icon Recensione a A. Serravezza, Musica e scienza nell’età del positivismo, Il Mulino, Bologna 1996. (29.5 kB)

 

 

Vi è certamente più di un motivo per attirare l’attenzione sul progetto realizzato da Antonio Serravezza in questo suo ultimo libro. In esso si assume l’impegno di fornire un quadro dei rapporti tra musica e scienza nel positivismo; e dunque, in realtà – poiché questo è il problema generale sempre in gioco  –  di un aspetto essenziale della riflessione musicale nel suo complesso nell’arco di tempo che va dalla metà del secolo XIX sino a pochi anni prima della Guerra Mondiale. Tra questi motivi vi è certamente il fatto che esso – come si usa dire – «riempie una lacuna» storiografica, un’ espressione in realtà abbastanza infelice perché in certo senso riporta in un’atmosfera di ovvietà ciò che invece ovvio non è: come se fosse anzitutto ovvio che lacune vi siano dappertutto nell’ambito storiografico, e che, essendoci lacune, sia naturale che qualcuno prima o poi si accinga a colmarle.
In questo caso le cose stanno, io credo, assai diversamente.
Il volume di Serravezza ci induce infatti ad una riflessione più ampia, ad una riflessione che riguarda le vicende intellettuali di un’epoca che possiamo sentire più o meno lontana nel tempo, ma che pone anche domande e interrogativi che ci sono assai prossimi.
Ma ecco anzittutto un rendiconto, che purtroppo non potrà che essere molto sommario, del contenuto e della struttura di questo libro.
Come si è detto, l’arco di tempo implicato è estremamente ampio: la discussione che in esso si sviluppa è ricchissima ed è attraversata da alcuni importanti riferimenti unitari, ma anche da tensioni che puntano in direzioni diverse, da convergenze e divergenze estremamente significative.
Di un simile materiale Serravezza riesce a venire a capo in modo magistrale con alcune scelte di fondo: anzitutto con la scelta di non inseguire gli autori nei dettagli o negli aspetti laterali, per quanto interessanti possano essere, ma di rintracciare subito – con mano sicura – i punti centrali, che possono poi naturalmente rappresentare anche dei punti di raccordo. In secondo luogo con la decisione di mediare l’intenzione, che resta certo prevalentemente storiografica, con un orientamento teorico-tematico.
In effetti il libro si articola in tre grandi capitoli, che sono anche tre grandi articolazioni teoriche della riflessione sulla musica nell’età del positivismo.
Esso si apre con il dibattito fondazionale nel senso più stretto. Il primo capitolo, intitolato «Dalle sensazioni acustiche alle rappresentazioni sonore»,  stringe giustamente in un unico nodo tre grandi dominatori della scena teorica: Helmholtz, Stumpf e Riemann. Questi autori non solo interagiscono tra loro in un’atmosfera di fecondo scambio scientifico, ma anche delineano – sullo sfondo di un orizzonte culturale comune – vie tipicamente diverse.
La Lehre von den Tonempfindungen di Helmholtz, punto di riferimento obbligatorio per ogni riflessione sui “fondamenti” del musicale nella seconda meta del sec. XIX, viene considerata per prima, come il più consistente tentativo di dare una base fisico-fisiologica agli elementi della musica. Qui sono dunque in scena anzitutto le sensazioni acustiche.
La Tonsychologie di Stumpf segna invece il passaggio ad un punto di vista prevalentemente psicologico, che Serravezza esibisce soprattutto nella rimessa in questione del problema della consonanza e della dissonanza attraverso il concetto di fusione.
La posizione di Riemann viene in esame soprattutto nei suoi esiti conclusivi, nel punto in cui, dopo aver tentato strade diverse, l’autore arriva a teorizzare che l’ambito del musicale deve staccarsi dall’elemento sensoriale, non solo considerato sotto il profilo acustico, ma anche – come accade in Stumpf – da un punto di vista «protofenomenologico». Può così essere rivendicata l’idea della «rappresentazione sonora» – una nozione  che che è in realtà più prossima alle strutture immaginative ed intellettuali, con una logica interna autonoma, che alle strutture della percezione: un passaggio che Serravezza documenta con riferimento, in particolare, alle Ideen zu einer “Lehre von den Tonvorstellungen” del 1916.
