Questo testo deriva da un gruppo di lezioni di un corso sul tema «Linguaggio ed esperienza nella filosofia della musica» tenuto all’Università di Milano nel 1987. – I testi principali di riferimento sono C. Lévi–Strauss, Le cru e le cuit, Plon, Parigi 1964, trad. it. a cura di A. Bonomi, Il Saggiatore, Milano 1966 (abbr. Cc); L’homme nu, Plon, Parigi 1971, trad. it. a cura di E. Lucarelli, Il Saggiatore, Milano 1971 (abbr. Un); Myth and meaning, University of Toronto Press, 1978, trad. it. a cura di C. Segre, Il Saggiatore, Milano 1960 (abbr. Ms); Anthropologie structurale, Plon, Parigi 1958, trad. it. di P. Caruso, Il Saggiatore, Milano 1966 (abbr. As). Le citazioni sono tratte da queste traduzioni italiane.

edizione digitale: 2003

Questo testo è reperibile anche in etnosemiotica.it

Di esso esiste un'edizione a stampa inclusa in G. Piana, Saggi di filosofia della musica, Opere Complete, vol. XI, Lulu.com

 

iconLinguaggio. musica e mito in Lévi-Strauss (pp. 68)

 

 


Giovanni Piana

Linguaggio, musica e mito in Lévi-Strauss

Indice

1. Alla musica

2. Il mito tra natura e cultura

3. L’analogia tra analisi del mito e partitura musicale

4. Implicazioni filosofiche

5. In che modo si pone il rapporto tra musica e mito

6. La smentita del tempo nella musica e nel mito

7. Il tempo viscerale e la veemenza della musica

8. Il piacere dell’ascolto musicale, tra pianto e riso

9. La musica come immagine della vita

10. I suoni musicali e il canto degli uccelli

11. Musica, pittura e il problema della doppia articolazione

12. Contro la «musica concreta»

13. Forme musicali e forme del mito

14. La musica come erede del mito

15. Contro la «musica seriale»

16. Wagner e l’analisi strutturale del mito

17. Cromatismo e veleni


1. Alla musica

I testi a cui faremo riferimento nella nostra esposizione appartengono alla grande opera progettata in quattro volumi da Lévi Strauss sotto il titolo generale di Mytologiques - si tratta propriamente del testo di apertura e di quello di chiusura di essa: Il crudo e il cotto (1964) e L'uomo nudo (1971). E subito si chiederà: che cosa hanno a che vedere con la musica l'antropologia culturale in genere, e in particolare il problema del mito? Tanto più questa domanda si impone per il fatto che, è bene subito precisarlo, Lévi-Strauss non si occupa né qui né altrove della musica presso le culture «selvagge»: non ha mai fatto ricerca etnomusicologica.

Ma non appena cominciamo a sfogliare il primo volume della Mitologica, l'occhio cade subito sulla dedica, posta dopo il titolo.

Si tratta di una dedica alquanto particolare, perché non è rivolta a un famigliare, ad un amico, o a qualche illustre antropologo - ma proprio «Alla musica». Questa dedica è, asua volta, una citazione, e precisamente essa è tratta da un brano musicale del musicista francese Emmanuel Chabrier. Si tratta di un brano per coro femminile e voce solista su testo del poeta Edmond Rostand, intitolato appunto «Alla musica»: «Madre del ricordo e nutrice del sogno: sei tu che oggi a noi piace invocare sotto questo tetto».

Questo lavoro fu composto da Chabrier in occasione dell'inaugurazione della casa di un amico, e il musicista invita la musica ad entrare in essa ed a soggiornarvi. Ma naturalmente, ora che il brano viene fatto risuonare all'inizio della Mitologica, questa frase assume un senso diverso: A noi piacere ora invocare la musica affinché essa entri ed abiti nella casa del mito che è la sua casa.

Quest'opera monumentale, dedicata ad una difficile, severa analisi del mito, comincia dunque, direi quasi, cantando - le note del brano di Chabrier vengono puntigliosamente riportate sul rigo musicale.

Dalla dedica passiamo ora all'indice. Ci rendiamo subito conto allora che quel riferimento musicale nella dedica si concretizza nell'impostazione globale del volume. Così, il primo capitolo si intitolo Canto bororo, ed esso consta di un'aria, di un recitativo, di una prima e di una seconda variazione, terminando infine con una coda.

Le titolature musicali si trovano ovunque, a volte piuttosto generiche, come Sinfonia breve oppure Divertimento su un tema popolare; a volte invece piuttosto precise, cioè allusive a forme musicali ben determinate come Invenzione a tre voci, Toccata e fuga, Doppio canone rovesciato. Persino l'ultimo capitolo, intitolato Nozze allude probabilmente alla composizione di Strawinsky che Levi Strauss ben conosceva. Quanto all'introduzione, essa si chiama coerentemente Ouverture.

Naturalmente, reagiremo spontaneamente a queste titolature pensando che esse abbiano il carattere di puro divertimento letterario, tendente a rendere più vivace l'esposizione, e certamente in parte le cose stanno così. Così in generale si è dato scarso peso ad esse, essendo ritenute un puro artificio espositivo. Eppure di ciò talvolta Levi Strauss si lamenta, come quando dice di essere stato largamente frainteso proprio sul problema posto dall'istituzione di questo rapporto tra musica e mito. Questo rapporto, egli scrive,

«è probabilmente l'argomento che ha generato i fraitendimenti maggiori, specie nei paesi di lingua inglese, ma anche in Francia, perché si è pensato che questo rapporto fosse affatto arbitrario» (Ms, p. 57).

Per Lévi-Strauss dunque si tratta di un rapporto particolarmente profondo e ricco di interesse - e del resto come vedremo nel corso della nostra esposizione, anche se non potremo condividere le tesi proposte, tuttavia passeremo attraverso una notevole massa di problemi che quell'accostamento ha indubbiamente il merito di sollevare.

Di fatto nell'Ouverture e nel Finale della Mitologica, Lévi-Strauss ci offre alcune pagine notevolissime nelle quali è contenuta, in forma di abbozzo, se non una vera e propria filosofia della musica, certamente un complesso di spunti estremamente stimolanti per la riflessione filosofico-musicale. Questi spunti sono stati anche variamente ripresi e discussi sia da parte filosofica, sia in rapporto a problematiche più strettamente musicologiche.

Il compito che ci proponiamo non è quello di una lettura riga per riga dell'Ouverture e del Finale, quanto piuttosto di realizzare un tentativo di raccogliere questi spunti e di riferire intorno ad essi mostrando che essi scaturiscono da una posizione generale unitaria e chiaramente orientata.

2. Il mito tra natura e cultura

Intanto: qual è lo scopo che si propone Lévi-Strauss ne il Crudo e il cotto così come nelle altre opere progettate dentro lo stesso quadro? In realtà si tratta di dare un consistente avvio ad una vera e propria scienza del mito (p. 16) – parola che ha in Lévi-Strauss il senso prevalente di racconto mitico – superando pregiudizi concettuali e metodologici che, a suo avviso, sono presenti un po’ ovunque nella letteratura anteriore sull’argomento. Agiscono naturalmente in quest’opera tutta una serie di prese di posizioni che avevano già avuto ampia teorizzazione nelle opere precedenti, sia nei saggi di carattere prevalentemente metodologico, raccolti in Antropologia strutturale (1958), sia nelle prime e fondamentali ricerche sulle Strutture generali della parentela (1947) o sul Totemismo oggi (1962).

In particolare è caratteristica di Lévi-Strauss la critica dell’idea, variamente sostenuta negli studi etnologici e antropologici anteriori, del pensiero primitivo o del pensiero selvaggio (come egli si esprime), come un pensiero per così dire improprio, essenzialmente privo di razionalità e fondamentalmente incapace di stabilire nessi logici. Contro di ciò Lévi-Strauss documenta l’enorme quantità di sapere empirico che caratterizza il pensiero selvaggio. Questo sapere è fondato essenzialmente sulla sensibilità, ma la rivendicazione della sensibilità e della sua portata conoscitiva avviene non solo in quanto essa è capace di accumulare un sapere e cognizioni autentiche, ma anche come veicolo attaverso cui si stabiliscono tipologie, classificazioni e nessi che meritano di essere caratterizzati come propriamente logico–intellettuali. Già nei lavori precedenti a Mitologica, Lévi-Strauss illustra ampiamente questo punto di vista che tende a mostrare come il pensiero selvaggio sia un pensiero effettivo, ma nello stsso tempo anche un pensiero concreto, in quanto è un pensiero che si avvale di elementi tratti dall’azione, dalla sensibilità, dall’immaginazione. Questo punto di vista è dominante anche nella ricerca sul mito: il mito è una costruzione dell’immaginazione, ma nel mito dobbiamo saper cogliere le componenti di ordine intellettuale o più in generale le componenti che presiedono ad una vera e propria organizzazione del mondo: esse si presentano come immagini, figure, storie, ma vanno considerate come concrezioni di momenti e di relazioni intellettuali generali.

Potremmo dire, usando la vecchia terminologia: il mito rappresenta un punto di incontro tra sensibilità e intelletto – ed è questo un punto da sottolineare con particolare forza perché ha a che vedere anche con il problema musicale.

Nel mito si deve vedere un modo di prospettare la realtà, ma anche di sopravanzarla, cioè di dominarla intellettualmente, superando l’elemento naturale e effettuando il passaggio al piano della civiltà e della cultura. Questa tensione tra natura e cultura è uno dei temi generali di Lévi–Strauss, che naturalmente è già fissato nel titolo del primo volume della Mitologica, Il crudo e il cotto: il mito sembra situarsi nel punto di passaggio dalla natura alla cultura, dal livello animale al livello umano, e spesso sembra tradurre sul piano immaginativo i problemi che risultano dalla necessità di questo passaggio.

La parola «natura» si trova in Lévi-Strauss al centro di un’area di significati in cui vi è l’informe, la continuità indifferenziata; mentre la cultura implica l’istituzione di nessi e rapporti che possono essere istituiti solo se quella continuità è stata interrotta. Così la ragione analitica – cioè la ragione in quanto attività che suddivide, ripartisce, classifica – è concepita come un unire, un connettere, un porre in relazione, ma in ciò è presupposta la capacità di discriminare e di separare: per questo la discontinuità è il momento nel quale si prendono le distanze dalla pura naturalità, per entrare nel mondo della civilizzazione.

Si tratta di una distinzione fondamentale che fa pensare che l’analisi del mito assuma un punto di vista volto alla generalità, piuttosto che alla particolarità. Ciò pone certamente subito un problema: l’indagine del mito deve essere, secondo Lévi–Strauss, un’indagine positiva che dunque non solo si attiene ai fatti, ma considera il mito stesso come un fatto, come un «reperto». Ciò comporta che il mito venga coordinato con altri fatti – il racconto mitico non deve essere considerato come avulso da un contesto sociale e geografico, ma deve essere integrato nel materiale etnografico disponibile. Un simile punto di vista tende dunque alla particolarità. Lévi–Strauss non si mette sulla via di una analisi comparativistica, ma prende le mosse, nel Crudo e il cotto, da un racconto mitico particolare, opportunamente ambientato dal punto di vista etnologico. Tuttavia il problema fondamentale di Lévi-Strauss non è quello di vincolare l’interpretazione di un racconto mitico ad un ristretto contesto socio–culturale. Si fa invece sentire l’esigenza di una considerazione autonoma del racconto mitico, un’esigenza che si associa direttamente alla tematica strutturale. Il fatto che nell’Ouverture si sottolinei l’importnza del contesto etnografico, e dunque degli eventuali «nessi reali di ordine storico o geografico» (p. 14), non toglie che ciò a cui tende Lévi-Strauss sia invece l’individuazione di schematismi strutturali che fanno parte dell’impalcatura del racconto mitico. Questa impalcatura rimanda a sua volta – si sarebbe tentati di dire – alla struttura stessa della mente oppure a dati di fatto permanenti della natura umana in generale.

Il compromesso tra queste due esigenze sta appunto nel prendere le mosse da un mito particolare, muovendosi con la massima prudenza possibile in direzione di altri miti che presentino con esso delle affinità in un movimento di costante e progressiva estensione che è anche un movimento di approfondimento e di chiarificazione interna.

Cosicché il vecchio problema proprio del punto di vista comparativista non viene affatto cancellato. Secondo quel punto di vista si riteneva di poter puntare sulla somiglianza dei contenuti dei racconti mitici appartenenti di fatto ad aree culturali e geografiche molto diverse, per sviluppare una tematica generale del mito proposta come «forma generale della vita dello spirito». Si tratta di una posizione respinta da Lévi–Strauss. Ma nello stesso tempo si afferma che:

«il nostro scrupolo di limitarci ad una regione geografica e culturale non impedisce che, di tanto in tanto, questo libro assuma l’aspetto di un trattato di mitologia generale» (Cc, p. 18).

La differenza sta nel fatto che in Lévi-Strauss ciò che importa non è la somiglianza dei contenuti, e quindi la comparsa di questa o quell’associazione di idee contenutisticamente determinata; e così il punto del problema non è rappresentato dalla ricorrenza dei simboli. Al contrario viene apertamente criticata una nozione di simbolo come fornito di per se stesso di un significato generale – tipicamente la posizione da Jung. Contro di ciò si fa valere invece un punto di vista relazionale: il simbolo non è un’entità, ma una relazione, e il significato della relazione può essere compreso solo quando essa sia situato in un intero sistema di relazioni. La ricerca di Lévi-Strauss è dunque puntata in direzione della evidenziazione di sistemi di relazioni soggiacenti ad una determinata classe di racconti mitici. Questo sistema di relazioni è la struttura, l’identità soggiacente a racconti mitici che possono alla superficie apparire molto diversi.

3. L’analogia tra analisi del mito e partitura musicale

Il problema di un’analisi del mito tendente a individuare schematismi strutturali interni si pone peraltro molti anni prima, come uno dei problemi centrali di una antropologia strutturale. Nel volume che ha questo titolo la questione viene posta con estrema chiarezza (Cap. XI, La struttura dei miti). E la musica comincia a fare capolino, anche se in linea estremamente subordinata, cioè come semplice paragone da impiegare per il suo valore ilustrativo.

Nell’analisi strutturalista del mito non è tanto importante il racconto mitico come successione di eventi, ma piuttosto la ricerca di affinità interne tra gli eventi di cui esso consta, in modo tale da stabilire relazioni, che possono anche non essere visibili alla superficie, per riuscire ad isolare uno schema capace di fare da struttura portante di una intera classe di racconti mitici.

Proprio sviluppando questa riflessione a Lévi–Strauss viene in mente una analogia illustrativa con una partitura musicale.

Egli immagina che «alcuni archeologi del futuro caduti da un altro pianeta quando ogni vita umana sarà scomparsa dalla superficie della terra» scoprano, a forza di scavare, una delle nostre biblioteche. Supponiamo che essi si accingano ad una complessa opera di decifrazione che sia coronata da successo: naturalmente anzitutto dovranno accertare che la scrittura deve essere letta da sinistra a destra. Ma ecco che essi si imbattono nella sezione delle partiture d’orchestra. Le parti suonate simultaneamente da strumenti diversi sono poste in colonna, cosicché la lettura deve seguire sia un ordine orizzontale che un ordine verticale. Semplificando per amore dell’uso analogico, potremmo dire che le parti incolonnate verticalmente hanno una qualche affinità, dal momento che debbono essere suonate simultaneamente. E gli archeologi del futuro potranno con successo decifrare anche questi testi se saranno tanto sagaci da sospettare che «certi contorni melodici, apparentemente lontani tra loro presentano analogie» (As, 238) e che non debbono essere letti nella loro successione, ma nella stessa colonna, secondo un ordinamento verticale.

