Dei rapporti tra fenomenologia e psicologia della forma mi sono occupato nel corso 1978-79 sul tema «Problemi di fenomenologia della percezione» e nel corso del 1988 sul tema «Introduzione alla fenomenologia» - Insegnamento di Filosofia Teoretica, Università degli Studi di Milano. Il presente testo è tratto dalle lezioni del 1988.
Fenomenologia e psicologia della forma (234.46 kB) (pp. 58)
Indice
3. La problematica dell'unificazione e le leggi della forma. - Contiguità e somiglianza.
1. Il punto di vista atomistico-associazionistico. - La sensazione pura e l’esperienza passata secondo questo indirizzo.
Ciò che va sotto il titolo di Psicologia della forma o psicologia della Gestalt (Gestaltpsychologie) è una corrente di grandissimo rilievo nella psicologia del novecento i cui inizi possono essere fatti risalire al primo decennio del secolo. I primi lavori importanti e nettamente orientati della «scuola di Berlino» (Wertheimer, Köhler, Koffka) sono datati tra il 1910 e il 1913. Le date debbono essere spostate all’ultimo ventennio del secolo XIX per ciò che concerne i primi inizi, le anticipazioni, le considerazioni che preparano i punti di vista di questa corrente psicologica. Questi primissimi inizi sono caratterizzate da un intreccio tra problematiche filosofiche e psicologiche: in particolare, in una storia che mostri l’origine dei problemi della psicologia della forma, non potrebbe essere certo trascurata la posizione di Brentano, Stumpf, Meinong, von Ehrenfels, Husserl, Mach e di molti altri nomi autorevoli che sono legati tra loro sul piano culturale da precisi e documentabili nessi.
Questi nomi mostrano in particolare che vi è una rete di interrelazioni teoriche assai complessa che riguarda le origini della fenomenologia e in generale di un atteggiamento fenomenologico in senso lato e le origini della psicologia della forma. Questa problematica si estende in seguito anche al di fuori del campo della psicologia in senso stretto. Nel campo filosofico, va rammentata almeno l’attenzione che Ernst Cassirer dedica a questa corrente psicologica; e la determinante presenza della psicologia della forma nel pensiero di Merleau-Ponty. Ma l’influenza della psicologia della Gestalt non si limita alla filosofia, coinvolgendo anche altri campi, soprattutto la teoria dell’arte e della critica d’arte (basti pensare a Rudolf Arnheim), ed anzi influenzando talvolta direttamente la stessa produzione artistica, in particolare pittorica. La psicologia della forma è perciò uno dei grandi punti di incontro della cultura del secolo XX.
In questa nostra discussione ci limiteremo a considerare i rapporti tra fenomenologia e psicologia della forma, avendo di mira le tematiche specifiche che riguardano una filosofia dell’esperienza. Nel loro sviluppo avremo modo di puntare l’attenzione soprattutto sulla distinzione tra fenomenologia filosofica e fenomenologia psicologica, cioè tra una nozione di fenomenologia che si separa in via di principio da una problematica di ordine psicologico e una nozione di fenomenologia integrata invece in un programma psicologico. Oltre a questo aspetto metodico, cercheremo di mostrare come le concezioni della psicologia della forma si incontrino per aspetti particolarmente significativi soprattutto il rapporto la problema delle sintesi percettive, così come viene proposto dalla fenomenologia.
Nell’intento di mettere in luce anzitutto gli aspetti comuni, va attirata l’attenzione in primo luogo sulla critica all’indirizzo psicologico associazionistico a cui la psicologia della forma si contrappone e dunque, sotto il profilo filosofico, alle ascendenze di questo indirizzo nell’empirismo classico, e in particolare nella posizione di Hume, il cui «atomismo psicologico» viene respinto da entrambi gli indirizzi.
La parola «atomo» evoca subito l’idea di una concezione della realtà i cui costituenti ultimi sarebbero delle particelle indivisibili che si aggregano fra loro formando le cose così come ci appaiono e i cui movimenti renderebbero conto dell’accadere degli eventi. Nell’atomismo antico queste particelle venivano considerate come veri e propri corpuscoli materiali reciprocamente indipendenti, privi di relazioni interne tra loro, cosicché la loro aggregazione deve essere concepita come un’aggregazione estrinseca, sia che si supponga che derivi da incontri casuali oppure che sia governata da leggi ben determinate.
Questa concezione filosofico-speculativa, tende a diventare, all’inizio della scienza moderna, qualcosa di molto simile ad un’ipotesi esplicativa di carattere generale per i fatti studiati dalla scienza della natura. Il tema dell’atomismo concerne dunque anzitutto una teoria della materia e quindi della realtà fisica. Nello stesso tempo, l’atomismo assume il carattere di un modello da applicare anche in altri campi, ed in particolare nel campo della fisiologia e della psicologia. Più precisamente: ciò che assume carattere di modello è l’idea che sia sempre possibile risolvere una situazione complessa in elementi semplici, una funzione complessa in funzioni elementari e l’idea conseguente che la funzione o la situazione complessa in genere derivi da una aggregazione «sommativa» (come anche talvolta ci si esprime) degli elementi o delle funzioni elementari considerate come reciprocamente indipendenti l’una dall’altra. Considerando il lato psicologico, ciò significa ad esempio, che una percezione tattile complessiva, ad esempio, la sensazione che io ricevo afferrando un bicchiere con una mano, sarà il risultato della somma delle stimolazioni singole ricevute dai singoli punti sensibili della mia mano. Vi è così la molteplicità degli elementi sensitivi della mia mano che, in quanto eccitati simultaneamente da stimoli puntuali, dànno luogo all’impressione tattile globale.
Formulata in questo modo una posizione come questa sembra avere numerosi motivi di plausibilità. In base ad essa, anche le sensazioni relative a campi sensoriali differenti saranno intese come reciprocamente indipendenti, anche se naturalmente esse potranno aggregarsi tra loro, ad esempio una sensazione visiva con una sensazione tattile, secondo il modello «sommativo» che caratterizza le sensazioni elementari. Anzi è necessario che ciò accada perché in generale quando parliamo di oggetti percepiti si intendono delle unità che rimandano ad organi di senso differenti. Nello spirito dell’impostazione associazionistico-atomistica la nozione della cosa andrà in effetti intesa come un aggregato di sensazioni: una mela, ad esempio, sarà considerata come un puro aggregato sommativo di sensazioni tattili, cromatiche, visive in genere, gustative ed olfattive.
Ponendo le cose in questo modo lo schema interpretativo di Hume si impone in modo del tutto ovvio. Se la cosa non è altro che un complesso di sensazioni, essa può apparire tale solo attraverso un processo di consolidamento e di stabilizzazione: solo nella misura in cui quel complesso di sensazioni si ripresenta più e più volte mantenendo proprio quelle determinazioni sensoriali caratteristiche e quei legami tra esse, cosicché una determinata sensazione tattile e visiva di rotondità viene costantemente associata ad una determinata sensazione gustativa ed olfattiva, le sensazioni che hanno un intrinseco carattere di fluidità possono apparire solidamente inerenti ad una cosa a titolo di sue proprietà. Risulta allora inevitabile il richiamo all’esperienza come formatrice di «abitualità» che interessano la stessa forma del mondo che ci appare. Se nella mia testa vi è l’idea di una mela, in base alla quale sono in grado di riconoscere come tale un complesso sensoriale che ora mi si presenta dinanzi, ciò dipende dalla frequenza con cui ho sperimentato la coesistenza di determinate qualità - una coesistenza che peraltro è del tutto accidentale all’inizio e tale resta nell’iterazione dell’esperienza. Accade soltanto che questa accidentalità si conferma e si stabilizza nell’iterazione - cosicché se io ora io vedo una mela mi aspetto fondatamente che essa abbia un determinato sapore. Ciò vale in generale per qualunque unità esperita.
Con questo schema interpretativo, si impone anche uno dei problemi fondamentali che conseguono ad esso: il problema, cioè, di districare all’interno della percezione ciò che è dovuto alla sensazione in quanto tale, nella sua attualità, e ciò che è invece dovuto ad un’acquisizione associativa che rimanda all’esperienza passata. Questo problema è solo genericamente presente in Hume, nel concetto stesso di impressione, mentre nella psicologia atomistico-associazionistica esso assume un senso piuttosto preciso, che è per noi particolarmente interessante in quanto ci presenta in modo concreto la sostanza della polemica che viene sviluppata nei confronti di questa direzione di ricerca da parte degli psicologi della forma.
Per indicare il contenuto sensoriale come tale, indipendente da interpretazioni che implicano l’esperienza passata, vogliamo parlare di «sensazione pura» [1]. È interessante notare che, benché questa nozione, nell’interpretazione data dalla psicologia associazionistica venga respinta sia dalla psicologia della forma che dalla filosofia fenomenologica, per rendere conto di essa e renderla immediatamente comprensibile è utile far riferimento ad uno dei padri lontani del pensiero fenomenologico, e precisamente agli esempi che Lambert, nel suo Nuovo Organo, citava per illustrare la nozione di parvenza come nozione di base della sua «fenomenologia»: «Non è necessario in questa sede - egli scrive - addurre molti casi per mostrare la distinzione tra la parvenza e la vera natura delle cose visibili, in quanto esse sono un oggetto della vista. Infatti ognuno sa che cose identiche sembrano ad una maggiore distanza più piccole, più confuse e più sfocate; che esse appaiono diversamente considerate da altri punti di vista; che il loro colore cambia con il cambiare della luce che le colpisce; che le spiagge sembrano allontanarsi, avvicinarsi e, in genere, muoversi agli occhi dei naviganti; che un cerchio considerato di sghembo potrebbe sembrare oblungo e viceversa, un’ovale oblunga, considerata da certi lati, potrebbe sembrare rotonda, ecc.» [2].
Tenendo conto di questi esempi non è difficile illustrare la nozione di «sensazione pura» e naturalmente anche, da subito i problemi e le difficoltà che essa solleva - oltre che i modi diversi di interpretarla.
Prendiamo in considerazione il caso della percezione della profondità dello spazio, quindi di una persona vista prima a distanza, e poi più da vicino. Secondo l’impostazione che abbiamo precedentemente delineata, una simile percezione verrà considerata come un risultato di due momenti. Un momento è attinente alla sensazione pura: esso riguarda proprio la piccolezza della persona vista a distanza. Se prescindessimo dall’esperienza passata e dagli insegnamenti che da essa abbiamo potuto trarre e che pesano sulla sensazione attuale, certamente valuteremmo piccola la persona dal momento che essa ci si presenta effettivamente piccola. Ma questa valutazione non entra affatto nel risultato percettivo complessivo proprio perché nel corso dell’esperienza passata si è costituita un’idea delle dimensione dei corpi, della loro grandezza e del loro volume: in particolare, sempre in base all’esperienza passata, sappiamo che la grandezza non muta con il movimento del corpo nello spazio. Se potessimo ipotizzare una situazione di esperienza temporalmente primitiva, in cui questa idea non ha ancora potuto prendere forma, allora dovremmo attenerci ai dati puramente sensoriali e valuteremmo la variazione di grandezza di una persona che si avvicina come un’effettiva variazione di grandezza. Poiché invece l’esperienza passata ci ha fornito i suoi insegnamenti, essi agiscono all’interno della percezione nel suo complesso: la sensazione pura come tale viene corretta e reinterpretata. Si noti come ciò richieda che nel processo percettivo si verifichi qualcosa di simile ad un’argomentazione, o più genericamente ad un’attività giudicativa, che tuttavia non è consapevolmente effettuata dal soggetto percettivo, ma che interviene direttamente a determinare il risultato percettivo. Questo problema delle attività giudicative inconscie si ripresenta in realtà di continuo non solo in questi dibattiti psicologici relativamente lontani, ma anche negli sviluppi dell’empirismo filosofico novecentesco, ad esempio nell’ambito della filosofia dell’esperienza di un Bertrand Russell.
