Appunti di lavoro relativi ad un corso tenuto all'Università degli Studi di Milano
nel 1979-80 intitolato "L'immaginazione"
Versione digitale: 2004

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Sulla fantasticheria

1980


 


1. Uno dei primi problemi che una filosofia dell’immaginazione deve affrontare è quello di interrogarsi sulla «natura» dell’oggetto immaginato. Quando immaginiamo qualcosa, qualcosa ci è immaginativamente presente. Si tratta allora di dare un senso sufficientemente determinato a quell’avverbio, alla qualificazione di un oggetto come oggetto dell’immaginazione. A questo scopo ci può servire anche soltanto l’invito a freddo ad immaginare questa o quest’altra cosa. Ed a questo invito possiamo accondiscendere con altrettanto freddezza. Ecco che ora immagino di fronte a me, sul tavolo, un bicchiere di cristallo [1]. Ma quando mai accade che si avviino processi immaginativi in questo modo? Forse accade soltanto quando è sollecitata la nostra curiosità teoretica.

2. Un simile inizio è in effetti scientemente artificioso. In questo modo di cominciare è presente l’intenzione di operare un isolamento delle operazioni immaginative da operazioni e funzioni di altra natura, quasi si volesse indicare con ciò che una filosofia dell’immaginazione deve cominciare con un tentativo di circoscrivere l’immaginazione soltanto, e non le altre attività in cui essa è certamente intessuta. Così facendo la soggettività immaginante viene posta ai margini, e considerata al più come una spettatrice ed una libera manipolatrice dei suoi fantasmi. Assumendo questo punto di vista, si presuppone che le sintesi immaginative seguano percorsi che avvengono all’interno di una soggettività che immagina, ma l’attenzione è poi tutta rivolta ai nessi contenutistici come tali. Anche in rapporto a questo problema la soggettività rappresenta una pura e semplice precondizione inindagata. Uno sviluppo eventuale di una simile problematica richiede tuttavia che questo isolamento metodico, necessario per l’impostazione iniziale del problema, venga oltrepassato e ad esso subentri una considerazione dell’immaginazione come essa effettivamente è, integrata in una rete di esperienze e interagente con esse, chiamando in causa più direttamente la soggettività che si costituisce in questa rete. Ciò si rende necessario proprio nel momento in cui ci accingiamo a considerare l’immaginazione come una modalità dell’esperienza che opera nella trama di altre modalità. Questa integrazione si presenta poi fin dall’inizio come un’integrazione dinamica, come una integrazione cioè che partecipa alle varie forme dei conflitti che attraversano la soggettività come unità di esperienza.

3. Accade di tanto in tanto, per quanto possiamo essere poveri di immaginazione, che ci immergiamo in una qualche fantasticheria. In effetti vorremmo ora fissare qualche sommario appunto proprio sull’immaginare inteso come fantasticare. A questo proposito dobbiamo certo destreggiarci con i termini ed anche affidarci ai contesti per evitare di continuo pedantesche precisazioni terminologiche. Ora intendiamo parlare del fantasticare come una sorta di specificazione dell’attività immaginativa, diversa ad esempio dal sognare. Il sognare non è immaginare puro e semplice e non è nemmeno soltanto fantasticheria.

La fantasticheria sorge «spontaneamente», ma questa spontaneità non ha a che vedere con l’io che effettua decisioni. Si dovrebbe piuttosto parlare di un io passivo, sia pure in un senso abbastanza debole, dal momento che la fantasticheria, non appena è sorta, può essere assecondata, così come può essere respinta e ricacciata indietro.

Il punto essenziale che ci fa considerare la fantasticheria sotto il titolo della «passività» nell’ambito dell’immaginazione, consiste nel fatto che potrei decidere di fantasticare, ed addirittura di attribuire un tema alla fantasticheria, senza che questa decisione sia in grado di generarla. Così come nel caso dei processi memorativi: può anche essere necessario od opportuno che mi ricordi di qualcosa, ma alla decisione di ricordare, il ricordo non segue necessariamente. Se dico: immagina che qui vi sia un libro aperto, non sembra sensato che qualcuno reagisca dicendo: «Non ci riesco!». Altrimenti stanno le cose con le fantasticherie.