Il problema è dunque quello di notare affinità eventualmente disposte in punti lontani tra loro e di ricondurre queste affinità all’interno di una considerazione unitaria. Così il mito come racconto di eventi successivi deve essere assimilato ad una «partitura trascritta da un dilettante perverso una riga dopo l’altra» e il compito dell’analista sta nel tentare di ricostruire la partitura originale.

Vi è qui una tendenziale svalutazione dell’ordine «diacronico» rispetto all’ordine «sincronico» – una tendenza che in seguito ritroveremo in altre forme e con svariate conseguenze. Nello spirito del discorso di Lévi-Strauss lo sviluppo orizzontale dello spartito risulta in fin dei conti quasi del tutto privo di interesse. Resta così l’idea dell’incolonnamento dei segmenti del racconto mitico che hanno fra loro un’affinità di qualche sorta. Questa analogia musicale per illustrare una procedura di analisi del mito – che si potrà ritenere più o meno forzata – è stata poi nuovamente riproiettata sul brano musicale, suggerendo un metodo di analisi musicale. Questa possibilità è teorizzata da Nicolas Ruwet in un saggio del 1966 intitolato Methode d’analyse en musicologie, con esplicito riferimento a Lévi–Strauss ed al passo citato dell’antropologia strutturale (N. Ruwet, Langage, musique, poésie, Ed. du Seuil, Paris 1972, in particolare pp. 116 sgg.). In ogni caso, nel momento della formulazione del progetto della Mitologica, questo esempio ha cessato di essere un esempio vagamente illustrativo, ed in generale il rapporto tra musica e mito si è ormai sviluppato in una grande molteplicità di direzioni.

4. Implicazioni filosofiche

Nell’Ouverture si comincia con lo spiegare il modo in cui l’analisi viene condotta: essa comincia da un mito assunto come «mito di riferimento» – il racconto Bororo della snidatore di uccelli – e si sviluppa estendendo il campo di indagine verso miti delle culture più vicine e poi sempre più lontane. Il problema è quello di individuare alcuni nuclei principali intorno ai quali i temi inizialmente individuati in modo frammentario cominciano a coagularsi.

Nell’itinerario che si va sviluppando attraverso i racconti mitici

«filamenti sparsi si saldano, certe lacune si colmano, nuove connessioni si stabiliscono, qualcosa che assomiglia ad un ordine traspare dietro il caos» (Cc, 15).

Tuttavia man mano che l’analisi procede diventa sempre più chiaro che essa si situa in una cornice più ampia, più «filosofica» – nonostante tutte le proteste di Lévi-Strauss contro la filosofia. L’interpretazione del mito punta al di là del mito stesso, e la struttura di cui si parla non è soltanto la struttura del mito: o meglio, parlando della struttua del mito si pensa di poter raggiungere il terreno «profondo» delle regole e delle leggi che governano il pensiero, e quindi l’agire degli uomini.

Nell’Ouverture si sottolinea che, nonostante la differenza dei problemi, vi è nell’opera un programma profondamente unitario:

«A partire dall’esperienza etnografica, intendiamo sempre redigere un inventario di recinti mentali, ridurre dei dati apparentemente arbitrari ad un ordine, raggiungere un livello in cui si rivela una necessità immanente alle illusioni della libertà» (Cc, p. 24).

In questa frase sono concentrate alcune delle più caratteristiche prese di posizioni di Lévi–Strauss, che non toccano la specificità dell’argomento, ma, volenti o nolenti, proprio questioni di filosofia generale. Esse si avvertono nelle stesse sfumature dello stile. Così ci impuntiamo subito sull’espressione «recinti mentali»: la mente, la facoltà di pensare e quindi di dare un ordine alla realtà è fermamente delimitata, vi sono delle legalità nella strutturazione della realtà che forse non appaiono alla superficie, ma che «operano ad un livello più profondo» (Cc, p. 25). Ciò fa pensare che il regime necessario del pensiero compenetra la realtà stessa – ed a questo proposito Paul Ricoeur ha parlato di «kantismo senza soggetto trascendentale», una caratterizzazione qui rammentata e che Levi Strauss accetta pienamente: «La nostra problematica si ricongiunge a quella del kantismo» – afferma Lévi-Strauss senza mezzi termini nell’Ouverture (Cc, p. 26)

Se una simile affermazione debba essere giudicata troppo forte, dipende in gran parte dal modo in cui si intende il progetto kantiano: porre l’accento su un aspetto «antropologico» è certamente una possibilità. In tal caso il «recinto mentale» ricorda da vicino – in modo ovviamente generico – la tavola kantiana delle categorie. In realtà l’approssimazione tra le due posizioni si rivela possibile in particolare per la polemica che le accomuna contro le classificazioni meramente empiriche.

Il «recinto mentale» ha subito anche una inflessione deterministica, ha il senso di una «costrizione» – e questo elemento necessaristico viene ribadito in particolare nel campo della produzione mitica. Qui lo spirito «sembra perfettamente libero di abbandonarsi alla sua spontaneità creatrice», ed invece «leggi che operano ad un livello più profondo sono sempre presupposte» (Cc, p. 25). A sua volta questo determinismo è stettamente connesso con un’altra cornice filosofica generale, e precisamente con un atteggiamento materialistico di vecchio stampo, che viene assunto in tutta serietà filosofica come una sorta di corollario necessario di un atteggiamento scientifico. Alle spalle di Lévi-Strauss si intravvedono vecchie idee positivistiche: le spiegazioni ultime dovranno essere cercate a livello fisiologico e possibilmente fisico, che è l’ambito della necessità, cosicché qualunque discorso sulla libertà risulta in ultima analisi illusorio.

Dentro simili cornici, il tema della struttura è ben lontano dall’avere un carattere essenzialmente metodologico o di indicare l’orientamento prevalente di un’indagine, ma appare evidentemente gravato e appesantito da implicazioni filosofiche particolarmente impegnative.

Tra queste implicazioni dobbiamo certo annoverare il richiamo alla nozione di inconscio. Parlare di un livello più profondo a cui operano le legalità di ordine strutturale implica, secondo Levi Strauss, che questo livello sia inconscio. Una trattazine approfondita di questa problematica la si può trovare nel libro di Sergio Moravia, La ragione nascosta (Laterza, Bari 1969, cap. VI); a noi basta mettere in rilievo un punto che del resto lo stesso Moravia sottolinea giustamente con particolare insistenza.

Il riferimento all’inconscio è dovuto in Lévi–Strauss in parte ad un problema che riguarda la produzione del racconto mitico: questo racconto non si presenta mai come prodotto di un’immaginazione individuale, ma come espressione di un pensare e di un immaginare collettivo che segue regole e modi di operare che debbono essere necessariamente inconsapevoli per il singolo. Ma ciò rappresenta solo un aspetto del problema. L’altro aspetto, forse più importante, sta nell’insistenza sull’oggettività dell’indagine. Proprio il riferimento all’inconscio rappresenterebbe una garanzia per l’indagine oggettiva, una garanzia della sua scientificità. Potremmo dire addirittura che questo riferimento rappresenta una sorta di condizione di possibilità della conoscenza oggettiva.

Questa presa di posizione è in realtà appesa ad un filo fragilissimo. L’argomentazione che la sostiene è infatti la seguente: là dove sono in gioco operazioni inconscie, la soggettività sarebbe, per questo stesso fatto, neutralizzata in quanto soggettività, così il loro carattere inconscio sarebbe la garanzia più sicura della possibilità di una conoscenza obbiettiva. D’altra parte il suo senso effettivo sta nel modo in cui la questione dell’inconscio si integra nell’insieme dell’impostazione di Levi-Strauss, in particolare nella tematica della struttura. Stabilire una relazione tra struttura e inconscio significa approfondire quella differenza tra superficie e profondità che si ripresenta di continuo e in varie forme. Ciò che sta alla superficie è il vario, il mutevole, il diverso, l’accidentale, ciò che appare alla coscienza individuale, e che è dunque intrinsecamente soggettivo – e di cui non vi è scienza. Mentre un atteggiamento rivolto alla struttura deve raggiungere ciò che sta sotto la superficie, l’identico, l’immutabile, il necessario – ciò che è intrinsecamente oggettivo in quanto appartenente all’inconscio.

5. In che modo si pone il rapporto tra musica e mito

Ma in che modo all’interno di una simile impostazione incontriamo il problema della musica? Questo incontro avviene attraverso la mediazione della problematica del linguaggio. Occorre ora rammentare che fin dall’inizio della propria attività – nell’opera intitolata Le strutture elementari della parentela (1947) – Lévi-Strauss si appella all’esemplarità della linguistica strutturale anche per gli studi antropologici e in generale sociologici, e questa esemplarità viene sostenuta sulla base di una vera e propria comunanza di campo di indagine, che poggerebbe su una generalizzazione concettuale.

Si prendono le mosse da una definizione del linguaggio come sistema di comunicazione: ed allora anche le istituzioni sociali, ad es. permessi e divieti che regolano i matrimoni, sono un sistema di comunicazione, sono un linguaggio in una nozione generalizzata del termine. Un linguaggio sarà il mito stsso – il quale poggia del resto sulla possibilità del linguaggio verbale.

Le considerazioni sviluppate sino a questo punto debbono essere riconsiderate in questa ottica. Nell’Ouverture si fa notare che le leggi e le regole «coercitive» operano nell’inconsapevolezza esattamente come nel caso delle regole grammaticali che sono attive per il parlante senza che egli abbia bisogno di fare di esse una tematizzazione esplicita:

«Ciò che vale per il linguaggio, vale anche per i miti: il soggetto che nel discorrere applicasse coscientemente le leggi fonologiche e grammaticali, ammesso che egli possieda la scienza e la capacità necessarie, perderebbe quasi subito il filo delle sue idee. Allo stesso modo l’esercizio e l’uso del pensiero mitico esigono che le sue proprietà rimangano celate…» (Cc, 27).

Osservazioni come queste hanno la loro ovvietà considerate in rapporto all’uso del linguaggio verbale, ma la loro trasposizione analogica non è affatto altrettanto ovvia. Al contrario esse sono tutt’altro che prive di problemi: le giustificate perplessità intorno alle interpretazioni di Levi–Strauss non solo sulla tematica dell’inconscio, ma anche in generale sul modo di proporre il rapporto tra antropologia e linguistica sono messe in documentata evidenza dal testo di Moravia (in particolare pp. 199 segg.).

Musica e mito sono a loro volta accomunati dall’essere entrambi linguaggi. Ma naturalmente questa affermazione non dice nulla se considerata nella sua genericità. Per cogliere meglio le specificazioni di questo rapporto in Levi Strauss conviene volgere lo sguardo dall’introduzione della prima opera di Mitologica al Finale dell’Uomo nudo che la conclude. Qui troviamo una nuova tematizzazione del problema che ha il pregio di fornire alla nostra esposizione un inizio abbastanza ordinato. In essa si richiama anzitutto l’attenzione sul fatto che vi sono alcuni campi privilegiati per l’applicazione della nozione di struttura, e questi campi sono la matematica, il linguaggio verbale, la musica e il mito. Ciò che qui è interessante sono le correlazioni e le differenze che vengono stabilite tra essi. Ad esempio, la matematica e il linguaggio verbale vengono considerati come opposti polarmente sulla base dell’osservazione che le strutture nella matematica sono forme relazionali del tutto astratte, puramente intellettuali, in linea di principio pensabili al di là di un concreto supporto simbolico (un’affermazione, quest’ultima, di cui lasciamo interamente la responsabilità a Lévi-Strauss). Al contrario le strutture linguistiche sono forme relazionali concrete, e sono impensabili senza riferimento alla concretezza del rapporto tra suono e senso. Ora, per comprendere il rapporto e la differenza tra musica e mito dobbiamo proprio fare riferimento alla concretezza del linguaggio verbale: notiamo allora subito che i momenti del suono e del senso che sono congiunti nel linguaggio verbale rappresentano la linea discriminante che lo separa musica e mito.

La musica è «staccata dal senso» ed è invece aderente al suono; all’inverso, nel caso del mito, che in quanto narrazione effettiva è anzitutto discorso, le costanti strutturali non debbono essere ricercate essenzialmente nell’elemento sonoro del discorso in cui la narrazione si realizza, ma proprio nella sua pura componente di senso (Un, p. 610). Ciò può essere formulato più chiaramente osservando che per ciò che concerne il racconto mitico, a differenza dal racconto letterario, il modo in cui il racconto è raccontato, l’impiego di una particolare lingua, ed all’interno di essa, di certe parole piuttosto che di altre, quindi in generale la sintassi, lo stile, ecc., può essere considerato irrilevante. Ciò che importa è appunto solo il contenuto del racconto come tale. Questa posizione è spesso ribadita da Lévi-Strauss ed era formulata con chiarezza anche nella Antropologia strutturale:

«Si potrebbe definire il mito come quel modo del discorso in cui il valore della formula traduttore, traditore tende prticamente a zero. Sotto questo profilo. il posto del mito, nella scala dei modi di espressione linguistica è opposto a quello della poesia, indipendentemente da quanto si è potuto dire per avvicinarli. La poesia è una forma di linguaggio estremamente difficile da tradurre in una lingua straniera, ed ogni traduzione comporta molteplici deformazioni. Al contrario, il valore del mito inquanto mito persiste, a dispetto della peggiore traduzione. Per grande che sia la nostra ignoranza della lingua e della cultura da cui lo abbiamo raccolto, un mito viene percepito come mito da ogni lettore, in tutto il mondo. La sostanza del mito non sta né nello stile, né nel modo di narrazione…» (As, p. 235)

«La sostanza del mito non si trova né nello stile, né nel modo di narrare, né nella sintassi, ma nella storia che viene raccontata» (Un, 608).

Lo schema rei rapporti potrebbe allora essere indicato in questo modo:

In base a questo schema le strutture matematiche sono «affrancate dal suono e dal senso», le strutture linguistiche invece sono unità di suono e di senso. Ma non appena veniamo a caratterizzare, all’interno di questo quadro, la posizione della musica e del mito, avendo in mente l’idea di entrambi come linguaggi, allora ci rendiamo conto che la musica è dalla parte del suono ed il mito dalla parte del senso, ma anche che la musica può essere intesa come un linguaggio a cui sia stato tolto qualcosa, e così anche il mito. Il musicale deriva dal verbale attraverso la sottrazione della conponente di senso, mentre il mito attaverso la sottrazione dell’elemento sonoro.