Tre autori che coprono dunque l’intero arco del periodo considerato, e che intrecciano tra loro un dialogo fittissimo attraversando fasi diverse, di cui Serravezza riesce a rendere conto con un raffinato gioco di ritaglio che ha lo scopo di evitare il vero pericolo che si presentava qui, come del resto nel progetto dell’intero libro: quello di proporre un’ esposizione nella quale andasse perduta per il lettore l’effervescenza dei problemi, l’agitarsi delle proposte teoretiche all’interno di alternative diverse, sia tra gli autori, sia all’interno dell’elaborazione dello stesso autore.
Mi sembra poi caratteristico dell’esposizione di Serravezza – sia detto di passaggio –  il fatto di tendere a sottolineare più gli aspetti di dinamicità interna dei singoli autori, che le rigidità di ordine teorico. In Helmholtz, ad esempio, non sembra dubbio che le «aperture» in direzione di possibilità «psicologiche» non previste e non prevedibili a partire da una impostazione «fisicalistica» siano dovute alla resistenza che incontrovertibili circostanze di ordine percettivo e  musicale oppongono a quella impostazione, e che quindi il richiamo al versante psicologico assuma il senso di un deus ex machina da invocare quando la strada consueta e più desiderabile conduce ad un vicolo cieco. Come osserva Serravezza: «l’intervento della spiegazione psicologica si registra in funzione di supplenza o integrazione dell’interpretazione fisica e fisiologica» (p. 29). Ma è chiaro che dove debba cadere l’accento – se sulla supplenza o sull’integrazione, e dunque sul deus ex machina o su un atteggiamento di potenziale apertura –  ciò può dipendere in larga parte da valutazioni interpretative complessive, rispetto alle quali Serravezza assume in generale un atteggiamento di stretta prudenza storiografica. Il compito prevalente – si dice nella premessa – è quello di «esporre le idee con le parole degli autori»: «il libro si concepisce essenzialmente come rassegna di teorie» (p. 10). Ciò comporta una sorta di ascetica rinuncia ogni volta che siamo stimolati dal demone tentatore dell’intervento critico-teorico.
Nel secondo capitolo intitolato L’estetica musicale e le scienze lo scenario in realtà, dal punto di vista tematico, cambia completamente anche se il dibattito fondazionale proposto con tanta estensione nel primo capitolo mantiene il valore di essenziale punto di riferimento. Qui il problema principale è quello degli orientamenti possibili di un’«estetica musicale» – cosicché l’attenzione si sposta sulle tematiche dell’espressione musicale e della  valutazione, sul «che cosa» della musica in genere. Mentre il primo capitolo considerava tre figure fondamentali in un ordine che era cronologico e tematico insieme, questo secondo capitolo ha in Vom Musikalische-Schönen di Hanslick una sorta di perno intorno a cui far ruotare la grande varietà delle posizioni prese in considerazione. A partire di qui è possibile, con un movimento che è caratteristico di questo libro, riprendere autori già trattati in precedenza, così da riconsiderarne la tematica secondo una diversa angolatura. In questo modo da un lato si stabiliscono fili interni che dànno coerenza all’esposizione, dall’altro diventa possibile esibire un materiale molto ampio che viene setacciato e riorganizzato a beneficio del lettore, il quale può avventurarsi in esso seguendo strade sicure e opportunamente tracciate.
In rapporto ad Hanslick viene messo in evidenza che il suo carattere innovativo non deve essere considerato esclusivamente negli elementi formalistici, presenti anche in tempi precedenti sia pure sotto diverse chiavi – basti pensare a Kant ma anche, in particolare per quanto riguarda la metafora dell’arabesco, ad autori di èra romantica (cfr. p. 134 sgg.). Io penso che persino un autore come Schopenhauer – la cui metafisica della musica evidentemente non può rientrare nella delimitazione tematica di questo volume, ma di cui è probabilmente utile non dimenticarsi in rapporto a queste discussioni – non sarebbe certo incline ad accettare posizioni di contenutismo accentuato in senso sentimentalistico e psicologizzante. Giustamente perciò l’interesse della posizione di Hanslick viene vista soprattutto nel modo in cui egli si pone in rapporto con la cultura del proprio tempo, ed in particolare proprio nel modo in cui Hanslick «guarda con attenzione al mondo delle scienze naturali», propugnando un «sobrio appoggio conoscitivo posto sotto le insegne delle scienze della natura» (p. 102) – restandogli tuttavia estranea l’idea di «ricavare dalle scienze naturali un fondamento per la teoria estetica» (p. 103), manifestando così un atteggiamento che lo avvicina a Lotze.