4. Proprio per via di questa componente di involontarietà, vi sono condizioni favorevoli e sfavorevoli alla produzione di fantasticherie - e queste condizioni si riassumono tutte, in certo senso, nell’allentamento dell’attenzione alla realtà, quindi della tensione verso ciò che mi è di fronte come qualcosa verso cui sono attivamente diretto. In generale non ci perderemmo in fantasticherie se fossimo intenti in un lavoro delicato o pericoloso; mentre può accadere che ci perdiamo in fantasticherie se camminiamo lungo un sentiero ben noto. Il sentiero non ha bisongo di essere percorso attentamente con lo sguardo, i piedi sono sufficienti al cammino; e così il paesaggio può essere troppo noto per destare il nostro interesse. In questo allentamento degli interessi nei confronti di ciò che ci sta intorno sono presenti le condizioni favorevoli per il prodursi di fantasticherie.

5. Nell’immaginare in genere debbono essere prese le distanze rispetto alla realtà; nella fantasticheria la realtà «se ne va da sé», scivola via. Qualcosa di simile osserva Bachelard per la sua nozione di rêverie. Si rammenti la descrizione della rêverie che egli compie sulla scorta di un passo di Victor Hugo. Anche qui era anzitutto l’allontanamento dalla realtà, il suo diventare indistinto che veniva messo in rilievo. Quel riferimento mostra tuttavia una differenza sotto un duplice riguardo. La descrizione di Bachelard è strettamente vincolata al problema di rendere conto della rêverie come di un peculiare stato d’animo, più o meno inafferrabile ed in ogni caso da descrivere introspettivamente, mentre ciò che abbiamo detto fin qui non ha bisogno di appoggiarsi su alcuna «introspezione». In secondo luogo, proprio l’impiego della citazione di Hugo mostra che la descrizione introspettiva è fin dall’inizio compromessa con una ben determinata filosofia della soggettività [2].

6. Anche la differenza tra sogno e fantasticheria proposta da Bachelard può essere ripresa, ma orientandola in una direzione interamente diversa. In effetti, proporre la fantasticheria come una sorta di stato intermedio tra la piena consapevolezza e l’inconsapevolezza del sonno potrebbe essere criticato: il fantasticare è caratterizzato, a differenza del sogno, da una doppia scena, la scena della realtà e la scena immaginaria. La scena della realtà viene soltanto tenuta in secondo piano, mentre noi manteniamo la piena consapevolezza dell’essere immersi in una fantasticheria. Benché ci siano fantasticherie del dormiveglia, non sarebbe giusto fare di ogni fantasticheria un dormiveglia. Ma a parte ciò non potremo certamente seguire Bachelard nell’accentuare la differenza tra sogno e rêverie, accentuazione che si trova interamente sotto il segno dei suoi presupposti filosofici. Proprio per via di questi presupposti, Bachelard non può far altro che operare una connessione tra rêverie ed una soggettività attraverso l’idea della sublimazione, nell’accezione che egli dà a questo termine. La soggettività che viene in questione nella rêverie di Bachelard è una soggettività essenzialmente sublimata, purificata da tutti i suoi desideri e dalle sue passioni.

7. Il fantasticare deve essere invece riferito ad una soggettività considerata concretamente come un processo di motivi. Per questo è il caso di guardare con interesse alla nozione di fantasticheria così come viene in questione sul versante psicoanalitico. In Freud il sogno viene inteso in certo senso come una fantasticheria estrema, molto complicata, che ha tratti suoi peculiari, ma che deve comunque avere tratti comuni con quello che egli chiama sogno ad occhi aperti. Egli osserva più di una volta, e con particolare accentuazione, che il meccanismo di formazione del sogno potrebbe essere indagato a fondo se potessimo disporre di una ricca documentazione sui sogni ad occhi aperti. Ad una simile osservazione Freud era soprattutto stimolato dalla tesi secondo la quale il desiderio deve essere proposto come un vero e proprio principio generatore delle fantasie oniriche. Questa affermazione, formulata nella sua generalità, ha in realtà il carattere di una pura ipotesi. La riconduzione del sogno al desiderio appare evidente in molti casi abbastanza particolari, mentre la generalizzazione di questa circostanza ha solo una natura ipotetica, ed essa andrà del resto integrata nell’ambito della teoria esplicativa del sogno. Proprio per questo per Freud è importante richiamare l’attenzione sul sogno ad occhi aperti: quell’origine dal desiderio ha una particolare evidenza nel caso delle fantasticherie. Esse sono manifestamente «appagamenti immaginativi» di desideri o hanno comunque a che vedere con sviluppi che riguardano intenzioni desiderative.

