Versione integrale del testo
Giovanni Piana, Filosofia della musica (1.55 MB) (pp. 345)
Questo testo è distribuito anche da ARIFS
e lo è stato, in precedenza, dal gruppo Acusma alla voce Bibliografia
Questo volume è stato segnalato al Premio Ugo Mursia per la Filosofia dell'anno 1990 ed è stato pubblicato inizialmente dall'Editore Angelo Guerini e Associati nel 1991. Si ringrazia l'Editore per la gentile autorizzazione a questa versione digitale (2005).
NOTE E RECENSIONI
Scambio epistolare con Antonio Serravezza
Marcello La Matina, Osservazioni sul significato della musica
Alessandro Arbo: Osservazioni da "Il suono instabile"
Recensione di Carlo Migliaccio
PierAngelo Sequeri. La seduzione dei suoni.
Con una lettera di Giovanni Piana
Recensione di Michela Garda e scambio epistolare su di essa
Recensione di Roberto Miraglia
Scheda a cura di Andrea Garbuglia
Pierfrancesco Matarazzo, La musica per sé: una nuova edizione della “Filosofia della musica”
Domande e risposte sulla "Filosofia della musica" - Intervista
Il filosofo in ascolto - intervista a cura di M. Verzoletto
«Filosofia in musica». Intervista a cura di Roberto Zambonini
Una lettera di Margherita Di Carlo
Emanuele Ferrari: Sulla critica della posizione semiologica in Giovanni Piana
Giovanni Guanti: "Interrogare filosoficamente la musica"
Introduzione
§ 1.
Breve riflessione sulla musica del secolo scorso
Non possiamo fare a meno di notarlo: la musica del nostro secolo che così spesso ha meritato e vantato, secondo le più varie formulazioni e accentuazioni, soprattutto il suo essere nuova è ormai diventata, nell'ineluttabilità del tempo che passa, la musica di un secolo che ora volge al suo termine. Fra non più di una decina d'anni avremo tutti i diritti di rivolgerci a essa con quel senso di passato che viene realmente avvertito forse soltanto quando possiamo parlare riferendoci al secolo scorso, per quanto un simile schema temporale possa essere ritenuto arbitrario e irrilevante.
Ma richiamare l'attenzione su questa circostanza non vuole affatto essere la premessa, peraltro inconsistente, per un discorso sull'invecchiamento, ma al contrario per fissare questa novità come una delle caratteristiche interne della musica novecentesca. Di essa è del resto possibile fornire un'interpretazione che ha ben poco a che vedere con la dimensione puramente temporale, con l'avvicendarsi del vecchio al nuovo.
Gettiamo dunque uno sguardo d'insieme, già installati nel secolo appena futuro, alla musica del xx secolo. E allora avremmo forse ragione di notare: al di là della grande complessità intrinseca delle vie intraprese, della differenza dei progetti e dei pensieri che stanno alla loro base, vi sono certamente tratti comuni che in qualche modo sono in grado di tipicizzare la vicenda musicale novecentesca, e a questo proposito proprio il parlare di novità coglie nel segno.
Tuttavia occorre subito precisare: parlando di novità come una caratteristica della musica novecentesca, non vogliamo semplicemente ribadire ciò che essa ha continuato a dire e a ridire di se stessa, ma vogliamo piuttosto - e qui naturalmente i termini e il senso del problema mutano profondamente - cogliere un atteggiamento verso il nuovo come un atteggiamento peculiare, che caratterizza la musicalità novecentesca, il modo d'essere del Novecento nella musica e per la musica.
Certo, siamo consapevoli di come sia arrischiata già la stessa pretesa di rintracciare qualcosa di simile a dei tratti caratteristici e come si possa, nel tentare di soddisfare questa pretesa, pervenire a formulazioni che possono apparire astratte e ben poco significative. Eppure abbiamo la sensazione che, annoverando tra essi l'atteggiamento verso il nuovo, non si abbia a che fare con una vuota generalità, ma con uno dei punti di vista che possono essere utilmente assunti per vedere da una diversa angolatura cose mille volte già viste, cominciando a scorgere problemi ricchi di senso e difficoltà inavvertite.
