Questa recensione al volume di Lawrence Ferrara, Philosophy and Analysis of Music. Bridges on Musical Sound, Form and Reference. Excelsior Music Publishing Co., 1991 è stata pubblicata in “Axiomathes” –  quaderni del centro studi per la filosofia mitteleuropea, vol VI, Sett. 1995. Uno stralcio di essa compare nella pagina dedicata a Lawrence Ferrara presso la New York University.


icon Recensione di Giovanni Piana a Lawrence Ferrara, and Analysis of Music (26.38 kB)

Recensione di Joseph Smith al medesimo testo di Lawrence Ferrara, la quale cita Giovanni Piana 

 


Filosofia e analisi musicale: ecco un connubbio che molti, fino a poco tempo fa, avrebbero guardato con scetticismo e sospetto e che invece si va a poco a poco imponendo, sia per ragioni strettamente interne ai problemi dell’analisi, sia per ragioni più generali che riguardano l’ampiezza degli orizzonti culturali che la musica mette in gioco. In realtà di fronte all’atteggiamento di quei  musicologi – e ve ne sono ancora molti – che guardano con sufficienza questo rapporto è necessario far notare che esso implica una sottovalutazione proprio del peso che la musica ha per la vita della cultura, nel senso più profondo del termine, e che pertanto questo atteggiamento finisce, lo si voglia o meno,  con l’assecondare la tendenza a considerare la musica come un’arte separata e nello stesso tempo come un’arte minore – nonostante la sua assicurata appartenenza ad importanti eventi mondani. Per quanto riguarda la situazione italiana, è un segno sufficiente di ciò la separazione istituzionale tra conservatorio e università, e all’interno di quest’ultima, una presenza in realtà assai limitata di insegnamenti musicali, che si trovano in ogni caso più a ridosso degli insegnamenti letterari che degli insegnamenti filosofici.
Non a caso dunque un libro come questo ci viene dagli Stati Uniti – dove la situazione è molto diversa. Se mai le difficoltà sorgono all’interno di un dibattito culturale nel quale sono state a lungo predominanti correnti di pensiero, di più o meno lontana origine neopositivistica, orientate verso tematiche semiologiche e logicizzanti che hanno avuto una influenza amplissima anche sul terreno della filosofia dell’arte:  correnti che peraltro sono state oggetto, ormai da tempo, di una vivace contestazione che si è avvalsa  anche nell’ambito della riflessione sulla musica, di altri modelli filosofici di riferimento.
Il libro di Ferrara rappresenta un caso realmente esemplare, sotto più di un riguardo, che fissa un momento di maturità di questo dibattito, che si era mosso inizialmente in contrapposizioni talora troppo elementari tra scientismo ed antiscientismo, tra oggettivismo e rivendicazione della soggettività interpretante, tra tecnicismo e rivendicazione umanistica, tra accademismo e anti-accademismo in modo tale da rischiare di compromettere l’esito stesso della disputa proprio a favore delle tendenze più rigidamente ancorate al ruolo del musicologo-scienziato, preoccupato, più che apprestare strumenti efficaci per una comprensione, a reggere il confronto con le imprescindibili esigenze del Metodo.
L’aria che si respira in tutto il libro è invece quella della necessità di una nuova sintesi che sappia portare a concordanza il senso e la tecnica – o come si dice più ampiamente nel sottotitolo – che sappia stabilire dei ponti tra il suono musicale, la forma e il riferimento, secondo una tripartizione problematica che assume rilevanza teorica all’interno dell’impostazione proposta da Ferrara.  Il suono non interviene nel brano musicale come pura materia, ma richiede una messa in forma. In quanto il brano musicale riceve realtà e viene effettivamente eseguito, la sua organizzazione formale assume poi il carattere di un processo temporale che viene colto come tale: e il suono come materia messa in forma (Sound-in-form) e come processo temporale (Sound-in-time)  debbono infine rappresentare i veicoli sui quali si innestano le relazioni di senso (Reference) dell’opera.
