realmente originario non è l’indiviso inteso come continuità pura che può essere suddivisa, ma l’indiviso in senso attuale ed assoluto che esclude ogni possibilità di suddivisione. La negazione della continuità nella prospettiva atomistica ha al suo fondamento l’idea dell’originarietà di ciò che è essenzialmente indivisibile perché è essenzialmente senza parti.

Cosicchè si può invertire il ragionamento: se dobbiamo rendere conto dell’effettività del continuo dobbiamo illustrarlo come pura possibilità della suddivisione, e precisamente come pura possibilità della suddivisione infinita. Ciò significa a sua volta semplicemente: non esistono atomi. Una difesa del continuo si può dunque configurare come una difesa dell’originarietà dell’indiviso inteso come come una totalità senza parti, il cui concetto è tuttavia fornito dall’idea di una possibile suddivisione infinita.

Naturalmente non è affatto il caso di pretendere che una simile prospettiva filosofica si trovi alla lettera nei frammenti parmenidei. È invece interessante notare che almeno alcune linee portanti di una delimitazione fenomenologica della nozione della continuità, affrontata dal punto di vista della sua costituzione statica, sembra riflettersi, in una sorta di ribaltamento e di trasfigurazione metafisica, nella teoria parmenidea dell’Essere.

L’importanza esemplare che noi abbiamo attribuito in questo contesto alla superficie la si ritrova qui proprio in quegli aspetti che sono sempre parsi più incomprensibili, più difficili da accettare, più arbitrari: la si ritrova appunto nell’idea che l’Essere possegga la proprietà dell’estensione, senza che con questo sia deciso il suo carattere corporeo.

Proprio questo aspetto, al quale talvolta ci si riferisce, per così dire, alla cieca, senza riuscire a trovare per esso sufficienti spiegazioni, diventa invece chiaramente comprensibile alla luce e nel contesto delle nostre considerazioni: l’estensione rappresenta infatti un possibile "fondamento" per la costituzione del pensiero del continuo. Si tratta di un’estensione che si oppone radicalmente al vuoto, essa possiede dunque al massimo grado omogeneità e completezza. Ed in questo stesso quadro diventa comprensibile la famosa affermazione della sfericità dell’Essere, questa figura che l’Essere assume è una figura necessaria, quando l’Essere è pensato attraverso il pensiero della continuità.

Ci piace a questo proposito rammentare le vecchie pagine di Theodor Gomperz, nelle quali - qui come ovunque - egli, con un atteggiamento che sentiamo oggi così lontano dalle nostre consuetudini storiografiche, discute con i suoi autori come se li avesse di fronte e consente così a noi stessi di discutere ancora con lui. Nell’affermazione parmenidea secondo cui l’Essere sarebbe un "indivisibile tutto, unico, continuo, in ogni parte eguale a se stesso, non avente più d’essere qui e meno là", così da assomigliare "alla massa di una sfera tutt’intorno bene arrotondata, perfettamente equilibrata in tutte le sue parti" [2]- in questa affermazione Gomperz vede addirittura una caduta del livello di astrazione al quale Parmenide vorrebbe attenersi, una caduta in un’immagine troppo concreta, troppo tangibile e palpabile, che ci riporta dai pià alti livelli delle astrazioni logico-metafisiche alle "consuete bassure" del mondo di esperienza (per il quale del resto Gomperz parteggia). Ecco come egli commenta la citazione precedente: "A queste ultime parole, il lettore prova una brusca scossa, simile a quella con la quale a volte ci si sveglia da un etereo, alato sogno; or ora ci libravamo, liberi da ogni impedimento, al di là delle stelle, ed ecco che all’improvviso ci ha riaffferrati l’angusta realtà. Anche Parmenide, così pare, ha osato, novello Icaro, il volo che doveva trasportarlo, oltre il regno dell’esperienza, nell’eterea regione del puro essere; senonché le forze gli sono venute meno a metà strada e si è di nuovo trovato giù, nelle consuete bassure dell’esistenza corporea. Ed effettivamente il suo Essere non ha fatto altro che preparare le analoghe concezioni degli ontologi posteriori, senza peraltro giungere ad eguagliarle; emana da lui un ancora troppo forte sentore terreno; ci conduce nel vestibolo, non nel sacrario della metafisica"[3].

In realtà, nella fantasia sulla sfericità non si concretizza malamente un pensiero che tenta le vie dell’astrazione e che resta invece appigliato ai corpi con la concretezza e la varietà delle loro forme tangibili. Al contrario, attraverso quell’immagine si ribadisce proprio il livello di astrazione logico-metafisica a cui si è pervenuti, benchè in modo tale da mantenere il ricordo degli inizi fenomenologici di quel tragitto speculativo.

Nella posizione parmenidea la negazione del movimento diventa un puro corollario. Ma un corollario ad un tempo ovvio e profondamente enigmatico. Così gli argomenti di Zenone sembrano anzitutto poter esser interpretati come rafforzamenti argomentativi della riduzione del movimento a mera apparenza, secondo lo spirito della prospettiva filosofica parmenidea. Ma la forma del paradosso nella quale essi vengono formulati invita a scavare più a fondo ed a sospettare un senso che non è subito afferrabile alla superficie. In essi si parla della suddivisione che procede all’infinito, questo è certo. Ma è altrettanto certo che il movimento venga "negato", che esso sia posto come pura apparenza, come un’antica tradizione esegetica ha sempre sostenuto? Seguendo il filo conduttore teorico delle nostre considerazioni precedenti saremmo invece fortemente tentati dall’idea che in Zenone assuma in ogni caso risalto proprio la differenza tra suddivisione possibile (puramente pensata) e suddivisione realizzata piuttosto che l’impensabilità (e quindi "irrealtà") del movimento. Il discorso filosofico implicato da quelle argomentazioni potrebbe allora riguardare proprio le condizioni di pensabilità del movimento, condizioni che avrebbero il loro centro nel pensiero della suddivisione infinita[4].