In questo modo si scorgono le ragioni delle relazioni che possono ricollegare Hanslick a Helmholtz o che, quanto meno, giustificano l’interesse di Helmholtz verso le posizioni hanslickiane, e proprio in rapporto a quelle oscillazioni del suo pensiero che lo inducono ad  accentuare, in sede propriamente estetica, il versante psicologico su quello fisiologico – accentuazione che certamente non ha solo le valenze accennate poc’anzi. Emerge in questo rapporto quella differenza tra Stimmung e Gefühl – tra la determinatezza del sentimento indicata da quest’ultimo termine e l’indeterminatezza dell’atmosfera emotiva  indicata dal primo –  che rappresenta una delle articolazioni fondamentali del dibattito sul terreno propriamente estetico, che va ad intrecciarsi con le questioni relative alle giustificazioni fisiologiche o psicologiche considerate ora alla luce del problema delle ragioni del piacere della musica e delle possibili modalità della sua fruizione.
In questo nostro  resoconto ci dobbiamo naturalmente limitare a citare i riferimenti maggiori, ma si deve avvertire che uno degli scopi esplicitamente perseguiti è anche quello di mostrare, attraverso l’ampiezza dei riferimenti ad autori minori, ricordati in gran numero, il livello europeo del dibattito, il suo circolare nei diversi ambiti nazionali come un vero e proprio dibattito a più voci.
Particolare spazio ricevono naturalmente non solo le ricerche volte ad ampliare punti di vista helmholtziani o hanslickiani, ma anche alle varie formulazioni dell’estetica musicale psicologizzante, e infine alle posizioni riconducibili alla teoria dell’Einfühlung nella quale nuove tendenze si fanno avanti.
Nell’ultimo capitolo il riferimento teorico fondamentale è la tematica evoluzionistica nel suo insieme. In esso  campeggiano dunque i nomi di Spencer e di Darwin. Gli interrogativi dominanti sono qui le fonti dalle quali la musica ha potuto avere origine – un problema, come si può subito sospettare, dai confini metodologici incerti, e che può essere affrontato con maggiore o minore consapevolezza critica. È certo in ogni caso che esso può essere considerato come una chiave attraverso la quale si aprono questioni che sono ancora strettamente attinenti all’ «essenza» della musica, alla sua natura. Quindi, ad esempio, i  rapporti tra musica e linguaggio verbale. Il capitolo prende appunto le mosse da questo tema con riferimento alle tesi di Spencer che prospettando la duplice valenza delle parole come «segni delle idee» e come «segni del sentimento», ed individuando nei «toni» della voce un’ inclinazione premusicale atta a svilupparsi in direzione della musica vera e propria, riprende e rinnova temi che per certi versi ci riportano al dibattito illuministico prima e romantico poi.
In generale la questione dell’origine è appunto quella di ciò che sta prima della musica e che nello stesso tempo ne rappresenta il seme, ne contiene il primo nucleo. In questo sguardo retrospettivo ci si interroga sulla condizione dei primordi, superando, come era nella logica dell’evoluzionismo, gli orizzonti della specie umana verso il regno animale. In Darwin la considerazione della musica nella sua origine e nella sua evoluzione propone la relazione, piuttosto che con il linguaggio verbale, con l’istinto sessuale e con la tematica della selezione della specie. Diventano allora  significativi i riferimenti al mondo animale, al canto degli uccelli come tipicamente rappresentativo di questa connessione e di questa origine. Nell’esposizione di Serravezza si mette in evidenza il fatto che un simile orientamento comporta indubbiamente il rischio di operare una riduzione indebita del piano dei valori estetici veri e propri: e tuttavia è notevole il fatto che, sia sulla base della considerazione di dati di fatto non strettamente riconducibili allo schema teorico, sia in forza della natura stessa del problema dell’«origine», si è indotti anche a compiere l’operazione inversa,  e cioè quella di rivendicare un significato ed una portata estetica o pre-estetica a momenti governati dai livelli inferiori della vita istintiva.
