Stefano Cardini si è laureato in Filosofia Teoretica alla Statale di Milano sotto la guida di Giovanni Piana. Dal 2009 è coordinatore della community Phenomenology Lab (www.phenomenologylab.eu) del Centro di Ricerca in Filosofia e Scienze della Persona dell’Università San Raffaele di Milano, ed è vicedirettore di Phenomenology and Mind (www.phenomenologyandmind.eu). Il Phenomenology Lab è un progetto editoriale on line nato per iniziativa del Centro di ricerca in fenomenologia e scienze della persona dell'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, aperto a tutti gli studiosi e cultori della fenomenologia, della filosofia della mente e delle scienze cognitive.
Di ispirazione fenomenologica sono i "Dialoghi tra un filosofo e un non so
dedicati ai campioni della scienza e ai loro nemici"
I sulla coscienza
II Sulla vita
Ha dedicato alle "Conversazioni sulla Crisi delle scienze Europee di Husserl" di Giovanni Piana un notevole saggio che viene riportato di seguito per intero. Si trova pubblicato in Phenomenology Lab.
[2015]
Stefano Cardini
L’idea d’Europa e la responsabilità della filosofia. Le Conversazioni su “La crisi delle scienze europee” di Edmund Husserl di Giovanni Piana
Milano, 1 marzo 2014
Ci sono libri che si aspettano per vent’anni. Per quanto mi riguarda, è il caso di queste Conversazioni su “La crisi delle scienze europee” di Husserl di Giovanni Piana, allievo di Enzo Paci, e certamente tra i più lucidi, originali e fecondi fenomenologi italiani.
L’ultima grande opera di Edmund Husserl è in effetti vittima di un singolare paradosso.
Per lungo tempo è stata considerata da schiere di interpreti, fossero seguaci o detrattori della fenomenologia, la sintesi più compiuta del pensiero di Husserl. E per altrettanto tempo, la sua centralità ha contribuito a fare della fenomenologia, per molti, soprattutto un pensiero della e sulla crisi della koinè europea, ben oltre il frangente in cui essa si rivelò agli occhi dell’ebreo Husserl: gli anni ‘30 del secolo scorso, ovvero, la vigilia della politica antisemita in Germania e della seconda guerra mondiale. Eppure, ora che l’unità europea è progetto concreto, per quanto inceppato, e la sua crisi, non solamente economica, una dolorosa realtà in carne e ossa, della Crisi di Husserl non si parla più. Di questo nesso con l’attualità chi scrive si assume intera la responsabilità. Nel volume non se ne trova, a onor del vero, traccia. E tuttavia, sopprimerne l’insorgenza m’è stato impossibile, alimentando ancor più il mio interesse. C’è un modo d’essere attuale della buona filosofia, infatti, che passa anche attraverso il riserbo, in attesa che il frastuono che si agita sullo sfondo si plachi. Per dare poi improvvisamente corpo a un pensiero, proprio quando tale pensiero può tornare nuovamente significativo. La suggestione che certi passi della Crisi di Husserl, richiamati da Piana, innegabilmente ancora esercitano su di noi, infatti, è invincibile. Ed evoca la sfida che come europei ancora una volta ci attende:
«Una nazione, un’umanità, vive ed opera nella pienezza delle forze soltanto se sorretta nel suo slancio da una fede in se stessa e nella bellezza e bontà della vita della propria cultura (…) essere degno di appartenere a un’umanità simile, cooperare ad una tale cultura, contribuire ai suoi valori edificanti, rappresenta la felicità di ogni uomo operoso e lo solleva dalle preoccupazioni e dalle sventure individuali (…) Oggi noi – e con noi la stragrande maggioranza della popolazione – abbiamo ormai perduto questa fede (…) ». (p. 121)
Alla fine del conflitto si registrarono sedici milioni di morti e oltre venti milioni di feriti e invalidi.
Soldati tedeschi in trincea sulla Marna durante la Prima Guerra Mondiale
Piana, tuttavia, non cede alla tentazione di attualizzare per l’ennesima volta la Crisi sull’onda delle circostanze presenti. Il suo intento è, semmai, quello di restituire al testo non solo tutta la ricchezza ma insieme tutta la profondità che decenni di letture hanno sacrificato. E lo fa adottando, cosa non nuova per lui, il registro delle Conversazioni, espressione che traduce l’inglese Conversations, grazie al quale fa piazza pulita sia di ogni pretesa di ricostruzione neutra del significato del testo, sia di qualsiasi tentativo di ridurlo a un mero momento di una qualche istanza filosofica. È infatti nel gioco sottile tra la discussione teorica di un problema di idee e l’orizzonte storico in cui esso è posto sia dall’interprete sia dall’Autore, che la ricchezza e la profondità di un’opera possono essere portate alla luce. E questa lezione di metodo, qui non solo esposta ma praticata in modo esemplare, è il primo contributo che il volume regala.