Come se si dicesse: il movimento esige quel pensiero, ma appunto soltanto come pensiero: non appena la pura possibilità della suddivisione infinita viene intesa come concretamente realizzata - e gli argomenti di Zenone poggiano tutti sull’assunzione di questa realizzazione concreta - la negazione del movimento si mostra con necessità ed evidenza. Ma allora si può sostenere che quegli argomenti mirino a stabilire un legame indissolubile tra continuità e movimento, ribaltando radicalmente le assunzioni atomistiche. Gli argomenti di Zenone "contro il movimento" esibiscono con tale energia la realizzazione e l’attualizzazione della suddivisione infinita da far pensare che il loro obbiettivo effettivo debba essere ricercato proprio in questa direzione. Ogni suddivisione realizzata - infinita o finita che sia - non può che comportare un elemento di discretezza che sopprimendo la condizione di pensabilità del movimento non può rendere conto della sua realtà e della sua consistenza fenomenica. Questa condizione è appunto la continuità, la cui idea può essere formulata nei termini del puro pensiero della possibilità di una suddivisione infinita [5].

Seguendo una simile suggestione interpretativa, la posizione parmenidea, nella quale questa connessione non viene esplicitata e che resta legata al "modello" dell’estensione, potrebbe essere assunta come rappresentativa della costituzione statica della continuità, mentre Zenone potrebbe contrassegnare per noi il punto di passaggio ai problemi della costituzione dinamica.

5.

Abbiamo notato in precedenza che la situazione del movimento percettivo potrebbe rappresentare una base per una diversa via della costituzione del concetto del continuo, ma abbiamo anche subito aggiunto che resta comunque da decidere quale, fra i diversi tipi di movimenti che hanno aspetti percettivamente diversi, possegga l’esemplarità necessaria.

Difficilmente si citeranno movimenti zigzaganti, per il semplice fatto che in questa forma del movimento vi sono punti di discontinuità nettamente individuati, che sono precisamente quei punti in cui il movimento muta direzione. Il fatto che il tragitto di un movimento zigzagante si possa disegnare senza levare la matita dal foglio non ci fa, in proposito, cambiare opinione[6].

Tuttavia le nostre considerazioni possono senz’altro cominciare di qui, perchè già nelle parole che abbiamo usato or ora emergono alcuni motivi di particolare importanza per delineare i passi di una costituzione dinamica della nozione di continuità.

Intanto abbiamo parlato di forma del movimento, e possiamo pensare a questa forma come ad una linea ipotetica che un punto in movimento lascia lungo il suo percorso, come la sua scia.

Naturalmente dovremo guardarci dall’operare, attraverso questa nozione, una fissazione del movimento cogliendolo nel suo risultato spaziale, come movimento interamente trascorso, piuttosto che come movimento che si va facendo.

In realtà, la forma del movimento è qualcosa che si va annunciando e variamente modificando lungo il movimento stesso. Cosicchè il tema della forma del movimento può essere riportato a quello di una tendenza interna del movimento in ogni fase del suo decorso. Più precisamente, volendo mettere in evidenza la connessione tra il movimento e la continuità, dovremmo dire: il movimento è caratterizzato in ogni suo punto dall’unità di una direzione. Questa formulazione può essere illustrata per opposizione pensando al caso precedente in rapporto al quale si parlava di mutamento di direzione e di punti di discontinuità per quei punti in cui questo mutamento si manifesta.

Abbiamo così la possibilità di stabilire una prima e interessante connessione con i temi precedentemente sviluppati. Anche ora infatti stiamo proponendo un problema di somiglianza e di differenza, ma questi termini sono ora caratteristicamente riferiti a nozioni dinamiche come sono quelle di tendenza e di direzione. In precedenza la condizione di omogeneità consisteva essenzialmente nella pura somiglianza delle parti, nell’indifferenza di una parte rispetto all’altra, mentre ora ciò che caratterizza l’omogeneità nella costituzione dinamica è propriamente la persistenza di direzione.

L’esempio più pregnante sarà allora certamente fornito, sotto questo riguardo, da un movimento rettilineo. Esso si muove sempre nella stessa direzione. E tuttavia parlando di un movimento caratterizzato in ogni suo punto dall’unità di una direzione fornivamo evidentemente una condizione più ampia, rispetto alla quale il movimento rettilineo rappresenta solo un caso particolare.

Pensiamo in proposito all’uso corrente dei termini: dalla nozione di continuità non vengono esclusi i mutamenti in genere, ma i bruschi mutamenti di direzione, i mutamenti inattesi, le interruzioni nelladirezione del movimento. Saranno invece inclusi i mutamenti graduali.

Per la prima volta nell’ambito delle nostre considerazioni si fa avanti il concetto del grado. Ed allora ci dobbiamo chiedere: che cosa significa propriamente parlare di un mutamento graduale di direzione? In realtà l’unità di direzione rappresenta ancora la nozione fondamentale - solo che questa unità di direzione deve essere riferita non al movimento nel suo complesso, alla forma globale del suo percorso, ma a fasi abbastanza brevi del suo sviluppo. Alla luce di ciò va forse anche corretta o almeno più ampiamente commentata la nostra formulazione, in particolare là dove si parla di punti. Nel movimento non vi sono punti, ma sempre soltanto tratti o fasi. Possono essere considerati come punti, se mai, solo gli estremi di questi tratti. In rapporto al nostro problema, ciò che interessa è poi la piccola differenza tra l’uno e l’altro estremo, poichè il mutamento graduale di direzione consiste proprio nel fatto che all’interno di questa piccola differenza, tra l’uno e l’altro estremo, la direzione può essere considerata come all’incirca la stessa.

La formulazione precedente potrebbe quindi essere corretta, sostituendo all’idea del punto quella della piccola differenza tra punti. Ma questo non è che un altro modo di dire che i punti del movimento non sono propriamente dei punti, ma degli indicatori di una tendenza, essi sono rappresentativi di una direzione. Si sarebbe quasi tentati di dire: non sono punti, ma frecce - cosicché l’affermazione che stiamo discutendo potrebbe essere riformulata immaginosamente, ma non del tutto impropriamente, dicendo che il movimento è caratterizzato dal fatto che ogni suo punto è una freccia.