Questo è il significato effettivo della formula, forse un po’ provocatoria, di metodo eclettico di cui Ferrara si fa promotore. Si tratta intanto si sdrammatizzare la questione del metodo, e nello stesso tempo di riconoscere che una pluralità di metodi è necessaria proprio per rendere conto della “multi-leveled nature of musical significance”. All’interno di questa pluralità si opera poi una grande distinzione tra metodi “convenzionali” – cioè tra i metodi correntemente  in uso nell’analisi insegnata “a scuola” – e metodi  non convenzionali, con i quali si intendono metodologie ispirate alla filosofia fenomenologica, in un senso ampio del termine, ed all’ermeneutica di ispirazione heideggeriana e gadameriana. È importante sottolineare, proprio per evitare che il punto di vista di Ferrara venga frainteso, che l’espressione “convenzionale” non ha nessun modo un significato peggiorativo, così come, inversamente, l’espressione “non convenzio-nale” non allude ad alcun privilegio e pregio di principio.
Alle spalle di questa distinzione che potrebbe sembrare un po’ sommaria vi è una presa di posizione più complessa: si tratta anzitutto di evitare che il riferimento filosofico alla fenomenologia diventi un pretesto per una critica dei metodi formali nell’analisi musicale che finisce poi con il rivalutare una critica “ad orecchio”  – di carattere fondamentalmente psicologistico e impressionistico. L’accento sulla musica come fatto eminentemente uditivo, quindi sulla musica che ha come suo centro il sound, va certo mantenuto, ma ciò non significa che si debba rinunciare a metodologie che, secondo diverse angolature, agevolano la penetrazione nella “musical form”.   I metodi che Ferrara chiama convenzionali sono diretti proprio alla forma, alla sintassi del brano e possono, ed anzi debbono, essere impiegati a fondo proprio in quanto si tratta  di un livello fondamentale della composizione. Di fatto “music analysis in the twentieth century it is decidedly in favor of limiting its purview to musical syntax” (p. 3) –, ma questa limitazione contiene anche le ragioni per le quali i metodi “convenzionali” debbono entrare a pieno diritto in un percorso analitico ideale, di cui questo volume si propone di mostrare il tracciato. Questo percorso non può tuttavia eludere il problema semantico, ed anzi deve culminare in esso.
Tocchiamo qui un altro dei punti importanti del lavoro di Ferrara. La convinzione che lo guida, convinzione alla quale io credo si debba assentire  in via di principio, è che una analisi è essenzialmente incompleta se non riesce ad aggredire il piano del “riferimento”, perché è proprio su questo piano che si esplica in modo eminente la funzione espressiva della musica. Noi dobbiamo essere in grado di guardare al di là del muro dei suoni da cui un brano musicale sembra essere costituito – e per far questo abbiamo bisogno, non solo di un’adeguata contestualizzazione storica, sulla quale Ferrara richiama più volte l’attenzione, ma in particolare dell’apporto filosofico, abbiamo bisogno della fenomenologia e dell’ermeneutica. La fenomenologia in certo senso apre la strada, mentre è compito dell’ermeneutica il mostrare  la mèta.
Al problema del significato referenziale nella musica è dedicato l’intero capitolo primo della prima parte. Qui come ovunque il volume è caratterizzato dalla cura e dall’ampiezza con cui viene presentata la letteratura critica sugli argomenti di volta in volta discussi, dimostrando una  rara competenza sul duplice fronte filosofico e musicologico, e manifestando la propria utilità anche dal punto di vista di una buona informazione sulla situazione attuale. Sul problema di una fenomenologia applicata alla musica l’autore indugia invece nel capitolo quarto della seconda parte (pp. 143-176), come conclusione di un’ esposizione suddivisa in tre capitoli dedicati, rispettivamente, a Husserl, all’ermeneutica heideggeriana ed alla filosofia dell’arte di Heidegger (Parte II, cap. 3-5, pp. 49-142).
Vi sono varie obiezioni che Ferrara rivolge ad un atteggiamento fenomenologico. Fin dall’introduzione siamo avvertiti che “this book and its proposed eclectic method are not a promotion of the use of phenomenological method in music” (p. XVIII). Anzitutto è discutibile la pretesa canonica con cui si dovrebbe aprire un’ analisi fenomenologica, la famosa assenza di ogni pregiudizio teorico, dal momento che lo stesso impianto fenomenologico potrebbe essere considerato appunto come un pregiudizio teorico. In connessione con ciò vi è poi l’insistenza sull’aspetto descrittivo, sulle descrizioni in contrapposizione alle spiegazioni che impediscono di vedere, a parere dell’autore, che il vero problema sta nel superamento di questa opposizione in direzione della nozione di interpretazione. Irrisolto è anche il contrasto tra oggettivismo e soggettivismo, che rende talvolta puramente preteso il rigore scientifico rivendicato dai fenomenologi. Queste obiezioni sono discusse in un dibattito che coinvolge gli autori più significativi che si sono fatti promotori negli Stati Uniti di una prospettiva fenomenologica, quali Smith, Bartholomew, Broadhead e, in particolare, Clifton  e Lochhead, considerati come gli autori forse più  rappresentativi di questa linea di tendenza.