In ragione di questa mossa, quindi, non ci si dovrà sorprendere constatando che le riflessioni di Piana attorno alla Crisi muovano dalle pagine del volume che più direttamente si connettono al resto dell’opera husserliana e in modo particolare ai motivi teorici presenti già all’inizio della fenomenologia, i quali, a onta di presunte discontinuità che secondo un luogo comune interpretativo sarebbero intercorse nel pensiero di Husserl, non sono mai venuti meno. Si discute della crisi della koinè europea, quindi. Ma lo si fa a partire, anzitutto, dal problema delle regole costitutive degli interi della percezione e delle operazioni idealizzanti che, a partire da quel fondamentale terreno d’esperienza, sono possibili. Problemi, questi, al centro degli interessi di Husserl sin dalla Filosofia dell’aritmetica e dalle Ricerche Logiche, ma che, sorprendentemente, per molto tempo, non hanno affatto costituito l’orizzonte di riferimento anche per l’interpretazione della Crisi. Con conseguenze sorprendenti, per chi conosca bene Husserl: fare della fenomenologia, più o meno esplicitamente, una filosofia irrazionalistica. E della Crisi, un’opera addirittura antiscientifica.
A partire dalla continuità di fondo del pensiero husserliano, invece, Piana riprende il filo dell’interpretazione per mettere in luce la motivazione che spinse Husserl a tenere, ultrasettantenne, le Conferenze di Vienna e Praga del 1935 che costituiscono il corpo della Crisi, uscita postuma nel 1954. Quest’opera, infatti, scrive l’Autore, «presenta un’istanza di riconduzione del senso della scienza ai valori della vita e dell’esistenza umana» (p. 13). Ma questa istanza, che così espressa potrebbe essere variamente interpretata, va intesa come una generalizzazione di una problematica di apparente minor momento, ma dalle grandi implicazioni: «ogni formazione concettuale, ed in particolare quei concetti che hanno una particolare rilevanza di principio all’interno dell’elaborazione scientifica – ad es. il concetto di corpo, di spazio, tempo, causa, ecc. – e così anche i concetti matematici e i concetti logici – ad es. numero, operazione, soggetto, predicato, qualità, relazione – hanno origine nell’esperienza quotidiana e concreta della realtà».
L’intera opera di Husserl, infatti, scrive Piana, è dominata dall’idea dell’origine. E senza l’acquisizione di questo specifico profilo del problema della riconduzione del senso della scienza ai valori della vita, non si può comprendere né il ricorrente riferimento husserliano, nel corso della sua opera, alle cosiddette strutture antepredicative, né la proposizione, nella Crisi, del tema cruciale del radicamento della scienza e delle sue formazioni concettuali nel mondo della vita e nelle sue prassi. La crisi che Husserl rimprovera alle scienze europee, infatti, non riguarda in alcun senso possibile la legittimità e il valore dei loro metodi e risultati. Bensì un certo modo filosofico d’intenderli, i cui esiti scettici sarebbero alla base di quella che egli considera la crisi della koinè europea. Da questo punto di vista, allora, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale non è altro che il titolo sotto il quale Husserl intende ripercorrere la teleologia insita nella storia della filosofia, dove il senso ultimo dell’impresa scientifica, che per primi i greci portarono a chiarezza spirituale, viene sempre di nuovo riportato alla luce e poi smarrito, o più semplicemente frainteso, lungo una strada che ha trovato nel Rinascimento, in particolare, uno snodo che richiede d’essere indagato.