Tendenza, direzione, grado e piccola differenza fanno parte di un’unica area tematica che gravita intorno alla nozione della continuità costituita dinamicamente. Notiamo in margine che anche in questo caso, come in precedenza, vengono messe in questione le piccole parti, anzi le parti sempre più piccole, tuttavia non nel quadro di un problema di partizione o di suddivisione, bensì in stretta conessione con il tema dinamico della persistenza di direzione. Il richiamo alla piccola differenza, anzi alla differenza sempre più piccola diventa necessario proprio per far valere l’idea di unità di direzione.

La nostra illustrazione della costituzione dinamica del continuo non può tuttavia arrestarsi a questo punto. Vi è infatti una condizione della continuità ancora più elementare della persistenza di direzione, una condizione che avremmo dovuto forse citare per prima e che riguarda la pura temporalità del movimento, il suo essere ininterrotto dal punto di vista temporale. Si potrà pertanto parlare, per indicare questa condizione, di persistenza temporale del movimento.

È interessante richiamare l’attenzione sul ripresentarsi, proprio a questo punto, nell’ambito delle considerazioni dinamiche, dell’idea della lacuna e dunque anche, corrispondentemente, di una totalità "piena", di una totalità priva di lacune. Del resto potremmo dire che nel suo svolgersi un movimento occupa un certo tratto di tempo, e questa espressione dell"occupare" segnala che, anche in sede di costituzione dinamica, si possono evocare immagini di saturazione e di pienezza, facendoci così intravvedere un possibile parallelismo proprio con la condizione della completezza che abbiamo formulato in sede di costituzione statica. In questo contesto sorge peraltro la questione, di cui non è affatto facile sbrigarsi in poche parole, di ciò che può valere come un movimento unitario, eventualmente più volte interrotto oppure come una molteplicità di movimenti distinti.

Si tratta di argomenti sui quali non è qui il caso di soffermarsi. Vorremmo invece segnalare un modo di ritrovare il tema "atomistico" con un’inclinazione di senso interamente differente proprio per ciò che riguarda il tema del movimento - un modo che, pur essendo non poco artificioso, non è affatto privo di interesse tenendo conto dell’intero andamento della nostra discussione precedente. In effetti, potremmo immaginare livelli crescenti di discontinuità temporale a partire da un movimento inizialmente ininterrotto che va poi frantumandosi e segmentandosi progressivamente. Aumenta dunque la durata delle lacune, diminuisce la durata dei tratti di tempo riempiti: ma certo non indefinitamente dal momento si dovrà infine pervenire, potremmo dire, a segmenti di movimento temporalmente puntiformi - espressione che non può che alludere ad una condizione di totale assenza di movimento.

L’artificiosità di questo modo di presentare le cose può passare ampiamente in secondo piano di fronte all’efficacia con cui si riesce a mostrare in questo modo le traversie della dialettica tra continuo e discontinuo in rapporto al tema del movimento. Mentre in precedenza l’atomo e il vuoto erano proposti in un contesto che mirava a rendere conto della possibilità del movimento, ora al contrario si mostra vivacemente in che modo l’assenza del movimento possa essere fatta dipendere dalla discontinuità e inversaamente in che modo proprio la continuità rappresenti la sua condizione autentica. In certo senso, abbiamo nuovamente "dedotto" l’idea di atomo, ma lo abbiamo fatto in modo da rendere l’immobilità un attributo essenzialmente inerente ad essa. Si mostra infatti che l’atomo può essere introdotto come ciò che resta al venir meno della persistenza temporale, come un vero e proprio ultimo residuo del movimento. Là dove la condizione della persistenza temporale cessa di essere operante, cessa in generale ogni movimento possibile. I segmenti del movimento, come ci siamo espressi in precedenza con espressione che rasentava il paradosso, sono diventati temporalmente puntiformi. Vogliamo dire: sono proprio punti, e non frecce, e non piccole differenze.

I termini del problema si sono così caratteristicamente rovesciati: l’atomo e il movimento stanno l’uno di contro all’altro. Gli atomi sono come chiodi piantati nel vuoto, del tutto incapaci di operare quel riempimento dinamico del puro decorso temporale che è condizione affinchè possa darsi qualcosa come un movimento.

6.

Ma finalmente: che cosa ha tutto ciò a che vedere con i nostri interessi orientati verso la riflessione teorica intorno alla musica? È ormai tempo di cercare di fornire qualche indicazione in proposito.

Come filo conduttore vogliamo assumere il problema del modo in cui diventa operante l’opposizione tra continuità e discontinuità nella determinazione del "carattere di movimento" delle figurazioni musicali[7]. Per lo più il dibattito filosofico sulla questione ha portato unilateralmente l’attenzione sul fattore temporale quasi che unicamente da esso dipendesse questo carattere, considerando poi la continuità come un’ovvia condizione aggiuntiva, strettamente connessa con il fattore temporale. In ciò vi è indubbiamente un fondo di verità, come vedremo fra breve, che tuttavia non riesce mai a venire ad una chiara formulazione e che anzi rischia di dar luogo a imprecisioni ed a fraintendimenti.

L’affermazione secondo la quale il movimento nella musica sarebbe dovuto eminentemente alla componente temporale è anzitutto esposta al rischio di misconoscere l’importanza che rivestono, proprio ai fini dell’attribuzione del carattere di movimento ad un brano musicale, elementi he riguardano propriamente la materia sonora e le molteplici forme di articolazione e di organizzazione che sono in essa fondate e che in nessun modo possono essere fatte dipendere dalla pura forma temporale delle figurazioni musicali. Tutta la nostra discussione precedente mostra la necessità di un approccio al problema da un’angolatura interamente diversa per il fatto stesso che è stata mostra la possibilità di un duplice percorso nella formazione del concetto percettivo del continuo. In particolare va certamente messa da parte l’idea ricorrente, di origine bergsoniana ma la cui diffusione ha largamente superato l’ambito dei seguaci di Bergson, secondo la quale la distinzione tra continuo e discontinuo debba essere proposta subordinatamente alla distinzione tra tempo e spazio, ed in una sorta di parallelismo rispetto ad essa. In un simile contesto la continuità temporale, la dimensione della "durata" nel senso bergsoniano del termine, alla quale attingerebbe in modo esclusivo la musica stessa, viene contrapposta al cosiddetto "tempo degli orologi", la cui caratteristica fondamentale sarebbe appunto quella della discretezza. Ma è significativo a questo proposito che spesso si alluda a questo tempo degli orologi parlando di tempo spazializzato, cosicchè lo spazio - per motivi che si stentano a comprendere - viene assunto come uno sorta di campo privilegiato della discretezza e della discontinuità in generale.