Consideriamo l’esempio del mutamento di forma o di colore. L’impianto della questione è naturalmente analogo. Guardando di sbieco un oggetto di forma sferica, esso mi appare di forma ovale: e questo sarà inteso come un dato della sensazione pura che verrà in qualche modo sottoposto ad una correzione dovuta ad un «sapere» accumulato nell’esperienza passata. Il giudizio inconscio che si inserisce nella percezione potrebbe essere fondato sulla convinzione che gli oggetti non mutano di forma con il mutare di punto di vista o, ancora più semplicemente, potrebbe poggiare sul fatto che io so che quell’oggetto è effettivamente di forma sferica, cosicché il dato sensoriale viene in certo senso soppresso dalle conoscenze in precedenza acquisite. Cosicché noi continueremo ad affermare, contro ciò che viene attestato dalla sensazione pura ed addirittura alla sua presenza, di vedere un oggetto di forma sferica.
Va da sé che, stando a questa impostazione, lo psicologo associazionista era particolarmente interessato a mettere in evidenza il divario esistente tra sensazione pura e interpretazione ricorrendo anche a svariati esperimenti. Ecco un esempio, riguardante la variazione cromatica, illustrativamente molto efficace.
Sia a nostra disposizione un cartoncino [3] che osserviamo alla luce di una finestra: esso ci appare bianco. Osserviamolo poi in un angolo relativamente buio della stanza. Esso ci appare ancora bianco. Lo psicologo che sta conducendo l’esperimento e ci fornisce le istruzioni necessarie, ci prega ora di guardare il cartoncino nell’angolo buio della stanza, ma questa volta attraverso un altro cartoncino nel quale è stato praticato un piccolo foro. Ora il cartoncino che prima avevamo giudicato bianco ci appare invece nettamente grigio e di ciò diamo comunicazione allo psicologo. L’esperimento può naturalmente essere compiuto in prima persona dallo psicologo stesso. Esso sembra adattarsi a meraviglia per mostrare il divario tra sensazione pura e sensazione interpretata attraverso giudizi inconsci derivanti dall’esperienza passata. Il cartoncino con il foro rappresenta il mezzo che ci ha consentito di effettuare materialmente questo divaricazione, mettendoci per così dire faccia a faccia con la sensazione pura.
2. La critica ghestaltistica dell’idea di sensazione pura. - L’esigenza di una corretta descrizione fenomenologica del dato percettivo da parte della psicologia della forma come compito preliminare. - Importanza del contesto - La distinzione tra fenomenologia pura e fenomenologia empirica.
L’affermazione «esistono sensazioni pure» può essere assunta come un’affermazione che sintetizza il punto di vista centrale della psicologia atomistico-associazionistica, naturalmente tenendo conto sia del modo in cui questa nozione viene introdotta sia del quadro esplicativo entro cui l’intera tematica deve essere comunque racchiusa. Da un lato l’esistenza di sensazioni pure sembra indispensabile per mostrare il peso dell’esperienza passata, e quindi dei meccanismi associativi, dall’altro essa prepara il terreno alle spiegazioni che debbono ricondurre dal piano propriamente psicologico a quello fisiologico.
Abbiamo notato in precedenza che l’atomismo psicologico sembrava stabilire una via d’accesso anzitutto a spiegazioni da ricercare nei meccanismi fisiologici soggiacenti, proprio in quanto si tendeva ad assumere una concezione «sommativa» in rapporto alle funzioni fisiologiche complesse, interpretate come una somma di funzioni singole reciprocamente indipendenti.
Questa concezione rappresenta il terreno primario di attacco della psicologia della forma. La critica avviene anzitutto sul piano delle spiegazioni fisiologiche e del modo di correlare fatti psicologici e fisiologici. Del resto è il caso di richiamare fin d’ora l’attenzione, proprio all’interno di una discussione che ha come tema il confronto tra un atteggiamento fenomenologico filosoficamente elaborato e la psicologia della forma, che quest’ultima resta e intende restare strettamente all’interno della problematica della psicologia come scienza empirico-sperimentale, e in questo ambito il problema delle relazioni tra piano psicologico e piano fisiologico è un problema della massima importanza e del massimo interesse scientifico. Ciò che viene messo in discussione è il modo in cui l’associazionismo istituisce questa correlazione, ed in particolare l’assunto che l’organismo debba essere concepito come una sorta di meccanismo il cui movimento complessivo è determinato da una somma di movimenti di parti considerate come tra loro indipendenti. A questa concezione si contrappone l’idea dell’organismo come una totalità di parti che si trovano in un rapporto di influenza reciproca, che sono perciò interdipendenti e che interagiscono attivamente tra loro.
Del resto il termine di organismo, il parlare in genere di organicità allude spesso proprio ad un modo di essere delle parti nel tutto interamente diverso dal modo di essere degli elementi all’interno di un ingranaggio. Dal punto di vista filosofico questa distinzione è stata particolarmente elaborata da Kant nella sua Critica del giudizio: ciò merita di essere rammentato dal momento che spesso si parla in rapporto alla psicologia della forma di una sorta di kantismo trasferito dal piano filosofico a quello psicologico. Io credo che una simile affermazione sia troppo forte, ma non c’è dubbio che il richiamo a Kant abbia una sua validità almeno in rapporto al problema del rapporto dell’intero e della parte, problema che può indubbiamente essere utilizzato come una sorta di fondamentale filo conduttore all’interno di un’esposizione introduttiva ai punti di vista della psicologia della forma.
Alla luce di questa nozione di totalità costituita di parti tra loro interagenti, e quindi di una totalità che supera la semplice somma delle parti, come anche si dice, muta naturalmente anche il modo di prospettare i problemi della percezione. Anch’essi infatti dovranno essere presi in considerazione tenendo conto del fatto che le formazioni percettive sono a loro volta «interi organici». Ciò implica una critica serrata dei due punti essenziali dell’impostazione psicologica associazionistica: l’idea di atomi sensoriali ovvero di sensazioni riconducibili a stimoli semplici e l’idea della «sensazione pura».
Uno stimolo semplice - ad esempio derivante da una fonte puntiforme - induce comunque una modificazione nel campo percettivo che deve essere intesa come una modificazione di tipo globale. Esso deve essere in ogni caso considerato all’interno di un contesto relazionale più o meno complesso. Il rifiuto dell’idea di sensazione pura, così come è interpretata nel contesto teorico della psicologia associazionistica, consegue direttamente dall’insistenza posta necessità di un esame contestuale che sappia situare la parte nella totalità a cui appartiene.
L’esemplificazione del cartoncino bianco che ci è parsa in precedenza particolarmente efficace per mettere in evidenza la nozione di sensazione pura si presta anche per illustrare la critica di essa. Questo esperimento viene interpretato dallo psicologo associazionista come se esso ci ci consentisse di cogliere la sensazione pura - sensazione che verrebbe in certo modo corretta in forza di cognizioni implicite derivate dall’esperienza passata.
Su questa interpretazione lo psicologo della forma ha qualcosa di molto serio da obbiettare. Egli farà notare in primo luogo la radicale variazione del contesto complessivo nel quale avviene l’osservazione nell’uno e nell’altro caso. Nel caso dell’osservazione del cartoncino nei due punti della stanza il campo visivo abbraccia naturalmente non soltanto il cartoncino ma la stanza intera; con le sue diverse zone di luminosità, con le sue dimensioni determinate ecc. Nel secondo caso invece - nel caso dell’osservazione attraverso il foro - il cartoncino come tale, ad esempio con i suoi bordi, con la sua forma, ecc. non viene più nemmeno visto dal momento che attraverso i1 foro possiamo cogliere solo una sua piccola porzione. A maggior ragione non appartiene al campo visivo la stanza e le cose cose che si trovano in essa. Questa variazione di contesto è il punto essenziale: secondo lo psicologo della forma ci dovremmo limitare a prendere atto del fatto che ora, attraverso il foro, il cartoncino mi appare grigio mentre in precedenza mi appariva bianco, e ciò proprio in dipendenza della variazione di contesto determinata dalla percezione attraverso un foro. Stando all’interpretazione precedente invece noi non ci limitiamo a tener conto del contenuto osservativo come tale, dal momento che assumiamo senz’altro che anche prima, quando osservavamo il cartoncino senza ricorrere all’artificio dell’osservazione attraverso il foro, il cartoncino non poteva che apparirci grigio, perchè questo era il contenuto della sensazione pura, solo che su questo contenuto sarebbe intervenuta una correzione.
Nella prospettiva metodologica dello psicologo della forma dunque l’esperimento non illustra per nulla la nozione di sensazione pura: questa nozione viene anzi apertamente contestata come una pura astrazione non meno di quella di sensazione elementare.
Nello stesso tempo appare chiaro come l’intera situazione sia gravemente fraintesa sullo stesso piano descrittivo. Si è infatti costretti ad ammettere, dal punto di vista interpretativo, che prima vedevo quello che in realtà non vedevo affatto, chiamando in causa dei «giudizi inconsci» in cui evidentemente non posso trovare alcuna traccia o indizio autentico nella situazione descrittiva: questi giudizi inconsci (ad esempio, la costanza del colore in qualunque luogo della stanza) sono niente altro che postulazioni conseguenti di quella impostazione pregiudiziale.
La teoria della sensazione pura, e così anche il modo in cui viene intesa l’azione dell’esperienza passata è appunto soltanto una teoria, e precisamente una teoria che anticipa indebitamente delle interpretazioni su determinati fatti descrittivamente accertabili, proponendoli in modo fuorviante e aperto ad un completo fraintendimento. Se invece guardiamo al campo dell’esperienza senza pregiudizi teorici, dobbiamo anzitutto prendere atto del fatto che ogni singolarità che si offre in questo campo si determina in ciò che essa è in forza della totalità in cui essa è inserita. Ciò significa che siamo sempre alla presenza di totalità organizzate e che compito primario dello psicologo è quello di individuare quei fattori di organizzazione che determinano la forma della totalità (la Gestalt di essa) e dunque anche i modi in cui in base a questa forma appaiono le parti di cui la totalità stessa è composta.
Il primo passo compiuto in positivo è dunque la rivendicazione della necessità di una corretta descrizione fenomenologica del dato percettivo: il termine stesso di fenomenologia o di livello fenomenologico dell’indagine viene spesso usato dallo psicologo della forma. Così Metzger sottolinea che «non ha senso e porta inevitabilmente ad errori fare ipotesi e ricerche intorno alle cause ed agli effetti del dato immediato senza preliminarmente conoscerlo bene» e che una «fenomenologia della percezione» appartiene interamente alla psicologia [4] . Questo termine ha naturalmente un senso filosoficamente non troppo impegnativo e viene normalmente impiegato con il senso elementare di descrizione non prevenuta da teorie pregiudiziali. Katz parla in proposito di «descrizione semplice di dati di fatto non turbata da presupposti di sorta»; di «descrizione candida» e di «valutazione priva di preconcetti» [5]. Nei suoi Principi di Psicologia, Koffka si esprime così: «La buona descrizione di un fenomeno può da sola escludere parecchie teorie e indicare le precise caratteristiche che debbono comparire nella teoria corretta. Chiamiamo ’fenomenologia’ quest’ultimo tipo di osservazione; il termine ha vari altri significati, da non confondersi con il nostro: per noi fenomenologia significa una descrizione dell’esperienza diretta il più possibile completa e non prevenuta» [6].