Il Rinascimento è d’altronde, per Husserl, l’epoca che assume la geometria euclidea come modello per la scienza, ovvero, come teoria assiomatica che, nel suo stesso senso, ha implicite procedure di idealizzazione obbiettivante delle forme pure dello spazio la cui possibilità di principio può essere riscontrata già sul terreno dell’esperienza percettiva e della prassi della misurazione che su di essa può instaurarsi, per essere infine generalizzata alla totalità degli enti cui possiamo rivolgere il nostro interesse conoscitivo. È questa l’idea galileiana di scienza della natura, alla quale nella Crisi, com’è noto, viene dedicato ampio spazio. Soltanto con Galileo, infatti, per Husserl, ha davvero inizio la scienza moderna. E questo perché, sottolinea Piana: «In Galileo non si stratta soltanto di richiamarsi ad un ideale di scienza rigorosa, ma di estendere al mondo fisico in genere, quindi al mondo dei corpi, dei movimenti e delle relazioni tra essi quelle procedure di obbiettivazione che hanno già prodotto risultati così fecondi nel campo più ristretto delle forme e delle relazioni spaziali». Il progetto di afferrare l’essere vero delle cose fisiche si trova così direttamente connesso con quello di una matematizzazione della natura che ha per modello la geometria. In breve: «Ciò che è stato possibile per lo spazio deve diventare possibile per il mondo concreto in generale».
Cade qui il passaggio epistemologicamente illegittimo al centro della problematica della Crisi. E alla cui radice si trova la lettura inequivocabilmente platonica che Galileo offre del suo sapere, del tutto solidale, a dispetto delle apparenze, con il carattere sperimentale del suo metodo. Tralasciando di mettere al centro del suo interesse le procedure idealizzanti alla base delle obiettivazioni dei concetti di corpo, spazio, tempo, movimento e così via, delle cui relazioni egli dà mirabilmente conto attraverso le sue formule matematiche, Galileo finisce infatti con il contrapporre filosoficamente il mondo apparente dell’esperienza sensibile al mondo matematizzato inteso come mondo vero in sé. Contrapposizione il cui riflesso più notevole è la celebre distinzione tra qualità primarie e secondarie, che pur dovendosi storicamente a Locke, fu già di Galileo e, andando alle origini della questione, di Platone nel Teeteto.
La distinzione tra qualità primarie e secondarie, in effetti, se intesa alla lettera, sarebbe del tutto insostenibile: in che senso potremmo ritenere più oggettivi gli aspetti attraverso cui si dà la forma di una cosa, dalle sfumature che ne rivelano in base alla luce incidente il colore? Essa, però, consente a Galileo di sancire il metodo di idealizzazione implicito nelle prassi di misurazione come distintivo della sua scienza della natura ed estendibile universalmente a ogni campo del conoscere. Tale metodo, tuttavia, nota Piana, non funziona egualmente bene con qualunque oggetto d’esperienza. E non funziona, in particolare, con quelli che Husserl chiama plena sensibili, ovvero, i nostri oggetti d’esperienza in quanto non siano considerati come meri corpi, idealizzabili e obbiettivabili geometricamente secondo le loro possibilità di movimento e relazioni causali. E basta qualche semplice esempio per rendersene conto. Il differente approssimarsi dei nostri cerchi empirici al perfetto cerchio della geometria, per citare un caso, non trova alcuna significativa analogia nell’esperienza cromatica delle cose, dove ogni sfumatura, sebbene resti di quel certo e determinato colore, ha eguale titolo d’ogni altra per essere ritenuta perfetta. Ed è questa la ragione per cui è impossibile parlare di una geometria dei colori nello stesso senso in cui parliamo, legittimamente, di una geometria delle forme.