Questa discussione critica individua in ogni caso un luogo ben determinato per l’esplicazione di un atteggiamento fenomenologico all’interno di un percorso analitico: dopo un’esplorazione della sintassi del brano, cominciano ad affacciarsi i problemi del riferimento, e cominciano ad affacciarsi proprio nel momento in cui ad una visione meramente architettonica  subentra l’ascolto del brano come concreto processo sonoro, articolato in unità temporali, connotate con qualità caratteristiche, alla cui evidenziazione si presta in modo particolare la metolodologia fenomenologica. Come abbiamo già notato, il livello del riferimento può  tuttavia essere acquisito solo a livello ermeneutico: come Husserl deve essere superato in direzione heidegerriana, così l’analisi fenomenologica in campo musicale deve trovare il proprio compimento in un’analisi ermeneutica. Si tratta di una linea di discorso che in realtà Ferrara coltiva dal tempo della sua tesi di dottorato in filosofia  che era appunto dedicata ad una riflessione sul pensiero di Heidegger in rapporto al problema semantico nella musica (L. Ferrara, Referential Meaning in Music: a Conceptual Model based on the Philosophy of Martin Heidegger, New York University, 1978).
La parte terza è infine dedicata ad una indispensabile verifica – compiuta su un brano di Bèla Bartok (Improvvisazione n. 3, op. 20) e su uno  di David Zinn (Spanish Sojourn, Terzo Mov.). Questa esemplificazione occupa quasi la metà dell’intero volume e assolve una funzione importantissima nel mostrare in che modo i materiali e i dibattiti filosofici precedenti possano assumere un peso specificamente musicale. In essa l’autore propone un’ articolazione dell’itinerario analitico in ben dieci passi – ma risulta chiaro dal suo andamento che sarebbe un errore del lettore assumere una simile articolazione in modo pedantesco, come se ogni analisi “eclettica” dovesse esattamente seguire questo schema passo dopo passo. Si tratta invece di una schematizzazione ricercata per uno scopo di chiarezza, che ha anche il merito di  suggerire aspetti e problemi che erano rimasti precedentemente in ombra. Mi sembra interessante intanto la stessa idea che il compito analitico non sia proposto come un compito che deve sfociare in  un’analisi da leggere,  ma di un vero e proprio itinerario che prevede, tra l’altro, esperienze di ascolto del pezzo localizzate in modo da apprezzare l’apporto e l’incidenza delle osservazioni analitiche via via effettuate nella fruizione effettiva del brano. La connessione con la dimensione dell’ascolto inserita nei passi di un itinerario analitico rappresenta naturalmente anche una connessione  con la dimensione dell’esecutore e dell’interprete. In altri termini a me sembra che si debba dare rilievo al fatto che tutto lo sforzo analitico non trapassa puramente sul terreno “conoscitivo”, quasi che il brano musicale rappresentasse un mero “oggetto da conoscere” e le comunicazioni analitiche vertessero su proprietà e caratteristiche prima sconosciute – altra illusione del musicologo-scienziato – ma culmina piuttosto nella proposta di una “performance guide”, di una guida per l’esecuzione, cosicché l’analisi viene situata finalmente al suo giusto posto in un tragitto che va dalla musica alla musica (e non è certo inopportuno  rammentare a questo proposito che Ferrara unisce all’insegnamento universitario un’intensa attività concertistica).
