Il contenuto di questo testo è stato proposto nel corso della Giornata di Studio sul tema "Estetica musicale e Filosofia della musica: passato, presente, futuro" promossa in data 30 aprile 1996 da "Il Saggiatore Musicale" cura di Giuseppina La Face Bianconi e Osvaldo Gambassi in collaborazione con il Dipartimento di Musica e Spettacolo dell'Università degli Studi di Bologna.


Questo saggio è stato pubblicato in De Musica, 1997. 

La versione inglese è stata pubblicata in "Axiomathes", n. 1-2 1998, pp. 213-222.

Esso compare in edizione a stampa nel vol. XI delle Opere complete  intitolato Saggi di Filosofia della musica

 

Giovanni Piana, I compiti di una filosofia della musica brevemente esposti (53.3 kB) (pp. 17)

icon Giovanni Piana, Philosophy of Music and its Aims (49.36 kB) (pp. 16)

 

 

Giovanni Piana

I compiti di una filosofia della musica brevemente esposti

 

Parte prima
(Illustrativa)

Vi è un qualche vantaggio nei tempi drasticamente brevi assegnati talvolta ai relatori di incontri e di convegni. Si favorisce in questo modo o la scelta di argomenti nettamente delimitati e specializzati, oppure, in alternativa, il proposito di fornire una fulminea sintesi di impostazioni e di prese di posizione anche molto generali, imponendo una drastica semplificazione nei sostegni argomentativi e nell’illustrazione mediante esempi.

In questo secondo caso si corrono naturalmente molti rischi, esponendo il fianco alle critiche che si possono appuntare proprio sugli impoverimenti inevitabilmente indotti dalla semplificazione. Il vantaggio che se ne trae è tuttavia quello di stringere i propri pensieri intorno ai nodi che si ritengono realmente essenziali, rendendo possibile una valutazione della loro consistenza "a grandi linee".

Una parte importante della riflessione filosofica sulla musica deve oggi essere sviluppata, io credo, in stretta connessione con il problema di una teoria della musica: ma naturalmente una simile affermazione non può pretendere di avere un significato ben determinato se non è indicata almeno la direzione secondo cui si impiega l’espressione di "teoria della musica".

Le prime perplessità potrebbero essere sollevate intanto sull’impiego del singolare. Non si dovrebbe anzitutto, come è suggerito da molti, ritenere che l’espressione " la musica" sia impropria, e che ad essa si dovrebbe sostituire sempre il plurale "le musiche"? In corrispondenza alla riconosciuta molteplicità dei linguaggi musicali occorrerebbe allora fare riferimento ad una molteplicità di sistemazioni teoriche.

Io vorrei invece subito sottolineare con chiarezza e senza ambiguità questo punto: il riconoscimento di una molteplicità di linguaggi, e quindi eventualmente, di teorie corrispondenti - in un’accezione più o meno forte del termine - non interferisce in alcun modo o tanto meno preclude una prospettiva di discorso che, ponendo il problema di una teoria della musica voglia puntare l’attenzione su aspetti di ordine generale.

Si tratta di una questione che richiederebbe una discussione di grande respiro - certo, e tuttavia, una volta che abbiamo deciso di andare dritti allo scopo, essa può forse essere delimitata e circoscritta sulla base di pochi esempi.

Si possono presentare le cose come se si trattasse di una semplice riflessione terminologica, che tuttavia, nonostante le prime apparenze, è in grado di fare intravvedere direzioni di sviluppo non troppo ovvie e consuete.

Primo esempio:

Nell’ambito della teoria del linguaggio tonale sappiamo che la parola "tonica" ha un’accezione assai chiara e ben determinata: essa è una nota che ha una "importanza centrale" all’interno di un brano ed è questa importanza centrale che conferisce ad essa una funzione strutturante.

Sappiamo tuttavia anche che, se ci limitassimo ad una simile caratterizzazione, non potremmo certo pretendere di aver delimitato in modo adeguato la nozione di tonica nel linguaggio tonale per il semplice fatto che non abbiamo specificato condizioni importanti che riguardano i mezzi in cui questa "importanza" viene messa in rilievo e i modi specifici secondo i quali essa assolve una funzione decisiva nel conferire al brano musicale la sua unità e la sua articolazione.