8. In Freud l’evidenza di questa connessione senbra essere soprattutto di carattere empirico, ovvero essa si presenta come una connessione chiaramente accertabile esaminando una molteplicità abbastanza ampia di fantasticherie concretamente effettuate. Ma forse è possibile cogliere tra immaginare e desiderare una connessione interna - e questo ci riporta sul terreno fenomenologico.

9. Il desiderio è una modalità dell’esperienza, un modo di essere rivolti, di aver di mira qualcosa, un modo dell’intenzionalità. Se consideriamo immaginazione e desiderio da questo punto di vista siamo colpiti anzitutto da alcune differenze caratteristiche: anzitutto dalla differenza in certo senso cruciale che riguarda la problematica delle posizioni d’essere. Il desiderio ha carattere posizionale. Si desidera qualcosa - e precisamente qualcosa che c’è, non qui - ma da qualche altra parte. Non ora, ma eventualmente nel futuro. La posizionalità del desiderio ha peraltro caratteristiche diverse dalla posizionalità della percezione: è una posizionalità connessa con la prassi, con l’azione. Non pone l’oggetto nel suo essere, ma lo propone come qualcosa che deve essere posto in essere. Se desidero qualcosa farò di tutto per realizzarla. In questo vi è una netta differenza tra immaginare e desiderare. Ciò che essi hanno in comune è, se mai, l’assenza dell’oggetto. Nessuno desidera ciò che già possiede. Ma l’assenza dell’oggetto si propone in modo interamente diverso. L’assenza dell’oggetto desiderato è connesso ad una presenza possibile, mentre sarebbe sbagliato implicare la nozione di una presenza possibile in rapporto agli oggetti immaginari.

10. Ciò pone il desiderio in opposizione sia all’esserci autentico della cosa della percezione - l’oggetto che c’è qui ed ora di fronte a me - all’esserci inautentico dell’immaginazione. Non solo non ha senso desiderare qualcosa che già si possiede o che sta qui ed ora di fronte a me, ma nemmeno ha senso desiderare un oggetto immaginario, perché allora l’oggetto «ci sarebbe» senz’altro.

11. Tutto ciò in realtà non è che un modo di svolgere la fondamentale distinzione tra intenzione desiderativa e appagamento del desiderio che svolge qui una funzione essenziale. Il desiderio è anzitutto una intenzione vuota - di avere, di essere - che tende al proprio riempimento, alla propria soddisfazione. Ciò si può dire anche in rapporto ai decorsi percettivi: il dato attualmente presente ci appare come insaturo, e dunque aperto verso riempimenti percettivi possibili. La pienezza sta nell’attualità della pecezione. Ma in questa pienezza è presente anche una intenzione vuota, e la distinzione tra intenzione vuota e rimpimento giace tutta all’interno della struttura di decorso della percezione. Nel caso del desiderio invece, questa stessa distinzione non richiede nessuna continuità processuale, nessun rimando alle sintesi, nessun carattere di decorso. Questo è un aspetto che approssima il desiderio all’immaginazione. Entrambi si sottraggono alla struttura di decorso entro cui si costituisce la realtà, entrambi sbucano da essa.