Naturalmente passi essenziali di questo itinerario analitico saranno quelli che abbiamo già rammentato, relativamente al sound in form, al sound in time ed al referencial meaning, che vengono variamente articolati e arricchiti ed illustrati dagli esempi. In questo contesto si dovranno cercare le precisazioni e i chiarimenti che in precedenza erano rimasti in sospeso. In rapporto al modo di intendere il metodo fenomenologico, si precisa ora che si tratterà non solo di individuare le unità temporali, ma anche di ricercare una caratterizzazione di queste unità in rapporto ai momenti della dinamica, del ritmo e del tipo di sonorità. A tale scopo ci si potrà giovare anche dell’impiego di un linguaggio metaforico che sarebbe invece fuori luogo a livello sintattico-formale. A parere di Ferrara si deve porre una distinzione piuttosto netta tra l’elemento grammaticale e il sound-in-time – e in proposito egli nota che che “this is similar to the suggestion by Roman Ingarden that phenomenological literary criticism should include a report of the sounds of the words as such” (p. 182), cosa da cui consegue che l’unico elemento di organizzazione afferrabile fenomenologicamente sarebbe l’elemento temporale. Il problema del referencial meaning, che si fa sentire solo indirettamente sul piano fenomenologico nell’impiego di espressioni con inclinazione metaforica, viene esplicitamente posto nei passi immediatamente successivi: ciò che occorre identificare è “the manner in which the work is expressive of human feelings” (p. 183). A questo scopo si può incominciare dai dati più esterni, dalle verbalizzazioni esplicite contenute nei testi eventualmente annessi (testi veri e propri, ma anche titoli, indicazioni esecutive, ecc.) che naturalmente andranno letti con tutte le cautele critiche e commisurati ai risultati analitici già raggiunti, fino a tratteggiare ciò che l’autore chiama “the onto-historical world of the composer” così come esso si manifesta nel brano musicale. A questo punto ci troviamo naturalmente in ambito “ermeneutico”. Così nel brano di Bartók si ritiene di poter cogliere il motivo di una presenza che accenna a smarrirsi di fronte alla possibilità della caduta, di un cedimento possibile di fronte alla calma della morte, un sentimento che attraversa, nel corso del brano, una coloritura variegata e inquieta, i cui mutamenti vengono perseguiti battuta per battuta.
È appena il caso di dire – per avviarci ad una conclusione con qualche riflessione nostra – che proprio a questi esiti sul terreno della semantica musicale si potrebbero appuntare le critiche, seguendo i luoghi comuni ben noti di un atteggiamento formalistico. Io penso invece che sarebbe tempo di riflettere sull’autentica portata di questi luoghi comuni, senza perdersi di fronte agli aspetti più ovvi e superficiali. Una volta che si sia ammesso che un formalismo stretto e rigoroso è insostenibile, sia dalla parte dell’azione creativa, sia dalla parte dell’ascolto – cosa che a me sembra debba essere ammessa –  allora sia benvenuta ogni ricerca che accetti l’indubbio rischio che è presente nel tentativo di intraprendere il cammino in direzione di una analisi semantica.
Intanto si deve prendere atto del fatto che che ogni affermazione intorno al “riferimento” non può pretendere ad una prova (ed è inutile perciò avanzarne, come obiezione, la pretesa).  Essa può tuttavia contare – questo è un punto di grande importanza – sul contesto analitico globale in cui è inserita, contesto da cui non è assolutamente possibile prescindere. Questa circostanza stabilisce intanto un’invalicabile differenza rispetto alle analisi psicologizzanti ed alla buona che hanno così pesantemente screditato lo stesso problema semantico. Le indicazioni di ordine semantico vengono dopo che il pezzo è stato sviscerato in tutte le sue articolazioni formali così come in tutte le sue caratteristiche di processo sonoro. Queste indicazioni potrebbero poi sembrare troppo precise, troppo esatte – vi è anche questo rischio:  che è poi il rischio di un simbolismo punto contro punto. Si potrebbe anche notare che, in una simile analisi, da un lato il brano viene aperto nel suo senso preteso, dall’altro esso viene altrettanto ermeticamente rinchiuso in questo senso, esattamente come un codice che è stato decifrato una volta per tutte. Si tratta di osservazioni   che debbono essere tenute nel debito  conto. A questo proposito assume tuttavia un particolare peso, anche sotto questo riguardo, la considerazione che abbiamo svolto in precedenza sull’idea di un itinerario analitico che situa  l’analisi vera e propria  strettamente all’interno di un tragitto che conduce “dalla musica alla musica”. Di conseguenza anche l’esito “ermeneutico” non va a sua volta inteso come un dire ciò che la musica mostra – come una discutibile “decodificazione”; ma come un  complesso di considerazioni  che si debbono risolvere a loro volta in suggerimenti e suggestioni in vista di un’esecuzione: l’interpretazione analitica diventa interpretazione musicale, cosicché tutto viene nuovamente riaffidato alla fluidità dell’espressione musicale. Comunque possano essere giudicate  le proposte avanzate a livello semantico, è certo che l’esecuzione subisce una modificazione proprio secondo la direzione suggerita da quelle proposte.  