L’idea di fenomenologia che viene qui teorizzata è quella di un livello descrittivo interno della ricerca psicologica che prepara il terreno alle spiegazioni psicologiche vere e proprie, spiegazioni che non potranno certo trascurare la formulazione di ipotesi sul terreno delle funzioni fisiologiche - una problematica a cui, come abbiamo già osservato, gli psicologi della forma dànno la massima importanza.
A questo proposito è ormai tempo di dare corpo alla distinzione tra una nozione di fenomenologia integrata in interessi psicologici ed una nozione di fenomenologia invece tutta intrecciata in un tessuto filosofico. È un fatto che dopo le inclinazioni psicologizzanti del suo primo periodo di sviluppo del suo pensiero, Husserl ha poi posto particolarmente l’accento su una via di accesso puramente filosofica alla sua fenomenologia, prima nel nome di Cartesio e poi in quello di Kant, approfondendo le distanze rispetto alla psicologia. Egli parla infatti di fenomenologia pura in contrapposizione ad una nozione di fenomenologia teorizzata all’interno di un programma psicologico, e che potremmo invece contrassegnare come fenomenologia empirica.
Per fissare le idee, credo che si possa dire di essere in presenza di un problema di fenomenologia empirica quando sono soddisfatte almeno due condizioni: la prima riguarda ciò che si vuole sapere. La questione proposta deve infatti riguardare unicamente la superficie dell’esperienza, il modo di apparire delle cose. La seconda condizione è che la risposta possa essere cercata soltanto nell’osservazione diretta senza escludere naturalmente l’apprestamento di appropriate situazioni sperimentali. Il senso in cui si parla di esperimento e di situazione sperimentale è tuttavia in questo caso piuttosto particolare. Poiché si tratta di accertare come vengono percepiti determinati oggetti o relazioni tra oggetti, eventi, movimenti ecc., è appunto indispensabile il riferimento ad osservatori e il risultato dell’esperimento non potrà che avvalersi delle comunicazioni verbali che gli osservatori interpellati produrranno come descrizioni di ciò che essi hanno colto nella situazione percettiva proposta; va da sé che lo psicologo stesso che organizza la sperimentazione potrà a sua volta disporsi in quella determinata situazione sperimentale e registrare con parole proprie il risultato della sua osservazione. Si comprende allora come simili sperimentazioni possano essere considerate come fondate, come talvolta si dice, sull’osservazione introspettiva o sull’introspezione - ma si comprende anche come questa formulazione possa prestarsi ad equivoci o a interpretazioni differenti. Sia che si tratti di una osservazione in prima persona o per persona interposta, si fa pur sempre riferimento ad una esperienza direttamente vissuta di una situazione percettiva. Per questo in realtà la caratteristica essenziale di questo modo di intendere lo sperimentare è proprio il fatto che esso possa essere compiuto in prima persona. Nello stesso tempo l’espressione di «introspezione» con il suo riferimento ad un «guardar dentro», e quindi ad un essere rivolto verso l’interno sembra richiamarsi ad un «guardare dentro di me per accertare che cosa accade quando...» che inclina una direzione piuttosto differente dalla precedente che sembra mettere in questione un’osservazione diretta sulla cosa piuttosto che su me stesso che osservo la cosa. Si tratta di due sensi differenti, che andrebbero tenuti distinti, e sarebbe certamente opportuno riservare la parola «introspezione» alla seconda accezione piuttosto che alla prima.
Vorrei citare almeno un esempio di un problema fenomenologico che va classificato come un problema di fenomenologia empirica.
Nella nostra vita di ogni giorno siamo colpiti da una enorme quantità di stimoli di diversa natura. Anche se consideriamo il senso della vista soltanto ci troviamo normalmente alla presenza di stimoli differenziati, chiaramente distinti che ci dànno informazioni di varia natura (forma, spessore, volume, colori, caratteri di opacità e di trasparenza ecc.). Potremmo dunque affermare che di norma siamo sotto l’azione di una stimolazione percettiva discontinua, ovvero molteplice e differenziata. Supponiamo ora di porci il problema di che cosa accade sul piano percettivo qualora la stimolazione percettiva sia perfettamente omogenea. Una risposta a questa domanda non può affatto essere ovvia - non sembra siamo in grado nemmeno di prevederla, dato il carattere a dir poco inconsueto della situazione proposta. L’unico modo di ottenere una risposta consisterà nel produrre «in laboratorio» una situazione che sia il più possibile prossima a quella indicata - situazione che sarà soddisfatta, come osserva Koffka, «da qualsiasi superficie posta di fronte all’osservatore, purchè tutti i punti di essa inviino la stessa quantità di luce ai suoi occhi» [7]. Si tratta di una situazione tutt’altro che facile da ottenere, e non basterà certo per produrla disporsi di fronte ad una parete bianca: in tal caso vi saranno certamente delle discontinuità sulla parete, la linea del pavimento e del soffitto, ecc. Ammettiamo comunque di essere riusciti a realizzare una situazione sperimentale soddisfacente da questo punto di vista e di essere dunque in grado di affrontare in modo adeguato la questione. Si noti che essa è in via di principio di natura descrittiva, dal momento che riguarda il modo di manifestarsi delle cose; e la sua soluzione può essere ricercata unicamente attraverso l’osservazione mia o di altri posti all’interno di quella situazione. Si sta dunque compiendo un esperimento, ma in un senso un poco particolare, dal momento che esso non deve verificare alcuna teoria, non deve confermare nessuna ipotesi, e nemmeno in realtà, considerato di per se stesso, aprire lo spazio a qualche ipotesi - che dovranno invece essere formulate se si passa al piano esplicativo.
Il risultato dell’esperimento insegna che l’osservatore in simili condizioni non vedrà affatto una superficie piatta ed a una certa distanza ma «si sentirà immerso in una bruma di luce che diventa più densa ad una distanza indefinita» [8]. Si crea cioè quello che viene chiamata effetto nebbia - dove lo stessa parete non viene percepita come un piano ma «come una coppa cava che circonda da tutte le parti l’osservatore» [9]; «In una situazione come questa si realizza intorno all’osservatore un’atmosfera nebbiosa, ugualmente estesa nello spazio davanti agli occhi come nello spazio fenomenicamente presente al di là dei confini ai quali arriva lo sguardo, omogenea e in parte penetrabile con la vista come può esserlo, ad es., il fumo denso o l’acqua torbida. Questa atmosfera costituisce un ambiente indifferenziato, nel quale l’osservatore si avverte situato; la nebbia arriva fino in prossimità degli occhi, e costituisce una unità tridimensionale inconfondibile con l’osservatore stesso, dato che c’è una ben chiara differenza tra il luogo dove egli sente di avere gli occhi e il luogo dove comincia ad esserci la nebbia» [10].
È del tutto chiaro che alla domanda proposta si deve rispondere con una descrizione della situazione percettiva e che nello stesso tempo la risposta dovrà essere cercata nell’esperienza concretamente vissuta da un osservatore e verbalmente descritta nel modo che egli ritiene più adeguato. Si tratta dunque di una questione fenomenologica che ha carattere empirico. Si noti di passaggio come un venatura di introspezione nel secondo senso del termine si affacci nella descrizione quando si parla del luogo l’osservatore «sente di avere gli occhi».
Le cose stanno in modo profondamente differente se ad esempio ci venisse proposta la seguente figura:
fig. A
e ci venisse richiesto perché essa viene vista come una cosa unitaria, e precisamente come un rettangolo tagliato da una linea - e non come due figure accostate l’una all’altra:
fig. B
Per rispondere a questa domanda, forse ci sembrerà che non si tratterà tanto di fare esperimenti, quanto piuttosto di cercare dei chiarimenti sulla base della struttura della configurazione. Si noti tra l’altro che, nella stessa posizione del problema, si dà per evidente che la figura A si presenti, di primo acchito, proprio come un rettangolo tagliato da una linea. Ciò non significa, tra l’altro, che escludiamo per ciò stesso che qualcuno possa sostenere di vederla in modo differente: semplicemente ora non siamo interessati ad un simile caso. Del resto noi stessi, dopo l’esibizione della figura B, potremmo vederla proprio in conformità a ciò che essa suggerisce. Nel proporre la figura B infatti abbiamo variato il contesto globale dell’osservazione della stessa figura A, e su di questa ormai la figura B proietta la sua ombra. Ed è proprio così che potrebbe cominciare un’analisi puramente fenomenologica...
3. La problematica dell’unificazione e le leggi della forma. - Contiguità e somiglianza.
Fin qui ci siamo occupati prevalentemente di problemi di carattere metodologico. Ora invece la nostra discussione procede entrando nel vivo di una delle problematiche centrali che la psicologia della forma ha affrontato. Si tratta della problematica dell’unificazione percettiva. Il fatto che si parli di unificazione non implica peraltro l’idea che vi sia uno strato di esperienza costituito da dati dispersi da unificare - ciò sarebbe contrario al punto di vista generale che è qui dominante. Si tratta invece di mettere a fuoco il problema della formazione di unità all’interno di un campo percettivo globale - ciò significa che all’interno di questo campo certi complessi di dati si distinguono e prendono rilievo da altri, assumendo un carattere unitario. La tematica che indichiamo sotto il titolo di unificazione percettiva comprende quindi anche tutti i problemi attinenti alla separazione ed alla segregazione percettiva - l’unificare è, sul piano percettivo, anche un distinguere, la tematica dell’unificazione è nello stesso tempo anche una tematica della differenziazione.
Vorrei premettere lo schema dello sviluppo che intendo seguire in questa discussione. In primo luogo si tratterà di spiegare che cosa si intende all’interno della psicologia della forma con tematica dell’unificazione, e già in questa spiegazione si confermerà il nostro interesse di fenomenologi verso questo problema: per certi versi potremo stabilire un legame diretto e immediato in particolare con la tematica fenomenologica delle sintesi percettive. Inoltre seguendo questa via ci imbatteremo subito nelle considdette leggi della forma: anzi, l’orientamento della tematica dell’unificazione può essere illustrato in breve ed efficacemente proprio soffermandoci sul contenuto di queste leggi.
Dopo di ciò, cercheremo di chiarire in che senso si parli di leggi e la discussione tenderà allora ad assumere un andamento di riflessione critica che chiamerà in causa la distinzione tra fenomenologia empirica e fenomenologia pura: cosicché al termine tenderemo a prendere le distanze da certe tendenze interpretative presenti nella psicologia della forma, pur dopo aver segnalato i punti di intersezione più interessanti.