12. Tuttavia proprio per ciò che concerne il rapporto con la realtà va probabilmente riconosciuto un legame che è un legame per opposizione. All’origine del desiderio vi è un’istanza di negazione. Il desiderio non pone semplicemente un’altra realtà da sovrapporre a questa. Così opera l’immaginazione. L’altra realtà del desiderio è una realtà possibile, contro quella che ci sta sotto gli occhi. Questo momento negativo non è affatto implicito nell’immaginazione, così come non è affatto implicito in essa il legame con l’azione, con la spinta, promossa dal desiderio, alla realizzazione. L’immaginazione in se stessa lascia la realtà così come è, e si limita a metterla da parte per sovrapporre ad essa un’altra realtà, una realtà eterogenea. Forse nel caso dell’immaginazione la stessa distinzione tra intenzione vuota e saturazione non può essere nemmeno posta.

13. Vi sono dunque chiare differenze. Eppure anche attraverso di esse si mostra una sorta di interna affinità, di solidarietà, in modo tale che il desiderio può tingersi di immaginazione e l’immaginazione di desiderio. Questo intreccio risulta chiaro mettendo in questione il problema della temporalità. Sia in rapporto all’immaginazione che al desiderio potremmo parlare di una relativa indeterminazione temporale. Se desideriamo che qualcosa accada e ci venisse posta la domanda intorno al quando nel tempo potremmo rispondere: di qui in avanti nel futuro. Naturalmente questo futuro è un futuro reale, il punto del tempo che indichiamo indeterminatamente appartiene alla linea del tempo oggettivo. Tuttavia si vede subito che questa indeterminazione, che è qualcosa di completamente diverso dall'indeterminazione temporale dell'immaginazione, possa assumere i tratti di questa. Può accadere che il futuro posto indeterminatamente nel desiderio, e possibilmente come un futuro prossimo, diventi sempre più remoto: la realizzazione postulata dal desiderio tende allora ad allontanarsi sempre più nel tempo. Ed alla fine questo allontanarsi nel tempo assume sempre più i tratti di un allontanarsi dal tempo. Così il futuro remoto del desiderio tende a diventare un futuro improprio, un futuro intemporale, diventando piuttosto, come nel caso del passato lontano delle favole o del mito, un contrassegno dell’indeterminazione temporale che caratterizza gli scenari dell’immaginazione.

14. Forse si può arrivare a dire che la fantasticheria è l’immaginazione coniugata con il desiderio. Naturalmente non si tratta soltanto di prendere atto del fatto che uno stesso contenuto può essere dato come riferito al desiderio oppure come immagine pura e semplice. Si tratta invece di sostenere che l’immaginazione può diventare un vero e proprio luogo di estrinsecazione del desiderio, una vera e propria forma di manifestazione del desiderio stesso. Ciò che l’immaginazione presenta nella scena immaginaria è la stessa intenzione desiderativa che ha assunto una forma visionaria. Non si tratta nemmeno di una risposta immaginativa che prospetta un riempimento immaginario dell’intenzione desiderativa. Naturalmente l’immaginazione può anche rappresentare come appagato un desiderio inappagato. Ma io vorrei sostenere qualcosa di diverso: è il mancato appagamento che determina la modificazione dell’intenzione desiderativa, di cui la scena immaginaria non è altro che una proiezione. In questo modo nella scena immaginaria possiamo leggere il desiderio stesso perché essa non è altro che il desiderio inappagato che ha mutato forma.

15. Attraverso questa connessione interna tra immaginazione e desiderio noi possiamo riproporre nel quadro della nostra impostazione il tema della relazione dell’immaginazione con la soggettività. Stando a Bachelard l’immaginazione è il luogo della conciliazione dell’io con l’io stesso, il luogo della ripresa dalle scissioni e dalle tensioni con la realtà. Si tratta di un tema che elabora sul piano filosofico e secondo moduli peculiari un’idea che appartiene in realtà ad uno dei luoghi comuni intorno all’immaginazione: quello della relazione tra immaginazione e interiorità, tra il fantasticare e il sentiero solitario. Quel tanto di giusto che vi è in questa associazione lo potremmo rilevare proprio in una considerazione, non già dell’immaginazione in genere, ma dell’immaginazione coniugata con il desiderio. Finché ci limitiamo a considerare l’immaginazione in se stessa, la soggettività ci può apparire soltanto come una unità astratta, come un puro e semplice presupposto dei processi immaginativi. Di contro si dovrebbe riflettere sullo spazio che dovremmo concedere al desiderio in una teoria della soggettività concreta. Il desiderio infatti ha una precisa funzione costitutiva in rapporto alla soggettività stessa. L’io si costituisce come soggettività concreta e nella sua determinatezza personale attraverso il desiderio, come una unità attraversata dai conflitti del desiderio, in una dialettica dei desideri appagati ed inappagati. Tutto ciò ha una sorta di riscontro fenomenologico nel fatto che di norma, nella fantasticheria non soltanto l’io immagina, ma più precisamente si immagina, l’io stesso è il protagonista delle proprie fantasticherie.