Per dirla in breve, la tonica non è nulla senza la triade, e senza determinati modi di trattare la triade. Quanto meno sono dunque implicate determinate relazioni di consonanza e di dissonanza, e lo sono secondo un complesso piano di regole.

Una simile osservazione è assai più ricca di motivi di riflessione di quanto potrebbe a prima vista apparire.

A prima vista infatti sembrerebbe che ci limitassimo a constatare quanto sia generica la caratterizzazione della nozione di tonica proposta - sollevando nello stesso tempo l’esigenza di una caratterizzazione più precisa.

Ma non è difficile rendersi conto che quella prima caratterizzazione potrebbe essere considerata, non già come un mero indebolimento privo di interesse, della nozione pregnante e pertinente di tonica, ma come una caratterizzazione che, proprio per via della sua debolezza, pone il problema di un impiego più generale del termine e dunque della nozione corrispondente.

Il fatto è che possiamo se non altro immaginare diverse alternative possibili per far valere l’importanza di una nota e per dare ad essa una funzione strutturante. Ci potremmo chiedere se in presenza di una nenia elementare o di una cantilena articolata su tre o quattro note, nella quale viene fatta notare l’importanza di una nota attraverso la pura e semplice ripetizione, saremmo autorizzati a parlare di tonica oppure l’impiego di questo termine sarebbe da respingere come una pura proiezione di un quadro di idee del tutto estraneo all’oggetto musicale considerato.

A ciò credo si possa rispondere che la questione è per così dire nelle nostre mani. In effetti nessuno ci impedisce di usare il termine in una accezione più generale, non vincolata al linguaggio tonale. E d’altra parte si può parlare di proiezioni o di ingiustificate interpolazioni interpretative solo se queste sono dimostrabilmente presenti.

A mio avviso dopo circa un secolo in cui la musicologia stessa ha fatto una critica a fondo dei "pregiudizi" e degli "atteggiamenti proiettivi", sembra il caso di temere questo rischio meno di quanto giustamente lo si temeva una volta, e di vedere invece alcune giustificazioni per un impiego "esteso" dei termini.

Secondo esempio:

A titolo di secondo esempio potremmo far notare che certe relazioni che hanno un significato musicale ben determinato quando siano integrate in un complesso di condizioni aggiuntive, hanno comunque un significato anche fuori da quel contesto.

Così si parla di legame armonico tra due triadi, quando esse abbiano almeno una nota in comune.

Ci si deve allora concedere che se tra due triadi vi è un legame armonico, allora questo legame vi sarebbe comunque, anche se non vi fosse in generale qualcosa come il linguaggio tonale e le sue complesse regole di successioni delle triadi.

Relazioni come queste non sorgono in virtù di un riferimento linguistico, non sorgono cioè per il fatto di essere state oggetto di una regolamentazione in un linguaggio storico della musica.

Va la pena anche di notare che un simile legame è concretamente percepito, è un dato di fatto percettivo - e ci mancherebbe altro che non lo fosse!

Questa osservazione è portatrice di altri problemi rispetto all’esempio precedente, ma si ricongiunge con esso rafforzandone il senso per il fatto che anche in questo caso enunciamo una possibilità generale che riguarda ora la connessione tra gruppi di suoni in successione.

Il fatto che si tratti di una possibilità elementarissima non può naturalmente rappresentare una obiezione.

Anzi si potrebbe considerare questa "riduzione al caso elementare" come un vero e proprio metodo argomentativo: esso consiste nel ridurre un grande problema ad un caso minuto a cui l’interlocutore darà facilmente e un po’ distrattamente il proprio assenso data la pochezza del caso, senza rendersi conto che sta contraendo un impegno forse indesiderato rispetto alla catena di ammissioni che a partire da quell’inizio potrebbe essere costretto a fare.

Terzo esempio:

Analogamente, ciò che chiamiamo ad esempio "nota vicina" oppure "nota di passaggio" sono da considerare delle semplici configurazioni percettive prima ancora di diventare nozioni significative rispetto a determinati contesti teorico-analitici.