Volendo reimpostare la tematica del movimento nella musica secondo le indicazioni emerse nella nostra discussione, converrà certamente non tenere affatto conto del preteso parallelismo tra tempo/spazio da un lato e continuo/discontinuo dall’altro, considerando come sovraordinata e più generale se mai proprio quest’ultima opposizione. Potremo allora forse subito intravvedere che quella tensione tra continuo e discontinuo, quel gioco e quello scambio delle parti che si verifica in rapporto al problema del movimento e della stasi e che caratterizza in modi talvolta sconcertanti la vicenda fenomenologicospeculativa che abbiamo narrata poco fa debba ritrovarsi anche nell’impianto di un discorso diretto alla musica.

7.

I nostri primi commenti potrebbero prendere le mosse dal tema del movimento fissato nella sua forma. Quando ne abbiamo parlato avremmo forse già dovuto mettere in rilievo che - trattandosi di un movimento concretamente percepito - esso si manifesta su una superficie che fa da sfondo: rispetto ad essa, il movimento stesso, come la forma che ne risulta, rappresenta indubbiamente un elemento di discontinuità. Il tema del continuo e del discontinuo - è appena il caso di notarlo - raccoglie in sè quello del rapporto tra figura e sfondo nel senso che gli psicologi della Gestalt dànno a questi termini.

Se ora dovessimo rispondere in breve alla domanda intorno al modo in cui la temporalità interviene in rapporto al problema della figurazione musicale, potremmo indubbiamente affermare che essa assume anzitutto carattere di sfondo. Si parlerà dunque di temporalità di sfondo ovvero di sfondo temporale. E si tratta proprio di una temporalità che rammenta la superficie del nostro primo esempio (ed anche il vuoto). La continuità va dunque intesa nel senso delle condizioni dell’omogeneità e della completezza che caratterizzano la costituzione statica del concetto.

Naturalmente, ciò non significa misconoscere la presenza di un dinamismo latente: il tempo è qui in ogni caso il tempo del flusso, il tempo che passa, ed il fatto che i suoni, in quanto oggetti temporali, riempiano questo vuoto fluire rappresenta naturalmente una caratteristica di fondamentale importanza per la fenomenologia dell’oggetto sonoro. In particolare va notato che lo sfondo temporale può anche ricevere un’articolazione schematica, che pur operando un frazionamento ed una partizione del continuo temporale, mantiene tuttavia, per via della regolarità delle parti della suddivisione, un carattere di relativa omogeneità, stabilendo così una sorta di texture temporale, di "impianto metrico" che ha ancora, rispetto alle figurazioni musicali, carattere di sfondo. Si tratta dunque di qualcosa di analogo al nostro esempio della carta millimetrata.

Vi è dunque la figurazione che si svolge sullo sfondo temporale; ma vi è anche una dialettica interna della figurazione che considerata sotto il profilo puramente temporale, è una dialettica interna delle durate reciproche.

Vogliamo spiegare quest’ultimo punto. Abbiamo accennato poco fa che il carattere di movimento all’interno di una figurazione è dato da molteplici fattori, che sono comunque riconducibili alla componente temporale ed alle tensioni generate dai rapporti tra i suoni in forza delle loro differenti qualità materiali. Ora, se prescindiamo da queste ultime per cogliere l’azione che svolge la componente puramente temporale, osserveremo indubbiamente che il movimento comincia ad entrare nella figurazione con l’alternanza di suoni e di silenzi, e più precisamente, con l’alternanza di suoni e di pause di durata differente. La diseguaglianza delle durate rappresenta evidentemente una condizione di particolare importanza affinchè si possa parlare di un autentico dinamismo interno che eventualmente può prendere forma emergendo da una temporalità fluente o da una temporalità scandita.

Ora, proprio in questa diseguaglianza va ricercato il senso in cui abbiamo parlato di una dialettica tra continuità e discontinuità come condizione del movimento nella figurazione. Ma questo senso resterebbe in ogni caso incompreso se non si riuscisse a dare alla differenza delle durate (e quindi al puro dato di fatto che i suoni possono essere più o meno lunghi o più o meno brevi) una pregnanza di significato che non si lascia certamente cogliere al primo sguardo.

È necessario invece rammentarsi di quel tratto caratteristico di un pensiero prossimo all’esperienza di cui abbiamo già avuto occasione di avvalerci e che consiste nella tendenza ad esasperare le opposizioni piuttosto che a ridurle, cosicché la breve e la lunga durata non sono affatto intese come determinazioni meramente relative e rese insignificanti proprio da questa relatività, ma possono essere "po-larizzate", e cioè proposte, in quanto colte alla luce di un possibile "sempre più", come estremi di un’opposizione irriducibile.

Si prospetta così la polarità di un suono infinitamente perdurante e la polarità di un suono istantaneo, del suono-colpo - e dunque ancora una volta, in una nuova forma, l’opposizione tra continuità e discontinuità che è dunque subito prospettata nella pura e semplice posizione della differenza delle durate.

Forse si obietterà che si può parlare di un suono di durata infinita soltanto nella forma di una idealizzazione. E ciò è naturalmente giusto. Ma questa idealizzazione prende comunque le mosse dal fatto che la percezione di una durata, attraverso un "oggetto temporale" come è il suono, non contiene necessariamente il senso della finitezza, cioè della sua fine e del suo inizio. Una considerazione analoga potrà essere proposta per il suono istantaneo. Affermare che non esiste alcun suono realmente istantaneo è in parte vero e in parte falso. L’idealizzazione sta qui appena un poco oltre il concreto dato percettivo.

Sia il suono perdurante come il suono puntuale avvengono entrambi sullo sfondo temporale continuo, ma è completamente diverso il rapporto che istituiscono con esso, cosicché propongono questa temporalità di sfondo secondo sensi profondamente diversi.