Intanto dobbiamo essere in grado di afferrare tutto ciò che si chiama realmente in causa chiamando in causa il nuovo è nuovo ciò che non appartiene alla cerchia delle cose familiari e note, andare verso il nuovo significa in qualche modo allontanarsi da casa, addentrarsi in un paese straniero. Novità vuol dire dunque anche estraneità, differenza, sradicamento e viaggio. Perciò non è affatto interessante chiedersi se e quando vi sia stata novità nella musica novecentesca domanda che diventerebbe forse ben presto oziosa quanto riconoscere in essa una esigenza fondamentale che la caratterizza in profondità. Ovunque, nelle più diverse e diversamente motivate proposte musicali, sembra potersi applicare l'immagine di un cerchio come delineazione di un confine che deve essere oltrepassato. Ovunque si scorgono limitazioni, barriere che ci stringono da ogni parte e che esigono di essere superate, e proprio in esse consiste il vecchio a cui si contrappone il nuovo, nell'abbattimento di queste barriere consiste soprattutto l'innovazione.
Ciò vale naturalmente per il superamento del linguaggio tonale il primo passo decisivo. Per quanto si possa mostrare la continuità di un processo in cui questo superamento può apparire come il suo esito coerente, è più interessante per noi portare ora l'attenzione piuttosto sul momento della rottura, e quindi, se mai, su un processo di erosione progressiva che produce alla fine un varco dal quale si può uscire all'aperto. Ciò che la pratica musicale ha sempre mostrato di sapere che nessun privilegio intrinseco spetta al linguaggio della tonalità dal punto di vista espressivo arriva infine alla più chiara consapevolezza teorica, e con ciò viene a cadere l'idea di un sistema fondamentale prossimo più di ogni altro all'essenza stessa della musica, come anche l'idea di un finalismo interno capace di operare la subordinazione di ogni forma di espressione musicale entro una prospettiva unitaria.
L'apertura al nuovo si rivela così fin dall'inizio essere un'apertura al molteplice. Non solo vi sono molti modi di intervenire nella crisi del tonalismo e di operarne un superamento una circostanza che ancora oggi si tende a trascurare immiserendo con falsi schematismi la ricchezza di dimensioni della musicalità novecentesca ma questo superamento va compreso e integrato in un più ampio processo di acquisizione delle esperienze musicali extraeuropee, dall'altra musica, che può perciò essere considerata anch'essa musica nuova. Come abbiamo osservato poco fa, l'idea della superiorità della musica europea, laddove non ha come conseguenza il puro e semplice disinteresse, comporta una sorta di distorsione finalistica, come se il linguaggio musicale europeo fosse anche situato al livello finale di uno sviluppo a cui non potevano che tendere anche le altre culture con maggiore o minore successo. Solo l'effettivo venir meno di una simile idea può consentire un approccio che preservi l'autonomia dell'altra musica da quelle pratiche assimilatrici che ne annientano l'alterità e che, all'interno di un simile finalismo, potevano essere ritenute plausibili e senza problemi.
Lo stesso si può dire per il modo in cui riemerge nella musica novecentesca ai suoi inizi il problema della musica popolare e della sua relazione con la musica colta. Questo problema fa parte della musica di sempre: ma solo nel nostro secolo la musica popolare viene assunta come un altro linguaggio da scatenare contro o da innestare come elemento esplosivo all'interno della musica colta. Il cerchio che chiude è qui rappresentato proprio dall'idea che il nuovo sia acquisito semplicemente esplicitando e dispiegando tensioni appartenenti al passato, in una sorta di logico sviluppo di una tradizione che pretende di bastare a se stessa e di attingere da se stessa l'energia per andare più avanti. Rompere il cerchio potrebbe allora significare acquisire di salto forme di espressione musicale nuove, che sono tali non già perché superano il passato prossimo, promuovendo un passo dopo l'altro il futuro, ma perché appartengono a un'altra dimensione storica, nella quale esse sono del resto ricche di passato.
Diventa così sempre più chiaro in che modo sia possibile fare riferimento al nuovo in un senso più ampio, più ricco e profondo di quanto lo sia quello che vincola la parola alla pura dimensione temporale.
Si consideri da questo punto di vista il problema delle nuove sonorità. In realtà, ogni epoca, ogni cultura musicale ha operato le proprie scelte anche sul terreno della materia sonora, manifestando preferenze verso certi tipi di sonorità piuttosto che verso altri. Eppure è certamente una caratteristica esclusiva della nostra epoca l'entusiasmo così spesso manifestato per la pura e semplice idea della possibilità di scoprire una suono nuovo, un suono mai prima udito. Ciò sembra riportare l'accento sull'aspetto temporale, prospettando un'esperienza di ascolto che dovrebbe essere considerata in via di principio eccezionale proprio per questa assoluta novità. Ma a uno sguardo appena un poco più penetrante appare invece che anche questo tema merita piuttosto di essere considerato alla luce delle nostre osservazioni precedenti.