Un simile modo di vedere contiene alcune conseguenze abbastanza rilevanti che non sono certo elaborate a fondo da Lévi–Strauss, ma non per questo sono meno significative. Queste conseguenze si possono ridurre ad una duplice dipendenza della musica dal linguaggio verbale. In primo luogo potremmo parlare di una dipendenza «storica» o più generalmente «genetica»: la musica deve avere origine dal linguaggio verbale; in secondo luogo si potrà anche parlare di una dipendenza in certo modo concettuale, dal momento che proprio in forza di questa origine la musica continua ad appartenere, sia pure in senso privativo, al linguaggio stesso. Secondo Lévi-Strauss prima della musica c’è la parola, e questo non è un semplice dato di fatto, ma una necessità intrinseca; è infatti il linguaggio naturale che offre alla musica il suo primo materiale sonoro. Si vorrebbe dunque insegnare che il materiale sonoro primario della musica non è il suono stesso, ma il suono verbale. La musica può perciò essere caratterizzata come un linguaggio «senza senso» dove senza significa privato di (e non semplicemente privo di):

«… non vi può essere musica senza un linguaggio preesistente, da cui essa continua a dipendere come un’appartenenza privativa» (Un, p. 610)

Proprio in virtù di questa appartenenza verrebbe mantenuta nella musica una tensione verso il senso, come una sorta di ricordo della sua origine linguistica. Questa preesistenza della parola, e quindi della vocalità come primo fondamento della musica, delinea un atteggiamento ben definito sia rispetto a ciò che deve essere il materiale sonoro, sia rispetto alla stessa modalità dell’ascolto. L’ascoltatore infatti, che è anzitutto soggetto parlante, si protenderà in ogni caso verso il suono alla ricerca di un senso, essendo modello originario del suono la parola stessa. Quest’affermazione viene formulata in modo del tutto esplicito:

«…L’ascoltatore… si sente irresistibilmente portato a supplire questo senso assente…» (Un, p. 610).

In realtà siamo qui di fronte a null’altro che a «deduzioni» che si pensa di poter trarre dalla schematizzazione iniziale. Che cosa sia e come sia l’ascolto ci può essere insegnato solo da una fenomenologia concreta. Il parlare di senso assente o addirittura di tendenza all’integrazione risulta del tutto privo di fondamento. L’ascolto musicale viene presentato come un ascolto da sordastri, che afferrano confusamente il suono della parola e propongono dunque iteratamente la domanda sul suo senso. D’altra parte proprio così deve essere posto il problema se si insiste su una nozione di comunicazione che ha il suo modello nel rapporto linguistico intersoggettivo. Chi tende l’orecchio per afferrare il senso? Colui che ci sente poco. Ciò che viene udito sarà afferrato come linguaggio – ad es. perché vedo qualcuno che mi parla, che si rivolge a me – e le parole giungono confusamente al mio orecchio. Una simile situazione non ha nulla a che vedere con l’ascolto di un brano musicale.

Nel caso del mito, si verfica una situazione per molti versi simmetrica e opposta a quella della musica.

In generale il mito non può in via di principio liberarsi interamente dal linguaggio verbale, proprio in quanto esso è racconto e deve dunque trovare espressione in parole. Per questo «non si può sostenere che il mito sia affrancato completamente dal linguaggio come lo è la musica» (Un, p. 611). Ciò non toglie che debba essere ribadita la tesi secondo la quale il mito può essere considerato come «pura realtà semantica», e dunque il legame al «supporto linguistico» non è particolarmente stretto. Per questo esso può essere narrato in una lingua qualunque senza rimetterci nulla. Lévi-Strauss sembra voler mettere in rilievo che, come il mito si adatta a qualunque supporto linguistico, così la musica si adatta a qualunque senso si voglia ad essa attribuire, «si adatta alla serie infinita di cariche semantiche di cui i successivi ascoltatori cercano di investirla» (Un, p. 612).

Così quella tensione verso il senso, da un lato ha una sua giustificazione interna nell’origine del materiale musicale, dall’altro è in via di principio una tensione irrisolta ed insolubile. In particolare Lévi-Strauss non vuole rinunciare a sostenere il luogo comune secondo cui l’attribuzione di un senso ad un brano musicale sarebbe in fin dei conti una questione solo soggettiva e che qualunque senso può essere tollerato dal momento che nessuno di essi è in grado di rendere realmente conto del brano musicale stesso:

«La funzione significante della musica appare irriducibile a tutto quello che sarebbe possibile trarne fuori o tradurre in forma verbale» (Un, p. 612).

In questo quadro trova spiegazione la frequente presenza di elementi riconducibili al momento musicale nella realizzazione della narrazione mitica. Essa, ed in particolare quando è integrata nel rituale, viene spesso cantilenata, salmodiata, cantata. Anche certi dettagli di ordine stilistico, come la ripetizione di formule verbali stereotipe, hanno un senso prevalentemente sonoro–musicale, piuttosto che appartenere al contenuto del racconto. Si tratta di caratteri della narrazione mitica che possono essere interpretati in modo simmetrico al problema del senso nel caso della musica. Nella musica vi è una carenza di senso, nel mito una carenza di suono: cosicché dalla parte del suono vi sarebbe un «vuoto» che il narratore sentirebbe il bisogno di colmare. Gli artifici di carattere musicale nella narrazione mitica concreta sarebbero così espedienti che tendono a compensare questa carenza ritrovando l’equilibrio linguistico tra suono e senso che assume evidentemente in Lévi-Strauss il valore di un equilibrio originario ed esemplare.

6. La smentita del tempo nella musica e nel mito

Linguaggio, mito e musica hanno ancora questo in comune: essi sono strettamente legati ad una processualità temporale. Anzitutto è subito chiaro che la temporalità in senso proprio riguarda il linguaggio in quanto esso è concepito come discorso vivente, come parola parlata. Sullo sfondo vi è naturalmente la distinzione di De Saussure tra Langue, intesa come sistema di regola che può essere studiato come tale, e Parole che è la lingua concretamente parlata dai singoli, alla quale appartengono anche tutti i tratti extragrammaticali.

Si tratta di una distinzione che ha manifestamente lo scopo di determinare l’oggetto della linguistica in rapporto all’aspetto sistematico, distinguendo i tratti accidentali da quelli necessari e rafforzando una presa di posizione in senso anti–empiristico ed antistoricistico. Essa può essere formulata anche in termini temporali.

Propriamente temporale è anzitutto la parola, ad essa spetta un qui ed un ora, un inizio ed una fine, essa passa attraverso il tempo. Questa dimensione temporale viene caratterizza come la dimensione diacronica. Invece una considerazione della lingua come sistema sembra che in linea di principio possa prescindere dalla temporalità, dallo sviluppo. Ciò non significa che un sistema linguistico non si sviluppi, che le regole di cui non si modifichino nel tempo. Si tratta invece di fissare con chiarezza che in una considerazione sistematica le considerazioni relative allo sviluppo sono escluse, appartenendo ad un’altra delimitazione problematica. Si parla in questo caso di dimensione sincronica, anche se forse questo termine non è del tutto felice perché si richiama alla simultaneità che è ancora una dimensione temporale.

Il problema della temporalità del mito prende l’avvio proprio da questa distinzione linguistica. Anche il mito sarebbe infatti caratterizzato da questa duplice dimensione che è in realtà temporale e intemporale. Esso si riferisce sempre ad un passato lontano, ad un tempo dei primordi. Ma:

«il valore intrinseco attribuito al mito dipende dal fatto che questi avvenimenti, che si ritiene debbano svolgersi in un momento preciso del tempo, formano anche una struttura permanente. Quest’ultima si riferisce simultaneamente al passato, al presente, al futuro» (As, p. 234).

È interessante notare come questo stesso tema si ripresenti in rapporto alla musica. Il mito e l’opera musicale hanno in comune il fatto che essi

«trascendono, ciascuno a modo suo, il piano del linguaggio articolato, pur richiedendo, come questo linguaggio,… una dimensione temporale per articolarsi» (Cc, p. 32)

Tuttavia l’accento cade qui con particolare vivacità proprio sulla componente atemporale:

«Ma questa relazione al tempo rivela una natura abbastanza singolare: tutto avviene come se la musica e la mitologia non avessero bisogno del tempo se non per infliggerli una smentita. Esse sono entrambe macchine per sopprimere il tempo» (Cc, p. 32).

Che cosa significhi ciò per il mito si è detto or ora. Ma per la musica? In che senso potremmo far giocare anche qui il paragone tra langue e parole? Per comprendere un’affermazione così recisa sulla soppressione della temporalità che la musica opererebbe, dobbiamo attirare l’attenzione sul fatto che un brano musicale ha una sua «organizzazione interna« (Cc, p. 32). Questa organizzazione non sembra avere in sé qualcosa di essenzialmente temporale. Così una melodia, che si sviluppa necessariamente nella successione, può essere analogizzata ad una linea con una determinata forma, che può essere esibita in un colpo solo. Che la musica si svolga nel tempo potrebbe essere considerata come una circostanza necessaria, per via della natura del materiale sonoro, ma anche inessenziale – per il fatto che, attraverso il medio temporale, ciò che importa è la presentazione di una struttura. Questo sembra il senso dell’osservazione di Lévi-Strauss sulla soppressione del tempo nella musica. In effetti si accenna qui ad una «immobilizzazione» del tempo che passa «in forza dell’organizzazione interna» dell’opera musicale. Il fatto che poi egli aggiunga che «ascoltando la musica e mentre l’ascoltiamo, noi accediamo ad una specie di immortalità» (Cc, 33) è frase a cui non so annettere alcun senso preciso.

7. Il tempo viscerale e la veemenza della musica

La questione della temporalità ha tuttavia anche altri sviluppi. Occorre premettere che Lévi-Strauss rifiuta in via di principio qualunque considerazione relativa ad una fenomenologia della temporalità, e di conseguenza, accanto al tempo oggettivo, potrà riconoscere al massimo una temporalità psicologica o meglio psico–fisiologica, cioè una temporalità intrecciata a processi psichici che hanno a loro volta fondamento in processi fisiologici.

Ora, poiché nel racconto mitico non si tratta di cogliere un semplice sviluppo narrativo, ma i nessi profondi che formano il suo senso, le attività cerebrali connesse all’ascolto dovranno essere tali da consentire alla mente dell’ascoltatore di «spaziare in lungo e in largo» nel campo del racconto «man mano che esso si dispiega di fronte a lui»: si assume, in altri termini, che l’ascolto del mito – quando si tratti di un mito vivente – non sia certo qualcosa di simile ad una analisi strutturale, ma sia comunque tale da sapere cogliere i nessi essenziali proposti dal mito. Si tratterà perciò di una capacità psicologica – e quindi di una temporalità dell’ascolto – di tipo particolare, che avrà a sua volta un fondamento fisiologico come ogni altro processo psicologico.

Ciò vale fino ad un certo punto anche per la musica. Anche l’afferramento di un brano musicale è strettamente dipendente dalla capacità di stabilire nessi non nel semplice divenire successivo dei suoni, ma nella totalità del brano, cosicché dovranno essere istituiti collegamenti all’indietro così come anticipazioni rispetto a sviluppi successivi. Ma questo è ancora un livello superficiale. Secondo Lévi-Strauss le operazioni di collegamento effettuate all’interno del tempo psicologico – quindi attraverso atti psichici che implicano la memoria e l’attesa – non sono sufficienti, perché nella ricezione di un brano musicale viene messa in questione il livello propriamente corporeo: la musica chiama direttamente in causa il «tempo fisiologico», anzi addirittura, come egli si esprime, il «tempo viscerale».

Quest’ultima espresssione è certo molto singolare, ma il suo impiego è d’altra parte significativo in rapporto all’impostazione problematica proposta.

Non vi è dubbio che in questa discussione Lévi-Strauss ostenti una ripresa di temi positivistici, ed in particolare alluda alla vecchia tematica di una fondazione biologica della musica secondo schemi vetero–materialistici. Cosicché egli si compiace di parlare di onde cerebrali, di aspetti neuro–psichici ecc. La singolarità dell’espressione «tempo viscerale» sta invece nel fatto che essa prospetta questa tematica biologistica in altra direzione, e precisamente in quella di una forte accentuazione dell’elemento affettivo ed emozionale. Ne risulta un’inclinazione vitalistica. Lévi-Strauss è disposto anche ad ammettere una minore «vitalità» del racconto mitico rispetto al brano musicale: un racconto mitito può essere «palpitante», può dunque generare un’intensa partecipazione dell’ascoltatore – anche il mito non ignora dunque il «tempo viscerale». Ma esso non ha nel mito quella funzione essenziale che esso ha invece per la musica. L’azione della musica è caratterizzata da una veemenza di cui il mito offre soltanto un’imitazione affievolita (Cc, p. 49). «Ogni contrappunto assegna al ritmo cardiaco ed a quello respiratorio il posto di una parte muta» (Cc, p. 33).

Dunque è come se questi momenti fisiologici appartenessero allo spartito, una vera e propria parte sottintesa che c’è sempre e in ogni caso. Il fatto che poi si alluda proprio al battito cardiaco ed al movimento respiratorio, anzi al ritmo dell’uno e dell’altro, va inteso anche in una contrapposizione implicita tra questo tempo viscerale, che è fatto di ritmi e scansioni, e il tempo continuo, come pura durata, nel senso bergsoniano del termine.

Con tutto ciò si vorrebbe sottolineare la necessità di un fondamento naturalistico e nello stesso tempo anche una potenziale rottura della continuità che è già presente nei ritmi fisiologici. Questa discontinuità «viscerale» sembra infine essenziale per rendere conto dell’emozione musicale e del piacere estetico generato dalla musica. L’opera del compositore consiste infatti nell’intervenire liberamente sulla base di questo ritmo fisiologico creando situazioni di dinamismo che possono essere colte proprio nel presupposto della costanza di quel ritmo fondamentale.

«L’emozione musicale proviene proprio dal fatto che, in ogni istante il compositore toglie o aggiunge più o meno di quanto l’uditore preveda sulla scorta di un progetto che egli crede di indovinare, ma che in realtà è incapace di penetrare autenticamente, a causa del proprio assoggettamento ad una doppia periodicità: quella della gabbia toracica che inerisce alla sua natura individuale, e quella della scala che dipende dalla sua educazione. Basta che il compositore tolga di più perché noi proviamo una deliziosa impressione di caduta; ci sentiamo strappati da un punto stabile del solfeggio e precipitati nel vuoto, non solamente perché il supporto che sta per esserci offerto non era al posto atteso. Quando il compositore toglie di meno, è il contrario: ci costringe ad una ginnastica più abile della nostra. Ora siamo mossi, ora costretti a muoverci, e sempre al di là di ciò che, da soli, ci saremmo creduti capaci di compiere. Il piacere estetico è fatto di questa moltitudine di sussulti e di pause, attese deluse e ricompensate più del previsto, risultato delle sfide lanciate dall’opera…» (Cc, p. 34).

L’ascolto musicale viene assimilato ad una sorta di corsa ansimante, piena di inciampi, di cadute, di fastidiosi impedimenti della nostra libertà di movimento – perché mai tutto ciò dovrebbe essere fonte del massimo piacere? In realtà, una spiegazione c’è.

8. Il piacere dell’ascolto musicale, tra pianto e riso

Le questioni or ora discusse, sulla base della Ouverture, vengono riprese e perfezionate nel Finale. Intanto va detto che quando Lévi-Strauss parla di «emozione musicale» e sottolinea la necessità di dare di essa un’interpretazione, sa quello che dice. Il termine di emozione non allude ad un generico sentimento che accompagna l’ascolto e il cui contenuto resta indeciso. L’ascolto musicale sarebbe invece proprio un ascolto emozionato, un ascolto commosso, ed il caso esemplare di questo ascolto, il caso limite ma proprio per questo esemplare, è quello di un ascolto di opere «capaci perfino di provocare le lacrime» (Un, p. 618). Il caso di questo ascolto piangente è citato più di una volta sempre per sottolinearne l’esemplarità. Qualunque tentativo di «comprendere che cosa sia la musica» deve spingersi sino alle radici di questa emozione profonda.