In che cosa consiste anzitutto il problema dell’unificazione percettiva? Vogliamo dare a questa domanda una risposta attraverso un esempio. Di fronte a noi ci sia un mazzo di fiori in un vaso. La questione dell’unificazione e quello strettamente connesso della separazione può essere concretamente formulata in rapporto ad un un simile esempio in questo modo: come mai vedo proprio una simile configurazione complessa, che è in se stessa unitaria, ma che è anche composta di unità che mi appaiono in ogni caso ben distinte tra loro? Il vaso con la sua forma e il suo colore si presenta chiaramente distinto dal mazzo di fiori che contiene, e nello stesso tempo il mazzo è, a sua volta, una unità a se stante, articolata nei fiori che lo compongono. Di questi naturalmente io vedo unicamente la parte che si trova all’esterno del vaso, ma va da sé che, nel senso della percezione, sono anche in qualche modo presenti i gambi dei fiori che sono dentro il vaso. Se ci guardiamo intorno, ovunque potremo trovare esempi altrettanto pertinenti per i quali si potranno porre interrogativi analoghi che riguardano l’unificazione e le separazione dei contenuti percettivi.
Questi interrogativi sono indubbiamente interrogativi che riguardano il piano fenomenologico. Nella «riduzione fenomenologica» non accade che scompaiano le unità oggettive e il campo percettivo ci si presenti come un caos di impressioni nel senso humeano del termine; accade piuttosto che queste unità si presentino come problemi.
Naturalmente saremmo tentati di rispondere: vediamo il mazzo di fiori come qualcosa di differente dal vaso per il semplice fatto che l’una cosa non è l’altra, così come vediamo i fiori tra loro come unità a se stanti perché essi sono effettivamente distinti: se non vi sono circostanze che ci inducono in errore, non facciamo altro che vedere unità e differenze che stanno anzitutto nelle cose. Perché mai dovremmo vedere qualcosa di diverso da fiori infilati a mazzo in un vaso se proprio così stanno le cose?
Se rispondessimo in questo modo, il problema proposto verrebbe rifiutato come problema. In questo rifiuto, vedremmo certo affiorare quello che Husserl chiamava «atteggiamento naturale». Anzitutto ci sono le cose, con le loro unità e differenze effettive: poi vi è la nostra percezione di esse, più o meno adeguata, più o meno corrispondente all’essere delle cose. Assumendo condizioni normali della percezione, la cosa nelle sue proprietà oggettive, e quindi nella sua unità e nelle sue differenze, si rispecchierà semplicemente nella coscienza. Dal punto di vista dell’atteggiamento naturale la domanda che abbiamo prima formulata può dunque non porsi nemmeno o apparire alquanto singolare.
Dopo la riduzione fenomenologica, invece, l’atteggiamento muta e il dire che essa ci porta alla presenza di un campo fenomenologico significa esattamente che ora è possibile porrre proprio quel problema dell’unificazione che in precedenza non era affatto un problema essendo tutto risolto nell’essere stesso delle cose.
Naturalmente nella psicologia della forma non si parla di riduzione fenomenologica e nemmeno di atteggiamento naturale - ma si farà notare che la questione proposta non riguarda in nessun modo l’essere delle cose, il fatto obbiettivo che fiori e vaso sono entità separate. Essa riguarda invece la percezione di questi oggetti, dunque del loro apparire come entità separate. La tesi implicita, che, pur non essendo particolarmente elaborata sul piano filosofico, tuttavia deve qui essere presupposta con estrema chiarezza, è che questo problema dell’apparire non può essere risolto con un rimando all’essere. Ed al contrario dobbiamo rendere conto dell’essere a partire dall’apparire, a partire dall’ambito delle parvenze fenomenologiche. Per quanto questa frase possa sembrare arrischiata, tuttavia essa è da intendere non già come se enunciasse una tesi di filosofia generale, ma come se essa non fosse altro che la tesi di apertura di una problematica analitica ben determinata.
La questione dell’unificazione viene affrontata dallo psicologo della forma non tanto con riferimento ad oggetti che hanno una particolare complessità percettiva, ma a figure relativamente semplici ed anche semplicissime, come linee e complessi di linee, figure geometriche elementari, o anche semplicemente punti e configurazioni di punti.
Un mazzo di fiori in un vaso, anzi un semplice vaso, è in effetti una cosa particolarmente complessa - non tanto naturalmente per le sue proprietà di oggetto - ma come configurazione percettiva: intanto è una cosa materiale, tridimensionale, ha determinate caratteristiche di forma e di colore, ha certe proprietà tattili, inoltre naturalmente ha un "senso" pratico che viene coimplicato nella percezione della cosa. Facendo invece riferimento a semplici strutture grafiche operiamo una semplificazione del problema che è utile alla sua chiarezza, e soprattutto possiamo isolare meglio i vari fattori, come il colore dalla forma, scegliendo una volta configurazioni colorate, un’altra casi in cui il colore non assolve alcuna funzione, in modo da considerare separatamente la loro azione all’interno della funzione unificante, aumentando la complessità di grado in grado e quindi riuscendo meglio a dominare ed a controllare la problematica intera.
È interessante poi notare che il problema potrebbe essere proposto senza aver di mira cose reali. Attraverso disegni è possibile raffigurare cose - ad esempio ci potremmo proporre di disegnare un vaso. E potrebbe darsi che noi, disegnatori inesperti, se ci accingessimo ad una simile impresa, non trovassimo affatto facile realizzare un disegno come questo. Potremmo trovare difficoltà a dare la profondità necessaria per raffigurare la tridimensionalità della cosa, ecc. In realtà proprio in queste difficoltà si rispecchia in qualche modo proprio il problema di cui ci stiamo occupando, anche se non si tratta esattamente lo stesso problema. Io non so che cosa si debba fare affinché nella raffigurazione appaia una unità complessa ed articolata, non so in che modo posso far apparire il vaso ad una certa distanza dalla parete della stanza, con la sua tridimensionalità, ecc. - in certo senso ignoro le condizioni percettive che farebbero apparire un risultato piuttosto che un altro. Formulata in questo modo è subito chiaro che la questione non riguarda differenze nell’ordine dell’essere, cosicché l’esistenza della cosa è indifferente e può essere messa tra parentesi. Tutto il problema riguarda solo la parvenza. Così volendo chiarire in quali condizioni parleremmo di un movimento di una pallina da biliardo che provoca, attraverso un urto, il movimento di un’altra pallina, non avremmo bisogno né di un biliardo né di palline reali - qualcosa di simile ad un cartone animato, di cui si possano controllare le parvenze di movimento, è sufficiente allo scopo. Nella sperimentazione dello psicologo della forma la riduzione fenomenologica, se non viene teorizzata, viene tuttavia concretamente realizzata come uno specifico e produttivo metodo di indagine.
Vi sono così diversi motivi per la scelta di trattare il problema dell’unificazione attraverso forme particolarmente elementari, non oggetti veri e propri (cose), ma figure, dal momento in generale ogni unificazione o segregazione seguirà regole che sono già rilevabili in rapporto linee, punti, forme geometriche semplici.
Ad esempio, la domanda può essere formulata così: come mai vediamo una certa linea come separata da un’altra oppure, inversamente, come il suo proseguimento? Come mai di fronte a due punti saremmo tentati talvolta di parlare di una coppia di punti richiamandoci così ad una formazione unitaria che essi formerebbero, mentre in altri casi i punti ci appaiono come completamente separati e in rapporto ad essi non parleremmo affatto di una coppia?
Nel caso della psicologia associazionistica il problema dell’unità verrebbe certamente affrontato mettendo in questione nessi associativi derivanti dall’esperienza passata - ed eventualmente adattamenti operati sulle sensazioni da giudizi inconsci costruiti nel passare dell’esperienza.
La tesi generale che ora si fa avanti potrebbe invece essere formulata così: data una qualunque percezione di unità vi sono condizioni dell’unità stessa che giacciono all’interno della situazione percettiva. Queste condizioni le chiamiamo leggi della forma o leggi della Gestalt.
Il termine Gestalt rimanda al verbo gestalten che significa strutturare, organizzare, plasmare, dare un’articolazione. Gestalt potrebbe dunque essere considerato come un altro termine per indicare la struttura. Nell’uso di questa parola è implicata l’idea che ogni situazione percettiva sia una situazione strutturata, che l’operazione del gestalten sia già da sempre in opera nello stesso atto del percepire. Ciò significa, in particolare, che non dobbiamo pensare ad un livello percettivo privo di forme, che viene poi messo in forma come il marmo ad opera dello scultore. Questa analogia può essere fuorviante proprio per questo motivo: non appena abbiamo a che fare con una situazione percettiva, non appena si attivano le operazioni percettive, si attivano anche le operazioni strutturanti. Come abbiamo detto or ora, il percepire stesso è un gestalten - ed esso, così forse ci potremmo esprimere, obbedisce a determinate leggi.
Si parla così di leggi della forma.
Come prima e seconda legge indicheremo la legge della contiguità e la legge della somiglianza. Naturalmente il parlare di prima e di seconda legge ha il solo significato di indicare l’ordine secondo il quale abbiamo deciso di presentarle nella nostra esposizione.
La legge della contiguità potrebbe essere formulata così: «A parità di altre circostanze, formeranno un’unità i dati percettivi tra loro più vicini». La formula «A parità di altre circostanze» intende escludere la presenza di fattori unificanti più forti, e naturalmente si tratta di una formulazione che si può ripetere in rapporto a tutte le leggi che stiamo considerando.
Di questa prima legge diamo una illustrazione esemplificativa estremamente semplice ricorrendo ad una figurazione con linee verticali:
Noi diremo che la Gestalt è qui costituita da due coppie di linee cioè da due formazioni unitarie (a,b) e (c,d) e che ciò avviene in forza della legge della contiguità: ciò significa che se a si unifica con b piuttosto che con c, ciò dipende dal fatto che a è più vicino a b, di quanto sia vicino a c.
La seconda legge, la legge della somiglianza, potrà avere una formulazione perfettamente equivalente: «A parità di altre circostanze, formeranno un’unità i dati percettivi tra loro più simili».
L’esemplificazione illustrativa può essere altrettanto elementare:
In questa figura tutti i punti sono egualmente vicini tra loro, ma nessuno di questi emerge come coppia; accade piuttosto che i punti neri da un lato e i punti bianchi dall’altro formeranno configurazioni unitarie in forza della loro somiglianza. Si noterà inoltre che l’unità formata dai tre punti neri assume maggiore rilievo, ci appare maggiormente in primo piano, rispetto all’unità formata dai tre punti bianchi per ragioni che certo non hanno bisogno di essere spiegate.
Naturalmente contiguità e somiglianza possono agire insieme rafforzando o attenuando l’effetto unificante, o rendendolo anche dubbio.
Nell’esempio che segue
i due cerchi potrebbero essere percepiti come una coppia unitaria, ma l’effetto di unificazione è indebolito dalla vicinanza del quadrilatero al cerchio più in basso con il quale tende ad «accoppiarsi». L’effetto risulterebbe nuovamente rafforzato per somiglianza se i due cerchi fossero entrambi colorati in rosso. È chiaro che si possono immaginare vari tipi di casi intermedi che stabiliscono delle tensioni interne alle figure.
Parlando di somiglianza e contiguità potrebbe sembrare che si ritorni alle vecchie leggi dell’associazione. Il nome è lo stesso - e del resto anche il termine di unificazione può essere considerato come una variante di associazione e di sintesi. Non è dall’aspetto terminologico come tale che dobbiamo attingere effettive differenze. Potremmo anche affermare che si tratta proprio di quelle vecchie leggi, ma riconsiderate da un punto di vista interamente nuovo. La novità sta essenzialmente in due circostanze.