Si può anche avanzare l’idea che tali strutture abbiano una ricchezza di significato che tende a superare la particolarità di quei contesti.

Forse, con la nozione di nota vicina e con quella di nota di passaggio non siamo obbligati a seguire una strada che ci conduce infallibilmente al linguaggio tonale, se non addirittura ad un modo particolare di analizzarlo.

È come se si indicasse, con parole come queste - forse con tutte le parole importanti della teoria musicale - un sentiero che tuttavia assai presto si trasforma, di biforcazione in biforcazione, in un labirinto di strade.

Quarto esempio:

 

Con la parola accordo, nel quadro della teoria del linguaggio tonale, si intende inevitabilmente la triade. In un’accezione un poco più ampia, e non senza qualche problema, una formazione di terze sovrapposte. In questo linguaggio non vi sono comunque diadi.

Soltanto attenendosi strettamente a questa nozione speciale di accordo si può parlare di "note omesse". Ecco un’altra nozione che assolve una funzione la cui importanza è difficile da sottovalutare nella teoria del linguaggio tonale e proprio a fini di mantenerne la compattezza e la coerenza.

Val la pena di richiamare l’attenzione su questo punto per il fatto che l’impiego di questa espressione viene proposto spesso senza alcuna discussione critica preliminare al punto da far sospettare che ci si renda ben poco conto di quanta teoria sia in essa implicata.

Al contrario sembra quasi che si enunci un semplice dato di fatto. Qui manca una nota. Una nota è stata omessa.

Analogamente talvolta potrebbe non essere facile spiegare ad un normale studente di conservatorio che senza Rameau non ci sarebbero i rivolti (se non in un’accezione del tutto diversa e riguardante unicamente la struttura formale dei rapporti intervallari).

Si avverte in casi come questi la necessità di un consolidamento epistemologico delle nozioni appartenenti alla teoria della musica. L’esigenza di un’epistemologia corrispondente alla teoria, che indaghi lo statuto dei concetti in uso, che sappia districare le componenti di ordine storico-linguistico da quelle di ordine propriamente concettuale, si fa sentire appena nell’affiorare di interrogativi subito messi da parte.

All’interno di interessi epistemologici la questione di una possibile generalità delle nozioni, che può prendere l’avvio anche soltanto da una semplice riflessione sulla terminologia, avrebbe subito particolare rilievo. Così potremmo decidere di impiegare la parola "accordo", come certamente siamo liberi di fare, per indicare un raggruppamento qualsiasi di suoni simultanei.

Se badiamo alla musica del Novecento, questa nozione potrebbe sembrare la più appropriata, anche se ovviamente, si cercheranno poi ulteriori differenziazioni ed eventuali tipologie - come fa Persichetti nella sua Armonia del ventesimo secolo [1]

Sarebbe tuttavia del tutto sbagliato ritenere che ci troveremmo qui di fronte ad un’ altra nozione speciale di accordo. Non vi è qui particolarità contro particolarità, ma piuttosto un impiego del termine nella sua accezione più ampia, che ci lascia liberi di fronte a possibili particolarizzazioni e specificazioni.

Che poi questa esigenza di generalità si presenti proprio all’interno ed a partire da una considerazione delle vicende della musica del nostro secolo è a sua volta significativo: queste vicende, infatti, ci propongono di continuo, secondo diverse angolature, l’invito a ripensare, non solo al problema della molteplicità linguistica, ma anche alla vecchia idea di una grammatica generale. Riportata entro un ambito musicale, questa idea sembra fare tutt’uno con il problema di una sintassi della percezione che è in qualche modo presupposta dalle sintassi dei linguaggi storici della musica.

Quinto esempio

 

Forse l’osservazione precedente può essere un poco chiarita dal nostro quinto ed ultimo esempio.

Una serie dodecafonica è anzitutto una serie di suoni; ma una serie di suoni è anche la scala di la maggiore, un modo gregoriano, un murchana o un raga.