Questo è un punto decisivo. Che potrebbe mettere in questione anche certe letture “derridiane” di Husserl tratte da l’Introduction à “L’origine de la géométrie” (1962, trad. it. Jaca Book, 1987). Piana non le affronta, però. Preoccupandosi piuttosto di approfondire la propria chiave interpretativa. Forte della lettura platonizzante della propria scienza della natura, scrive Piana, Galileo suggerisce la necessità di «ricondurre ogni evento qualitativo ad eventi che hanno luogo entro una sfera di entità dominabili matematicamente». Ma non si limita a questo. Perché dal piano metodologico, come Husserl evidenzia, egli trasferisce la questione, illegittimamente, sul piano ontologico. Un passaggio in cui un ruolo chiave è svolto dalle nozioni di atomo, come punto geometrico e fisico in possibile movimento, e causalità. Se infatti fossimo in grado di ricondurre gli eventi qualitativi a eventi autonomi come causa di essi, avremmo ottenuto la generalità richiesta dalla nostra tendenza alla matematizzazione della realtà. Il prezzo che potremmo dover pagare, però, e che Galileo e molti sulla sua scìa hanno pagato, è di cedere all’idea per cui l’evento sperimentato vada inteso come un evento soltanto apparente, «che rinvia a una realtà sottostante come alla sua realtà vera in sé». (p. 75)
Lungo questa strada, allora, il rapporto tra le scienze e il mondo della vita, ovvero, «il nostro mondo da cui ha origine ogni istanza conoscitiva e al quale ogni istanza conoscitiva deve alla fine ritornare», può farsi sempre più remoto. Fino a farci perdere completamente le tracce delle operazioni costitutive soggettive e intersoggetive stanti all’origine delle metodologie sulle quali poggia la nostra conoscenza scientifica. Tutto ciò, tuttavia, nulla ha a che fare con un atteggiamento antiscientifico o antitecnologico, che allora tra i suoi interpreti più celebri annoverava certo anche Martin Heidegger. Anzi, contro i filosofi che si facevano vanto di rivendicare uno stile di pensiero supposto come più profondo di contro ai presunti vuoti formalismi della scienza e snaturamenti della tecnica, Piana richiama passi della Crisi inequivocabili, dove la denuncia della perdita del senso originario delle operazioni metodiche della conoscenza si lega in uno stesso nodo con la sottolineatura non solo della loro legittimità ma della loro ricchezza di pensiero. (p. 83)
Quanto detto sinora, tuttavia, non può ancora dar conto dell’enfasi che Husserl nella sua ultima opera pose sul tema della crisi, enfasi che travalica il semplice profilo epistemologico per investire la koinè europea in forme che richiedono ragioni supplementari per essere comprese. A tal fine, in un percorso delle cui ricca articolazione non è possibile dar conto in questa sede, Piana affronta allora il tema dei rapporti che Husserl instaura tra la fenomenologia e la tradizione filosofica, ovvero, la questione della teleologia insita nella storia del pensiero di cui il filosofo tedesco volle dar conto nella Crisi ma delle cui direttrici si può trovare già traccia rilevante negli inediti dal titolo Erste Philosophie raccolti nel volume VII dell’Husserliana, basati su un corso tenuto da Husserl presso l’Università di Friburgo nel semestre invernale 1923-24 ed editi in italiano nel 1989 nel volume Storia critica delle idee (Guerini e Associati) curato dallo stesso Piana. Come pure, seppur sotto una diversa angolatura, nella Einleitung in die Ethik di Edmund Husserl: le lezioni sull’etica tenute dal filosofo, sempre a Friburgo, tra il 1920 e il 1924, e pubblicate in Italia nel 2009 a cura di Francesco Saverio Trincia, nella traduzione di Nicola Zippel, con il titolo di Introduzione all’etica (Biblioteca Filosofica Laterza).
[Per una recensione: http://www.phenomenologylab.eu/index.php/2009/09/einleitung-in-die-ethik/]
Il debito che Husserl riconosce rispetto alla tradizione filosofica, infatti, appare duplice e ben distinto. Se da un lato rivendica il suo muoversi nel solco delle istanze programmatiche razionaliste di rifondazione radicale della scienza di Cartesio e di Kant, dall’altro è l’eredità empirista, rinvenibile in particolare nelle filosofia di Hume, a ispirarlo nelle analisi fenomenologiche minute, ovvero, nel concreto dispiegamento del lavoro descrittivo caratteristico del metodo fenomenologico. E questa duplice anima, nient’affatto contraddittoria, è di decisiva importanza per comprendere a fondo il gioco tra istanze epistemologiche ed etiche, teoriche e ideologiche, interne a un testo complesso come la Crisi.
Se Cartesio, con le sue Meditazioni metafisiche, ha infatti avuto il merito di individuare nella soggettività e nei suoi atti l’orizzonte ultimo di fondazione di ogni verità possibile, ne ha frainteso il senso, certo di poter trarre per via deduttiva da tale scoperta il sistema della scienza senza dover dare inizio ad alcun effettivo compito descrittivo.