Al suono perdurante sono associate idee di completezza e di saturazione: il polo della continuità è qui evocato proprio secondo un punto di vista parmenideo, come estensione e pienezza. Nessuno, io penso, ascoltando gli antichi racconti intorno all’armonia delle sfere si è mai immaginato questa armonia come varia e mutevole, e meno ancora come una successione di suoni che punteggiano uno spazio vuoto. Con l’armonia delle sfere si accede invece nel regno della pura continuità. Non a caso il mito ha posto quell’armonia come inudibile. Questo pensiero sembra suggerito dall’appartenenza di questa musica celeste alla sfera delle cose sacre e sovrumane; ma particolarmente interessante è far derivare questo pensiero da una riflessione sulla completezza del continuo. La totale saturazione non può lasciar apparire alcun autentico evento sonoro.

Sul lato opposto, il suono istantaneo, l’atomo sonoro propone lo sfondo temporale continuo come puro vuoto, ma un vuoto in cui è accaduto qualcosa: il suono stesso. E ciò basta a conferire al suono un carattere rappresentativo della forma stessa dell’accadere.

Possiamo allora dire che il suono puntuale contiene il principio della figurazione musicale. Ma anche la negazione potenziale di ogni movimento. Mentre in rapporto al suono che perdura possiamo affermare l’esatto inverso: che esso contiene il principio del movimento, ma anche la negazione potenziale di ogni possibile figurazione musicale.

Questa duplice formulazione ribadisce e illustra l’idea che movimento e figurazione non possono risiedere negli estremi della contrapposizione polare tra continuo e discontinuo, ma nella dialettica tra quei due poli.

8.

La linea di discorso che stiamo tracciando riceve un’integrazione di particolare importanza e può avviarsi ad una conclusione mettendo in questione i suoni in quanto si identificano e differenziano entrando tra loro in relazioni di vario genere sul fondamento delle qualità percettive concrete che li caratterizzano. Mettendo da parte le differenze timbriche e quelle relative all’intensità, avremo di mira soprattutto le differenze di altezza.

Mentre dal punto di vista fisico la nozione di altezza richiede il riferimento a quella di frequenza, volendo attenerci il più strettamente possibile al piano fenomenologico dovremo invece parlare del suono come di una individualità percettivamente identificabile, cosicché ci troviamo sen-z’altro di fronte ad una nozione della puntualità del suono, nettamente distinta dalla puntualità in senso temporale. La stessa grafia musicale di tradizione europea contrassegna le altezze dei suoni e le differenze di altezza mediante punti, ed una simile convenzione non è affatto priva di tratti che riportano alla cosa stessa.

Eccoci dunque nuovamente di fronte ad uno dei poli della nostra opposizione, al polo della discontinuità, agli atomi sonori ai suoni che hanno carattere di oggetti. Tuttavia appare subito chiaro, sulla base dell’intero andamento della nostra esposizione, che a partire di qui, dai suoni-oggetti, l’attenzione teorica verrà richiamata anche sulla polarità opposta, e cioè sui suoni che hanno invece carattere di processi, dove questa espressione non ha affatto un senso puramente temporale, ma ha il senso di un’evoluzione e di una trasformazione concreta, di una vera e propria continua e graduale metamorfosi del suono.

Di fronte ai suoni-oggetti, che potremmo certamente porre in parallelismo con i suoni temporalmente puntuali, vi sono i suoni glissanti, che potremmo invece porre in parallelismo con i suoni temporalmente persistenti, cosicché l’opposizione tra continuo e discontinuo può essere riproposta anche su questo terreno con conseguenze che la nostra esposizione precedente lascia ampiamente prevedere.

Naturalmente, i suoni glissanti non hanno avuto alcuna presenza significativa - in quanto tali - nella nostra tradizione musicale, anzi essi sono stati esplicitamente messi da parte e talvolta anche aspramente condannati dal punto di vista estetico.

Schopenhauer, ad esempio, li paragona a fastidiosi miagolii, anzi più precisamente ad ululati che debbono essere esclusi dall’arte. Ma è interessante anche ricordare il contesto in cui Schopenhauer si esprime in questo modo. Egli non ne parla in un discorso che ha di mira direttamente la musica, ma per stabilire un’analogia architettonica. Secondo Schopenhauer, l’intera architettura si muove tra due polarità che hanno in realtà soprattutto valore simbolico: il semplice muro, liscio, interamente privo di aperture, ed il colonnato. Quest’ultimo contiene in qualche modo la quintessenza dell’architettura: e ciò naturalmente può essere citato come un esempio di nostalgia classicistica, continuamente riemergente in èra romantica. Ma questa nostalgia ha una motivazione teorica per noi particolarmente interessante: il colonnato va celebrato come nucleo del pensiero architettonico in particolare per via dell’alternanza tra vuoto e pieno, che è anche un’alternanza tra luce e oscurità, tra trasparenza ed opacità. L’architetto è ad un tempo maestro della materia e della luce. E proprio ripensando al muro ed al colonnato a Schopenhauer viene in mente come efficace similitudine il glissando sonoro dal grave all’acuto, assimilato naturalmente al muro, mentre la scala diatonica verrà nessa in rapporto con il colonnato[8].

Si tratta dunque di una presa di posizione che ha a che vedere proprio con il problema del continuo e del discontinuo, benché Schopenhauer non si serva di questi termini. Nella continuità si vede sopratutto la mancanza di articolazione, che richiede necessariamente punti di snodo, una pura pienezza - il muro, la superficie liscia che non lascia trasparire la dinamica interna delle forze presenti nella costruzione architettonica ovvero nella costruzione musicale.

C’è comunque, nel paragone di Schopenhauer, qualcosa che non va: se volessimo cercare un’analogia nell’ambito spaziale per il glissando non dovremmo infatti pensare alla pura e semplice superficie omogenea, ma se mai alla sfumatura cromatica. Questa rappresenta un bell’esempio di proiezione di sensi dinamici in una condizione globale di staticità. Nel caso della sfumatura cromatica si fanno infatti valere le idee della piccola differenza, del grado e dell’unità di direzione, cosicché possiamo indubbiamente dire che un rimando interno al movimento appartiene in ogni caso al senso della situazione percettiva.