Ora, una serie di suoni, considerati intanto nei loro rapporti di intervallo, non è una delle tante cose che si incontrano per caso rovistando nella storia della musica.

Una serie di suoni è anzitutto una serie - ed alle serie in genere spettano determinate possibilità di strutturazione e di organizzazione.

Dobbiamo allora distinguere due punti di vista che non sono affatto tra loro in contrasto.

Da un lato, badando alla storia della musica - dizione con la quale mi permetto di intendere la storia universale della musica, e non solo la storia della musica europea, come in genere si sottintende - possiamo scoprire in che modo gli uomini abbiano utilizzato le serie dei suoni per scopi espressivi; dall’altro, badando invece alla nozione di serie come tale, possiamo studiare le possibilità che sono inscritte nella nozione stessa di serie come nozione generale (o se vogliamo anche: matematico-formale), considerando nello stesso tempo quelle limitazioni, ma anche quelle possibilità aggiuntive, che derivano dal fatto che le serie che ci interessano sono costituite di suoni, cosicché saranno da considerare le relazioni peculiari che essi pongono in essere e i loro potenziali impieghi espressivi.

Questi due punti di vista non solo non sono tra loro in contrasto, ma si richiamano a vicenda. Da considerazioni come queste sorge infatti l’invito a indagare le scelte espressive anzitutto nei loro contesti specifici e specificamente storico-linguistici, ma anche a correlare tali scelte a campi aperti di strutturazioni sonore possibili.

A mio avviso sono proprio questi campi il tema effettivo sulla quale una filosofia della musica è chiamata anzitutto a riflettere.


Note

 

[1] V. Persichetti, Armonia del ventesimo secolo, trad. it. a cura di F. Jegher e Luca Cerchiari, Guerini, Milano 1993.

 


 

 

Parte seconda
(Polemica)

Naturalmente non è possibile pretendere che l’idea qui sommariamente abbozzata sia realmente chiara nella sua portata e nelle sue implicazioni. Qualcosa di più si può dire tuttavia sull’atteggiamento che sta alla sua base, cercando di riproporla, sempre con la massima schematicità, nei suoi impliciti risvolti critico-polemici.

Contro che cosa dunque si rivolgono le considerazioni precedenti (e naturalmente anche: da quale parte è lecito aspettarsi delle critiche consistenti al punto di vista che stiamo sostenendo)?

In esse si è fatta soprattutto notare, secondo diverse angolature, la possibilità di operare delle generalizzazioni terminologiche, e quindi, inversamente, di riunire sotto titoli unitari nozioni che possono poi ricevere specificazioni all’interno di linguaggi musicali essenzialmente diversi. È dunque possibile considerare eventuali stilemi storico-linguistici a titolo di esempi di strutture sonore che hanno le loro possibilità logiche e fenomenologiche determinatamente indagabili come tali. Ciò non significa che si possa pretendere di togliere le differenze che fanno parte della specificità storica di quella strutture: ma che ci si può avvalere, nella loro analisi, di criteri e categorie concettuali che non debbono essere obbligatoriamente dipendenti da questa specificità.

L’accento posto sulla possibilità è anche un accento tolto al dato di fatto.

Non si deve però troppo frettolosamente concludere che una simile affermazione ci metterebbe senz’altro sotto il dominio di un ingiustificato apriorismo, e conseguentemente del puro e semplice pregiudizio. È certo invece, per dirla con una immagine, che non ci piace più il gioco della mosca cieca; e tanto meno ci piace il fingere di giocare a questo gioco.

Vi sono libri di teoria della musica che cominciano in effetti ad occhi bendati. La "musica" - qual è mai il significato di questa parola? Chi ne sa nulla intorno ad esso? Dobbiamo andare ad interrogare la gente, ed essere pronti a qualunque risposta. Della quale bisognerà semplicemente prendere atto.

Sembra peraltro che si sia ormai accertato "che non è possibile parlare di musica senza riferirsi, anche in maniera sottintesa, al sonoro"; e quindi possiamo ammettere, "senza troppe preoccupazioni", che "il suono è la condizione minimale del fatto musicale"[2].