Diversamente stanno le cose per Hume, il quale, in particolare nel Trattato sulla natura umana, ha dato vita a un’autentica prima analisi fenomenologico-costitutiva. La mancanza in Hume di chiari presupposti metodologici, però, sarebbe stata in ultima istanza fatale per la sua filosofia, i cui esiti scettici in ambito epistemologico s’accompagnano a un limite evidenziato da Husserl tutt’altro che secondario: la mancanza di un éthos adeguato, ovvero, la tendenza prevalente e ingiustificata a ridurre la filosofia, le sue domande, le sue investigazioni e istanze di fondazione ultima, a niente di più che a un colto e sofisticato divertissement intellettuale. Nulla di più lontano, quindi, dalla serietà alla quale al contrario Husserl sempre richiama la filosofia e i suoi compiti, serietà che, sul piano programmatico, oltre che a Cartesio, lo riconnette a Kant e alla sua idea di fondazione trascendentale non soltanto della ragione teoretica ma anche, e anzi prioritariamente, della ragione pratica. E tuttavia, si sbaglierebbe a vedere in Husserl un erede sul piano della concreta metodica di ricerca di Kant. Il richiamo a quest’ultimo, fortissimo sul piano delle istanze programmatiche d’ordine generale, è infatti del tutto fuorviante dal punto di vista del merito filosofico. E questo accade nella stessa misura in cui centrale per Husserl resta invece la lezione empirista di Hume. Come in chiara sintesi scrive Piana: «Nello spirito della concezione kantiana il giudizio precede l’esperienza, le sue forme sono a priori. E già il titolo della grande opera di Husserl, che non ha nulla che le assomigli nell’intera storia della filosofia, Esperienza e giudizio, mostra che in realtà adottando un punto di vista fenomenologico ci muoveremmo esattamente in direzione opposta». (p. 107)
Tutto ciò è rilevante anche per intendere la Crisi. È importante, infatti, partire dal riconoscimento del fatto che fin dall’inizio «l’introduzione del concetto di fenomenologia attraverso l’epoché ovvero, come spesso si esprime Husserl, la teoria della riduzione fenomenologica, viene caratterizzata da Husserl stesso come una vera e propria svolta all’interno del proprio pensiero». (p. 111) E che questa caratterizzazione si rafforza via via fino a raggiungere, nella Crisi, un culmine, che difficilmente le preoccupazioni di carattere prevalentemente metodologico presenti agli inizi di tale percorso giustificano. Scrive Husserl, nella Crisi, che l’epoché è capace di «raggiungere le massime profondità filosofiche» e che per suo tramite «è possibile un mutamento radicale dell’umanità» (Crisi, § 40, p. 178). Ma spiega anche come essa sia destinata a produrre «una completa trasformazione personale che sulle prime potrebbe essere paragonata a una conversione religiosa, ma che, al di là di ciò, è la più grande evoluzione esistenziale che sia concessa all’umanità come tale» (ibidem, § 35, p. 166). Questo innegabile mutamento di registro è indice, per Piana, del venire prepotentemente in primo piano di nuovi motivi nella sua riflessione, che travalicano le questioni teoriche da cui la fenomenologia ha preso le mosse, costringendoci a un approfondimento del contesto storico da cui i temi della Crisi sono scaturiti. Riconoscere una piega ideologica nella Crisi, d’altronde, non significa certo ridurne la pregnanza. Semmai esaltarne la ricchezza, anche in termini di testimonanza storica e culturale.
I roghi di libri “contrari allo spirito tedesco” organizzati nel 1933
in Germania dalle Associazioni degli studenti nazisti.
Ineludibile, allora, diviene il richiamo del contesto in cui progressivamente matura in Husserl il desiderio di tentare di offrire una risposta all’autentica catastrofe cui la sua generazione sta assistendo e alla quale anche attivamente sta partecipando. «La crisi non è una parola o parte del titolo di un libro. È un’epoca intera, l’epoca della grande tragedia, dell’abisso in cui l’Europa precipita con la prima guerra mondiale e che diventa sempre più vertiginoso con l’approssimarsi della seconda. È l’epoca dei grandi rivolgimenti – della rivoluzione russa e del suo tragico epilogo staliniano; del fascismo mussoliniano e del nazismo». (p. 119) È l’ottimismo culturale di un’epoca, l’epoca di un’Europa che, sotto la guida che si riteneva razionale del suo progresso scientifico e tecnologico, sembrava espandersi senza resistenze, a venire qui tragicamente meno. Un ottimismo nel quale certamente Husserl era stato formato e che ora lo costringe drammaticamente a porre la domanda: come ciò sia stato possibile? Come quell’idea così limpida e fulgida di Europa, che avrebbe dovuto essere destinata a farsi koiné universale improntata ai valori della ragione teorica e pratica, sia entrata a tal punto in contraddizione con se stessa e con i propri ideali da veder dilagare sul suo suolo simili barbarie.
La Crisi, da questo punto di vista, è allora il tentativo di Husserl di offrire la propria risposta a questi interrogativi angosciosi. E Piana, al fine di ricostruirne con più precisione i risvolti, mette tale risposta a confronto con quelle degli orientamenti filosofici con i quali, seppur in modi diversi, il pensiero husserliano s’è storicamente intrecciato. In un confronto serrato e appassionato con le istanze sia dell’esistenzialismo heideggeriano sia del neopositivismo viennese. Per quanto lontane, infatti, e per certi versi del tutto opposte in rapporto al giudizio sulla modernità, la scienza e la tecnica, tali prospettive filosofiche paiono entrambe scivolare lungo un crinale scopertamente irrazionalista, in rapporto al quale, al netto di pervicaci fraintendimenti che Piana evidenzia, la fenomenologia s’è al contrario tenuta ben lontana.