In primo luogo esse non sono considerate come leggi che regolano contenuti mentali, non sono perciò leggi dell’associazione delle idee, ma sono direttamente riferite alle configurazioni presenti nel campo percettivo e riguardano le formazioni unitarie che possono essere colte in esso.
In secondo luogo, nelle spiegazioni associazionistiche queste leggi potevano svolgere la loro funzione solo attraverso la ripetizione dell’esperienza, quindi insieme ad esse doveva essere imprescindibilmente presa in considerazione una componente temporale, più precisamente una componente che rinvia all’esperienza passata. Ora invece possiamo dire che la loro azione si dispiega tutta nell’attualità, al presente - queste regole bastano a se stessse e non hanno bisogno di alcun supporto nell’esperienza passata. Ciò stabilisce una differenza molto netta che ha ben poco a che vedere con l’aspetto terminologico. Nulla impedisce che si parli di associazione anche in rapporto alle leggi della forma - se non ragioni ovvie di ordine storico che servono anche ad evitare inutili equivoci: ciò che importa è in ogni caso il senso attribuito a questo termine.
4. Legge della forma chiusa - Legge di buona continuazione - La possibilità di interpretare le leggi della forma come formulazioni di condizioni intrinseche delle formazioni unitarie - Stretta relazione tra tematica fenomenologica delle sintesi percettive e tematica delle leggi della forma così intese.
A titolo di terza legge, potremmo parlare di legge della forma chiusa. L’espressione «forma chiusa» deve essere intesa secondo un senso molto naturale, che è del resto chiaramente illustrato dalle figure seguenti:
Una possibile formulazione della legge della forma chiusa potrebbe essere: «A parità di altre circostanze, formeranno una unità gli elementi del campo percettivo che realizzano una forma chiusa». Ecco un esempio che sembra illustrare efficacemente l’azione della legge:
Mentre nella prima figura abbiamo due coppie di segmenti (a,b) e (c,d), nella seconda figura b e c fanno parte di una configurazione unitaria in quanto contribuiscono a realizzare una forma chiusa: essi vengono ora intesi come parti del rettangolo. L’importanza della forma chiusa è del resto subito illustrata dal fatto che in un campo percettivo una forma chiusa tende a prendere rilievo di oggettività vera e propria, anche quando appare costituita di parti chiaramente distinte (come del resto nel caso di questo esempio).
Come quarta legge vogliamo nominare la cosiddetta legge della buona continuazione. La formulazione della legge sarà: «A parità di altre circostanze, formeranno una unità gli elementi del campo percettivo che sono l’uno la buona continuazione dell’altro».
La nozione di buona continuazione può essere illustrata dalla seguente configurazione percettiva:
Di fronte a questa configurazione, ciò è quanto potremmo osservare, si unificheranno 1,2 e 3,4 piuttosto che 1,4 o 1,3, ed in ciò potremmo vedere l’azione della legge di buona continuazione.
Tutti i nostri esempi mostrano con particolare chiarezza che la strutturazione del campo percettivo va considerato come un risultato delle relazioni in gioco. Tutta l’indagine condotta dalla psicologia della forma rappresenta in certo senso una enorme documentazione dell’importanza del contesto per la determinazione del senso di una configurazione percettiva. Il «senso» muta al variare del contesto e secondo le condizioni di unificazione che sono chiamate in causa.
Consideriamo la configurazione del nostro primo esempio:
Sappiamo già in che modo essa sarà intesa per ciò che concerne le formazioni unitarie. Arricchiamo ora la configurazione nel modo seguente:
Dovremo ora prendere nota che con questa modificazione, e precisamente con l’introduzione dei segmenti e, f, g muta il senso della configurazione complessiva. E precisamente: i segmenti e, f, g non verranno percepiti come segmenti separati e che non hanno a che vedere gli uni con gli altri, ma come un’unica linea. Ciò è dovuto (come ora vogliamo esprimerci) alla legge della buona continuazione. Di conseguenza i segmenti verticali muteranno senso, e tenderanno ad essere colti come delimitanti una superficie, quindi come strisce dietro le quali passa la linea. La situazione o meglio il suo «senso» verrebbe ulteriormente rafforzato se si facesse intervenire la legge della forma chiusa con dei segmenti orizzontali che sovrapporti a quelli verticali formano due rettangoli:
Si noti come questo caso illustra molto bene anche la circostanza secondo la quale viene colta una configurazione globale, della quale possono far parte anche elementi che non sono attualmente visti, ma che vengono posti a partire dagli elementi che cadono effettivamente sotto gli occhi. Lo stesso esempio illustra altrettanto bene l’idea dell’esistenza di attese percettive suggerite direttamente dalla Gestalt, cioè dalla strutturazione del campo percettivo attuale - e che non sono affatto fondate nell’esperienza passata. Infatti, se ora di fronte ai nostri occhi vi fosse realmente una configurazione percettiva di questo genere, se vi fossero, ad esempio, due strisce di cartone tra i quali vediamo cordicelle in quella disposizione, indubbiamente ci attenderemmo che, sollevando le strisce di cartone, ci appaia una cordicella intera. Una simile attesa è del tutto giustificata e non è evidentemente fondata in qualche esperienza passata che riguarda il comportamento normale delle strisce di cartone o delle cordicelle, ma fa tutt’uno con il «senso» della configurazione percettiva nel suo complesso.
È chiaro peraltro che nella formazione dei sensi inerenti a ciò che viene visto potranno contribuire contenuti che appartengono all’esperienza passata - questo non è affatto escluso dallo psicologo della forma, come del resto è ovvio. Qualunque configurazione percettiva attuale si può arricchire, per me, di sensi che si ritrovano nelle mie esperienze passate. Inoltre si può prevedere che leggi come quelle che abbiamo or ora formulato abbiano una loro applicazione non soltanto in rapporto alla situazione percettiva attualmente data, ma anche per illustrare la struttura dei rapporti presente-passato.
Le indicazioni che abbiamo fornito intorno alle leggi della forma, per quanto ridotte al minimo, sono in realtà sufficienti non soltanto per lumeggiare questa nozione e per delineare in che cosa consista la tematica dell’unificazione, ma anche per mostrare in che senso questa tematica sia particolarmente interessante da un punto di vista puramente fenomenologico. Da questo punto di vista si tenderà infatti a intendere i problemi sollevati dalla discussione intorno alle leggi della forma alla luce della nozione fenomenologica di sintesi e di tendenza sintetica che possono essere sviluppate seguendo una via del tutto indipendente e sulla base di motivazioni puramente filosofiche. A questo contesto appartiene anche la problematica di una tipologia fenomenologica delle unificazioni percettive che viene indubbiamente aperta dalla discussione sulle leggi della forma. Si potrebbe anzi affermare che i temi e gli esempi presenti in grande ricchezza nella problematica ghestaltistica dell’unificazione potrebbero essere ripresi e coordinati direttamante alla problematica fenomenologico-filosofica delle sintesi percettive, ed assolverebbero anche la funzione di dare concretezza ad essa. Particolarmente importante è anche il fatto che, almeno stando a quanto ci sembra fin qui di capire, si parli di condizioni intrinseche ai dati stessi, e non invece di proiezioni che hanno origine nella soggettività. Questo punto è importante perché stabilisce una netta differenza rispetto alla posizione kantiana. Questa differenza potrebbe essere caratterizzata, per quanto concerne questo problema, facendo notare anche che la tematica delle sintesi si pone ora sul piano della sensibilità e non unicamente su quello di una elaborazione intellettuale. In Kant inoltre l’attività sintetica è concepita in modo che difficilmente può specificarsi in rapporto agli autentici contenuti dell’esperienza percettiva ed alla loro varietà. In effetti occorre mostrare che vi sono molteplici modalità di unificazione, e questa molteplicità non è affatto presente nella problematica kantiana, mentre comincia ad essere indagata proprio nell’enunciazione delle leggi delle forma.
Se consideriamo le cose da questo punto di vista, avendo di mira l’accentuazione di una relazione tra psicologia della forma e fenomenologia filosofica, dovremo allora porre in rilievo anche la distanza tra la psicologia della forma e la posizione di Kant, almeno per questo modo di concepire i processi unificanti dell’esperienza. Non mancano del resto, all’interno della psicologia della forma, prese di posizioni che si trovano nella direzione interpretativa qui proposta. Ad esempio Metzger, a cui dobbiamo una vasta sintesi dei risultati della psicologia della forma, sottolinea esplicitamente che «le qualità intrinseche ai dati stessi determinano la formazione di unità più ampie, la loro delimitazione, la loro articolazione e il loro raggruppamento" [11] . E si cita esplicitamente, per contrasto, la posizione di Kant in quanto affida ogni sintesi all’attività dell’osservatore, senza peraltro riuscire a specificare questa attività in rapporto ai contenuti autentici dell’esperienza percettiva. Così Metzger osserva che la formula kantiana dell’io penso riguarda qualsiasi formazione di unità e non è possibile pertanto stabilire in base ad essa che cosa in determinate condizioni viene unificato e che cosa resta diviso». Non meno significativa è l’osservazione secondo cui per ciò che riguarda le unificazioni propriamente percettive, Kant non va oltre Hume, abbandonando l’intera questione ad un punto di vista sostanzialmente empiristico [12] .
Tuttavia resta il dubbio che la nostra esposizione sia stata fin qui influenzata più dall’intento di segnalare le affinità problematiche, che da quello di mostrare le differenze. La diversità dell’orizzonte in cui si muovono psicologia della forma e fenomenologia filosofica presumibilmente non può non avere un’incidenza anche sul modo di intendere le problematiche specifiche.
5. Dubbi e perplessità sull’impiego della parola «legge». - Difficoltà di intendere le leggi della forma come leggi empiriche. - Le leggi della forma interpretate come tendenze psicologiche.
Intanto è opportuno ritornare sulla questione metodologica. Noi abbiamo parlato senz’altro di leggi della forma e non ci siamo soffermati nemmeno un istante sull’impiego di una parola tanto impegnativa: legge. L’impiego di questa parola in rapporto alla problematica che abbiamo illustrata è in realtà piuttosto imbarazzante. Anche le nostre formulazioni, apparentemente ovvie, potrebbero suscitare dubbi e perplessità di vario genere. Che cosa in esse viene propriamente espresso? Hanno esse la forma di previsioni, esse dicono forse come verrà necessariamente percepita una certa configurazione percettiva? Che cosa significa il verbo al futuro che abbiamo così spesso impiegato «A parità di altre circostanze formeranno una unità...» - oppure formule come «far intervenire la tal legge», «in forza della legge...» ed altre analoghe? Non dobbiamo forse ritenere significativo il fatto che, a ben pensarci, questa parola potrebbe essere sostituita, come del resto accade non di rado anche nei testi di psicologia della forma, da parole meno impegnative come «regola», «fattore», «condizione»? Sorge persino il dubbio che si possa sostenere (certamente in questa direzione propenderebbe chi volesse accentuare la componente puramente fenomenologica di una simile indagine) che queste pretese «leggi» altro non sono che strumenti ausiliari per descrizioni possibili.
Mentre in precedenza era per noi importante fornire una prima idea della problematica soggiacente, fornendo alcune semplici formulazioni accompagnate da esempi e da qualche parola di commento, ora è tempo di mettere a fuoco le perplessità a cui dànno voce queste nostre ultime domande.