Già nella Ouverture, Lévi-Strauss osserva che l’indagine riguarda certe proprietà delle cose, accettabili attraverso la percezione diretta, come il crudo, il cotto, il bagnato, il putrido, ecc. , cose che tuttavia si presentano come veicoli di relazioni di ordine intellettuale (Cc, p. 30). Anche soltanto per questo fatto la musica potrebbe essere chiamata in causa perché essa ha «sempre praticato una via mediana tra l’esercizio del pensiero logico e la percezione estetica» (Cc, p. 30).

Questo tema si ripresenta nel Finale nel quadro del tema del «piacere musicale». Esso deriverebbe intanto da questo confluire di elementi intellettuali entro l’alveo della sensibilità:

«Sfuggendo all’intelletto che è la sua sede abituale, il significato va ad innestarsi direttamente sulla sensibilità» (Un, p. 619). «Attraverso la musica si compie quel prodigio per cui il più intellettuale dei sensi, l’udito, di solito asservito al linguaggio articolato, sperimenta quel tipo di condizione che il filosofo [Condillac] aveva giustamente riservato all’odorato, di tutti i sensi quello più profondamente radicato nelle penombre della vita organica» (ivi). «La gioia della musica è dunque quella del’anima che per una volta è stata invitata a riconoscersi nel corpo» (ivi).

Nel Finale viene dunque ripreso il tema della corporeità; ma ora il problema dell’emozione musicale riceve indubbiamente una maggiore elaborazione. Come abbiamo detto, questa emozione ha il suo massimo esempio nel pianto, che è naturalmente una sorta di pianto di gioia, o quanto meno un pianto rasserenante. In certo senso l’emozione musicale si situa tra il pianto e il riso, tra il riso e l’angoscia. La chiave del piacere estetico risiede proprio nella dinamica che scatena il riso ed in quella che scatena l’angoscia. Lévi-Strauss si azzarda ad abbozzare uno schema di queste dinamiche ad un tempo opposte ed affini. In primo luogo occorre premettere che

«lo spirito umano potenzialmente si mantiene sempre in tensione, in ogni istante dispone di una riserva di attività simbolica per rispondere ad ogni sorta di sollecitazione di ordine speculativo o pratico» (Un, p. 620).

Questa riserva di attività simbolica è anche una riserva di energia che verrebbe consumata nell’adempimento di operazioni di coscienza, ad esempio nello stabilire nessi e relazioni. Così la situazione che genera il riso è quella in cui campi molto lontani ta loro, che richiederebbero per essere connessi una catena di mediazioni piuttosto lunga con un notevole dispendio di energia, vengono invece direttamente connessi da un fattore imprevisto. Vi è così un risparmio di energia che deve essere comunque spesa, il cui «fenomeno» è appunto il riso.

«Inconsciamente mobilitata per ricostituire l’avvenimento e per comprenderlo, pronta al massimo sforzo per effettuare la sintesi delle due rappresentazioni, la funzione simbolica dello spettatore afferra di colpo il termine imprevisto che le consente, con la minima spesa, di ristabilire la concatenazione logica» (Un, p. 620). «Gli scoppi di riso adempiono a questa funzione e lo stato di beatitudine che li accompagna corrisponde ad una gratificazione della funzione simbolica, soddisfatta ad un prezzo molto minore di quello che era disposta a pagare» (ivi).

La dinamica dell’angoscia ha sostanzialmente lo stesso andamento. La situazione che scatena l’angoscia è ancora quella di connettere campi o situazioni lontane, la necessità di trovare la soluzione ad un problema o la via di uscita ad una difficoltà. Si tratta in qualche modo di effettuare una sintesi e nello stesso tempo si ha la sensazione di non avere i mezzi adeguati per effettuarla. Il riso sorge da una soluzione insperata, dunque dall’aver evitato un percorso faticoso avendo trovato inaspettatamente una scorciatoia; l’angoscia deriva invece ad un tempo dalla necessità della scorciatoia e dal non riuscire a scorgerne nessuna:

«Invece della scorciatoia del comico, che evita un tragitto almeno teoricamente faticoso, allora proprio l’impotenza nel concepire una scorciatoia determina quella specie di dolorosa paralisi che attanaglia lo spirito atterrito dalle difficoltà del tragitto che le vicissitudini dell’esistenza gli impongono e dalle prove che ogni tappa gli riserva» (Un, p. 620).

A differenza del riso che è suscitato da un tragitto fortemente abbreviato, l’ascolto musicale compie realmente un tragitto seguendo lo sviluppo e l’evoluzione dell’opera. In questo senso vi è semmai prossimità all’angoscia – di questo tragitto chi ascolta averte le difficoltà, i rallentamenti, le tensioni, gli impedimenti. Ritorna il tema dell’ascolto che noi abbiamo definito un ironicamente come ascolto ansimante – ma questa espressione è proprio di Levi Strauss, che la usa senza alcuna intenzione ironica (Un, p. 621). Tuttavia in questa corsa le difficoltà ed i problemi sono accompagnati dalle soluzioni che il compositore ha provveduto a proporre. Si torna così al versante del riso: la risposta c’è già e l’ascoltatore è proiettato verso di essa:

«Trascinato ansimante su questo cammino, per ogni soluzione melodica o armonica, l’ascoltatore si trova come lanciato verso il possesso del suo risultato» (Un, p. 621).

Ma il discorso procede oltre. Quando Lévi-Strauss dice che «ogni tragitto faticoso ha per l’uomo risonanze esistenziali» (Un, p. 621) suggerisce che l’idea stessa del tragitto può ricevere un forte investimento imaginativo – cosicché Lévi-Strauss riesce finalmente a dire che la musica in genere, il brano musicale può essere considerato come un’immagine della vita stessa (cosa che, a mio sommesso parere, dice troppo e troppo poco). Tutta la tematica dell’emozione e del piacere estetico deve essere riconsiderata da questo punto di vista. La vita stessa è infatti un percorso faticoso che incontra scacchi e successi, la vita è peripezia ed avventura, e tutto ciò si ripresenta nella musica. Il vero percorso faticoso a cui l’ascoltatore commisura tutti gli altri

«è la sua stessa vita con le sue speranze e le sue delusioni, le sue prove e i suoi successi, le sue attese e i suoi esiti. La musica gliene offre nel contempo l’immagine e lo schema, ma sotto forma di un modello ridotto, che non solo imita ma accelera tutte queste peripezie e le condensa in un lasso di tempo che la memoria può cogliere come un tutto e che inoltre – trattandosi di capolavori quale la vita ben di rado sa fare – le volge verso una conclusione positiva» (Un, p. 621).

9. La musica come immagine della vita

Se rammentiamo il modo in cui il tema dell’emozione e del piacere musicale è stato avviato, sembra chiaro che questo tema sembra scaturire più da un intento di differenziazione che di analogia tra musica e mito. Avevamo preso le mosse dal «tempo viscerale», dalla «veemenza» dell’azione musicale sottolineando subito che si trattava di temi attinenti più alla musica che al mito.

Negli sviluppi dell’argomento, ci siamo poi imbattuti in qualche forse inattesa enunciazione, che presa in se stessa, sembra ricondurre la posizione di Lévi-Strauss in alvei noti e talvolta persino piuttosto scontati, ma non per questo realmente produttivi sul piano di una riflessione sulla musica considerata nella complessità e nella molteplicità dei suoi aspetti. Si pensi all’idea della musica come immagine della vita oppure a quella di una omologia tra espressioni musicali e moti dell’anima che Lévi-Strauss formula esplicitamente:

«Una frase melodica giudicata bella e commovente è veramente tale quando il suo profilo appaia omologo a quello di una fase esistenziale… pur riuscendo a risolvere agevolmente, sul piano che le compete, certe difficoltà omologhe ad altre difficoltà contro le quali la vita, sul piano che le è proprio, verrebbe a cozzare, rimanendone sopraffatta» (Un, p. 622).

Tuttavia, nonostante il presentarsi di simili affermazioni, in realtà troppo generiche, che vogliono dire tutto e nulla, la specificità della problematica di Lévi-Strauss che consiste appunto nel legame tra musica e mito non viene perduta all’interno delle digresssioni sui terreni dell’estetica musicale. Il tema del mito resta presente già per il fatto che l’excursus sulle motivazioni dell’emozione musicale intende anche confermare che queste motivazioni si trovano in profondità, ribadendo che musica e mito assolvono entrambi una funzione nelle dinamiche delle tensioni inconscie.

Inoltre la musica assolve il compito di esibire all’individuo il suo «radicamento fisiologico»; ma una funzione analoga assolve il mito per ciò che concerne il radicamento dell’individuo nel sociale.

«L’una ci prende per le viscere, l’altra, se così si può dire, per il gruppo» (Cc, p. 49).

Il problema del mito si ripresenta anche in rapporto alle considerazioni della musica come immagine della vita, anzi queste considerazioni ricevono una loro determinatezza proprio da questo riferimento. L’opera musicale, in forza del senso della sua dinamica interna, fornisce «una griglia di lettura, una matrice di rapporti che filtra ed organizza l’esperienza vissuta». In questa frase potremmo senza dubbio sostituire ad «opera musicale» la parola «mito».

Che cosa fa il mito se non stabilire una matrice di relazioni che filtra e organizza l’esperienza vissuta? E fa certamente parte di quest’opera di filtraggio e di organizzazione compiuta dal mito anche il fornire un quadro di soluzione dei contrasti e dei conflitti interni all’esperienza stessa. Ovunque, nell’intepretare il racconto mitico ci rendiamo conto che in esso si tratta sempre di dare una risposta ad un problema.

Una simile osservazione può essere ribaltata direttamente nell’ambito del musicale:

«Se quanto abbiamo detto finora è esatto, non è concepibile opera musicale che non abbia inizio con un problema e non tenda verso la sua risoluzione, dando a quest’ultimo termine un significato più ampio di quello che ha nel linguaggio musicale, ma sempre coerente con esso» (Un, p. 622).

Questa è una frase perentoria ed estremamente impegnativa. Essa è peraltro preceduta da una limitazione: «almeno per quel periodo della civiltà occidentale in cui la musica assume le strutture e le funzioni del mito». Questa limitazione – che peraltro abbraccia l’intera musica europea dall’età moderna fino ai nostri giorni – non può che apparirci per il momento piuttosto oscura. Si allude ad un nuovo livello del rapporto tra musica e mito, ad una sorta di dialettica tra l’una e l’altra – è un argomento che presto dovremo riprendere.

Ma in che senso l’affermazione or ora citata è impegnativa? Il tipo di impegno lo potremmo mettere in rilievo prendendo le mosse dalla parola «risoluzione» nel suo significato musicale particolare. Questa parola, nella terminologia musicale, richiama la dissonanza. Secondo le regole compositive tradizionali, la dissonanza deve essere «risolta» – essa deve infatti essere considerata come un momento di passaggio verso una consonanza. La dissonanza «risolve» nella consonanza. Poiché Lévi-Strauss precisa che il termine viene preso in un senso più ampio che nella terminologia musicale, ma in coerenza con essa, possiamo assumere questo rapporto dalla dissonanza alla consonanza come significativo anch’esso su un piano più ampio.

Assumendo questo punto di vista, l’opera musicale potrebbe essere descritta come un processo che va da una situazione conflittuale, da un contrasto che avanza progressivamente verso la sua soluzione – un processo dalla dissonanza alla consonanza. Quanto Lévi-Strauss tenga a questa idea è dimostrato in particolare dall’analisi del Bolero di Ravel che egli inserisce direttamente nel testo e che si sviluppa inesorabilmente per pagine e pagine. Si tratta di mostrare che in un brano che si presenta come «un caso estremo di unidirezionalità ininterrotta e perfettamente continua», come dice Pousseur (Un, p. 622), agisce in modo variamente complesso lo schematismo precedentemente prospettato, schematismo che secondo lo spirito della problematica proposta deve essere inteso come un criterio orientativo anche nell’analisi di quell’opera.

10. I suoni musicali e il canto degli uccelli

La discussione di Lévi-Strauss si incontra anche con il problema dei rapporti tra musica e pittura – e le considerazioni svolte in rapporto ad esso portano chiarimenti importanti sul senso e sulla portata della problematica musicale. Nell’Ouverture Lévi-Strauss si pone l’obiezione se il privilegio accordato alla musica in rapporto alla problematica strutturale del mito sia realmente giustificato. Perché non la pittura? La prima risposta chiama in causa la differenza tra musica e pittura in ordine al problema della raffiguratività, per spostare tuttavia immediatamente l’accento sui materiali di cui queste arti constano. Si rammenta in primo luogo che per contraddistinguere la musica dalla pittura si ricorrerà comunemente al rilievo della capacità della pittura di raffigurare qualcosa, una possibilità esclusa in ambito musicale. L’argomento secondo cui esiste una pittura non raffigurativa, una pittura «astratta» le cui opere sono un libero gioco di colori e di forme come nel caso delle pure costruzioni sonore della musica viene respinto da Lévy-Strauss: a suo avviso quest’analogia è fuorviante ed illusoria (Cc, p. 37) – a dispetto anche del dato di fatto che questa analogia musicale è ben presente nella storia e nella teoria dell’arte astratta. La ragione di questa contestazione è da ricercare nel fatto che i colori e suoni non sono entità dello stesso livello: i colori infatti si dànno in natura, essi si trovano tra le cose che ci circondano, di qui vengono rilevati dal pittore che ne fa un libero utilizzo. Non è dato invece, o è dato solo fortuitamente, trovare in natura suoni come appartenenti al mondo circostante: essi rimandano ad un livello di elaborazione culturale.

Questa risposta è interessante perché scopre un’altra carta con cui è giocata questa impostazione. Con «suono» non si può intendere qui il puro fenomeno uditivo, ma il termine ha subito una forte restrizione. Evidentemente questa parola viene intesa in opposizione ai rumori nel senso quotidiano del termine, a ciò che appunto in natura si ode, fruscii, ticchettii, battiti, cigoliii e quant’altri che fanno parte, e quanta parte!, del nostro mondo circostante, naturale e non. È importante tuttavia per Lévi-Strauss far riferimento soprattutto ai suoni «naturali» – in modo tale da poter giocare sulla differenza tra suoni e rumori la distinzione guida natura e cultura, che fa parte dell’impalcatura concettuale della Mitologica. I suoni di cui parla Lévi-Strauss come «suoni musicali» sono inevitabilmente i suoni di altezza determinata in rapporto ai quali è possibile costruire sistemi ordinati.

Ed allora ci chiediamo: dove in natura troviamo un la a 440 Hz? Certo, può accadere che un merlo di passaggio emetta proprio un la a 440 Hz, e persino una sequenza che noi potremmo riuscire a trascrivere nella nostra corrente notazione musicale. Per questo non è affatto sorprendente che Lévi-Strauss si soffermi proprio sul canto degli uccelli (Cc, p. 56 n. 6).