Tale irrazionalismo, in effetti, è il terreno sul quale sarebbe maturata anche l’adesione di Martin Heidegger al nazismo, qualcosa di più di un episodio estrinseco a Essere e tempo, rammenta Piana, benché una folta schiera di “minimizzatori”, come li chiamò Paolo Rossi, abbia spesso eluso la questione. Basti ricordare i paragrafi che vanno dal 53, sulla morte, al 74, sul destino storico della comunità, dove Heidegger propugna l’idea che l’unico modo di esistenza autentica per l’Esserci sia l’anticipazione della morte, la rinuncia di chi è “in favore dell’essere” a se stesso a vantaggio della comunità, del popolo, in vista del “proseguimento della lotta”, espressioni in cui riecheggiano passi famosi del Mein Kampf di Hitler, come quelli del capitolo su Popolo e razza. Ma anche il neopositivismo logico, sebbene per una via opposta a quella cupamente antimoderna di Heidegger, finì col far registrare una sorta di bancarotta della razionalità. Accadde per l’ottimismo passivo ereditato dal positivismo del secolo precedente, attraverso il cui filtro fu accolta la trasformazione scientifica, tecnologica e industriale della propria epoca. Fu figlia di tale ottimismo la cecità di fronte alle drammatiche contraddizioni che la modernità accumulava. E il silenzio in merito alla necessità di elaborare strategie razionali per scioglierle. È emblematica, in questo senso, la conclusione cui Rudolph Carnap perviene nel Manifesto per una concezione scientifica del mondo (1929) del Circolo di Vienna. Se infatti, come vi si afferma, al di fuori delle proposizioni analitiche e delle proposizioni su stati di cose particolari non v’è altro che un oscuro sentimento della vita cui dà espressione il mito, la religione, l’arte. E se il filosofo non neopositivista non è altri che un metafisico, ovvero, un “musicista senza talento”. Allora è chiaro che al di fuori del pensiero scientifico la razionalità è messa fuori gioco. E così, in luogo dell’heideggeriano “nulla” contrapposto all’ente intramondano dell’esistere inautentico del “si”, i nepositivisti finiscono col porre un non meno oscuro “sentimento della vita”, al cospetto del quale la razionalità è tenuta a tacere. E tacque, infatti. Forse sconcertata di fronte a un corso degli eventi in così stridente contrasto con le sue attese.
Parata filonazista a Vienna, in occasione dell’Anschluss (1938)
con cui la Germania si annesse senza trovare opposizione l’Austria.
Nulla di tutto ciò è riscontrabile nella Crisi di Husserl. Qui, se pur positivismo c’è, è critico e radicalmente attivo. Ma in un senso specifico, che chiama in causa la questione del cosiddetto idealismo di Husserl in una chiave nuova rispetto al passato, quando il richiamo al trascendentale svolgeva soprattutto il ruolo metodico di sottolineare e approfondire lo iato tra la fenomenologia e qualsiasi forma di indagine naturalistica. Piana mette la questione giustamente in luce, quando scrive che non si può comprendere La crisi delle scienze europee «se non si riconosce in quest’opera una concezione del processo storico che vede nel movimento delle idee il suo motore fondamentale». Di fronte al problema di una ricerca dei motivi della crisi, infatti, Husserl non si rivolge mai «alla storia reale nella determinatezza dei suoi processi economico-sociali, nei suoi conflitti storicamente determinati che purtroppo non sono soltanto conflitti di idee: ci si rivolge in modo esclusivo alla storia della filosofia». (p. 185) E quest’ultima dovrà essere intesa come un conflitto ideale che sembra dover trarre le proprie ragioni esclusivamente da se stesso: il conflitto tra obiettivismo e trascendentalismo, tra una ragione ignara del terreno sul quale poggia le proprie pretese e una ragione invece fondata, nel senso di capace di dar conto, fenomenologicamente, delle proprie ragioni. Un vero razionalismo.
