Della seguente intervista è andata perduta dai miei fogli traccia del giornale o rivista in cui venne pubblicata e dell’intervistatore. G.P.

 

 


 

D. La prima edizione della sua "Filosofia della musica" è andata rapidamente esaurita, ed è ora uscita una ristampa dell'opera. Si tratta certamente di un segno di un interesse assai  vivo per l'argomento. Esiste nel nostro paese una tradizione di studi in tal senso?

R. In realtà, la cultura filosofica italiana - in larga parte dominata da influenze idealistiche - ha misconosciuto la ricchezza dei problemi che la musica propone alla riflessione filosofica.  Ed è stato certamente un rimedio peggiore del male il successo avuto in passato dall'opera di Adorno in Italia, che oltre a trasmettere pregiudizi di ogni genere che affiorano talvolta inaspettatamente ancora oggi e che quindi si mostrano particolarmente radicati, ha proposto un'idea assai limitata dei compiti e dei problemi di una filosofia della musica, oltre a stabilire una solida-rietà interna tra una considerazione filosofica della musica e una considerazione sociologica che a sua volta non ha nessuna necessità intrinseca. Si sentiva il bisogno in effetti - un bisogno a cui certo non so se ho saputo dare una risposta adeguata, ma mi auguro almeno un piccolo inizio - di un ripensamento di questo rapporto, sia sul versante degli interessi filosofici che su quello degli interessi musicali. Noto di passaggio che non si tratta affatto di mescolare malamente le carte, e che al contrario è necessario reagire alla tendenza del filosofo ad introiettare ogni cosa così come alla tendenza del critico musicale (non di tutti! ma vi è qualche caso raro e particolarmente vistoso) a fare scorribande nell'ambito delle citazioni filosofiche al solo scopo di sbalordire il lettore e metterlo il più presto possibile fuori gioco manifestando così la propria autorità (ad un critico di questo genere questa Filosofia della musica non può certamente piacere e può sembrare persino "pericolosa"). Come filosofo a me piace insegnare anzitutto a pensare in modo autonomo e indipendente.

D. Nel suo libro si afferma, e questa mi pare una delle idee centrali, che "una filosofia della musica può cominciare soltanto facendo un passo indietro" ed occuparsi del suono prima ancora che questo entri a far parte di un determinato sistema musicale. In questa idea assolve un qualche ruolo il riferimento alla musica novecentesca?

R. L'idea del "passo indietro" fa parte del patrimonio teorico della filosofia fenomenologica, a cui io mi ricollego, ed è stret-tamente connessa con la possibilità di una teoria gene-rale della musica, così come la retrocessione dal "giudizio", cioè dalle forme linguistiche che sono logicamente strutturate, all'esperienza antepredicativa faceva già parte dell'idea di una grammatica generale nelle Ricerche logiche di Husserl. Essa era presente anche nel tema di ciò che Enzo Paci chia-mava "precategoriale" - dando di esso un'originale interpreta-zione. Io ho cercato di mostrare la portata di questa idea quando essa venga proposta nell'ambito musicale. Ma è certamente un fatto notevolissimo che l'elaborazione che ne risulta finisca con il collegarsi strettamente con le vicende della musica novecentesca. Per cogliere questo collegamento è tuttavia necessario modificare punti di vista consueti e guadagnare nuovi luoghi di osservazione. Di fatto vi è stata una tendenza, soprattutto nell'ultima ventina d'anni, a far notare - anche per la produzione musicale stilisticamente più avanzata - la presenza di echi della tradizione musi-cale del passato, gli stessi programmi concertistici molto spesso sono stati determinati da questo intento. Quando si parlava maggiormente di "avanguardia", questo stesso concetto sottolineava l'idea di un'anticipazione di una dimensione futura che comunque aveva le sue radici nel passato, sottolineava in altri termini la necessità di un processo. In entrambi i casi si rischia di non cogliere che uno dei tratti che caratterizzano la stessa essenza della musica-lità novecentesca, e la sua novità, è proprio un regresso, il re-gresso verso quei margini in cui la musica non c'è ancora, ma co-mincia ad esserci - dunque verso l'esperienza del suono, che è an-che un regresso alle origini della musica. Alla sua gioventù. Ma non si tratta affatto di una situazione semplice: forse dobbiamo al contrario scoprire una complicata dialettica tra il giovane e il vecchio. Rievochiamo il mito della "fontana della gioventù", ma non possiamo dimenticare che intorno a questa fontana si aggirano soprattutto vecchi decrepiti. Ed anche per il musicista questo re-gresso è pieno di rischi perchè esso significa prendere un percorso che conduce ai "limiti della terra fertile" - la bella frase di Klee ripresa da Boulez e che assume per noi un senso particolarmente pregnante.

D. Nel capitolo intitolato "Tempo", Lei sembra voler prendere le distanze, anzitutto da quell'impostazione introspettiva che  tende subito ad accostare la temporalità musicale alla temporalità interiore, quindi ai "vissuti", alla "soggettività", alla "affettività". Anche nelle considerazioni sul ritmo sembra che si tenda a superare ben presto il piano dell'associazione tra ritmo e movimenti corporei, ed a parlare piuttosto del ritmo come struttura.