16. Nello stesso tempo, attraverso la mediazione del desiderio, vi è anche una coimplicazione dell’immaginazione con la realtà in senso proprio e autentico. Ogni desiderio contiene una presa di posizione implicita nei confronti della realtà, la posizionalità del desiderio poggia su una negazione di ciò che è già posto in essere. Per questo l’immaginazione, intrecciandosi con il desiderio, assume tratti che in se stessa non possiede. L’eterogeneità sembra non concedere nemmeno la possibilità di una contrapposizione; la contrapposizione - l’antiteticità - presuppone in ogni caso qualche legame. Può accadere che ciò che appare allo sguardo dell’immaginazione non sia soltanto qualcosa di totalmente altro, ma una realtà antitetica. L’immaginazione può così diventare facoltà dell’antitesi rispetto alla tesi della realtà. Spesso nel fantasticare viene posto in essere ciò che nella realtà è impedito o precluso. Questo può essere in fin dei conti solo una constatazione. E tuttavia in questa opposizione vi è qualcosa di simile ad una logica elementare che determina la struttura del desiderio e dell’immaginazione e che coinvolge i rapporti che l’uno intrattiene con l’altra.

17. In un film del regista giapponese Kurosawa intitolato Dodeskaden vi è un bell’esempio, molto ricco di sfumature, che si presta in modo particolare ad illustrare quanto siamo andati dicendo. In esso si tratteggia, con episodi che si alternano, il destino di persone che vivono in una bidonville ai margini di una grande città urbana. Tra un episodio e l’altro compaiono lungo l’intero corso del film un adulto ed un bambino che sono esclusivamente impegnati a sognare ad occhi aperti.

Essi effettuano la costruzione visionaria di una grande casa, che viene costruita di giorno in giorno, pezzo dopo pezzo e che si profila materialmente di fronte ai loro occhi ed a quelli dello spettatore. Ecco un bellissimo caso di rêverie, assai poco rientrante - peraltro - nel concetto proposto da Bachelard. Anzitutto perché si tratta proprio di una visione, di una vera e propria allucinazione (e non di un’immagine letteraria); e poi anche per il fatto che qui la rêverie non è solitaria ma si sviluppa dialogicamente in un sogno ad occhi aperti che è visto e parlato, tra l’adulto e il bambino: attraverso di essa si stabilisce tra i due una solidarietà profonda e patetica, come tra padre e figlio. Nel film tutto ciò è ricco di sottigliezze: è infatti il bambino che in realtà protegge materialmente l’adulto-padre, provvedendo mendicando alla fame quotidiana; mentre è l’adulto che organizza la visione del bambino, che guida ed orienta la rêverie della costruzione della casa splendida.

Qui l’immaginazione come facoltà dell’antitesi e la sua relazione con il desiderio è esibita in forma del tutto elementare. La fantasia della casa splendida fluttua al di sopra di un paesaggio suburbano e del resto la «casa» in cui vivono i due personaggi è una vecchia automobile ridotta ad un rottame.

Non già che l’antitesi debba essere intesa in un senso banalmente fattuale. La casa è certamente nei desideri di questi due personaggi miserabili. Ma la magnificenza della casa desiderata mostra che il desiderio si trova sul pendio dell’immaginazione. Entrando nel campo dell’immaginario il desiderio si amplifica e si dilata, ed assume in questa dilatazione un senso più ampio. Nella transizione immaginativa l’oggetto del desiderio perde la propria particolarità e determinatezza per diventare rappresentativa di un’aspirazione indefinita ad una realtà totalmente altra.