Ciò accade già in Darwin che scopriamo assorto, nei pressi di Rio de Janeiro, a tendere l’orecchio, la sera,  a ranocchi «che emettevano dolci note stridule in armonia» (p. 246) ed a difendere la piacevolezza di questo canto per poter più liberamente sostenere, a maggior ragione, la «musicalità» del canto degli uccelli e addirittura la possibilità che essa possa essere «apprezzata». La selezione stessa, si chiede Darwin, non esige proprio la possibilità di un simile apprezzamento da parte della femmina? E forse il maschio continuerà, anche al di là degli stimoli dell’istinto, il suo bel canto. 
Ma a parte Darwin e coloro che ne riprendono il problema sul piano musicale e tentano di approfondirlo, il sasso è stato gettato e il dibattito sulla musicalità degli animali si sviluppa anche secondo direzioni indipendenti e con una varietà di opinioni che una concezione stereotipa dell’atteggiamento intellettuale positivista, ancora oggi così diffusa, certamente non sarebbe in grado nemmeno di sospettare.
D’altra parte questo problema è connesso con un altro di peso certamente maggiore. La questione dell’origine, di ciò che sta prima della musica e che è comunque già musica in quanto ne è il suo seme non può che incontrarsi con la ricerca etnomusicologica che sta in quegli anni prendendo forma e ottenendo i suoi primi risultati.
Osserva Antonio Serravezza: «Sotto altri aspetti, tuttavia, la ricerca sulle origini della musica espone la coscienza estetica ai turbamenti generati dal remoto e dal diverso. L’operazione tentata dai filosofi e dagli uomini di scienza che nella stagione positivistica si avventurano su questo terreno presenta anche il significato di una ricognizione al di fuori dei confini rassicuranti della «civiltà». La musica è riportata dalla condizione di arte evoluta ad uno stato primordiale nel quale l’assetto ed i valori acquisiti nelle fasi più avanzate cessano di ricevere attenzione (salvo riproporsi surrettiziamente nella forma di embrioni originari, e quindi di «natura» profonda della musica), e viceversa acquistano rilevanza fattori elementari occultati dal progresso tecnico ed estetico... Le implicazioni estetiche del dibattito sulle origini compongono dunque un quadro dai tratti discordanti: ricerca di ascendenze e di modelli, agnizioni, rassicurazioni circa i valori correnti, ma anche incontri con un’alterità inquietante. In ogni caso le teorie sui primordi della musica elaborate in ambito evoluzionistico (e rimosse nella stagione antipositivistica) comportano una profonda introspezione della coscienza culturale e nell’insieme costituiscono uno dei momenti di più intensa riflessione sulle radici della musicalità» (p. 267).
L’esame che nel libro viene condotta su questo lato del problema, un esame che si estende alle altre posizioni particolarmente significative in cui emergono le problematiche del gioco così come quella del lavoro, in connessione con l’accentuazione del tema del ritmo (Groos, Grosse, Bücher, Wallaschek ed altri) confermano ampiamente le osservazioni precedenti. Nello stesso tempo consentono di vedere con chiarezza anche in questo ambito quello che è forse il limite di coscienza possibile dell’intera riflessione positivistica sulla musica. A parte alcune figure che si trovano ai suoi margini e che guardano ormai oltre di essa, il riconoscimento dell’alterità si muove per lo più all’interno di una visione teleologica, di cui la tradizione europea rappresenta l’autentico punto di arrivo.
Eppure la nostra musica, la musica della nostra grande tradizione – leggiamo in Weismann (p. 268) –  deriva da quelle «primitive successioni sonore»: proprio queste sono le sue origini, per quanto di ciò possiamo provare meraviglia, per quanto stentiamo ad applicare ad esse la parola «musica»: «non c’è altra via».