Vi è poi un altro aspetto, in realtà collegato con l’impiego del termine «legge», che può suscitare dubbi proprio in rapporto ad una lettura delle leggi della forma che riconduca senz’altro la problematica che esse propongono a quella propriamente fenomenologica delle sintesi percettive e delle tendenze e controtendenze sintetiche. Infatti, rammentando la distinzione tra fenomenologia pura e fenomenologia empirica, dobbiamo anche sottolineare che lo psicologo della forma, anche quando parla di questioni che si situano indiscutibilmente anche per lui su un terreno fenomenologico, tuttavia sarà pronto a ribadire che si tratta in ogni caso di un terreno empirico, che si tratta di fenomenologia empirica.
La possibilità di una fenomenologia pura è semplicemente ignota allo psicologo della forma, quando non è apertamente contestata. Se dal nostro punto di vista è determinante il riconoscimento di un livello puramente fenomenologico, vi deve essere certo una linea di demarcazione - per quanto possa essere sottile e possa, secondo i vari autori, essere variamente sfumata - che separa fenomenologia e psicologia delal forma. Questa linea di demarcazione può essere resa più marcata proprio attraverso una riflessione sull’impiego della parola «legge».
Stando su un terreno puramente fenomenologico, il senso di questa parola deve essere considerato come risolto nella descrizione stessa della struttura della configurazione percettiva, e come un modo di raccogliere sotto un unico tipo esempi che si presentano come descrittivamente simili: si tratta dunque, in ogni caso, di qualcosa di interamente diverso dall’idea di legge empirica ed empiricamente fondata, e naturalmente anche qualcosa di diverso dalle leggi di cui possiamo parlare nella logica o nella matematica in genere. Come abbiamo già notato, qualora si temesse che dall’uso di un termine tanto impegnativo possano derivare equivoci, non avremmo alcuna difficoltà ad eliminarlo per sostituirlo con altri che rendono tra l’altro più efficacemente il senso di queste formulazioni: in fin dei conti ciò che deve essere rivendicato è unicamente la presenza di nessi strutturali fondati nelle parvenze fenomenologiche.
Ma ora dobbiamo prendere atto di questo: se cerchiamo una risposta alla domanda intorno allo statuto metodologico di queste leggi nei lavori degli psicologi della forma, questa risposta sarà rivolta in una direzione assai diversa. Lo psicologo della forma pone l’accento sul carattere empirico della propria ricerca, anche quando il suo tema è il campo fenomenologico, cosicché anche in rapporto alle leggi della forma egli tenderà a sostenere che esse sono leggi in senso proprio, e precisamente leggi empiriche. Quando la questione non viene esposta esplicitamente, ciò accade per il fatto che una simile assunzione è data per ovvia. Del resto, quale altra alternativa vi è all’empiria della scienza, se non l’apriorismo dei filosofi? Ed è del tutto sicuro che lo psicologo della forma non perderà troppo tempo a porsi il problema di questo apriorismo.
Cerchiamo allora di afferrare con chiarezza che cosa significhi proporre queste leggi come leggi empiriche vere e proprie. Una legge empirica è, detto in breve, una proposizione ipotetica ampiamente confermata dai fatti - pertanto essa potrà anche essere impiegata per effettuare previsioni che avranno un grado più o meno alto di probabilità di verificarsi. Ciò significa che si assume che nella maggior parte dei casi accadrà esattamente ciò che è formulato dalla legge, ma anche che essa non perde di validità se venisse contraddetta da qualche dato di fatto. Ma quali sono i dati di fatto a cui dovremmo appellarci nel caso delle cosiddette leggi della forma? Non sembra che si possa rispondere altrimenti se non richiamandoci ad esperimenti nel senso di cui abbiamo precedentemente già discorso: sottoponiamo una configurazione percettiva ad un certo numero di osservatori e li andiamo interrogando sui modi in cui essi la percepiscono - ottenendone dei resoconti verbali. Eventualmente elaboreremo statisticamente i dati ottenuti, ecc.
Ora, se riportiamo queste considerazioni sulla tematica delle leggi della forma così come sono state discusse ed esemplificate in precedenza, e soprattutto senza temere l’apriorismo dei filosofi, avvertiamo subito che vi è qualcosa che non va.
Cominciamo intanto con il rammentare la «legge» di contiguità. In effetti noi abbiamo dato di essa la forma di una previsione: abbiamo detto che «formeranno una unità i dati percettivi tra loro più vicini». Ma è il caso di chiedersi: siamo qui alla presenza di una effettiva previsione che rimanda alla natura dalla proposizione come legge «empirica» oppure si tratta di una previsione apparente che non rimanda ad una legge empirica, ma piuttosto qualcosa che solo impropriamente può essere caratterizzato come legge? Io propenderei proprio per rispondere affermativamente a questa seconda parte della domanda. Questa propensione può trovare una giustificazione se ripensiamo al nostro solito esempio:
Il fatto che, in una configurazione come questa, si propongano come coppie (a,b) e (c,d), e non (b,c) è fenomenologicamente evidente e l’ eventuale generalizzazione che potremmo trarre di qui secondo cui quanto più due oggetti si approssimano l’uno all’altro tanto più ci appariranno accoppiati tra loro sembra avere un carattere in qualche modo «tautologico» - quasi come se accoppiamento e approssimazione volessero dire all’incirca la stessa cosa. In ogni caso: possiamo forse anche soltanto immaginare che avvenga l’inverso - che tanto più due elementi del campo percettivo si allontanano tra loro tanto più ci appariranno tra loro accoppiati? È proprio il caso di affermare che qui ci troviamo nell’ambito del problema filosofico delle «condizioni di un’esperienza possibile».
A conferma di ciò si presti attenzione a questo punto: difficilmente saremo indotti a cercare dati di fatto di sostegno al fine di fornire una verifica empirica a quella formulazione. In tal caso dovremmo organizzare esperimenti per conferire validità a questa legge che consisteranno nel mostrare configurazioni del tipo di quelle proposte nel nostro esempio ponendo agli osservatori l’interrogativo relativo alla formazione di coppie.
La verità invece è questa: di fronte ad affermazioni come quella della legge di contiguità sembra addirittura strano (e profondamente sbagliato) che possa essere sollevato il problema di una prova. Esse non hanno affatto bisogno di essere provate, anzi il tentativo della prova corrisponde ad un effettivo fraintendimento del loro senso e della loro portata. Poiché non formulano ipotesi, non ha senso il tentativo di verificarle.
Supponiamo tuttavia di essere così convinti del carattere empirico della ricerca nel suo complesso e così ostili all’apriorismo filosofico e in particolare all’idea di affermazioni che non hanno affatto bisogno di essere provate da non avvertire affatto queste difficoltà. La conseguenza di ciò sarà allora quella di attenuare fortemente l’accento, che ci era sembrato in precedenza particolarmente significativo, posto sull’esistenza di condizioni intrinseche ai dati stessi, per spostare l’attenzione proprio sulla polarità soggettiva. Il fattore di unificazione non sarebbe allora un fattore rilevabile all’interno del dato percepito, ma il risultato di una tendenza psicologica, di una propensione psicologica, ad esempio, a vedere unitariamente cose tra loro più vicine piuttosto che cose tra loro più lontane, oppure cose tra loro simili, piuttosto che dissimili, e così ogni legge della forma precedentemente formulata.
Ora, l’esistenza di una tendenza psicologica ha effettivamente bisogno di essere provata e il fatto che vi sia una certa propensione piuttosto che un’altra è una circostanza di ordine empirico e non ha alcuna necessità intrinseca. Ciò significa che è in linea di principio possibile una propensione psicologica interamente diversa, ad esempio la propensione a vedere unitariamente cose tra loro più lontane piuttosto che più vicine: questa singolare affermazione è una conseguenza pura e semplice dell’impostazione del problema in termini di tendenze e propensioni psicologiche. Cosicché possiamo dire che la legge di contiguità può essere giustificata proprio attraverso osservazioni - attraverso sperimentazioni che possiamo compiere noi stessi o attraverso le comunicazioni di altri.
Così potremmo provare - come suggerisce Katz - ad accoppiare piuttosto che due elementi vicini, due elementi che sono invece lontani ed allora, avverte ancora Katz, si riuscirà a farlo "soltanto superando una marcata resistenza soggettiva" [13] .
Questa frase è assai sintomatica. Ecco una sorta di dato di fatto, una rilevazione introspettiva (proprio nella seconda accezione del termine) che potrebbe essere portata a sostegno della legge. L’esistenza di questa tendenza psicologica, in rapporto alla quale potremmo anche non saperne nulla, sarebbe attestata dal fatto che se proviamo ad unificare in altro modo, anzi secondo una regola opposta, sentiamo una marcata resistenza soggettiva - come se una voce interna protestasse, come se udissimo un ammonimento interiore: non fare questo!
Questo modo di impostare l’intero problema mi sembra profondamente insoddisfacente. Ad esso si sarebbe tentati di obbiettare che nella problematica delle leggi della forma vi è un aspetto - estremamente rilevante - che non riguarda per nulla un piano di fenomenologia empirica, che non chiama per nulla in causa l’introspezione, ma che è strettamente attinente al campo puramente fenomenologico. Si tratta di un aspetto che riguarda le funzioni di esperienza nella loro generalità, che mette in questione non già l’esperienza nella determinatezza dei modi del suo esplicarsi, ma l’esperienza stessa nel suo concetto. Del resto, si sarà notato che ciascuna delle leggi dell’unificazione enuncia una circostanza di fronte alla quale sarebbe lecito il commento: è logico che sia così!
Si pensi, oltre che alla somiglianza e alla contiguità in rapporto alle quali una simile considerazione si impone con particolare immediatezza, anche alla forma chiusa. Non è forse logico che in un campo percettivo ciò che ha carattere di forma chiusa assuma un particolare rilievo e si imponga come unità rispetto a puri e semplici configurazioni lineari disparate? Se tuttavia l’espressione «questo è logico» venisse intesa come se rimandasse ad una funzione intellettuale, essa dovrebbe certamente essere evitata. Si tratta piuttosto di una necessità interna ai rapporti fenomenologici, una necessità che noi afferriamo appunto in tutta evidenza.
Vorrei sottolineare l’impiego della parola «evidenza» in casi come questi:
A B
Se passiamo dalla figurazione A alla figurazione B, potremmo dire: è evidente che ora il segmento b non è più unificato al segmento a, bensì appartiene alla configurazione unitaria costituita dalla figura rettangolare. In nessun caso avremmo bisogno di ritenere che il termine di evidenza rimandi ad una sensazione interiore che ci approva se operiamo questa unificazione e ci ammonirebbe qualora tentassimo invece ancora di mantenere la coppia a,b. Il parlare di evidenza indica qui semplicemente il fatto che l’articolazione del campo percettivo è tale da manifestare questa connessione piuttosto che quell’altra. E che dire se qualcuno ci dicesse: dell’evidenza non ti devi affatto fidare! Forse il segmento b è ancora connesso con il segmento a, esattamente come prima. Osservazioni come queste sono assurdità fenomenologiche. E abbandoneremmo il nostro obiettore al suo destino.
Vogliamo raccogliere queste ultime nostre idee con alcune osservazioni sulla legge della buona continuazione.