Qualunque cosa si pensi sul canto degli uccelli è difficile, almeno secondo l’uso consueto del termine, parlare di esso come di un «rumore». Del resto la parola «canto», anch’essa di uso comune, è in proposito molto indicativa. Dovremmo allora, con questo esempio, dubitare del livello culturale a cui si situano i suoni della musica? In realtà Lévi-Strauss è disposto a compiere piuttosto l’operazione inversa, a elevare un poco il piano degli uccelli, piuttosto che abbassare quello della musica. Il canto degli uccelli, egli dice, serve comunque «all’espressione ed alla comunicazione» e si situa «ai limiti del linguaggio». Esso è un «modo della società». Ciò implica che la nozione di cultura possa essere estesa anche a manifestazioni animali, e in particolare agli uccelli ed al loro canto.

«Rimane quindi vero che i suoni musicali si trovano dalla parte della cultura. È la linea di demarcazione fra cultura e natura che non segue più così esattamente, come si credeva non molto tempo fa, il tracciato di una di quelle linee che servono a distinguere l’umanità dall’animalità» (Cc 56).

L’amore per lo schema supera qui qualsiasi altra considerazione. E d’altra parte ammettere, anche su un caso così minuto, che si possa aprire una crepa nello schema è un rischio troppo grosso per la tenuta dello schema stesso.

11. Musica, pittura ed il problema della doppia articolazione

Ancora la differenza tra musica e pittura può essere utilizzata per introdurre la distinzione tra prima e seconda articolazione. Il colore appartiene alla natura – abbiamo detto – ed in questo senso può essere messo sullo stesso piano dei rumori. Di fronte a colori e rumori «l’uomo osserva lo stesso atteggiamento in quanto non permette loro di svincolarsi da un supporto» (Cc, p. 37). Ciò significa che l’«organizzazione dell’esperienza sensibile in oggetti» è una sorta di presupposto della pittura stessa, una sorta di terreno a partire dal quale la pittura opera. Nel linguaggio di Lévi-Strauss si tratta di un «primo livello di articolazione» che forma la base di un secondo livello che è quello della creazione artistica vera e propria.

Ciò significa: è anzitutto necessario che l’esperienza sia articolata, cioè che le impressioni sensoriali si aggreghino per formare oggetti, ad es. una sedia, un letto in una stanza, una finestra. Colori e forme ineriscono direttamente a questi oggetti, ed hanno anzitutto senso per noi all’interno di questo riferimento: essi formano delle unità di base per la prassi pittorica. Nella rappresentazione pittorica si gioca creativamente su queste unità di base: sedia letto e finestra si presenteranno in un dipinto secondo un nuovo modo di articolazione che contrassegna l’intervento creativo del pittore. Ma il pittore presuppone nel dipinto la realtà stessa, esattamente nel senso in cui il poeta presuppone il linguaggio corrente sul quale ed anche contro il quale interviene imponendo nuovi ambiti di rapporti significativi.

Alla luce di questi sviluppi i cenni precedenti sulla pittura «astratta» tendono ad assumere un peso inaspettato. È chiaro infatti che se il problema prende questa piega alla pittura «figurativa» spetterebbe inevitabilmente una sorta di privilegio. L’accento cade sulla raffiguratività, non già come se la pittura figurativa fosse mera imitazione, ma per il fatto che l’opera costruisce un senso e questa costruzione ha bisogno di poggiare su elementi che, prima di essere inseriti dentro il dipinto, non sono pittoricamene significanti, pur essendo «articolati».

Si tratta di una distinzione che a sua volta poggia su un modello linguistico: secondo questo modello le unità di senso, esempio, una parola, il morfema, presuppone degli elementi ultimi che sono i suoni costituenti, i fonemi, i quali sono privi di senso, ma sono anche anche il risultato di una selezione rispetto alla totalità dei suoni a disposizione. Questo modello sembra chiaramente applicabile anzitutto alla pittura figurativa: le cose in genere sono unità pittoricamente non significanti e tuttavia solidamente costituite, per dir così, come oggetti. In Lévi–Strauss, che ha già contestato il fondamento dell’analogia tra pittura astratta e musica, si fa strada un vero e proprio rifiuto della pittura astratta, per quanto ciò susciti una certa sorpresa. Si tratta tuttavia di un rifiuto a cui occorre riconoscere una certa coerenza. Se infatti si prendono le mosse dall’assunto che i colori siano entità naturali, cosa che implica la loro altrettanto naturale inerenza all’oggetto, il pretendere, come fa l’astrazione pittorica, di riportare sulla tela unicamente un gioco di colori vuol dire rinunciare a quel primo livello di articolazione che è condizione per l’istituzione dei significati di secondo livello, vuol dire pretendere di «accontentarsi del secondo livello per sussistere» che è pretesa manifestamente assurda, se consideriamo la pittura secondo il modello linguistico proposto. Forse si dovrebbe dire che ci si accontenta del primo livello come se fosse il secondo, in quanto non si esibirebbe un dipinto, ma al più una cosa dipinta.

Ciò vale secondo Lévi-Strauss non solo per i colori, ma anche per l’altro elemento che può essere giocato all’interno dell’astrazione pittorica, l’elemento delle forme. Anche la forma è data anzitutto in relazione alla cosa, ed un’arte di sole forme, di forme pure, sarebbe – dice testualmente Lévi-Strauss – «puramente decorativa»; ed addirittura «esangue» (Cc, p. 37). Una pittura che si affidi unicamente ai valori plastici proporrebbe forme che

«non esistono già su un altro piano ove fruirebbero di un’organizzazione sistematica… nulla permette di identificarle come forme elementari: si tratta piuttosto di creature del capriccio grazie alle quali ci si abbandona ad una parodia combinatoria con unità che non sono tali» (Cc, p. 38).

Anche in questo caso certo non si può evitare di sottolineare quanto poco il modello linguistico fornisca strumenti efficaci per un approccio adeguato in questo ambito di problemi, ed al contrario sia veicolo di puri e semplici pregiudizi. Le forme non possono essere identificate come «forme elementari» – cioè non possono essere identificate come «fonemi»: ma che discorso è mai questo! E di conseguenza mancano di consistenza oggettiva… (Ma perché mai dovrei cercare nella pittura qualcosa di simile ai «fonemi»?).

Le osservazioni sulla pittura calligrafica cinese conferma questo orientamento: in questo stile pittorico il materiale di base è fornito da ideogrammi, quindi da complessi segnici destinati alla scrittura, benché essi non intervengano come tali nell’opera grafica che ha carattere paesaggistico. Questi segni calligrafici sono un altro buon esempio di ciò che Lévi-Strauss intende con primo livello di articolazione: essi hanno infatti «un’esistenza propria in qualità di segni, destinati da un sistema di scrittura ad assolvere altre funzioni» (Cc, p. 39); si tratta dunque di unità oggettivamente prestabilite, e come tali le trova il pittore.

Vogliamo ora considerare da questo punto di vista il problema della musica. Parlando dell’emozione musicale, abbiamo già messo in evidenza il rapporto con la corporeità. Ora, la nostra attenzione deve spostarsi verso il materiale della musica, i suoni, che, come sappiamo, nell’accezione di «suoni ad altezza determinata» appartengono secondo Lévi-Strauss all’ambito culturale, piuttosto che a quello naturale. Questa distinzione deve essere ora giocata all’interno del problema della doppia articolazione.

Il primo livello di articolazione è rappresentato appunto dalla selezione dei suoni nelle scale e nella gerarchizzazione dei suoni nei vari ordinamenti scalari. Ciascun sistema scalare proprio in quanto ha un’articolazione può costituire da condizione di significato per una elaborazione di secondo livello, che è il piano vero e proprio dell’opera musicale. L’analogia sembra qui essere impiegata con particolare stringenza. Se prendiamo una lingua qualunque noteremo che i suoi fondamenti fonologici (fonemi) sono relativamente ristretti rispetto alle nostre possibilità di emissione sonora. L’apprendimento di una lingua nella prima infanzia consiste proprio in questa selezione dei suoni all’interno del balbettio infantile che è aperto ad un ambito molto ampio di possibilità.

E come i fonemi anche i suoni come tali possono essere considerati relativamente senza significato, ma anche come condizioni del significato.

Il tema della culturalità del primo livello di articolazione nel caso della musica subisce tuttavia alcune precise e significative limitazioni.

È chiaro che insistendo fortemente su questa appartenenza alla cultura si insiste anche sugli aspetti relativistici e convenzionalistici degli stessi fondamenti delle opere musicali, degli stili, dei sistemi musicali in genere. La stessa metafora del linguaggio in rapporto alla musica è spesso assunta proprio in funzione delle sue valenze convenzionalistiche. L’arbitrarietà del rapporto tra segno linguistico e cosa significato attraverso di esso – un tema antico ripreso e ribadito da de Saussure – avrebbe da questo punto di vista un valore esemplare.

Su questo punto Lévi-Strauss fa valere una posizione più sottile, anche se non priva di ambiguità e di qualche oscurità. Egli sostiene infatti che una volta riconosciuto che, a differenza della pittura, il primo livello di articolazione nella musica è essenzialmente dovuto alla cultura, occorre anche riconoscere che, non appena lo si instaura, «questo ordine esplicita delle proprietà naturali» e che nonostante la relatività di ogni sistema scalare, «rimane pur vero che ogni sistema… si basa su proprietà fisiche e fisiologiche». Di conseguenza «la musica presuppone un’organizzazione naturale dell’esperienza sensibile», anche se «ciò non equivale a dire che la subisce» (Cc, p. 40).

Affermazioni come queste tendono evidentemente a limitare una forma di convenzionalismo estremo. Vi sono determinate proprietà fisiche dei suoni – e questo è un fatto che riguarda appunto la natura: ma queste proprietà fisiche possono essere impieate in modi essenzialmente diversi all’interno di questo o quel linguaggio musicale, e questo riguarda la convenzione. Si tratta dunque di un tentativo – interessante, anche se rimane uno spunto scarsamente elaborato – di «superare la falsa antinomia tra l’oggettivismo di Rameau e il convenzionalismo dei moderni» (Cc, p. 40). Del resto già nell’Antropologia strutturale (p. 234) si accenna alla necessità di rivedere il problema dell’arbitrarietà dei segni linguistici.

L’ancoramento della musica nel naturale, che era già stato affermato per l’aspetto ritmico–temporale, trova modo di essere ribadito anche per quanto riguarda il materiale sonoro. Il primo livello di articolazione contiene comunque una componente naturale, gli elementi resi significativi ad un secondo livello debbono essere già organizzati in un sistema che «ingloba talune proprietà di un sistema naturale… che istituisce le condizioni a priori della comunicazione» (Cc, p. 44).

12. Contro la «musica concreta»

Questo riconoscimento peraltro non si spinge sino ai suoni naturali per eccellenza, ai rumori. Ciò riguarda un problema di coerenza teorica interna. Che il rumore debba essere escluso dalla composizione musicale è implicito nel modo in cui la nozione di rumore viene proposta all’interno della tematica della doppia articolazione.

Proprio negli anni in cui Lévi-Strauss scriveva le proprie opere il dibattito intorno al rumore nella musica era molto vivo in particolare in ambito francese. Sotto il nome di «musica concreta» si sperimentava una pratica che consisteva essenzialmente nella registrazione di suoni tratti dall’ambiente che venivano poi variamente manipolati, tagliati, filtrati in laboratorio e riproposti in questa rielaborazione. Di norma in questa manipolazione il rumore originario risulta irriconoscibile, ovvero viene tagliato il rapporto «normale», «quotidiano» tra il fatto acustico come tale e la cosa o la situazione nella quale esso è stato generato. Alla musica concreta fa esplicito riferimento Levi Strauss quando osserva che essa «si assoggetta al confronto diretto con certi dati naturali», adoperandosi anzitutto a «disintegrare il sistema delle significazioni attuali o virtuali (cioè quotidiane) in cui questi dati figurano a titolo di elementi».

Così facendo la musica concreta compirebbe, sul piano musicale, esattamente la stessa operazione che la pittura astratta compie sul piano pittorico. La pittura astratta infatti taglia in nodo tra forma e colore e le cose che hanno colori e forme, proponendo il dato naturale come tale sulla tela: in questo modo la pittura astratta cercava di fare a meno della «organizzazione dell’esperienza sensibile in oggetti» che funge nella pittura da primo livello di articolazione.

Analogamente la musica concreta utilizza i rumori, ma li manipola in modo da renderli «insignificanti», in modo cioè da sottrarre il loro carattere di segno (segnale) – sopprimendo dunque ciò che potrebbe valere come primo livello di articolazione. Seguendo la logica del proprio discorso, Lévi-Strauss arriva ad affermare – in piena antitesi che con le idee dei promotori della musica concreta – che attraverso il rumore si potrebbe raggiungere un livello di espressione sensata qualora si mantenesse l’elemento di segno, qualora cioè un determinato rumore fosse percpito come rumore di una frenata di un’automobile, come fischio di un treno ecc. In tal caso infatti si disporrebbe di una prima articolazione che consentirebbe forse di instaurare un sistema di segni «mediante l’intervento di una seconda articolazione». Si tratterebbe di un sistema poverissimo, ma che comunque rispetterebbe alcune condizioni importanti della musica come linguaggio. Di contro rinunciando al rapporto rappresentativo risulta

«impossibile definire dei rapporti semplici che formino un sistema già significativo su un altro priano e che siano in grado di fungere da sostrato di una seconda articolazione. Per quanto si inebri dell’illusione di parlare, la musica concreta non fa altro che annaspare in prossimità del senso» (Cc, p. 42).

In questa critica dell’impiego musicale del rumore, appare particolarmente evidente la fondamentale importanza del riferimento linguistico. Il rumore come tale non può essere all’origine ed al fondamento di un linguaggio. E la musica in generale deve essere linguaggio.

13. Forme musicali e forme del mito

In rapporto ai titoli «musicali» delle intitolazioni del Crudo e il cotto, forse conviene mettere in evidenza il fatto che essi richiamano, con poche eccezioni, a forme, nel senso musicale del termine, a volte in modo un po’ generico (ad es. Sinfonia breve), a volte invece in modo assolutamente stretto (ad es. Doppio canone rovesciato). In realtà proprio nella problematica della forma risulterebbe, secondo Lévi–Strauss, con particolare evidenza l’affinità profonda tra musica e mito: il racconto mitico, quando sia messo in evidenza nelle sue componenti strutturali rivela caratteristiche analoghe con alcune importanti forme musicali. Cosicché:

«il confronto con la sonata, la sinfonia, la cantata, il preludio, la fuga, ecc. permetteva di accertare facilmente che in musica erano sorti dei problemi di costruzione analoghi a quelli sollevati dall’analisi dei miti» (Cc, p. 31).

Si noti come una simile affermazione ci impegni già di per se stessa ad una enfatizzazione della necessità della forma, così come in certo senso della sua profondità.

Infatti viene condotta qui una duplice operazione. Da un lato si mostra che un determinato complesso di racconti mitici ha la stessa struttura, ad esempio, di un rondò (Cc, p. 147), il che non sembra affatto in linea di principio impossibile, visto che il rondò, come dice il termine, ha grosso modo una struttura circolare. Ma un simile rilievo sarebbe piuttosto insignificante se tutto ciò che abbiamo detto intorno al problema dei rapporti tra musica e mito e in genere sull’analisi strutturale del mito non facesse sentire su di essa tutto il suo peso.