In certo modo una simile conclusione ci riconduce ai problemi della tematica fondazionale trattata all’inizio. Nè le limitazioni poste da Helmholtz ai rapporti dell’estetica con i fondamenti fisici della musica, né la teorizzazione dei problemi della musica alla luce della nozione di  «rappresentazione sonora», teorizzazione che in via di principio avrebbe potuto aprirsi alla molteplicità dei linguaggi musicali, riesce ad attingere questa possibilità e ad appropriarsene. Sembra invece che accada l’inverso: questa possibilità si trova a portata di mano proprio degli autori la cui ricerca è orientata dal punto di vista dell’ «origine» e che sono disposti per ciò stesso ad andare piuttosto lontano dalle nostre consuetudini di ascolto. Essa arriva quasi a far parte delle loro conclusioni tacite. La falce di cui ci parla Bücher, che con il suo movimento «dà suoni di diversa intensità e durata nei momenti in cui l’attrezzo taglia e viene ritratto» è già musica alle orecchie dell’autore, prima ancora che la voce stessa intervenga a riprodurne gli effetti. Lo stesso si può dire per altri autori che, come Stumpf, sono attratti dai problemi della musica extraeuropea in base a considerazioni relative alla ricezione del materiale sonoro considerato in relativa indipendenza dal suo impiego musicale. Per il teorico della rappresentazione sonora, invece, per il quale la musica stessa sta avanti a tutto e il ruolo della soggettività diventa decisivo, la ricerca di legalità interne alla musica, nettamente distinte da legalità interne al campo sonoro, propone un’ impostazione nella quale si prospetta l’assolutezza di un modello. Vi sono qui certo spunti per la riflessione che vanno ampiamente oltre i limiti entro cui ciascun autore si muove.
Questi ultimi accenni ci consentono qualche considerazione conclusiva Essa può prendere spunto da una frase che l’autore stesso inserisce nella premessa per caratterizzare il senso del suo lavoro. Si tratta di una frase che deve essere citata per intero: «Se si domandasse perché meriti di essere intrapresa una rivisitazione di queste idee e di questi dibattiti, la risposta sarebbe elementare: perché si tratta di aspetti trascurati della storia della cultura musicale. E se si chiedesse se la loro ricostruzione non sia una sorta di operazione archeologica, la risposta sarebbe affermativa: sebbene non lontano nel tempo, e sebbene cronologicamente coincidente con fasi della vita e della produzione musicale tra le più presenti nella nostra cultura, l’insieme delle idee che abbiamo cercato di ricostruire è senz’altro “antico” nella rappresentazione corrente, anche in ambito musicologico. Per qual motivo ciò sia avvenuto, e perché in molti casi si sia registrata una vera e propria damnatio memoriae, sono quesiti da porre alla storia della cultura musicale del Novecento» (p. 10).
Dopo la lettura del libro, confesso di trovare questa frase polemi-camente reticente o ambiguamente provocatoria, anche se essa in fin dei conti rende ragione della decisione, mantenuta fermamente nel corso dell’intera ricerca, di lasciare aperto l’importantissimo interrogativo conclusivo. Il lettore spera di trovare, almeno al termine del lungo cammino, qualche ipotesi di risposta a quell’interrogativo – ma l’autore, implacabilmente,  chiude.
Se noi dovessimo, come semplici recensori, dare una nostra opinione in via breve sull’interesse di una simile ricerca, al di là della quantità di informazioni che ci mette a disposizione e dell’efficace riordinamento del materiale che è già stato in precedenza segnalato, punteremmo anzitutto l’attenzione sul fatto che essa genera più o meno indirettamente domande e problemi di grandissimo interesse sia storiografico sia propriamente teorico. Lo abbiamo già accenato all’inizio.