Ma vi sono naturalmente anche molti altri motivi di discussione. In particolare vorrei soffermarmi sul nodo fenomenologia-ermeneutica, che fa parte dell’impianto teorico-filosofico del volume. In tutto ciò che si dice sul rapporto tra musica e fenomenologia si risente, come è ovvio,  l’angolatura in cui questo problema è stato rilevato in ambiente statunitense – nel quale peraltro si è avvertita la possibilità di un incontro assai prima che altrove. Schematizzando molto si può dire che dalla fenomenologia (e da una fenomenologia nella quale erano già fortemente presenti motivi merleau-pontiani e heideggeriani) sono stati tratti 1. motivi di carattere del tutto generale concernenti l’orientamento di principio della ricerca, e soprattutto motivi polemici in funzione “anti-scientista” 2. motivi più specifici che consentono un più diretto approccio ai problemi dell’analisi, se non a configurarsi come un  insieme di strumenti analitici veri e propri. La posizione che Ferrara assume rispetto ad entrambe queste direzioni è molto equilibrata: credo anche che si possa assentire alle osservazioni critiche che egli svolge, a cui abbiamo in precedenza accennato. Ciò che invece manca interamente è l’idea di una funzione importante che un’ impostazione fenomenologica può assolvere in direzione di una vera e propria teoria della musica, e quindi in direzione di una ricerca rivolta ai concetti costitutivi fondamentali che vengono in questione in ogni riflessione sui fatti della musica in genere. Noto di passaggio che, assumendo questa angolatura, non sembra abbia molto senso delimitare gli interessi fenomenologici all’aspetto puramente temporale,  dal momento che nel “fenomeno” suono non incontriamo solo momenti puramente temporali, ma siamo alla presenza di una pienezza percettiva che richiede di essere considerata nella totalità delle sue qualità e delle relazioni fenomenologiche che esse fondano.
È importante poi sottolineare che di questa pienezza fanno parte anche componenti  di ordine immaginativo. Questa è una circostanza che deve essere portata a chiarezza teorica proprio in funzione di un approccio che ha particolarmente a cuore un intervento sui livelli del senso. Una fenomenologia dell’immaginazione che sappia precisarsi sul terreno della produttività musicale rappresenta a questo proposito una premessa indispensabile.
Con ciò mi sembra che si dia anche una risposta almeno indiretta alla questione “ermeneutica”. Si tratta di una questione strettamente connessa alla precedente. Una certa prospettiva interpretativa in rapporto alla fenomenologia comporta anche una presa di posizione implicita o esplicita sul rapporto con Heidegger. Dal punto di vista a cui ora ho accennato di Heidegger non si sente un gran bisogno proprio per il fatto che, se da Heidegger si possono trarre diverse suggestioni in rapporto agli “states of being”, come Lawrence Ferrara mostra molto bene, ben poche indicazioni invece si possono trarre sul problema di una teoria della musica. Nemmeno la sua filosofia dell’arte sembra favorire una simile direzione, accentrata come essa è, in modo del tutto  tradizionale, intorno alle arti della parola e così appesantita dall’idea  dell’espressione artistica come espressione eminentemente metafisica. Io credo che far troppo conto su Heidegger possa introdurre nell’analisi una componente intellettualistica, dal momento che l’apparato concettuale che ci viene messo a disposizione potrebbe essere inteso come un repertorio di categorie già pronte a cui attingere in caso di necessità.  È indubbiamente un’altro dei numerosi meriti di questo lavoro di Lawrence Ferrara il fare un impiego molto sorvegliato della concettualità heideggeriana, di cui si attenuano le pesantezze metafisiche portando  piuttosto l’accento sull’inclinazione ermeneutica. Le nostre ultime osservazioni non fanno altro che mostrare la possibilità di diverse angolature e suggerire ulteriori motivi di riflessione, confermando conclusivamente i pregi del volume di Lawrence Ferrara, che io spero di essere riuscito ad illustrare.

Giovanni  Piana