Pesano in particolare tutte le affermazioni sulla generalità del progetto analitico proposto, sul fatto che in questo progetto ne vadano di mezzo le operazioni della mente, i «recinti mentali», così come modi di organizzazione che affondano nell’inconscio. Con tutti questi pesi, il reperimento di una forma di rondò nel racconto mitico appare come una sorta di conferma del livello profondo a cui si spingerebbero sia la musica che il mito: la forma di rondò non è appunto unicamente una proposta di costruzione del materiale musicale, che ha le sue determinatezze storiche e le sue motivazioni formali e culturali – sulle quali a noi sembrerebbe giusto attirare anzitutto l’attenzione –, ma ha radici in quelle profondità strutturali a cui attinge anche il mito.

Nel Finale questo tema viene ripreso, rivolgendosi al lato del problema che rinvia ad una dimensione storica, ma in modo tale, purtroppo, da aggiungere nuovi pesi ad uno sviluppo del problema già piuttosto greve.

Intanto è ancora fermamente presente in questo testo l’insistenza sul rapporto tra musica e mito attraverso il problema della forma.

«Avevamo intitolato ‘fuga’ la sezione de Il crudo e il cotto dedicato ai miti sudamericani della vita breve, e questo accostamento (uno fra vari altri) della struttura dei miti a certe forme musicali doveva suscitare tante alzate di spalle. Eppure non vi era in questo niente di arbitrario e l’analisi delle versioni nordamericane non farebbero che confermare, se mai ce ne fosse bisogno, la tesi secondo cui la musica occidentale ha scoperto in ritardo e ripreso per conto suo, trasferendoli in un altro registro, certi tipi di costruzione che già da millenni i miti utilizzavano con forme pienamente elaborate» (Un, p. 167).

A questo passo segue poi una descrizione piuttosto analitica di una struttura mitica in termini strettamente musicali, e precisamente nei termini dei momenti costitutivi che caratterizzano proprio la forma della fuga. Una spiegazione semplificata che però mi sembra illustri molto bene la natura del problema viene esposta in poche righe nello scritto Mito e significato in un passo che conviene citare per intero:

«È davvero impressionante constatare come la fuga, quale venne formalizzata nell’epoca di Bach, sia una rappresentazione quanto mai realistica del funzionamento di alcuni particolari miti. Parlo dei miti in cui abbiamo due personaggi o due gruppi di personaggi che, semplificando molto, potremmo descrivere come uno buono e l’altro cattivo. La storia narrata nel mito è basata sui tentativi che un gruppo di personaggi compie per fuggire e salvarsi dall’altro gruppo; un gruppo quiindi dà la caccia all’altro e talvolta il gruppo A riesce a raggiungere il gruppo B, talvolta invece il gruppo B scappa – proprio come in una fuga musicale. Abbiamo quello che in francese si dice »le sujet et la reponse«. L’antitesi continua per tutta la vicenda, finché i due gruppi sono quasi amalgamati e confusi – come avvie nello stretto della fuga. La soluzione finale o l’acme di questo conflitto è rappresentata dalla conciliazione dei due principi che erano contrapposti per tutta la durata del mito. Può trattarsi di un conflitto tra le potenze celesti e i poteri terreni, tra il cielo e la terra, o fra il sole e le forze degli inferi, e così via. La soluzione mitica della conciliazione assomiglia molto nella struttura agli accordi che risolvono e concludono il brano musicale, poiché anch’essi operano una conciliazione di estremi che vengono finalmente per una volta riuniti. Si potrebbe anche dimostrare che alcuni miti, o gruppi di miti sono costruiti come una sonata, o una sinfonia, o un rondò o una toccata o una qualsiasi delle forme musicali che la musica in effetti non ha inventato, ma preso inconsapevolmente a prestito dalla struttura del mito» (Ms, p. 62).

14. La musica come erede del mito

Posto in questo modo, il tema del rapporto tra musica e mito deve in ogni caso ricevere una qualche determinazione storica. Infatti qui non si dice soltanto che la musica si spinge sino alle profondità del mito, ma che il mito anticipa la musica nell’impiego di determinate forme e si suggerisce anche che la musica eredita dal mito queste forme quando lo spazio di azione e l’efficacia del mito tende ad indebolirsi. Mito e musica vengono così prospettate come due grandi modi di manifestazione dello spirito la cui connessione si rivela soprattutto nel senso dello sviluppo e dell’avvicendamento dialettico.

Ora dobbiamo dire: la musica è erede del mito. Ed allora dobbiamo proporre qualcosa di simile ad una storicizzazione, dobbiamo parlare, ad esempio proprio di musica occidentale, dal momento che, a quanto sembra, le forme ereditate dal mito sono appunto le forme della musica occidentale, e non ad esempio quelle della musica indiana; e ciò non basta ancora, dal momento che solo alcune di queste forme sono per Lévi-Strauss particolarmente significative. In particolare, questo trapasso del mito nella musica corrisponde all’incirca all’età in cui si impone nella musica proprio questta forma, la fuga, una forma che

«esiste pienamente costituita nei miti, nei quali la musica avrebbe potuto da sempre andare a cercarla» (Un, p. 615).

Ci troviamo dunque tra la fine del cinquecento e il seicento pieno ed oltre. Questa è anche la grande epoca in cui avanza il pensiero scientifico e in cui regredisce il pensiero mitico. Ciò che prima era mito tende a diventare semplice produzione letteraria, romanzo e racconto. In quest’epoca dunque

«la musica assume le strutture del pensiero mitico… è quindi necessario che il mito in quanto tale morisse perché la sua forma uscisse fuori come l’anima che si separa dal corpo, e andasse a chiedere alla musica il modo per reincarnarsi». «… è come se la musica e la letteratura si fossero divise l’eredità del mito»(ivi).

Questa visione del problema tende ormai a diventare tutta filosofica, rammentando addirittura, e molto da vicino, un modo di pensare hegeliano e spingendosi sino ad una sorta di tentativo di localizzazione storico–dialettica della propria grande impresa di interpretazione del mito stesso.

Fin dall’inizio Lévi-Strauss aveva messo in evidenza che la propria indagine deve essere intesa come depurata da qualunque intromissione soggettiva, l’idea di un’indagine governata da un rigoroso oggettivismo ha quasi il carattere di una idea fissa. A maggior ragione fa un singolare effetto vedere come questo tema sia ingoiato, quasi come per una giusta legge del contrappasso, da questa apparentemente improvvisa impennata filosofica.

Ciò che ora si sostiene, proprio nel ricordo di questo oggettivismo, non è affatto che Lévi-Strauss ha fornito una interessante interpretazione del mito, ma che è lo stesso pensiero mitico che ha avuto la compiacenza di pensarsi e di rendersi esplicito nella testa del Lévi-Strauss.

«se il fine ultimo dell’antropologia è quello di contribuire ad una migliore conoscenza del pensiero oggettivato e dei suoi meccanismi, è in definitiva la stessa cosa che, in questo libro, il pensiero degli indigeni sudamericani prenda forma sotto l’azione del mio o il mio sotto l’azione del loro. Ciò che importa è che lo spirito umano, senza riguardo all’identità dei suoi messi occasionali, vi manifesti una struttura sempre più intelligibile a mano a mano che si sviluppa il procedimento doppiamente riflessivo di due pensieri che agiscono l’uno sull’altro o ognuno dei quali, di volta in volta può essre la miccia o la scintilla dal cui avvicinamento scaturirà la loro comune illuminazione» (Cc, p. 29–30)

E sempre più oltre: come l’emergere della musica occidentale moderna dal mito ha richiesto la soppressione del mito, così la presa di coscienza attuale del mito attraverso l’opera di Lévi-Strauss richiede in qualche modo l’eclissi della musica, o quanto meno il divorzio tra musica e mito. Così la musica dei nostri giorni, secondo Lévi-Strauss – ed egli pensa soprattutto alla musica seriale tra gli anni cinquanta e sessanta – è certamente lontana dal mito, cosa che vuol forse dire che la sua capacità di suscitare un’emozione musicale è diventata problematica. In ogni caso vi sarebbe per Lévi–Strauss

«un rapporto di correlazione e di opposizione tra il mio tentativo di recupero dei miti e i tentativi della musica contemporanea che, dalla rivoluzione seriale in poi, si sarebbe definitivamente separata da essi» (Un, 616).

E sulla musica seriale ancora:

«Oggi stiamo assistendo alla scomparsa del romanzo. E può dirsi che quanto avvenne nel XVII secolo quando la musica rilevò la struttura e la funzione della mitologia, si stia verificando di nuovo, nel senso che la cosiddetta musica seriale ha sostituito il romanzo come genere nel momento i cui esso sparisce dalla scena letteraria» (MS, 67).

15. Contro la musica seriale

I precedenti accenni al serialismo hanno un’inflessione tendenzialmente negativa. Ed in effetti proprio nella Ouverture, ma poi anche nel Finale, Lévi-Strauss ritiene di dover intervenire in direzione nettamente critica nei confronti del serialismo integrale – una linea di tendenza che trovava in Francia uno sviluppo sia sul piano teorico che su quello musicale proprio negli anni in cui Lévi-Strauss andava elaborando la propria posizione. E ciò è tanto più rimarchevole per il fatto che entro quest’area si muovono musicisti che sono influenzati direttamente dallo strutturalismo linguistico e dallo stesso strutturalismo antropologico di Lévi–Strauss, o che si riconoscono comunqe in un ambito di idee molto prossimo ad esso. In Pensare la musica oggi, del 1963, (trad. it. di L. Bonino Savarino, Einaudi, Torino 1979, p. 27), Boulez ritiene di potersi richiamare proprio a Lévi-Strauss per ciò che riguarda la nozione di struttura. Fra le sorprese che ci riservano questi sviluppi della tematica di Lévi-Strauss vi è anche questa sua presa di posizione critica. Essa peraltro si inserisce in un’impostazione complessiva che denuncia una certa difficoltà a stabilire un approccio ad una buona parte dell’arte novecentesca in genere. Ad esempio, nell’anno 1964, anno di pubblicazione de Il crudo e il cotto, esprimersi nei confronti della pittura astratta come di una pittura degradata, come mera decorazione, mostra quanto meno una simile difficoltà di approccio se non una vera e propria cecità verso un aspetto così importante e significativo dell’arte novecentesca, che per di più in quegli anni era da considerarsi da tempo come storicamente acquisito.

Per ciò che concerne la musica le ultime prese di posizioni confermano ciò che cominciavamo a sospettare, nel procedere della nostra esposizione: quando Lévi-Strauss dice «la musica» intende sempre la musica europea, anzi una determinata fase di sviluppo della musica europea. Ma il mettere in rilievo questo punto ha un’importanza tutt’altro che secondaria, tenendo conto del modo in cui si viene prospettando il problema del rapporto tra musica e mito. Basterà qui osservare come l’antropologo Levi Strauss che di tutto si potrà accusare tranne che di eurocentrismo, non avverta come una circostanza alquanto singolare il fatto che la struttura dei racconti mitici di antiche e primitive popolazioni sudamericane venga ereditata ed in certo senso anche rivelata da ignari organisti al servisio di signori o prelati importanti, nel cuore della cultura europea cinque–seicentesca. È anche degno di nota il fatto che un così fervido interesse per la musica non si traduca affatto in un interesse per la musica selvaggia – non vi è nemmeno l’ombra di una curiosità verso di essa, e quindi la dimostrazione eclatante di un profondo disinteresse.

A questi problemi, si aggiunge certamente l’atteggiamento di Lévi-Strauss verso lo strutturalismo musicale. Va notato che, a sua volta, il musicista strutturalista ha un atteggiamento fortemente critico nei confronti della musica concreta – basti considerare la voce scritta da Boulez Musica concreta per l’Enciclopedia Fasquelle, pubblicata nelle Note di apprendistato (1966) (trad. it. di P. Thévenin, Einaudi, Torino 1968). Del resto egli concepisce l’attività compositiva come una realizzazione dentro i materiali musicali di modelli relazionali più o meno complessi, e ammette l’impiego musicali di suoni e rumori «in funzione delle strutture formali che li utilizzano» (Pensare la musica oggi, p. 38). E tuttavia Lévi-Strauss ritiene di poter obiettare anche nei confronti della musica seriale che essa si illude di poter operare su «un unico livello di articolazione» (Cc, p. 44), un’ illusione che viene definita caratteristicamente l’utopia del secolo (ivi). La ragione di ciò sta nel fatto che il musicista strutturalista ritiene di poter operare in assoluta libertà sul materiale sonoro creando forme a piacere e pertanto prescindendo da un possibile ancoraggio naturale che diventa nella musica seriale «precario, se non assente» (Cc, p. 45), e quindi da un ambito di presignificanze che è, come sappiamo, una condizione del senso.

In particolare egli cita un passo di Boulez nel quale si dice che nella musica seriale «non c’è più scala preconcetta, non ci sono più forme preconcette, cioè strutture generali nelle quali si inserisce un pensiero particolare» (Boulez, citato in Cc, p. 43). E naturalmente Lévi-Strauss attacca proprio la negazione di forme che stiano al di là della particolarità del brano, l’accento posto negativamente sull’esistenza di «strutture generali». Per usare la terminologia a suo tempo introdotta, qui si tenderebbe a sopprimere la langue a favore della parole. Ma una parola senza lingua è un progetto assurdo:

«Soprattutto ci si deve chiedere che cosa accada in una tale concezione del primo livello di articolazione, indispensabile al linguaggio musicale, come ad ogni linguaggio, e che consiste proprio in strutture generali le quali permettono, in quanto sono comuni, la codificazione e la decodificazione di messaggi particolari» (Cc, pp. 43–44).

In queste considerazioni è anche implicita una richiesta di fondazione che lo strutturalismo musicale rifiuta in linea di principio. Questo rifiuto sembra a Lévi-Strauss bene illustrato da un’altra frase di Boulez:

«Il pensiero tonale classico è fondato su un universo definito dalla gravitazione e dall’attrazione, il pensiero seriale su un universo in perpetua espansione» (Cc, p. 43).

Nel caso della musica della tradizione, il materiale sonoro si muove secondo una dinamica di regole che lo fanno convergere verso un centro stabile, mentre nel caso della musica seriale, l’organizzazione è data di volta in volta dalla libera elaborazione del compositore, le strutture sono strettamente relative all’oggetto sonoro che di volta in volta il compositore pone in essere. Ed è proprio questa assenza, anzi questo rifiuto del problema della fondazione che risulta inaccettabile per Lévi–Strauss. Ciò è del tutto coerente con le considerazioni sull’ancoraggio naturale, che si ripresentano in questo contesto, e con le osservazioni orientate in direzione anticonvenzionalistica che assumono ora una particolare accentuazione e fanno sentire tutto il loro peso. Lo stesso rapporto tra musica e mito deve essere infine riconsiderato entro questo quadro. Le forme musicali della tradizione non sono affatto arbitrarie, proprio in quanto

«ciò che la musica e la mitologia chiamano in cuasa negli ascoltatori sono certe strutture mentali comuni» (Cc, 47).

Strutture mentali che sono inconsce:

«Il primo livello consiste di rapporti reali, ma inconsci, rapporti che debbono a questi due attributi il fatto di poter funzionare senza essere conosciuti o correttamente interpretati» (Cc, p. 44).