È inutile dire che questo senso sarà ancora più accentuato nel caso del suono glissante che è un autentico processo che ha bisogno della temporalità come condizione primaria del suo sviluppo. Inversamente, il suono glissante come fatto percettivo concreto potrebbe essere proposto tra le situazioni esemplari della costituzione dinamica del continuo: esso sarebbe in grado di illustrare con molta efficacia l’idea di una processualità come trasformazione materiale, come metastasis, per rammentare ancora una volta, ed esattamente nel luogo giusto, il titolo della composizione di Xenakis che abbiamo già citato nelle nostre considerazioni introduttive.

Il brano di Xenakis - vogliamo ricordarne rapidamente i tratti - crea una superficie musicale densa e piena, nella quale non vi sono buchi, non vi sono pause o silenzi; e nello stesso tempo, benché non si possa dire che questa superficie sia attraversata da movimenti, dal momento che è priva di vere e proprie figurazioni sonore, essa è anche permeata da un dinamismo magmatico - un risultato che viene complessivamente ottenuto attraverso l’impiego generalizzato di suoni glissanti. Fin dall’inizio e qui e là lungo il brano alcuni colpi secchi rammentano il discontinuo dando risalto a questa contrapposizione.

Ed è anche il caso di citare la sirena inserita da Varèse in Ionisation, forse il più famoso dei suoni glissanti della produzione novecentesca: un esempio che va ricordato non solo per il fatto che questo suono continuo prende risalto in un brano interamente affidato alle percussioni, ma anche per la motivazione espressiva che lo stesso Varèse gli aveva assegnato: esso doveva proporre la condizione percettiva di un vero e proprio movimento spaziale del suono, di un suono che, invece di apparirci di fronte, attraversa lo spazio nella sua terza dimensione avvitandosi in esso[9].

9.

A parte questi esempi, i suoni glissanti hanno intanto per noi una grande importanza teorica che si ricollega al rapporto che non può non sussistere tra i suoni oggetti e i suoni glissanti: qui l’opposizione tra continuo e discontinuo raggiunge la sua massima tensione in quanto i suoni oggetti debbono essere considerati come parti dei suoni glissanti, o meglio come momenti del movimento sonoro continuo che è lo "spazio sonoro".

In effetti noi possiamo concepire lo spazio sonoro, ovvero la totalità dei suoni considerati dal punto di vista delle loro altezze, come un unico suono glissante, o meglio come un glissando del suono che si estende lungo l’intero arco delle frequenze udibili. E di conseguenza possiamo assumere che i suoni abbiano origine dal continuo, derivino da esso attraverso un’operazione di selezione e di suddivisione. In realtà, una teoria della musica che voglia avere una portata sufficientemente generale non può affatto dimenticarsi di tutto ciò come se si trattasse di una circostanza di dettaglio; e nemmeno è giusto ritenere che essa possa al massimo interessare le speculazioni dei filosofi.

Certo, vi è qui qualcosa che attrae in modo affatto particolare la riflessione filosofica. Il modo ovvio in cui abbiamo parlato prima del suono come di un’individualità percettivamente identificabile viene meno. Gli oggetti sonori hanno loro radici in un processo, la molteplicità dei suoni presuppone l’unità di un processo, così da implicare la grande contrapposizione dell’uno e dei molti, nella quale si avvertono, come in tutta la nostra discussione precedente, le risonanze di antichi dibattiti. In che senso propriamente sia giustificato parlare di molti suoni piuttosto che di un unico movimento sonoro, ciò rappresenta indubbiamente un problema su cui non possiamo evitare di interrogarci. E altrettanto giusto sarebbe il chiedersi che cosa propriamente significhi dire, in rapporto ad un suono, che esso resta lo stesso, in che cosa consista dunque l’identità di un suono, in che modo si possa parlare della differenza e della distinzione tra l’uno e l’altro suono.

Eppure proprio in rapporto a questi temi apparentemente così astratti l’uno e il molteplice, l’identità e la differenza, l’essere lo stesso e l’essere altro - ci troviamo ancora una volta impegnati su un terreno in cui tutte le risposte debbono essere ricercate nella concretezza dell’esperienza. L’intera questione infatti è stata proposta come una questione di fenomenologia della percezione, e non in una forma astrattamente argomentativa. Essa consiste soprattutto nel dare la massima importanza ad una delle circostanze più caratteristiche della percezione musicale - a quella che potremmo chiamare percezione di alterazione. Con questa espressione non intendiamo la percezione di un altro suono e nemmeno, banalmente, la percezione della modificazione di un oggetto, pensata secondo il modello della cosa materiale: non si percepisce l’alterarsi del suono, per dirla in breve, così come si percepisce la modificazione della legna che brucia nel caminetto. Si tratta invece di una possibile modalità della percezione che è connessa con la continuità dinamica ed è esemplificata con evidenza proprio dal glissando: diventa allora importante l’afferramento della piccola differenza ovvero della differenza posta attraverso il piccolo intervallo, come una differenza che è in grado di spostare il senso della situazione percettiva dal campo del discreto a quella del continuo, dalla molteplicità dei suoni oggetti all’unità del movimento sonoro.

A questo proposito risulta certo naturale - tutta la nostra esposizione punta ora in quella direzione - fare riferimento a fatti specificamente musicali, alla modificazione dei suoni attraverso la diesizzazione e la bemollizzazione, alle "piccole" note che si possono inserire tra le "grandi" note, alla distinzione tra diatonico e cromatico, al fatto stesso che nella terminologia nusicale si parli proprio di alterazioni.

Di fronte a questi fatti possiamo scegliere due vie: o ritenere che essi appartengano ai modi di intendere il materiale sonoro, e quindi riguardino la sua messa in forma ad opera di un linguaggio musicale particolare; oppure ritenere che le innegabili particolarità linguistiche abbiano comunque il loro fondamento di possibilità nella fenomenologia del materiale sonoro.

Naturalmente tutta la nostra discussione si è sviluppata avendo come sottinteso questa seconda via. Seguendo la prima dovremmo ritenere ritenere ad esempio che il parlare di alterazione in rapporto ai suoni non avrebbe alcun fondamento nella cosa stessa [9]; oppure che l’unico problema che verrebbe sollevato dalla proposta di un’origine dei suoni-oggetti dalla continuità dello spazio sonoro sia quello della sua suddivisione come una suddivisione che cade più o meno arbitrariamente su alcuni punti piuttosto che su altri.