Abbiamo anche qui a che fare con una casa, come tanto spesso accade in Bachelard, nella sua Poetica dello spazio. E ripensando a Bachelard ci rendiamo conto che assume un senso nuovo, un senso filosofico il fatto che la casa visionaria dei due miserabili di Dodeskaden sia una casa vista sempre soltanto dall’esterno. Vediamo la facciata crescere a poco a poco; la vediamo arrichirsi di finestre, di terrazze ed adornarsi di fregi; e così tutt’intorno viene realizzato un grande giardino, e poi una stupenda cancellata.

Una casa tutta esteriore: ci accorgiamo allora quasi all’improvviso che in Bachelard non ci siamo mai imbattuti in una casa vista dall’esterno, che nelle sue case è sempre l’interno che conta. E sorge il dubbio che questo dettaglio abbia a che fare con la filosofia della soggettività di Bachelard, tutta volta verso l’interno, e naturalmente con la relazione che egli stabilisce tra immaginazione e interiorità. Agli straccioni di Kurosawa, che certamente non sanno nemmeno leggere, degli interni forse importa ben poco, mentre il loro sguardo è tutto puntato nelle tenebre che per loro si illuminano spettacolarmente mostrando gli splendori della casa immaginaria.

Si potrebbe obiettare che, nonostante tutto, un simile esempio, potrebbe forse essere adeguato ad almeno un aspetto del problema in Bachelard, e proprio a quell’aspetto che riguarda il tema della soggettività conciliata. Si potrebbe trovare un nesso tra l’immaginazione come facoltà dell’antitesi e l’immaginazione in quanto restituisce l’unità della soggettività dalle sue scissioni.

Tutto lo sviluppo dell’immaginazione della casa potrebbe forse essere inteso proprio in termini bachelardiani come un ritrarsi nella rêverie dall’ostilitàriposo nell’immaginazione. Si potrebbe riconoscere all’immaginazione una funzione di pura e semplice compensazione. della realtà per trovare

Ma proprio questo esempio si presta forse assai poco a riportare la rappresentazione immaginativa dell’antitesi ad una forma elementare di compensazione. Che in qualche modo la fantasia in questione rappresenti anche una sorta di contrappeso rispetto al conflitto con il reale - questo è abbastanza ovvio. Ma di qui all’idea dell’immaginazione che riporterebbe l’unità in una soggettività lacerata il passo è tutt’altro che breve. Per noi spettatori, non vi sono dubbi che quanto più si dipanano queste scene di costruzione visionaria della casa, quanto più è esibita questa totale immersione nell’immaginario che assorbe completamente l’attività dei due sognatori come se si trattasse di un’attività autentica, tanto più viene esasperato il momento dell’antitesi, tanto più si impone l’immagine di una lacerazione che diventa sempre più intollerabile. L’episodio si conclude infine tragicamente: il bambino muore nella carcassa dell’automobile. E l’adulto si perde, dopo quella morte, in una visione estrema: alla casa ormai compiuta aggiunge una grandiosa piscina circolare, soddisfacendo così in modo struggente l’ultimo desiderio visionario espresso poco prima di morire dal fanciullo.

L’immaginazione è qui veramente una sorta di disperazione del desiderio, oppure disperazione soltanto.


[1] Così abbiamo fatto negli Elementi per una dottrina dell’esperienza.

[2] La citazione di Hugo dice: "Tutto questo non era né una città, né una chiesa, né un fiume, né colore, né luce, né ombra; era rêverie. - Sono rimasto a lungo immobile, lasciandomi dolcemente penetrare da questo insieme inesprimibile, dalla serenità del cielo, dalla malinconia dell’ora. Non so che cosa capitava nel mio spirito e non potrei dirlo, era uno di quegli istanti ineffabili in cui si sente in se stessi qualcosa che si sveglia". Cfr. Il lavoro del poeta. Saggio su Gaston Bachelard, § 8, in La notte dei lampi, I,in questo archivio.


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