Lungo questa strada si fa largo il tema della teleologia. E del ruolo che nella storia deve svolgere la filosofia. Nel frangente drammatico dell’Europa degli anni ’30, infatti, la fenomenologia trascendentale come la si era conosciuta fino a quel momento scolora fin quasi a scomparire, proprio attraverso una sopravvalutazione dei suoi compiti. Essa diviene «una sorta di credo salvifico, che tende a perdere i propri appigli con la realtà e a dissolversi negli orizzonti dell’utopia». Non è più solamente il filosofo a essere chiamato a una rivoluzionamento del suo sguardo sul mondo, ma l’umanità stessa. Tale rivoluzionamento, scrive Piana, deve condurre «da forme di esistenza in cui le persone si trovano sotto il dominio delle “cose” a forme di esistenza in cui la “cosa” venga sopravanzata dalla soggettività e la società stessa possa da se stessa determinare il proprio destino». Al filosofo, come funzionario dell’umanità, spetta il compito di innescare questo risveglio della ragione. Un ruolo che Husserl, con richiamo platonico, non esita a definire arcontico.
L’enfasi nuova che qui viene posta sulla fenomenologia trascendentale e sull’epochè come sua strada maestra, è evidente. L’epoché, sotto la pressione delle urgenze presenti, è divenuta da indice metodico un indice storico che punta verso una conversione dello spirito dai toni quasi religiosi. Ma la rivoluzione che s’invoca è tutta filosofica: un ridestare l’Europa al proprio compito razionale, per Husserl destino dell’umanità tutta, per sfuggire alla logica della realtà come regno della forza, della prevaricazione tra nazioni, razze, individui, e della violenza che non riconosce norma morale.
«Il maggior pericolo dell’Europa è la stanchezza. Combattiamo contro questo pericolo estremo, da buoni europei, con quella fortezza d’animo che non teme nemmeno una lotta destinata a durare in eterno. Allora dall’incendio che distruggerà lo scetticismo, dal fuoco soffocato della disperazione per la missione umanitaria dell’Occidente, dalla cenere della grande stanchezza, rinascerà la fenice di una nuova interiorità di vita e di una nuova spiritualità, il primo annuncio di un grande e remoto futuro dell’umanità: perché soltanto lo spirito è immortale».
«Una gridata manifestazione di speranza», scrive sul finire Piana. «Ma anche di impotenza».
La Notte dei cristalli, tra il 9 e 10 novembre 1938: fu un pogrom condotto dai nazisti in Germania, Austria e Cecoslovacchia. 7.500 negozi ebraici furono distrutti, oltre 200 sinagoghe incendiate o distrutte, centinaia gli omicidi o suicidi. Circa 30 000 ebrei furono deportati nei campi di concentramento di Dachau, Buchenwald e Sachsenhausen. Edmund Husserl era morto pochi mesi prima, il 26 aprile 1938.
***
Alla fine della ricognizione di queste Conversazioni, le quali contengono nelle loro pieghe molte più cose di quelle che ho raccontato, a partire dall’affascinante ricostruzione della affinità profonda, trascurata dagli interpreti, tra le filosofie della matematica di Husserl e di Gödel, mi permetto una riflessione del tutto personale, che riguarda il senso di questa “impotenza” avvolta nella “speranza” dell’appello alle ragioni immortali dello spirito di Husserl: l’impotenza delle filosofia, ma più in generale delle cultura, talvolta, di fronte al precipitare degli eventi della nostra vita reale.
Quando mi avvicinai alla fenomenologia avevo circa vent’anni e frequentavo il Dipartimento dell’Università Statale di Milano. Quel luogo aveva un’aura particolare, allora, per noi studenti. Lì, in quelle aule e in quei corridoi, dove pure si studiava non di rado sugli scalini, Rossana Rossanda aveva ascoltato le lezioni di Antonio Banfi, che le avrebbero cambiato la vita. Ed Enzo Paci fondato Aut-Aut, sulle cui pagine, bravissimi e giovanissimi, si erano fatti le ossa molti nostri professori. Avevo letto qualcosa di Paci, del suo tentativo di conciliare marxismo e fenomenologia. E così, essendo interessato a Marx, m’infilai curioso in un’aula dove Giovanni Piana aveva appena dato inizio a un corso introduttivo alla fenomenologia. Il risultato fu che m’innamorai della fenomenologia e smisi (o quasi) di studiare Marx.
La passione per la politica rimase in me viva, a ogni modo. E lo è ancora. Ma si separò in un certo senso da quella per la filosofia. La fenomenologia insegnava a concedersi wittgensteinianamente tempo nel fornire risposte. La politica richiedeva risposte, rapide e spesso drastiche. Non si poteva andare troppo per il sottile.