Secondo questa prospettiva di discorso si riterrà che non vi sia alcuna differenza qualitativa tra il grande e il piccolo intervallo e che quindi anche le differenze tra note principali e secondarie, tra note più importanti e meno importanti, tra cromatico e diatonico appartengano in ogni caso all’ambito delle scelte linguistiche[10]. Ed è proprio in rapporto a questo atteggiamento che potremmo, ricollegandoci alle nostre considerazioni generali, parlare di errore atomistico. Questo non riguarda, evidentemente, l’idea della finitezza della suddivisione, dal momento che ogni suddivisione in quanto operazione realmente e concretamente esercitata consterà ovviamente di un numero finito di passi. Si potrà invece parlare di errore atomistico proprio in rapporto all’idea che al grande ed al piccolo intervallo spetti una differenza meramente quantitativa; è infatti proprio questa idea che comporta un effettivo misconoscimento della continuità e che ci riconduce ai suoni-oggetti come entità assolute.

Con tutto ciò si coglie anche di scorcio in che modo vi sia in realtà una profonda connessione tra continuità e movimento nella musica, una connessione che l’estetica musicale ha spesso proposto, ma anche altrettanto spesso in forme contorte e fuorvianti, e soprattutto in modo unilaterale, misconoscendo attraverso il riferimento ad un unico modello, la molteplicità delle forme dell’espressione musicale.

Occorre sottolineare con particolare forza che è inconsistente la pretesa che sempre e ovunque nella musica ci sia passaggio e transizione, che in essa ci sia in generale "movimento", oppure che il senso "dinamico" del musicale faccia tutt’uno con il sentimento del legame tra i suoni. Le generalizzazioni filosofiche, quando sono buone generalizzazioni, non dovrebbero affatto farci perdere di vista le differenze, ma dovrebbero anzi contribuire a renderle evidenti ed a metterle in risalto.

Ma una volta ammesso tutto ciò ed una volta riconosciuto anche che dalla continuità può venire solo il principio del movimento e che la figurazione musicale pone la discretezza come sua condizione ed esige poi la tensione tra continuo e discreto nell’intero arco di possibilità che essa mette in gioco, si potrà senza equivoco riconoscere anche che il fondamento elementare del nesso tra movimento e continuità sta nel fatto stesso che il senso del dinamismo è tanto più debole quanto più sono operanti condizioni che istituiscono distanze tra i suoni - distanze temporali, ad esempio, così come distanze di regione sonora.

Nella terminologia musicale, che è spesso molto più attenta alle determinazioni fenomenologiche di quanto talvolta si pensi, si parla giustamente di passaggi e di salti in situazioni caratteristicamente differenti che mettono in causa la grandezza dell’intervallo. Ma la parola salto contiene ancora, nello slancio che ogni salto richiede, un elemento di dinamismo che verrà accentuato se si stabilisce una qualche forma di legame (si pensi al "portamento" appena avvertibile nella tecnica violinistica attraverso il quale il salto viene in qualche modo ammorbidito e lo slancio reso più sensibile). Questo dinamismo tenderà in ogni caso ad attenuarsi se viene esasperata la distanza della regione sonora e se ad essa si aggiunge, ad esempio, l’azione segregante della distanza temporale, separando i suoni con una lunga pausa.

Inversamente, il suono glissante può valere come fenomeno in cui la continuità temporale si salda con la continuità nell’ordine delle altezze cosicché il nesso tra movimento e continuità può assumere la massima evidenza. Un autentico suono glissante si impone come una sorta di manifestazione di movimento puro, assoluto, privo di ogni sostegno nella cosa materiale, come movimento che non è il movimento di una cosa che si muove.

 

Note


[1] È il caso di notare in questo contesto che a partire da considerazioni «intuitive» la nozione di continuo in senso propriamente matematico, che presuppone il concetto di numero reale, resta in via di principio inaccessibile.

[2] T. Gomperz, Pensatori greci, I, trad. it. di L. Bandini, La Nuova Italia, Firenze, 1967 p. 261. Il testo a cui fa qui riferimento Gomperz viene così tradotto da G. Reale nella recente notevole edizione dei frammenti parmenidei realizzata in collaborazione con L. Ruggiu:« Inoltre, poichè c’è un limite estremo, esso è compiuto da ogni parte, simile a massa di ben rotonda sfera, a partire dal centro uguale in ogni parte: infatti, nè in qualche modo più grande nè in qualche modo più piccolo è necessario che sia, da una parte o da un’altra». (Parmenide, Poema sulla natura. I frammenti e le testimonianze indirette. Present., trad. e note di G. Reale, Saggio introduttivo e commentario filosofico di L. Ruggiu, Milano, Rusconi, 1991, p. 105). L’interpretazione proposta, sulla quale si veda in part. p. 309 e la nota p. 505, è tuttavia orientata in altra direzione e non dà particolare rilievo al tema della continuità.

[3] T. Gomperz, ivi, p. 261

[4] M. Untersteiner rammenta, citando Mondolfo (Problemi del pensiero antico, Bologna 1935, p.94) che «continuo» si gnificherebbe per Zenone la pura e semplice «indivisibilità», mentre la concezione del continuo come «divisibile in parti sempre divisibili» sarebbe caratteristica di Aristotele. (Zenone,Testimonianze e frammenti, Introd. trad. e comm. a cura di M. Untersteiner, La Nuova Italia, Firenze, 1961, p. 135). La domanda che noi ci rivolgiamo è tuttavia se non si possa ancora distinguere tra la divisibilità come realmente effettuata e il pensiero della divisibilità. Perciò non ci sembra del tutto inappropriata la dislocazione dell’intero problema posto dai paradossi di Zenone su un piano epistemologico. Nell’interpretazione di Untersteiner prevale invece la preoccupazione di integrare la posizione di Zenone nell’ontologia parmenidea. - Un’ interessante discussione sulla nozione di continuità, prendendo le mosse da Aristotele, forma la premessa del volume di M. Panza, La statua di Fidia. Analisi filosofica di una teoria matematica: il calcolo delle flussioni, Milano, Unicopli, 1989, cap. II (Ordine e continuità), pp. 39 sgg.