Il punto più importante di questa frase è, in tutta evidenza, l’inciso: "senza troppe preoccupazioni". Esso è la sintesi di una forma mentis. Guai a perdere la vigile coscienza che "qualsiasi tratto presentato come universale lo è sempre per ipotesi, poiché la conoscenza delle civiltà musicali del mondo non è mai conclusa"[3]. E persino in quell’affermazione, in effetti piuttosto modesta, dobbiamo scorgere la presenza di un "universale musicale". Tuttavia, poiché si concede l’improbabilità di una sconfessione fattuale dell’ipotesi in essa formulata, possiamo almeno su questo punto lasciar da parte le nostre ansietà metodiche. Si trae così un respiro di sollievo. Almeno di questo non mi preoccupo "troppo".

Questo è appunto il gioco che non ci piace più: il far finta di non sapere ciò che si sa, il presentare delle ovvietà, di per se stesse assai poco significative, come se fossero inauditi reperti della ricerca empirica, ritenere che il pensiero sia realmente libero solo quando sia stato soppresso: tutto ciò ci sembra sbagliato, e ci sembra sbagliato proprio dal punto di vista di chi ha cuore la ricerca empirica e l’apprendere da questa ricerca. (Un esploratore non sa nulla del continente in cui approda, eppure, per quanto possa sembrare strano, egli ha sempre in mente già da prima qualcosa e non se ne va in giro a caso, scegliendo qualunque strada o un itinerario qualunque).

Un conto è del resto la ricerca empirica, un altro è la filosofia empiristica. A volte si avverte una certa incapacità a distinguere tra queste due cose. Un attacco alla filosofia empiristica viene preso erroneamente come un attacco alla ricerca empirica, e questo è naturalmente un errore che genera fastidiosi fraintendimenti.

Le nostre considerazioni precedenti perseguono in effetti lo scopo di sottrarsi a quello che potremmo chiamare il circolo empiristico: a differenza del circolo ermeneutico che conduce da senso a senso senza che si riesca a vedere su quali fatti i sensi siano innestati, il circolo empiristico conduce invece da dato di fatto a dato di fatto senza che fra l’uno e l’altro si possa intravvedere un’effettiva relazione di senso.

Non si pensi che questo problema, in particolare nell’ambito della riflessione musicologica, sorga solo regredendo ad una èra pre-idealistica e pre-storicistica, come il termine di empirismo farebbe sospettare. La questione è in realtà più complessa proprio per il fatto che lo storicismo nella fase della sua decadenza, quanto più rinuncia al sostegno ideale di una "filosofia della storia", tanto più si avvia a riscoprire, con maggiore o minore consapevolezza, i luoghi comuni delle filosofie empiristiche.

In Theodor Wiesengrund Adorno una filosofia della storia sorregge ancora, e con particolare pesantezza, l’interpretazione dei fatti che vengono risucchiati e dissolti in quella interpretazione. Anche il giudizio estetico si sente qui sicuro di sé e si abbatte sulla produzione musicale come una mannaia.

Invece, una posizione come quella di Carl Dahlhaus prende giustamente le mosse dal riconoscimento dell’insostenibilità di un simile orientamento intellettuale, ma sfocia in una sorta di compromesso tra storia e teoria in cui ciò che ho chiamato il circolo empiristico si ripresenta in tutta la sua evidenza ed esemplarità.

Due parole in proposito possono essere dette con riferimento al volume Analisi e giudizio di valore (Analyse und Werturteil) (1970), tradotto in italiano con il titolo di Analisi musicale e giudizio estetico, in cui la posizione dell’autore appare formulata con particolare chiarezza[4].

Naturalmente accennando alla tematica sviluppata in questo testo l’angolatura delle nostre considerazioni si sposta fortemente, poiché passiamo dalla problematica di una filosofia della musica intesa come una riflessione sulle sue nozioni costitutive alla questione della valutazione estetica che ha indubbiamente una rete di riferimenti concettuali diversamente orientati. Il punto di collegamento, al quale siamo qui interessati, è il modo in cui può presentarsi anche su questo terreno il problema di una fondazione teorica, e quindi quello del rapporto tra il "giudizio" ed una "teoria" del giudizio.