Si riprenda ancora l’esempio:
La linea 2 viene unificate con 1 perché è la sua «buona continuazione». Prima ci siamo limitati a esporre la questione in questi termini, ma ora che guardiamo queste formulazioni con maggior senso critico non possiamo certo evitare di porci la domanda: perché si parla qui di continuazione buona - che senso ha questo aggettivo? Perché non parlare soltanto di continuazione? Si tratta di un piccolo dettaglio, apparentemente insignificante, eppure a partire di qui si possono estrarre tutti i problemi e le difficoltà che abbiamo enunciato in precedenza. Dal nostro punto di vista non vi sarebbe affatto una buona e una cattiva continuazione, ma semplicemente una continuazione oppure una deviazione improvvisa. Il fatto che un elemento del campo percettivo possa assumere il senso di continuazione o di deviazione dipende appunto dal campo percettivo complessivo, dipende dal contesto in cui quell’elemento è disposto - ciò del resto è quanto afferma di continuo la psicologia della forma, adducendo un ricchissimo materiale esemplificativo.
Tuttavia l’idea che in ultima analisi la questione riconduca a tendenze e disposizioni di ordine psicologico e che le leggi formulino circostanze che hanno a che fare non già con la struttura del campo percettivo come tale ma con queste tendenze e disposizioni psicologiche affiora di continuo.
Le leggi della forma sono dunque leggi in senso improprio. Quando parliamo di leggi o regole indichiamo certe tipicità strutturali e per illustrarle forniamo esempi. Ciò che importa è rendere conto dell’esempio, mostrando i momenti di connessione che sono in essi operanti.
Annotazione
A proposito dell’espressione «condizioni di una esperienza possibile» è notevole quanto scrive P. Bozzi: «La presenza di qualcosa che possieda la caratteristica fenomenica dell’unitarietà è ineliminabile dal mondo delle nostre esperienze, vissute o immaginate che siano. L’unità intesa in questo senso non è solo un aspetto del mondo vissuto, ma anche una condizione di esso; non deve sorprendere il fatto che nell’esperienza ci siano caratteristiche visibili e tangibili - e come tali empiricamente analizzabili - le quali svolgono una funzione categoriale: se è vero, come noi riteniamo, che la presenza immediata del mondo deve essere studiata ed interpretata iuxta propria principia, essa deve contenere anche alcuni aspetti che sono sue condizioni, tolte le quali null’altro di esperibile potrebbe in alcun modo sussistere. Quest’ammissione potrà sembrare un po’ troppo filosofica per trovare posto in un libro di psicologia. Ma la sua base è molto semplice: sta di fatto che certe caratteristiche fenomeniche si realizzano nell’esperienza solo se altre caratteristiche sono presenti; ed è logico che, stando le cose a questo mode, debbano esserci caratteristiche esperibili, tolte le quali non è più possibile parlare d’esperienza in alcun modo sensato» (Unità, Identità, Causalità. Una introduzione allo studio della percezione, op. cit., Cap. I, § 4). Un’affermazione come questa attesta una presa di posizione non facile da ritrovare all’interno della letteratura di psicologia della forma.
6. La legge della pregnanza come legge generale di cui le leggi della forma sarebbero casi speciali. - Essa sembra formulare una tendenza psicologica alla rettificazione - Distanza su questi aspetti della fenomenologia filosofica dalla psicologia della forma.
In tutta la nostra precedente esposizione abbiamo accuratamente evitato anche soltanto di accennare ad una nozione fondamentale nella psicologia della forma ed alla legge che fa riferimento ad essa: si tratta della nozione di pregnanza e dunque della cosiddetta legge della pregnanza.
La ragione di questo rinvio è presto detta: una delle caratteristiche delle leggi che abbiamo enunciato in precedenza - secondo l’interpretazione che ne dà la psicologia della forma - è quella di poter essere considerate come particolarizzazioni di una condizione formulabile in termini molto generali, e precisamente come casi speciali della legge della pregnanza. Adottando questo punto di vista, è possibile dare la massima forza ai nostri dubbi, trasformandoli anzi in una presa di posizione piuttosto precisa: fenomenologia filosofica e psicologia della forma percorrono un tratto in comune, forse prendendo le mosse da un unico luogo, ma prima o poi le due vie si separano irrimediabilmente. Inoltre è possibile avanzare nei confronti della psicologia della forma la critica secondo la quale - almeno in rapporto alla tematica propriamente descrittiva - in essa si corre spesso il rischio di confondere problemi puramente fenomenologici con problemi empirico-fenomenologici.
Questa presa di posizione può in realtà essere effettuata con la massima chiarezza proprio mettendo in discussione il tema della pregnanza, ed è per questa ragione che esso si presta a chiudere la nostra esposizione.
Della legge della pregnanza si possono dare varie formulazioni. Vogliamo scegliere la seguente, che Koffka trae da Wertheimer:
«L’organizzazione psicologica sarà sempre ’buona’ nella misura consentita dalle condizioni prevalenti» [14] .
In luogo dell’aggettivo «buono» possiamo naturalmente sostituire la parola «pregnante» - cosicché la legge afferma che, date certe condizioni percettive, il campo percettivo verrà organizzato secondo una tendenza alla massima pregnanza possibile. Ma naturalmente né «buono» né «pregnante» sono parole che si spiegano da sé. Esse dovranno a loro volta essere risolte in altri aggettivi che rimandano a proprietà connesse alla regolarità, alla simmetria, alla semplicità, all’equilibrio, ecc.
Quanto alla scelta della parola «pregnante» è dovuta alla sua latitudine di impiego. Il principio vuole essere volutamente vago per poter essere il più possibile generale. Nel linguaggio corrente parliamo di pregnanza in rapporto ad una frase, quando vogliamo indicare ad un tempo la concisione e la ricchezza di senso nella concisione. In effetti la legge della pregnanza può essere formulata anche come una legge che afferma la tendenza alla massima sensatezza nelle condizioni date. La possibilità di questa formulazione la si comprende se pensiamo che parole come irregolare, caotico, disordinato, complicato e simili sembrano tutti suggerire la tendenza alla perdita di senso.
Come esempio scegliamo senz’altro una situazione percettiva a cui abbiamo in precedenza già accennato
Abbiamo detto che possiamo intende questo caso come figura di una superficie che «ricopre» un segmento che passa dietro di essa.
Ma altri modi di intendere la figura sarebbero certamente possibili. Ad esempio la figura complessiva potrebbe essere intesa come congiunzione di figure differenti come le seguenti:
Il problema è: come mai fra le varie interpretazioni possibili la percezione sceglie proprio la prima, mentre le altre sembrano interpretazioni «forzate»? La risposta è ora la seguente: secondo quella interpretazione, la situazione complessiva viene proposta nel modo più semplice e ordinato - una unica linea retta si struttura con una figura rettangolare, formando una configurazione provvista di senso che potremmo considerare come raffigurazione di una striscia dietro la quale passa una cordicella.
Abbiamo scelto un esempio già discusso proprio per il fatto che in questo modo appare chiara la relazione tra la legge della pregnanza e le altre leggi. Infatti possiamo rendere conto di quella configurazione ricorrendo alla legge della forma chiusa, in base alla quale viene senz’altro operata la segregazione della figura rettangolare dallo sfondo come una figura in se stessa unitaria; ed alla legge della buona continuazione che ci consente di considerare unitariamente i segmenti a sinistra ed a destra del rettangolo. Ma ciò significa null’altro che queste due leggi (come ogni altra) possono essere intese come specificazioni della legge della pregnanza. Che cosa accade se portiamo tutta l’attenzione in questa direzione, se assumiamo la legge della pregnanza come legge fondamentale di cui tutte le altre sono specificazioni? Accade che, mentre considerando le leggi in se stesse potevamo in qualche modo neutralizzare la loro interpretazione in termini di affermazioni relative a tendenze psicologiche per ribaltarle sul terreno di considerazioni puramente fenomenologiche, nella loro considerazione come specificazioni della legge della pregnanza, questo ribaltamento è reso del tutto impossibile.
O anche in altro modo: mentre in precedenza ci era possibile ricondurre i temi delle varie leggi all’idea di tendenze e di controtendenze sintetiche interne al campo percettivo, la pregnanza è invece tutta orientata in direzione del versante psicologico soggettivo, è una legge che concerne primariamente la soggettività psicologica e solo secondariamente il campo percettivo. In rapporto alla soggettività psicologica essa formula una supposizione: si suppone che i meccanismi stessi della percezione, come processo psico-fisiologico, siano eminentemente caratterizzati da una propensione verso il semplice, lo stabile, l’equilibrato, il simmetrico, l’ordinato, e così via [15] . Si noti di passaggio che la psicologia della forma aspira a diventare psicologia nel senso più ampio, superando i limiti tematici di una psicologia della percezione, cosicché in via di principio verrebbe qui enunciata una tendenza che caratterizzerebbe la vita psichica in generale. La psiche umana non amerebbe le complicazioni. Talora la legge della pregnanza viene anche chiama principio di semplicità.
Si noti come il problema del «kantismo» della psicologia della forma tenda a riproporsi in questo contesto, ed ancora avvolto di ambiguità. Su questo punto noi abbiamo già fatto notare che si può sicuramente parlare di kantismo in rapporto alla tematica dell’intero e della parte. Questa tematica la vediamo riaffiorare in rapporto al tema della pregnanza. La sensatezza del campo percettivo viene concepita come una tendenza interna al massimo ordine, alla massima armonia: il senso complessivo è legato ad una sorta di scopo interno della figura - per usare il linguaggio kantiano. Ma il fatto che questo scopo interno sia per così dire realizzato attraverso una tendenza della soggettività, il fatto che le cosiddette leggi della forma siano riconducibili ad enunciati che chiamano in causa tendenze psicologiche, fanno di questo kantismo, contro tutte le intenzioni kantiane, un kantismo psicologizzante [16] .
Si può dunque affermare che la legge della pregnanza è estranea a considerazioni di ordine fenomenologico e saranno di conseguenza estranee ad esse tutte le leggi della forma considerate come sue specificazioni.
Per estendere un poco la discussione, vogliamo esaminare qualche caso citato come caso di conferma, allo scopo non già di mettere alla prova il buon fondamento della legge (compito che non può essere nostro, tanto più se si considerano le sue implicazioni sul terreno delle spiegazioni fisiologiche), quanto il senso della nostra presa di posizione intorno ai rapporti tra fenomenologia e psicologia della forma.
Si supponga che si chieda a qualcuno di dire ciò che vede in rapporto alla figura seguente:
Potrebbe benissimo darsi che la risposta sia: vedo un cerchio. Analogamente un angolo che si discosti di poco dai novanta gradi potrebbe essere descritto come un angolo retto e così via. Casi come questi verrebbero spiegati con l’azione della legge della pregnanza ed anzi come dimostrazione della sua azione. Il fatto che non si faccia parola della piccola lacuna nella figura del cerchio viene inteso come se la percezione sia stata rettificata, e proprio secondo la tendenza alla maggiore regolarità. Una figura chiusa - lo ammetteremo senz’altro - è più pregnante di una figura aperta. La rettificazione sarebbe una circostanza di prova dell’esistenza di una tendenza psichica alla regolarità. L’espressione rettificare non va intesa soltanto per indicare genericamente una correzione, ma anche nel suo senso letterale di rendere diritto qualcosa che non è.