[5] Tutte le nostre considerazioni assumono il loro senso dal contesto metodico delineato all’inizio, e ciò ha naturalmente delle conseguenze anche sulla terminologia che non va, ad esempio, messa direttamente a confronto senza riflessione critica con la terminologia matematica.

[6] Parlando di dinamismo delle figurazioni musicali avremo qui sempre di mira il loro «carattere di movimento» (e non le differenze relative al grado di intensità).

[7] A.Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, a cura di A. Vigliani, Milano, Mondadori, 1989, Suppl. al terzo libro, cap. 35:«... il tema unico e costante dell’architettura è costituito dal nesso di sostegno e carico... La realizzazione più pura di questo tema è il rapporto tra colonna e trabeazione : per questo l’ordine delle colonne è diventato il basso continuo di tutta l’architettura... Naturalmente anche un muro perfettamente liscio racchiude già sostegno e carico: solo che, nel muro essi sono ancora fusi insieme. Qui tutto e sostegno e tutto è carico: perciò non si ha alcun effetto estetico... Il rapporto tra un colonnato e un muro completamente liscio è paragonabile a quello che potrebbe incorrere tra una scala musicale ascendente secondo intervalli regolari e un suono che partendo dallo stesso suono grave raggiungesse lo stesso suono acuto a poco a poco e senza salti (ohne Abstufungen) suono che produrrebbe soltanto un ululato (ein blosses Geheul). Infatti il materiale è il medesimo in tutti e due i casi, mentre l’enorme differenza tra loro deriva solo dalla netta separazione tra gli intervalli» (p. 1273-75) (Con Abstufung si intende il «grado» nel senso musicale del termine, espressione che in questo contesto potrebbe risultare equivoca).

[8] L’impiego delle sirene nei lavori di Varèse è legato alla sua nozione di «proiezione del suono nello spazio», quindi ad un «vero e proprio» spostamento spaziale del suono. Ed è interessante che questo problema sia per Varèse strettamente connesso con il glissando. E. Varèse, Il suono organizzato, a cura di L. Hirbour, Milano, Ricordi-Unicopli, 1985: «Ascoltavo il trio dello scherzo della Settima Sinfonia di Beethoven nella sala Pleyel, una sala ricca di sorprese sonore a causa della sua mal calcolata progettazione acustica, quando divenni cosciente di un effetto interamente nuovo che quella musica tanto familiare stava producendo. Mi pareva di sentire la musica staccarsi da se stessa e proiettarsi nello spazio, al punto che presi coscienza di una quarta dimensione in musica. Questa sensazione poteva essere dovuta al punto della sala in cui stavo andando a sedermi, un punto eccessivamente ricco di risonanze. Non so esattamente per quale ragione, ma questo fenomeno costituì per me una prova vivente di ciò che molti anni prima avevo concepito, e cioè quel che io chiamo la proiezione del suono organizzato» (p. 138). «Il mio primo tentativo di dare alla musica una maggiore libertà fu l’uso di sirene in alcuni miei lavori (Amériques, Ionisation) e penso che siano state queste triettorie paraboliche e iperboliche di suono che hanno portato alcuni scrittori a impadronirsi della mia concezione della musica, fin dal 1925, come movimento nello spazio» (pp. 151-52).«...io ho sempre sentito il bisogno di una specie di curva continua e fluente che gli strumenti non potevano fornire. Ecco perché ho utilizzato delle sirene in parecchi lavori. Oggi effetti del genere possono essere facilmente ottenuti elettronicamente. A questo proposito è curioso osservare come sia proprio questa discontinuità di flusso nella nostra musica occidentale a risultare sgradita, a quanto pare ai musicisti orientali. Per le loro orecchie la nostra musica non scorre, risulta traballante, fatta di contorni, di intervalli, di buchi e - per usare le parole di un mio allievo indiano - saltellante come un uccello di ramo in ramo (p. 164-165)». «Helmholtz per primo mi ha portato a pensare alla musica come a una serie di masse sonore che si sviluppano nello spazio, più che come ad una serie di note disposte in qualche ordine prescritto come mi avevano insegnato. Dovevo avere circa ventidue anni quando lessi degli esperimenti di Helmholtz con le sirene nella sua Teoria fisiologica della musica. Più tardi feci qualche modesto esperimento io stesso e mi accorsi di poter ottenere delle splendide curve di suono paraboliche e iperboliche, che mi parevano l’equivalente delle parabole e delle iperbole nel campo visuale. Molto più tardi utilizzai le sirene come strumenti musicali in tre mie partiture: nel 1922 in Amériques, nel 1923 in Hyperprism e di nuovo, nel 1932, in Ionisation. Nel Poème electronique del 1958 c’era lo stesso effetto, prodotto però questa volta interamente con mezzi elettronici»(p. 178).

[9] Il musicista che assai giustamente parla, adeguandosi ad un tempo a ciò che odono le sue orecchie ed alla terminologia corrente (che in questo caso non è affatto in errore), di suoni che «si abbassano« e «si alzano» deve talvolta sentirsi rimbrottare dal teorico per l’impiego di simili espressioni. Non sono forse tutti i suoni - cosiddetti «naturali» o cosiddetti «alterati» - appunto niente altro che suoni singolarmente identificati dalla frequenza corrispondente? Ed è naturalmente del tutto chiaro che non avrebbe senso parlare del numero 441 come di un’alterazione del numero 440.

[10] Con esemplare chiarezza, P. Righini-U. Righini (Il suono, Milano, Tamburini, 1974), p. 196: «Le scale musicali, considerate dal solo punto di vista fisico, non sono nè diatoniche, nè cromatiche, ma sono semplicemente scale». Questo è verissimo (forse è anche vero che, dal punto di vista fisico, le scale non sono nemmeno scale). Il senso effettivo di questa affermazione non sta tuttavia in ciò che essa letteralmente afferma ma nell’idea, formulata poco dopo, secondo la quale «la distinzione in cromatiche e diatoniche, che interviene nella nostra pratica musicale, dipende dal tipo di semiologia che viene assunto». E ciò significa che ci sono tanti suoni distinti quante sono le frequenze; tutto il resto è soltanto una questione di nomi.


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