Carl Dahlhaus infatti si rende perfettamente conto della necessità di fare riferimento ad un qualche impianto teorico, tanto più nel momento in cui si vuole accedere al campo dell’ estetica musicale intesa come luogo di emissione di giudizi di valore: il concetto stesso di giudizio di valore sembra imporre un simile riferimento.

Nello stesso tempo egli ritiene di non poter più ricercare questo impianto in una direzione idealistica perché ciò significherebbe ricadere in una forma di apriorismo estraneo alle cose stesse. Ed anche su questo punto non gli si può dare torto.

Ci si avvia allora alla formulazione di un insieme di criteri e di categorie generali del giudizio di valore, capaci di fornire nel loro insieme il profilo di una vera e propria teoria. Si tratta di criteri quali quello dell’originalità, della ricchezza di collegamenti motivici e di articolazioni, di buona qualità nella tecnica compositiva, di differenziazione, di integrazione, di compensazione e di qualche altro ancora. Il punto importante è in ogni caso il seguente: ciascun criterio viene proposto solo in quanto è possibile fornire una documentazione fattuale del suo impiego, anzi esso è in primo luogo e niente altro che un "documento storico". I meriti che sanciscono la sua dignità stanno di conseguenza tutti nella frequenza con cui esso ricorre nelle valutazioni e nell’esercizio effettivo della critica nel passato.

In base a considerazioni relative alla frequenza, Dahlhaus è persino disposto a riconoscere ad alcuni di essi un qualche grado di generalità che induce una vaga coloritura sovrastorica. Così accade, ad esempio, per ciò che egli chiama compensazione, quando osserva che la tendenza a compensare la complessità in una dimensione musicale con la semplicità in un’altra sembra dominare in ogni epoca. Anche questa generalità va dunque considerata come una mera circostanza di fatto (alcuni criteri sono più ricorrenti di altri). Talora si cerca addirittura di rendere conto di essa attraverso considerazioni di ordine psicologico e biologico - come quando si legge che "la differenziazione e l’integrazione, il diversificarsi molteplice delle parti di un tutto e la loro coesione funzionale, sono due aspetti del medesimo sviluppo che si intrecciano e completano: si tratta di una legge biologica che tende a estendersi alle opere d’arte, senza che tuttavia si possa stabilire se in campo estetico si tratti di una regola empirica o di un postulato, né se la sua sfera di validità sia storicamente illimitata ovvero compresa entro limiti precisi" [5]. Al di là di tutto, vi è in questa frase lo sdrucciolamento dall’esistenza di una legge biologica - che viene avvertita evidentemente come un buon trampolino per effettuare il rischioso salto ad una generalizzazione - a quella pretesa tendenza della legge stessa "ad estendersi alle opere d’arte", che è pura fantasia speculativa dell’autore.

Va da sé infine che questi criteri che, in una considerazione autenticamente storica, riceverebbero senso, determinatezza e differenziazione secondo i contesti filosofici in cui sono di volta in volta inseriti, sono invece assunti in modo tale da renderli il più possibile indipendenti da questi contesti. Questo indebolimento della loro consistenza storica è naturalmente connesso con l’esigenza di poter contare su qualche cosa di simile ad una teoria.

Ma si potrà mai soddisfare questa esigenza seguendo un percorso così contorto? In realtà, alla fine tra le nostre mani non vi è altro che un centone di oggetti trovati, di cose raccattate per istrada, ed anzi ci si deve fare un vanto di averle raccattate proprio di lì.

Dopo di che ci si avvia in modo del tutto conseguente a mostrare che ad ogni criterio può essere contrapposto il criterio che gli fa da esatto contraltare.

Questa circostanza è tanto insistita da concretizzarsi in un vero e proprio stilema espositivo caratteristico, nello stilema "ciò non significa che...". All’enunciazione di ciascun criterio segue inevitabilmente la frasetta "ciò non significa che..." - frasetta che introduce la formulazione del criterio opposto. Spesso anzi tali stilemi si susseguono l’uno all’altro formando urtanti catene di affermazioni subito contraddette [6].