Rimase salda in me la convinzione, tuttavia, che la politica restasse l’eterna grande tentazione della filosofia. Intendo la politica in senso ampio: ricompresa e non esclusa dall’etica. Non ci si avvicina davvero alla filosofia se non per ragioni etiche. E dunque anche politiche. Ora, la distanza tra l’epoca tragica in cui Husserl ha scritto la Crisi e questa vigilia di elezioni europee va percorsa tutta. Perché è molto grande. E tuttavia, credo sia difficile non riconoscere che qualcosa di prezioso racchiuso in quell’idea d’Europa cui allora Husserl, in ben altri frangenti, faceva appello, sia tutt’ora in gioco. La cultura certo è in gioco. Quella italiana ed europea, infatti, è una crisi identitaria perché è una crisi culturale: “Perché che cos’è una Patria se non è un ambiente culturale?” chiedeva Luigi Meneghello, intellettuale, scrittore, partigiano e molte altre cose. Una crisi, quindi, del nostro modo di conoscere e capire le cose, come scriveva Meneghello. Una crisi in definitiva del linguaggio: della responsabilità, o meno, che ci assumiamo nei suoi confronti.
Di fronte a questa crisi, è innegabile, quindi, che chi ama la cultura si senta spesso impotente. E nel tentativo di risolvere tale frustrazione, sia indotto a usare la filosofia come una leva, una leva fatta di parole, di cui inarcare lo stilo fin quasi al punto di rottura, nella speranza di imprimere una direzione migliore agli eventi; o almeno di opporsi alla loro peggiore deriva. È comprensibile e anche giusto. Ma a patto che mantenga sempre vivo in sé il senso del proprio limite: il rischio della propria “sopravvalutazione”. Che è poi il senso, sempre sospeso tra tragedia e commedia, della storia, che non è battaglia soltanto di idee, nonostante le belle parole che Husserl dedica loro. Anzi, non lo è prevalentemente. Per questo insisto, anzitutto con me stesso, quando la frustrazione per lo stato di cose presenti raggiunge il mio di punto di rottura, sul fatto che tenere il più possibile in ordine il campo da gioco, comunque la si pensi sui giocatori, sull’andamento della partita e anche sulle sue regole, è la priorità di ogni attività culturale, e insieme il suo nocciolo filosofico. Lo stile, se non è tutto, è quasi tutto nella cultura. Il modo è il merito; o comunque, non può oltre un certo limite contraddirlo. Questo non significa sciogliere la cultura da altre attività della vita, a partire dalla politica. Ognuna, infatti, ha in sé la possibilità di mantenere sempre aperto l’interrogativo sul senso delle proprie operazioni, che non è altro che il proprio ancoraggio alla cultura. La sopravvalutazione di tale possibilità, tuttavia; le disillusioni che ne possono seguire; lo scetticismo e il discredito che rischiano di gettare sulla cultura stessa, sulla sua capacità di prendersi cura del linguaggio per mantenere per quanto possibile in ordine il campo da gioco: ecco, io credo che questo sia uno dei segni di questa crisi. E forse il più grande pericolo. Questo andrebbe capito: ogni attività non eminentemente culturale, sarà sempre per un qualche profilo insoddisfacente per l’uomo di cultura. Accettarlo e tuttavia non disertare è la cosa più difficile. Ma anche il compito più elevato che la cultura si può dare.
Il libro sulla Crisi di Giovanni Piana si chiude con un Appendice in cui riporta l’omaggio che, su L’Unità, egli dedicò a Enzo Paci poco dopo la sua scomparsa, il 21 luglio 1976.
Ne riporto un passo, perché per una qualche ragione è entrato per me in risonanza con tutto quello che fino a qui è stato scritto. I corsivi sono miei: «Nel 1965 egli volle raccogliere sotto il titolo di Relazioni e significati i saggi che riteneva fra i più indicativi di un periodo compreso tra il 1946 e il 1964. Ad essi converrà riandare per rendersi conto, in primo luogo, di un atteggiamento, di uno stile che ha ragioni profonde nella personalità di Paci. In questo atteggiamento vi era, più aspra e più forte di quanto forse in Paci stesso si rendesse conto, una polemica contro quella che potremmo chiamare semplicemente: la ristrettezza della mente. L’angustia intellettuale. Il sostenere qualcosa che può anche essere fondamentalmente giusto, ma il sostenerlo angustamente. Senza capire che ci sono anche altre istanze. Che non si può schernire nulla o quasi nulla. Che è necessario, comunque, cercare di comprendere». (p. 204)
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