R. A dire il vero, di fronte a chi insistesse troppo sul rife-rimento "interioristico", tenderei a fare un'apologia del rapporto con la corporeità, con il movimento fisico, soprattutto il rapporto con la danza come manifestazione gestuale esterna, destinata alla vista, che crea forme e figure visive. Ma si tratterebbe di una risposta incompleta, alla quale si potrebbe d'altra parte ob-biettare facendo notare la presenza di fortissimi rimandi affet-tivi nella gestualità corporea. Ciò che io in realtà mi sforzo dimostrare è che la giustificazione ricorrente del riferimento alla soggettività ed all'affettività attraverso il tema della temporalità è priva di fondamento e che nell'approccio alla questione così controversa del ritmo sia opportuno isolare ciò che in rapporto ad esso possiamo dire considerandolo strettamente sotto un profilo temporale. Ne risulta, allora, come Lei dice giustamente, una forte accentuazione del problema del ritmo come strutturazione del tempo. Ciò libera il terreno per ulteriori approfondimenti. Sullo sfondo di tutto ciò vi è in ogni caso una precisa presa di posizione: la musica è un fenomeno vario e molteplice, alla musica appartengono messe e ninne nanne, e allora perchè precludersi il godimento di questa molteplicità attraverso l'impiego di formule esplicative inevitabilmente riduttive?

D. Nel capitolo "Spazio", forse il più denso dell'intero libro, si parla di "regole fenomenologiche" relative ai suoni che sarebbero indipendenti dalle "abitudini" uditive, dalle "convenzioni" linguistiche, dalle differenze culturali. In particolare viene avviato uno studio filosofico sulla consonanza e sulla dissonanza. Si vuole forse affermare, anche in questo caso, che consonanza e dissonanza non sono il risultato di abitudini stratificate nell'ascoltatore? Di quali strumenti dispone il filosofo per compiere una simile indagine?

R. Non voglio affatto entrare nella disputa, spesso così ste-rile, tra interessi generali della filosofia e specialismo. Il filosofo pretende spesso di far da maestro su tutto ed a tutti, e per punizione, appena gira l'angolo trova una vera folla di maestri che gli spiegano come stanno realmente le cose. Ciò che importa invece sono i problemi, le soluzioni che è possibile pro-porre intorno ad essi, le discussioni che generano. Spesso quando si parla convenzioni, di abitudini uditive, di "linguaggi", non ci si rende affatto conto di quanto queste parole siano dense di implicazioni teoriche, di conseguenze su piani diversi, non solo di carattere filosofico generale, ma anche in rapporto a problematiche musicali specifiche. Nessuno forse sosterrebbe che una differenza rilevante tra una forma visiva ed un'altra, ad esempio, tra un quadrato ed un  cerchio, sia "convenzionale", dovuta all'abitudine ed a presupposti socio-culturali, mentre si è stati spesso tentati di sostenere una cosa simile nel caso di differenze musicalmente significative come la differenza tra consonanza e dissonanza, tra il grave e l'acuto e molte altre. Ciò d'altra parte mostra che la questione ha alcuni aspetti che non sono affatto ovvi. Uno studio filosofico dovrebbe contribuire anzitutto ad un suo chiarimento ed a una sua corretta impostazione. La centralità attribuita alla nozione di spazio sonoro mi sembra andare incontro a questa esigenza. Vorrei aggiungere che questa tematica rientra nel quadro del problema di una teoria generale della mu-sica, a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza: si tratta di un punto di vista di cui si avverte oggi l'esigenza in particolare ai fini di un orientamento all'interno delle metodologie analitiche che vengono proposte da varie parti. Al dubbio sull'opportunità di perfezionare il dibattito filosofico e di contribuire ad un vero e proprio rinnovamento della teoria musicale, credo sia sufficiente reagire attirando  l'attenzione sul fatto che i modelli, spesso molto sofisticati, che oggi vengono proposti nell'ambito dell'analisi musicale - il settore di punta del dibattito teorico - hanno origini e implicazioni filosofiche particolarmente rilevanti, che non si possono ignorare se non con il rischio di una loro ricezione  ingenua e sprovveduta.

D. L'intero percorso del libro si chiude con una riflessione sulla musica come processo simbolico. Alla luce di essa che cosa rimane della vecchia polemica tra formalismo e contenutismo?

R. Questa vecchia polemica in realtà rappresenta solo un punto d'avvio che intende agevolare la strada al lettore verso una problematica che si sottrae completamente alla falsa alternativa proposta in essa. Questo modo di procedere è forse esposto al rischio di qualche incomprensione. Il punto centrale sta nella risposta alla domanda della parte che ha l'immaginazione nella produzione e nella ricezione del brano musicale. E ciò richiede a sua volta che si disponga di una teoria dell'immaginazione alla luce della quale quella domanda possa essere formulata in modo realmente efficace e significativo. Mi sembra che le nozioni di sintesi e di valorizzazione immaginativa, che ho teorizzato altrove, trovino in rapporto a questo problema un'applicazione suggestiva che non è priva, così almeno mi sembra, di aspetti nuovi e che non può in ogni caso essere interpretata riduttivamente come se si trattasse di riproporre l'idea, anch'essa molto vecchia, dell'"allusività" e della "polisemanticità" del simbolo. Inoltre non va perso di vista il fatto che, secondo l'impostazione proposta, il tema dei nessi, delle relazioni e delle connessioni formali - quindi della "matematicità" della musica, benchè si tratti di una matematicità che raggiunge il terreno della sensibilità - precede e sta a fondamento  di ogni discussione intorno alle direzioni simboliche.

D. Per concludere?

R. Mi piacerebbe ringraziare tutti i giovani, musicisti e non musicisti, che hanno seguito il mio lavoro in questi ultimi tempi con un interesse crescente che è stato per me di grandissimo stimolo ad un approfondimento ed a un miglioramento.

 


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