Beninteso Dahlhaus non si fa per nulla sostenitore di una forma di relativismo scettico di fronte al giudizio di valore in ambito musicale. Quest’opera intende anzi mostrare un possibile radicamento oggettivo del giudizio estetico in dati di fatto rilevabili analiticamente anche se naturalmente ciò non significa che.... i principi e i metodi dell’analisi stessa non si trovino già sotto qualche preconcetto di ordine estetico, come viene ammesso fin dall’inizio.

Un simile andamento altalenante è la vistosa manifestazione di uno storicismo e di un empirismo che hanno smarrito la via.

Alla fine, tutto si riduce - indipendentemente dalle raffinate osservazioni di dettaglio, di cui, come sempre, anche questo volume di Dahlhaus è ricchissimo - ad una pura e semplice esibizione della varietà di risposte che sono state date al problema della valutazione estetica dell’opera musicale.

Queste risposte sono state in effetti molto varie. Ma una simile osservazione potrebbe essere solo l’inizio di una riflessione teorica, certamente non il suo punto di arrivo.

Nulla garantisce infine che questo modo di porre il problema, essendo libero da dogmatismi, rappresenti un atteggiamento di autentica apertura nei confronti della molteplicità linguistica. Talora può essere vero l’esatto contrario.

Può accadere infatti che, qualora non si reperiscano nessi storicamente documentati e veicoli materiali di comunicazione tra culture diverse, se ne decreti la reciproca inaccessibilità, essendo ogni nesso ideale interpretato in chiave di filosofia della storia di stampo idealistico e rifiutato come tale. Si tenderà quindi a sostenere, implicitamente o esplicitamente, che ciò che è estraneo alla nostra tradizione può essere da noi rispettato e tollerato come qualcosa di essenzialmente altro, ma non autenticamente compreso. Così la dichiarazione di Dahlhaus secondo cui "tra le culture giapponese, indiana ed europea occidentale non si può né stabilire un rapporto esteriore, empirico, né ideare un nesso interiore in base alla filosofia della storia" [7]- sembra, se è stata da me correttamente intesa, escludere qualsiasi nesso: ed in particolare all’interno della cultura italiana che, nel corso di un secolo intero di rinnovamento delle idee intorno alla pratica ed alla teoria della musica, non ha saputo produrre nulla o quasi nulla di significativo sulle culture musicali extraeuropee, non solo dal punto di vista dell’analisi teorica, ma nemmeno dal punto di vista storico ed ancora più semplicemente informativo, queste parole suonano purtroppo come legittimazione di una situazione di arretratezza che io penso invece che possa e debba essere superata.


Note

[2] J.J. Nattiez, Musicologia generale e semiologia, trad. it. a cura di R. Dalmonte, EDT, Torino 1989, p. 35.
[3] ivi, p. 49.
[4] C. Dahlhaus, Analisi musicale e giudizio estetico, trad. it. a cura di A, Serravezza, Il Mulino, Bologna 1987.
[5] ivi, p. 50.
[6] Ad esempio: l’originalità, il nuovo è certamente un criterio di apprezzamento estetico; ma ciò non significa che "la dipendenza di opere musicali da modelli da imitare o emulare" non possa essere apprezzata esteticamente come espressione di un saldo senso della tradizione; d’altra parte, che questa dipendenza possa essere apprezzata in questo modo non significa che"non possa essere criticata come atteggiamento epigonale che tenta di sottrarsi alle esigenze estetiche del proprio del tempo" (p. 40). Oppure, in una citazione letterale: la "differenziazione materiale, vale a dire la ricchezza del lessico musicale costituito da modelli ritmici, accordi, figure dissonanti e raggruppamenti melodici, è senza dubbio un criterio superficiale, ma non per questo inutilizzabile. Esso non basta a fondare un giudizio estetico, ma non è giusto sottovalutarlo..." (p. 51). Gli esempi si potrebbero moltiplicare.
[7] C. Dahlhaus - H.H. Eggebrecht, Che cos’è la musica, trad. it. a cura di A. Bozzo, Il Mulino, Bologna 1988, p. 11.