Comprendiamo ora verso quali conseguenze ci spinga ora la tematica ghestaltistica sottoposta ad una simile reinterpretazione. Intanto si ripresenta qui, con una certa nostra sorpresa, un’idea che pensavamo respinta una volta per tutte all’interno del dibattito metodologico iniziale: l’idea di una correzione della percezione, così caratteristica del punto di vista delle sensazioni pure e dunque in generale della psicologia atomistico-associazionistica, si ripresenta proprio in questi sviluppi. Ciò significa proporre una differenza tra ciò che io dovrei vedere e ciò che di fatto vedo o dico di vedere - una differenza presunta! - un divario che la tendenza psicologica avrebbe il compito di riempire.
Come se si dicesse: ciò che in realtà dovrei vedere non è un cerchio, ma una linea circolare fatta così e così, e tuttavia vedo e dico di vedere un cerchio proprio perché è inconsciamente in opera la tendenza psicologica che caratterizziamo con la nozione di pregnanza. Naturalmente anche questo riferimento all’azione inconscia della tendenza ci ricorda il problema dei giudizi inconsci nell’associazionismo psicologico.
Quale potrebbe essere invece il commento che faremmo a nostra volta?
Noi osserveremmo che quella figura - sia che la si veda da vicino come da lontano, sia che la si veda per un periodo di tempo abbastanza lungo oppure brevissimo - è prevalentemente un cerchio più di ogni altra cosa. Per questo motivo, chi dicesse di vedere in essa un cerchio - senza precisare che in quel punto vi è una lacuna - avrà in ogni caso le sue buone ragioni, sia che veda la lacuna sia che non la veda e noi non avremmo affatto ragioni per considerare questa risposta come conseguenza di una tendenza psicologica al completamento e quindi nemmeno come una circostanza che proverebbe l’esistenza di questa tendenza. La nostra critica tende dunque a mostrare come la confusione concettuale tra la dimensione empirica e la dimensione puramente fenomenologica non sia affatto innocua in rapporto al modo di interpretare i risultati dell’osservazione ed anche, presumibilmente, in rapporto al problema psicologico di stabilire le giuste correlazioni tra livello fenomenologico e livello delle spiegazioni fisiologiche.
Peraltro la nozione di pregnanza potrebbe entrare a buon diritto anche nell’ambito delle considerazioni puramente fenomenologiche. Distinzioni che non hanno alcun senso sul piano geometrico, possono averlo invece sul piano percettivo. Ad esempio, potremmo certamente dire che l’angolo acuto o ottuso sono meno pregnanti di quanto lo sia l’angolo retto - attribuendo al termine di pregnanza proprio il senso che in precedenza gli abbiamo attribuito. Gli angoli acuti o ottusi sono certo più mossi, più instabili, più squilibrati degli angoli retti. E così anche avrebbe senso dire che il cerchio è più pregnante del quadrato, alludendo con ciò alla maggiore compattezza e coerenza della figura circolare. Tuttavia, la parola pregnanza considerata all’interno di un quadro puramente fenomenologico ha esclusivamente un senso descrittivo e dovrebbe essere illustrata soltanto attraverso il tema delle direzioni sintetiche interne delle configurazioni.
Affermare che il cerchio è più pregnante del quadrato non è affatto compiere un’affermazione misteriosa, dal momento che essa può essere illustrata attirando l’attenzione sul fatto che nel quadrato vi sono spezzature e deviazioni che invece non si presentano nella figura circolare; cosicché nel quadrato si evidenziano subito quattro parti distinte, mentre ciò non accade nel cerchio.
La compattezza percettiva dunque è certamente maggiore nel cerchio che nel quadrato. Koffka argomenta nello stesso modo a proposito del cerchio posto a confronto con un triangolo. Egli osserva che il cerchio è una forma perfettamente buona perché «ogni sua parte contiene il principio del tutto». Nel triangolo invece nessun suo lato richiede di essere continuato in modo che ne risulti la forma triangolare. «Ogni porzione di ognuno dei tre lati richiede di venire continuata in modo che risulti una continuazione nella propria direzione, e i tre angoli costituiscono delle interruzioni in questa modalità di continuazione» [17].
La spezzatura è naturalmente un fattore di segregazione, e costituisce appunto ciò che noi chiameremmo una «controtendenza» alla sintesi. Ai fini dell’integrazione dei lati del quadrato o del triangolo tra loro agiranno altri fattori che superano questa controtendenza, ed anzitutto il fatto che essi formano una figura chiusa.
Considerazioni come queste sarebbero del tutto accettabili all’interno della problematica fenomenologica delle sintesi percettive, e la psicologia della forma ha fornito una formidabile messe di materiali interpretabili in questa direzione. Tuttavia la psicologia della forma non si limita a queste motivazioni interne, ma vuol dire, sulla loro base, tutt’altra cosa: e precisamente che vi sarebbe una nostra predilezione per il cerchio piuttosto che per il quadrato, per il quadrato piuttosto che per il rettangolo, per il rettangolo piuttosto che per un quadrilatero irregolare e così via. E poiché questa predilezione va intesa come una vera e propria tendenza psicologica che interviene attivamente nei processi percettivi, dovremmo arrivare ad ammettere una tendenza a percorrere questa sequenza nella direzione inversa - una tendenza cioè a rettificare un quadrilatero irregolare in un rettangolo, un rettangolo in un quadrato, un quadrato in un cerchio. Naturalmente con ciò esasperiamo appositamente questo tema, ma questa esasperazione non vuole essere una esasperazione polemica, ma servire piuttosto a comprendere il nodo della questione.
Del resto Koffka osserva che secondo il principio della pregnanza ci si potrebbe aspettare che ogni macchia venga rettificata in un cerchio. Ciò non accade - osserva Koffka - solo per il fatto che ci sono circostanze che lo impediscono [18] . Ma un conto è considerare una configurazione percettiva come risultato di tendenze e controtendenze, ed un altro è assumere che il gioco delle tendenze e delle controtendenze avvenga sotto il dominio del principio della forma «migliore». È vero che questo orientamento del problema è determinato in particolare dagli intenti esplicativi che la psicologia della forma si pone e quindi dai problemi di correlazione con il sottostrato fisiologico - considerando le cose da questo lato, tutto il problema potrebbe essere riguardato sotto altra luce. Ma anche ampliando i termini della discussione, io credo che resti una mancanza di chiarezza sui tre livelli che debbono essere tenuti distinti, il livello esplicativo, il livello empirico-fenomenologico e il livello puramente fenomenologico. Detto di passaggio, questa mancanza di chiarezza si fa sentire anche nei vari modi di impiego della tematica ghestaltistica, e in particolare nella riflessione sui problemi dell’arte. I critici della psicologia della forma hanno forse buone ragioni per sospettare che nelle sue tesi vi sia qualcosa di simile ad un’estetica pregiudiziale. Del resto accenni a pregiudizi estetici si possono rintracciare anche, sia pure sporadicamente, negli scritti degli psicologi. Ad esempio, in Koffka, a proposito di un esempio di violazione della buona continuazione si osserva che ciò che ne risulta è un’impressione esteticamente sgradevole [19] ; ed altrove si nota che simili violazioni «entrano in conflitto con il nostro senso dell’opportuno, offendono il nostro senso del bello» [20]. Si tratta certamente di espressioni sfuggite dalla penna, ma che sono tuttavia sintomatiche in rapporto all’inclinazione dell’intera tematica.
Di fronte a questi aspetti, dopo aver tratto il massimo vantaggio dagli apporti della psicologia della forma interpretabili in senso puramente fenomenologico, il fenomenologo farà bene ad esercitare una «messa in parentesi» rispetto al quadro teorico complessivo.
Annotazione
Nel volume di P. Bozzi, Unità, identità, causalità, op. cit., la pregnanza non si presenta affatto con le caratteristiche qui descritte, ma compare invece come uno tra gli altri fattori di unificazione senza particolare enfasi su di essa. Ciò è molto indicativo per questo autore che, nel quadro della tematica della psicologia della forma, ha elaborato una propria originale posizione che assume per noi un particolare rilievo per la chiarezza con cui viene delimitato il campo di indagine. Caratteristica di questa posizione è proprio l’insistenza sugli aspetti fenomenologici, insistenza che non si risolve - come spesso accade negli psicologi della forma - in un richiamo relativamente generico, ma che manifesta una precisa consapevolezza delle questioni metodologiche e filosofiche che sono in gioco. Non a caso Bozzi preferisce raccogliere la propria ricerca sotto il titolo di «fenomenologia sperimentale». Si vedano in proposito i saggi contenuti in P. Bozzi, Fenomenologia sperimentale, il Mulino, Bologna 1989 ed Experimenta in visu, Guerini, Milano 1993. Proprio per l’approfondimento dei problemi dei rapporti tra fenomenologia e psicologia della forma, il contributo di Paolo Bozzi va considerato come fondamentale.
[1] Cfr. D. Katz, La psicologia della forma, trad. it. di E. Arian, Einaudi, Torino, 1950. Cap. II.
[2] J. H . Lambert, Nuovo organo, trad. it. di R. Ciafardone, Laterza, Bari, 1977, p. 604.
[3] Cfr. Katz, op. cit., pp. 26-27.
[4] W. Metzger, I fondamenti delal teoria della Gestalt, trad. it. di L. Lumbelli, p. 13 e p. 16.
[5] op. cit., p. 34.
[6] K. Koffka, Principi di psicologia della forma (1935), trad. it. di C. Sborgi, Boringhieri, Torino 1970, p. 84.
[7] K. Koffka, op. cit., p. 124. Il problema è stato formulato e studiato da Metzger.
[8] ivi, p. 123.
[9] ivi, p. 130.
[10] P. Bozzi, Unità, Identità, Causalità. Una introduzione allo studio della percezione, Cappelli, Bologna, 1969 (ora reperibile anche in versione digitale in Internet, Spazio filosofico) cap. I, par. 4. P. Bozzi suggerisce anche un modo semplice per realizzare questa situazione: «L’attrezzatura usata da Metzger non è molto semplice da descrivere, ma il lettore può riprodurre per conto suo l’esperienza utilizzando un globo di vetro finemente smerigliato e omogeneamente colorato, il quale abbia una apertura abbastanza grande da permettere di affacciarsi all’interno: vanno bene, per esempio, i normali globi usati per l’illuminazione delle stanze, purché di dimensioni adatte».
[11] W. Metzger, op. cit., p. 130.
[12] ivi, p. 124.
[13] Katz, op. cit. p. 42.
[14] K. Koffka, op. cit., p. 122: «Il principio fu introdotto da Wertheimer, che lo chiamò legge di pregnanza. Può venir brevemente formulato nel modo seguente: l’organizzazione psicologica sarà sempre ’buona’ nella misura consentita dalle condizioni prevalenti. In questa definizione il termine ’buono’ non è definito: esso comprende proprietà quali la regolarità, la simmetria, la semplicità e altre».
[15] In realtà la nostra esposizione lascia deliberatamente da parte il significato che riveste il richiamo alla «pregnanza»i fini della problematica esplicativa. Non bisogna mai perdere di vista il fatto che obbiettivo della psicologia della forma è quello di fornire spiegazioni psico-fisiologiche e il tema della pregnanza è fortemente implicato su questo versante. Considerare le cose anche da questo lato è di particolare importanza per avere una visione più compiuta e meno unilaterale dell’intera questione.
[16] Nella fenomenologia filosofica è il lato trascendentale del kantismo che viene ripreso e reinterpretato.
[17] Koffka, op. cit., p. 164.
[18] ivi, p. 150.
[19] ivi, p. 166.
[20] ivi, p. 189.