Musica concreta e musica seriale soggiacciono così ad una critica comune benché l’una insista più sulla materia sonora, l’altra invece sugli aspetti essenzialmente formali dell’attività compositiva. Nella musica seriale in particolare i poli della natura e della cultura tendono a contrapporsi l’uno all’altro, invece che fondersi insieme, e questa contrapposizione entra anche nella produzione musicale con il suo duplice interesse per gli aspetti timbrici, che sono più strettamente connessi alla materialità, e per la vocalità, che è invece legata al linguaggio articolato ed all’origine stessa del suono. Ma della musica seriale si può dire in ogni caso ciò che si è già detto per la pittura astratta e per la musica concreta:

«Solo in modo ideologico il sistema può essere paragonato ad un linguaggio» (Cc, p. 44).

Ciò che caratterizza questo preteso linguaggio è il suo sradicamento. L’immagine di una nave senza vela che dovrebbe perciò restare in porto e che invece viene lanciata in alto mare illustra molto bene il senso di queste critiche:

«Nave senza velatura, che il suo capitano, insofferente del fatto che essa serva da pontone avrebbe lanciato in alto mare, nell’intima persuasione che, sottoponendo la vita di bordo alle regole di un minuzioso protocollo, potrà distogliere l’equipaggio dalla nostalgia di un porto fidato e dal desiderio di una destinazione…» (Cc, p. 45).

E dopo questa immagine, come in un lampo, si esclama:

«Del resto non contesteremo che questa scelta sia stata dettata dalla miseria dei tempi» (Cc, p. 45).

È un lampo che illumina l’atmosfera pessimistica che grava su queste pagine. Questo elogio dello sradicamento è dovuto alla miseria dei tempi. Ed anche se in questo viaggio in alto mare si approdasse su nuove sponde, più feconde di quelle del passato, tuttavia ciò sarà:

«all’insaputa dei naviganti e contro il loro volere»; infatti per costoro «non si tratta di vogare verso altre terre, anche se la loro posizione fosse ignota, e la loro esistenza ipotetica. Il rovesciamento che si propone è molto più radicale. Solo il viaggio è reale, non la terra, e le rotte sono sostituite dalle regole della navigazione» (Cc, p. 45).

La nave che naviga sempre più lontano senza una mèta è una variante della metafora di Boulez dell’universo in espansione, con la differenza che essa è impiegata da Lévi-Strauss in senso negativo. Questa critica culmina poi con alcune considerazioni sul rapporto con l’ascoltatore. In fin dei conti questo modo di proporre il problema della composizione ha un tacito corollario che riguarda proprio l’ascoltatore, e più in generale il problema della comprensione. Questo tema è qui indirettamente presente, anche se non in primo piano. La domanda è: che cosa può voler dire comprendere quando si sia alla presenza di un prodotto che si presenti in linea di principio come risultato di un atto creativo rigorosamene individuale? Per comprendere, in questa condizione, si dovrebbe essere partecipi allo stesso atto creativo: sembra che la musica seriale in quanto nega all’ascoltatore «la facoltà di riferirsi inconsciamente ad un sistema generale», avanzi la pretesa che egli debba «riprodurre per proprio conto l’atto individuale di creazione», cosicché la differenza tra l’inventare la musica e l’ascoltarla non sarà più di natura, ma di grado« (Cc, p. 46). Ma si tratta di una pretesa assurda. È molto più probabile per Lévi-Strauss che l’ascoltatore non solo non entri dentro lo slancio creativo dell’opera musicale, ma perda ogni contatto con essa: la metafora della musica come »universo in espansione« potrebbe essere intesa in tutt’altro modo: la musica non trascina l’ascoltatore nella propria traiettoria, ma al contario essa si allontana progressivamente e definitivamente da lui. Fino a

»perdersi sotto la volta notturna del silenzio ove gli uomini non la riconosceranno se non da brevi e fuggevoli bagliori« (ivi).

Si prospetta così quella possibilità di una eclissi della musica, come un tema che era già emerso in connessione con quello dell’autocoscienza mitica.

Lo strutturalismo filosofico – per caratterizzare in questo modo gli aspetti filosofici dello strutturalismo di Lévi-Strauss – prende così posizione contro lo strutturalismo musicale. Il richiamo dello strutturalista a strutture generali rappresenta anche un richiamo ad un «fondamento oggettivo al di qua della coscienza e del pensiero», mentre nel caso della musica seriale l’accento cade interamente ed escslusivamente sulla musica stessa come «opera cosciente dello spirito ed affermazione della sua libertà» (Cc, p. 47).

Di conseguenza, nonostante tutti i meriti che si possono riconoscere alla musica seriale, lo strutturalismo musicale deve essere distinto dallo strutturalismo filosofico, a maggior ragione per il fatto che si può riconoscere qualche tratto comune: e precisamente

«un approccio risolutamente intellettuale, la preponderanza degli ordinamenti sistematici, la sfiducia nei confronti delle soluzioni meccanicistiche ed empiristiche» (Cc, p. 48).

Ma a parte questi tratti comuni, le posizioni sono addirittura agli antipodi (Cc, p. 48). Non manca una frecciata polemica, per così dire, tutta ideologica. Lo strutturalismo musicale è paragonabile al libertinismo settecentesco proprio per la polemica antifondazionalistica ed antidogmatica – con la differenza «che è il pensiero strutturale a difendere i colori del materialismo» (Cc, p. 48). In altri termini: l’antidogmatismo non preserva lo strutturalismo musicale da atteggiamenti misticheggianti o a sfondo religioso. Si può ipotizzare un’allusione a Stockhausen, e forse anche a Messiaen che, per certi aspetti (peraltro piuttosto limitati rispetto alla sua posizione complessiva), poteva essere rivendicato nell’alveo dello strutturalismo musicale.

Il giudizio nei confronti dello strutturalismo musicale rimane invariato anche gli anni successivi a Il crudo e il cotto. Nel Finale si insiste tuttavia in particolare su un aspetto che nell’Ouverture aveva una presenza relativamente marginale.

Evidentemente, quando Lévi-Strauss parla del capitano che, pur guardandosi bene dall’indicare una rotta, sottopone comunque «la vita di bordo alle regole di un minuzioso protocollo» oppure quando osserva che «le rotte sono sostituite dalle regole di navigazione», egli attacca lateralmente anche un rigorismo ed un formalismo fine a se stesso e privo di scopo.

Proprio questo spunto polemico ora viene ripreso e precisato. Lévi-Strauss cominciare con l’osservare che i musicisti hanno sempre saputo che l’attività compositiva consiste essenzialmente nell’apprestamento e nella manipolazione di strutture. E Lévi-Strauss individua due modi in generale di operare su di esse: si possono proporre strutture «giustapponendole» le une alle altre, intendendo con giustapposizione sia il puro affiancamento sia la sovrapposizione, entrambe prive di necessità interna; oppure si può dare ad una sequenza di strutture la forma di uno sviluppo. Secondo Lévi-Strauss la tendenza ad una pura giustapposizione ha finito con il sostituirsi all’idea dello sviluppo; ed a questa tendenza si è affiancata la tendenza che nella musica seriale appare particolarmente spinta e spesso apertamente teorizzata

«a dissociare la fase dell’elaborazione delle strutture da quella fino a quel momento confusa con la prima in cui le strutture sono chiamate a ricevere un supporto sensibile» (Un, p. 614).

Con ciò si attua una dissociazione di quell’unità che dà alla musica la sua autentica ragion d’essere: l’elemento «intellettuale» e «relazionale» appare proposto come un puro elemento «logico» che può crescere o essere proposto al di fuori del materiale sensibile nel quale riceve un abito puramente occasionale o fortuito:

«si attenua il legame tra forma e suono, e lo stesso sistema sensibile diventa uno dei tanti mezzi possibili per codificare strutture intelligibili che non sono state precedentemente concepite dalla fantasia come sistema di suoni» (Un, p. 614).

Ma se questa unità tra elemento intellettuale ed elemento sensibile viene a mancare, allora è il caso di chiedersi se possiamo ancora parlare di musica oppue se non sia il caso di parlare di antimusica, ovvero di contropartita di ciò che si chiamava una volta musica. Questa contropartita

«consisterebbe quindi in certe strutture di significato lasciate in sospeso, non fosse altro teoricamente, in attesa che dei suoni si investano in esse. Formula questa che corrisponde abbastasnza esattamente a certi tentativi che, a torto o a ragione, dànno l’impressione di codificare con suoni certi sistemi di significato concepiti e organizzati prima della loro trasposizione in forma musicale» (ivi).

Lévi-Strauss sottolinea che il fatto che si parli di antimusica non implica alcun rilievo valutativo, come se si dicesse: ci limitiamo solo a constatare che questi sviluppi propongono una nozione di musica che si trova agli antipodi di ciò che una volta, in passato, chiamavamo musica. Si potrebbe forse osservare che questo non sarebbe altro che un modo di mettersi al riparo dalle obiezioni più facili. Tuttavia mi sembra più giusto segnalare che queste osservazioni di Lévi-Strauss sembrano almeno in parte indipendenti dalla cornice in cui sono inserite, e che oggi in cui le ovvietà avanguardistiche di una volta sono state sostituite da un atteggiamento più problematico e riflessivo, esse meritano di essere prese in considerazione come un dibattito d’epoca che può forse essere messo a fuoco oggi meglio di allora. Risulta certo particolarmente chiaro dalla nostra esposizione come Lévi-Strauss sia legato alla tradizione musicale di tradizione europea e come sia in ogni caso importante attenersi a questa tradizione per far valere il rapporto tra musica e mito nel modo in cui egli lo fa valere – e naturalmente senza che ciò implichi la sua validità anche sotto questo riguardo. Ma questa voce di dissenso, all’interno di un pensare comune, non può essere fatta semplicemente tacere con le solite accuse di nostalgia passatista e di rifiuto del nuovo, con cui si è così spesso semplicemente soppressa la produttiva fecondità del dubbio non solo nelle cose della filosofia.

Critiche per molti versi simili nello spirito a quelle di Lévi–Strauss erano già state formulate fin dal 1959 da Nicolas Ruwet, un autore che, come abbiamo già notato è interessato allo strutturalismo ed alla semiologia in campo musicale, in un saggio intitolato Contradictions du langage sériel – anche se la critica principale di Ruwet è piuttosto quella secondo cui la musica seriale «rischia una ricaduta allo stadio indifferenziato della pura natura, come se la musica rinunciasse a creare un linguaggio…». Si tratta in ogni caso di fare agire contro i serialisti l’idea della musica come linguaggio: essi «non hanno avuto una coscienza abbastanza netta di che cosa significhi il fatto che la musica sia linguaggio» (op. cit. pp. 24–25). Sulla posizione di Ruwet e in generale sul serialismo musicale si rimanda al volume di Mario Campanino, Il martello e il maestro. Serialità e linguaggio musicale nella poetica di Pierre Boulez, Quaderni di M/R, LIM, 2000.

16. Wagner e l’analisi strutturale del mito

L’ultimo capitolo di Mito e significato (1978), il quinto, è intitolato «Il mito e la musica». La sua utilità sta nel fatto che esso riprende e riassume in modo drasticamente abbreviato alcuni dei temi principli della posizone espressa nella Ouverture e nel Finale della Mitologica.

Ribadita l’importanza del problema, Lévi-Strauss osserva che tra musica e mito vi è un rapporto di somiglianza e di contiguità temporale strettamente connessi tra loro. «Però – continua Lévi-Strauss – non lo compresi subito: quel che mi colpì innanzi tutto fu il rapporto
di somiglianza» (Ms, p. 57); e rammenta in proposito l’esempio della partitura che si presenta nell’Antropologia strutturale. La prima idea, tenendo conto di quell’analogia, è che il significato fondamentale del mito «non è trasmesso dalla sequenza di eventi, ma di fasci di eventi, anche se questi eventi appaiono in momenti diversi della storia».

L’aspetto che Lévi-Strauss indica come «rapporto di contiguità» tra musica e mito è in realtà niente altro che ciò che abbiamo chiamato alternanza dialettica tra musica e mito. Questo aspetto storico–filosofico è qui sottolineato in breve ma con particolare evidenza:

«Non fu una musica genericamente intesa quella che rilevò la funzione tradizionale della mitologia, bensì la musica che comparve nella civiltà occidentale nel primo Seicento con Frescobaldi e nel primo Settecento con Bach e raggiunge il pieno sviluppo nei secoli XVIII e XIX con Mozart, Beethoven e Wagner» (MS, p. 59). «L’ho già detto, ma vorrei ribadirlo: il parallelo che ho cercato di tracciare si attaglia, per quanto ne so, esclusivamente alla musica occidentale sviluppatasi negli ultimi secoli» (ivi, p. 66).

L’attenzione che merita questo breve saggio non sta tuttavia in questi sintetiche riprese di tematiche trattate più diffusamente altrove, ma nel fatto che esso ci consente di attirare l’attenzione su una questione che, pur essendo presente sia nella Ouverture che nel Finale, non era del tutto facile da presentare sulla base solo di quei testi. Si tratta propriamente della presenza sullo sfondo di tutta la tetralogia antropologica di un’altra tetralogia, quella di Richard Wagner.

Vi è certo qui un personale motivo di gusto – ciò non viene affatto tenuto nascosto, anzi questo aspetto personale si riflette apertamente e con qualche compiacimento sull’opera intera. In Mito e significato, Lévi-Strauss rammenta il proprio sogno infantile di diventare da grande un compositore o almeno un direttore d’orchestra (p. 66), e nell’Uomo nudo arriva ad affermare che l’intero progetto della Mitologica sorge da intenti musicali frustrati (Un, p. 612). Per quel che riguarda Wagner viene anche rammentato l’infatuazione giovanile che si mantenne come una sorta di «invariante nella propria storia personale», anche dopo l’ascolto di autori come Debussy e Strawinsky (Cc, p. 32).

Ma al di là di questi dettagli biografici, il richiamo a Wagner ha delle ragioni interne alle tematiche sviluppate. Wagner – dice perentoriamente Lévi-Strauss nella Ouverture – «è il padre irrecusabile dell’analisi strutturale dei miti»: e non sembra poco! «Quando dunque suggerivamo che l’analisi dei miti era paragonabile a quella di una grande partitura, ci limitavamo a trarre la conseguenza logica della scoperta wagneriana che la struttura dei miti si rivela per mezzo di una partitura» (Cc, p. 32). Nel Finale, in un’ottica filosofico–storica, si considera Wagner come una sorta di punto culminante dello sviluppo musicale nel quale la musica prende coscienza del proprio rapporto strutturale con il mito (Un, p. 616).

Se a Wagner spetta una posizione così significativa dentro il proprio quadro problematico e di conseguenza dentro il quadro di sviluppo della musica occidentale, ciò non è dovuto certamente al puro e semplice dato di fatto dell’argomento mitico delle sue opere. Evidentemente il problema è più profondo, riguarda il modo in cui si realizza l’unità tra musica e mito. A tal fine abbiamo bisogno di qualche indicazione in più che ci vengono appunto dalle poche pagine di Mito e significato.

Anzitutto si richiama l’attenzione, non a caso, sull’invenzione wagneriana del Leitmotiv, il cui scopo è quello di operare nessi musicali e di contenuto tra i diversi eventi delle narrazione mitica. Appare già di qui che il Leitmotiv ha anche caratteristiche che lo rendono particolarmente adatto a rappresentare sul piano musicale quella funzione di raccoglimento degli eventi in fasci di eventi che è il compito dell’interprete del mito. A titolo di esempi Lévi-Strauss rammenta il tema della rinuncia all’amore


Questo tema viene formulato per la prima volta ne L’oro del Reno quando l’ondina Woglinde rammenta la condizione per il possesso dell’oro – la rinuncia all’amore – e lo stesso tema si ripresenta naturalmente nella maledizione pronunciata da Alberich. Nella Valchiria questo stesso tema ricompare quando Sigmund dichiara il proprio amore alla sorella Sigliende e quando Wotan condanna la figlia Brunilde al lungo sonno da cui sarò destata solo da Sigfrido.