Appare anzitutto chiaro, in questa esposizione, la serietà e l’importanza che si annette, nell’arco di tempo considerato, all’ela-borazione di una filosofia della musica in un senso particolarmente pregnante del termine: per lo più il dibattito riguarda infatti, da un lato, le questioni di principio che chiamano in causa la teoria della musica nel senso più stretto e le problematiche di fondo dell’estetica musicale, dall’altro, la discussione mostra l’esigenza costante di un’ integrazione della riflessione sulla  musica all’interno di un orizzonte filosofico di ordine generale, di «concezioni del mondo» dalle quali la riflessione sulla posizione e sul significato della musica trae domande e cerca  risposte.
Tutto il volume è un’esemplificazione cospicua di questa impudente tendenza al teorizzare in grande – impudente perché in effetti essa è esplicita e senza vergogna, perché ciascuno affronta i rischi inevitabili della teoria, non si muove garantito da mille rampini che lo possano mettere al riparo per mille secoli, ma si espone invece al dibattito, alle confutazioni immediate, ad errori materiali e concettuali. Eventualmente anche al rischio di essere dimenticato di lì a poco. E risulta altrettanto esemplificato dall’in-tero volume che questo atteggiamento dà molti frutti, che anche dove vi sono impostazioni caduche, dove ci sono stati eccessi ed ingenuità speculative e interpretative – tutto ciò non ha affatto impedito il progresso e l’arricchimento della problematica musicale nel suo insieme, ma anzi la ricerca ne è risultata stimolata e promossa.
Certamente, come abbiamo osservato, entro determinati limiti di coscienza possibile: ma sarebbe egualmente erroneo ritenere che questi limiti valgano a giustificare una valutazione di antiquatezza del dibattito. Giustamente Serravezza osserva che «nella rappresentazione corrente, anche in ambito musicologico» l’insieme di idee qui esposto è sentito come «antico». Ma è poi giusta questa «rappresentazione»? O meglio: che cosa propriamente essa implica, fino a che punto essa può essere estesa ed appartenere realmente ad un giudizio «storico» e non ad un pregiudizio teoretico mascherato da giudizio storico?
In effetti  potrebbe sembrare che gli stessi sviluppi musicali abbiano messo a tacere in un colpo solo tutti questi vecchi dibattiti – come se le novità intervenute nel novecento sul piano della prassi musicale abbiano fatto cadere ogni interesse verso discussioni come quelle intorno al  fondamento della triade negli armonici, della distinzione tra consonanza o dissonanza, oppure intorno alle giustificazioni psicolo-gistiche o fisiologistiche della musica, così come verso ricerche più o meno naturalistiche intorno al senso della fruizione musicale.
In realtà una simile visione è assai semplicistica – e lo è anche nella sua sottintesa valutazione storiografica. Mi sembra che uno dei risultati su questo terreno del lavoro di Serravezza sia quello di aver mostrato che la discussione non ha affatto un monotono e omogeneo andamento «riduzionista», secondo la valutazione corrente. Ma lo è soprattutto in rapporto ad un modo di concepire gli stessi sviluppi musicali a partire dal primo novecento sino ad oggi ed alla loro relazione interna con le questioni teoriche. Infine viene messo sotto silenzio l’importanza che ha avuto in quella damnatio memoriae di cui qui si parla lo storicismo nelle sue svariate metamorfosi, dalle più antiche alle più recenti e recentissime. In particolare in Italia, nonostante tutta l’acqua passata sotto i ponti, si continua ancora oggi a sentire il fastidioso peso delle pregiudiziali di origine storicistica – e fra queste pregiudiziali, sembra strano dirlo, vi è anche la damnatio theoriae che sicuramente è una delle componenti che rendono conto di questa  damnatio memoriae. Si può forse sostenere che oggi non vi sia un diffuso scetticismo nei confronti dell’attività teorizzatrice? Questo scetticismo deriva dallo svuotamento interno della pregnanza dei problemi che interviene nel momento in cui si assume che non vi possano essere mai domande e risposte in sé, ma sempre e soltanto domande e risposte d’epoca (il che è ad un tempo banalmente vero e banalmente falso).
Fra i molti stimoli che vengono da questo libro vi è anche, io credo, e forse meno obliquamente di quanto possa sembrare ad un primo sguardo, un invito ad una riflessione rinnovata su questo punto, secondo l’angolatura dei materiali proposti in modo tanto ricco e penetrante.

Giovanni Piana