In questo caso vi sono dunque quattro eventi differenti nel contenuto, e che tuttavia sono presentati da un unico motivo che è appropriato in nei primi due casi, del tutto inappropriato nel terzo caso, e di assai dubbia appropriatezza nel quarto, se non si vuol banalmente intendere l’azione di Wotan come una rinuncia all’amore nei confronti della figlia Brunilde. Questi eventi, la cui unità è sottolineata dal motivo, andranno in ogni caso disposti «in una unica colonna». Tra essi vi deve essere un’affinità strutturale che sfugge alla superficie. In questo caso l’affinità sta – spiega Lévi-Strauss – nel fatto che qualcosa deve essere «strappato da ciò a cui è legato» – l’oro, dunque, dalle profondità del Reno, la spada conficcata nell’albero, la stessa Brunilde che dovrà essere strappata dal sonno e dalle fiamme da cui è circondata. Esempio suggestivo, indubbiamente – anche se non è facile vedere quale senso possa avere al di fuori della sua capacità di illustrare l’idea di un’«analisi musicale» dei nessi mitici nella quale sono implicati tutti i presupposti della posizione di Lévi–Strauss.

– Su Wagner, Levi–Strauss ritorna anche nella raccolta di saggi Le regard éloigné (trad. it. di P. Levi, Lo guardo da lontano, Plon, Parigi 1983), in particolare cap. XVII (Da Chrétien de Troyes a Richard Wagner) e nella Nota sulla Tetralogia, pp. 267 sgg.

17. Cromatismo e veleni

Vi è un altro interessante riferimento wagneriano nel Crudo e il cotto su cui vorrei conclusivamente soffermarmi. Esso si trova al termine del capitolo intitolato Composizione cromatica. Le ragioni di questo riferimento musicale nel titolo non sono subito evidenti, ma diventano chiare verso la fine del capitolo. Esso si apre e si sviluppa discutendo ed analizzando un complesso di racconti mitici il cui tema, variamente elaborato, è quello del veleno da pesca, con equalche riferimento al veleno da caccia – in generale dunque di un veleno utile per procacciare il cibo agli uomini.

Occorre intanto sapere che i nostri selvaggi (siamo tra i Bororo) conoscono una tecnica piuttosto sofisticata di pesca, che consiste «nel soffocare i pesci gettando in acqua mozziconi grossolamente tritati di piante di specie diverse, per lo più liane… la cui linfa disciolta previene, per ragioni probabilmente fisiche l’alimentazione di ossigeno dell’apparato respiratorio» (Cc, p. 334).

Sull’origine del veleno da pesca vi è tutto un complesso di racconti mitici che vengono attentamente analizzati e confrontati da Lévi–Strauss che mette in luce una serie piuttosto complicata di motivi, sui quali ovviamente non indugeremo. Ci basterà indicare quei motivi che sono per noi direttamente interessanti sulla base di un’unica variante, molto breve (indica con la sigla M144, Cc, p. 340).

Una donna affida il proprio figlio ad una volpe affinché lo allevi; ma la volpe, urtata dai pianti del bambino, lo cede ad un tapiro femmina. Questa non solo alleva il bambino, ma quando è diventata grande se lo sposa. Rimasta incinta, essa chiede di essere uccisa dal marito, mentre il figlio viene salvato. Ora, il padre del bambino scopre che ogni volta che il bambino viene lavato nel fiume, molti pesci muoiono, cosicché il veleno da pesca viene assimilato direttamente alla sporcizia del bambino ovvero al bambino stesso. In effetti il racconto narra anche che il bambino si trasforma nella pianta da cui si estrae il veleno.

Questa breve storia contiene i temi essenziali che è opportuno mettere in evidenza.

Intanto vi è il tema generale della natura e della cultura. Il racconto mitico riguarda anzitutto un modo di procacciarsi il cibo attraverso una pratica sociale in realtà precisamente regolamentata, dal momento che la pesca avviene secondo determinate regole che riguardano in particolare la suddivisione del lavoro tra maschi e femmine. Se consideriamo l’atto di procacciarsi il cibo da questo punto di vista ci troviamo sul piano della cultura. Il cibo è inoltre un animale, il pesce. Ma il mezzo di procacciarsi il cibo è un vegetale, un veleno – che rispetto alla tecniche normali (culturali) della pesca rappresenta un sovvertimento, per la violenza con cui opera. Ciò per Lévi-Strauss indica che il veleno appartiene al campo dei significati «naturali».

In tutte le varianti del racconto un tema ribadito è la congiunzione tra uomo e animale. Il marito della femmina del tapiro è appunto un uomo. Questa congiunzione contiene il tema del contatto tra l’animale come elemento naturale e l’uomo in quanto produttore di cultura. Cosicché il veleno mortale è figlio dell’unione tra natura e cultura e nello stesso tempo dell’atto di seduzione che è presupposto di questa unione. Quest’ultimo aspetto è confermato da altre varianti, nelle quali l’assimilazione del veleno alla sporcizia ha un significato sessuale.

Veleno e seduzione si ripresenta con chiarezza in un altro mito che riguarda l’origine del curaro, secondo il quale un uomo si innamora di una scimmia che ha assunto sembianze di donna. Ma egli riceverà poi da un’aquila le istruzioni per fare il curaro con il quale si vendicherà delle scimmie.

Ma in che modo da queste storie di pesci, tapiri e veleni si giunge a Wagner o comunque ad un ambito connesso con il musicale?

Vediamo dunque i commenti di Levi Strauss. Egli nota in primo luogo che in questo mito non si tratta semplicemente di illustrare il passaggio da natura a cultura, ma di mostrare un punto in cui il momento naturale come quello culturale sono quasi confusi tra loro, o comunque sono strettamente intrecciati, quasi aggrovigliati l’uno all’altro:

«Si direbbe che, per giungere al veleno, i miti debbono tutti passare per una specie di varco, la cui angustia avvicina singolarmente la natura alla cultura, l’animalità e l’umanità» (Cc, p. 357)

Spesso accade che in varianti del mito le parti siano invertite, ad esempio che l’uomo sia al servizio dell’animale in una sorta di inversione di ruoli: ma queste inversioni e modificazioni mostrano che:

«la natura e la cultura, l’anmalità e l’umanità divengono reciprocamente permeabili. Si passa liberamente e senza ostacoli da una sfera all’altra… queste due sfere si mescolano a tal punto che ogni termine dell’una evoca immediatamente un termine correlativo nell’altra, in quanto essi sono in grado di significarsi reciprocamente» (ivi).

Da un lato dunque il veleno richiede una prossimità tra natura e cultura, quindi un piccolo intervallo tra essi; dall’altro esso viene inteso dal mito come una sorta di «intrusione della natura nella cultura».

«Esso è infatti una sosta sostanza naturale che viene ad inserirsi come tale in un’attività culturale… Il veleno è incomparabilmente più potente dell’uomo e dei mezzi ordinari di cui questi dispone, amplifica il suo gesto ed anticipa i suoi effetti, agisce più rapidamente e con maggiore efficacia» (ivi, p. 358). La natura dunque penetra momentaneamente nella cultura «per alcuni istanti si svolgerebbe un’operazione congiunta, nella quale le rispettive parti diverrebbero indiscernibili» (ivi). «Se abbiamo correttamente interpretato la filosofia indigena, l’uso del veleno apparirà come un atto culturale generato direttamente da una proprietà naturale… punto di isormofismo tra natura e cultura, risultante dalla loro compenetrazione» (ivi).

A questo punto si dovrebbe comprendere anche la connessione con il tema della seduzione.

«Il seduttore (nella misura in cui viene descritto unicamente come tale) è un essere privo di statuto sociale in rapporto alla sua condotta… un essere che agisce unicamente in virtù delle sue determinazioni naturali, come la bellezza fisica e la potenza sessuale, per sovvertire l’ordine sociale del matrimonio. Pertanto rappresenta anch’esso l’intrusione violenta dalla natura nel cuore stesso della cultura» (ivi).

Nello stesso contesto viene considerata l’interpretazione mitica dell’arcobaleno – posto come una unità originaria (continuità) da cui hanno origine per frazionamento le specie viventi (mito contrassegnato con la sigla M. 145); ma che mostra anche una connessione con il veleno da pesca in quanto – attraverso mediazioni che qui non è il caso di riferire – fonte di malattie epidemiche.

Siamo ormai prossimi al nucleo delle spiegazioni che stiamo cercando: il veleno si propone in una duplice prospettiva: da un lato come «piccolo intervallo» tra natura e cultura – «nella nozione che gli indigeni si fanno del veleno di origine vegetale, l’intervallo tra natura e cultura, che certo esiste sempre e ovunque, si trova ridotto al minimo». Dall’altro come intrusione della continuità che caratterizza l’elemento naturale, alla discretezza che è propria invece dell’elemento umano culturale, come intrusione, per dirla tutta, e – io confesso –
con un certo sforzo, del cromatico nel diatonico.

«Dietro questa giustapposizione di temi apparentemente eterocliti si percepisce confusamente all’opera una dialettica dei piccoli e dei grandi intervalli o, per attingere al linguaggio musicale due termini confacenti, una dialettica del cromatico e del diatonico. Tutto avviene come se il pensiero sudamericano… attribuisse al cromatismo una specie di nequizia originaria, e tale che i grandi intervalli – indispensabili alla cultura perché essa esista, ed alla natura perché essa sia pensabile per l’uomo – non possono risultare se non dall’autodistruzione di un continuo primitivo, la cui potenza si fa sempre sentire nei rari punti in cui esso è sopravvissuto…» (Cc, p. 363).

«Continueremo a citare Rousseau per mostrare che la concezione sudamericana del cromatismo (pensato anzitutto in termini di codice visivo) non ha nulla di bizzarro e di esotico, giacché, a partire da Platone e da Aristotele, gli occidentali manifestano nei suoi confronti (ma questa volta sul piano musicale) una diffidenza simile, e gli attribuiscono la stessa ambiguità: associandolo come fanno gli Indios del Brasile nel caso dell’arcobaleno alla sofferenza ed al dolore: ‘Il genere cromatico è ammirevole per esprimere il dolore e l’afflizione: ascendendo i suoi suoni rafforzati strappano il cuore. Esso è altrettanto emergico discendendo: si crede allora di udire dei veri gemiti… Del resto, più questo genere ha energia, meno deve essere prodigato. Simile a quelle vivande delicate la cui abbondanza ben presto disgusta, esso incanta se viene usato sobriamente, così come diviene stucchevole qualora si ecceda’» (Cc, p. 364).

Fa dunque parte della coerenza del discorso di Lévi-Strauss attribuire al cromatico musicale la manifestazione inconscia della naturalità e dell’animalità, della pura istintualità rinnovando il dramma che in varie forme si ripresenta nel mito. Giunti a questo punto si presenta infine sommessamente, ma anche energicamente, nuovamente il problema Wagner: dal punto di vista musicale il cromatismo ha una sua manifestazione espressiva culminante nel Tristano. Ma a quale storia è legata questo momento puramente musicale? Ad una storia che comincia dal veleno. Isolde vuole vendicarsi di Tristano e tenta di avvelenarlo e di avvelenarsi. Ma il veleno viene scambiato con il filtro d’amore dell’ancella Brangania: al tema del veleno subentra quello della seduzione, ed insieme ad esso il motivo della trasgressione. Ora, veleno e seduttore

«ci sono apparsi come due modalità del regno dei piccoli intervalli» e ciò «sta appunto a convincerci che il filtro d’amore e il filtro di morte sono intercambiabili per motivi che esulano dalla semplice opportunità e ci invita a riflettere sulle cause profonde del cromatismo del Tristano» (Cc, p. 364).

Anche questo tema ha una notevole efficacia illustrativa del modo di pensare di Lévi–Strauss, ed è stato qui citato soprattutto per fornire un altro esempio della sua concezione del rapporto tra musica e mito. Naturalmente io penso che il problema musicale del cromatismo debba essere indagato soprattutto ed anzitutto in inerenza al materiale sonoro e questo vale anche per le eventuali valorizzazioni immaginative che ad esso possono essere inerenti. Così io non credo che vi sia bisogno di trovare, né nel pensiero selvaggio sudamericano né nella tradizione della musica colta europea e nella sua teoria, una conferma che il cromatismo si trovi dal lato della continuità e che in questa, intesa nella sua concretezza di fatto uditivo, vi siano latenze espressive orientate verso le regioni notturne dell’emotività, dell’istintualità e dell’erotismo piuttosto che verso le regioni solari di una ragione che chiarifica, classifica e distingue. Si tratta di latenze non nel senso che siano celate allo sguardo, ma nel senso che sono da intendere come pure potenzialità che non sono nulla finché non sono determinatamente attualizzate e la cui attualizzazione può avvenire in un gran numero di modi, secondo contesti e progetti espressivi differenti. Questo sarebbe un modo assai diverso di porre l’intero problema, che qui viene invece affrontato mettendo subito le mani dentro profondità inaudite e facendo subentrare alle sintesi dell’immaginazione che sono qui in gioco l’operare per principio oscuro e inesplicabile di funzioni inconsce. Sorprende inoltre che, qui come altrove, si tenti di far valere relazioni simboliche tra forme espressive da un lato ed oggetti o eventi dall’altro. Lo strutturalismo linguistico di Lévy-Strauss, così impegnato a mostrare l’importanza delle relazioni e dei rapporti formali rispetto agli elementi contenutistici, riportato sul piano musicale trova l’interesse della forma solo se essa resta legata a contenuti particolarmente pesanti. Se si parla di cromatismo si parla necessariamente anche di veleni. In questa direzione del resto spinge fin dall’inizio uno strutturalismo che assume nel linguaggio verbale il suo modello. Da un lato l’esistenza di un elemento «grammaticale» sembra porre l’accento sull’elemento sintattico–formale, dall’altro gli scopi comunicativi del linguaggio tendono invece a spostarlo sul versante dei contenuti del discorso. In questo stile di analisi l’elemento propriamente narrativo, la sequenzialità della narrrazione viene certamente dissolta; ma al suo posto subentrano blocchi di oggetti o di eventi che vengono correlati direttamente alle forme dell’espressione musicale. Questi legami vengono inesorabilmente annodati nell’inconscio che resta in ultima analisi il responsabile della capacità espressiva e della coerenza interna dell’opera: e dall’inconscio essi riemergono, sulla base di leggi misteriose e in abiti differenti, ora nella foresta amazzonica nell’aura atemporale del mito ora nell’Europa ottocentesca in una fase determinata della storia della sua musica; ora come narrazione da decifrare, ora come opera musicale il cui autore ha peraltro il solo merito di essere stato, con la pretesa inconsapevolezza del genio, portatore di un’eredità che egli non sapeva nemmeno di possedere. Ciò non toglie certo che il percorso delineato da Levi Strauss sia seducente e ricco di pensiero – di questo ci auguriamo che la nostra esposizione sia riuscita, nonostante tutte le istanze critiche seminate nel suo corso, a rendergli giustizia.


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