Veramente importante è infatti, anche in questo caso, la percezione di una limitazione che deve essere trascesa. Nuovi non sono solo i suoni inauditi, ma anche quelli che non appartengono alla chiusa cerchia di quelli che la nostra tradizione musicale ci ha reso familiari, dunque anche quei suoni che si odono ogni giorno, facendoci più o meno caso, integrati come sono nelle immediate circostanze della nostra vita quotidiana.
La ricerca di nuove sonorità tende così a fare tutt'uno con l'idea di un ampliamento del campo dei suoni utilizzabili all'interno della composizione. La concezione secondo la quale vi sarebbero suoni predestinati a un impiego musicale deve essere giudicata come priva di fondamento. Questa idea si ripresenta in numerose varianti che del resto esplicitano la ricchezza del suo contenuto. Intanto si tende a ribaltare o comunque a modificare le "gerarchie" tradizionali degli strumenti, si promuove e si degrada; si propongono modifiche e alterazioni delle pratiche strumentali tali da produrre effetti rari e inusitati. E anche in questi casi non dobbiamo dimenticare l'area dei sensi entro cui si agita questa tensione alla novità: ciò che ora si esalta o che si pone al centro dell'interesse musicale sono sonorità reiette, lontane, marginali.
Che importanza hanno avuto, ad esempio, le percussioni nella tradizione musicale europea? Solo una nuova consapevolezza di altre civiltà musicali e quindi della necessità di operare un superamento dei limiti imposti al materiale sonoro della nostra tradizione può portare a una valorizzazione degli strumenti percussivi. Di contro si sa come il pianoforte, punto culminante ed emblema di una civiltà musicale, venga spesso "degradato" a ciò che di fatto esso è innanzitutto, e cioè uno strumento percussivo.
Si assiste così a operazioni di particolare complessità, nelle quali spesso le dimensioni temporali e le dimensioni culturali tendono a intrecciarsi. È il caso qui di rammentate in un lampo come in Ionisation di Varèse all'arcaismo dei suoni percussivi, appartenenti a civiltà lontane e a paesaggi desertici, si contrapponga il suono perforante di una sirena che ci riporta di colpo al centro della città operaia, al presente della fabbrica metropolitana.
All'ambito della problematica delle nuove sonorità appartiene naturalmente la riflessione musicale sulla produzione elettronica del suono benché naturalmente il suo raggio di azione sia molto più ampio. In realtà questa riflessione è stata guidata per un buon tratto dall'idea di poterci liberare una volta per tutte dagli strumenti non solo della tradizione europea, ma dagli strumenti, come dire? umani in genere: dalle pesantezze, rigidità, incapacità, dai limiti derivanti non solo dalla costituzione meccanica e materiale dello strumento, ma soprattutto dal fatto che esso può produrre suoni solo attraverso l'azione dello strumentista educato in un lungo esercizio. E per quanto quell'esercizio sia stato perseguito ostinatamente, per quante abilità siano state in esso acquisite, il flautista dovrà pure, almeno una volta, tirare il fiato, e il violinista non potrà arrampicarsi sulla tastiera più velocemente di quanto lo consenta l'osso delle sue dita. Per non dire poi della rozzezza, approssimazione, grossolanità delle capacità psicologiche, dei limiti invalicabili che rendono impossibile, ad esempio, una suddivisione temporale realmente fine, il mantenimento esatto delle durate e la differenziazione dei piccoli intervalli. All'improvviso tutti gli strumenti in genere ci appaiono invecchiati, anzi ci appaiono vecchi cadenti. Rammentando ancora Varèse. Contro il violino: "gracile, misero, penoso" . "Il violino non esprime la nostra epoca" . "Con le attuali possibilità di amplificazione del suono è stupido mettere venti primi violini in un'orchestra" . Contro gli strumenti a fiato: "E nonostante che nella vita quotidiana abbiamo scoperto qualcosa di più efficace e di più conveniente della pompa a mano, siamo ancora lì a soffiare come matti negli strumenti a fiato" .
Qualunque cosa oggi si possa pensare di affermazioni come queste, esse fanno certamente parte della storia del problema. Ed è sempre all'interno di questa storia che si va affermando la convinzione non solo di possedere un mezzo per produrre suoni mai prima uditi, e nemmeno soltanto di realizzare un ampliamento dei materiali della musica, ma soprattutto di poter dominare l'intero campo dei fenomeni uditivi in generale possibili. Un atteggiamento verso il nuovo che è essenzialmente caratterizzato dall'esperienza di un limite contiene indubbiamente nelle sue pieghe il pensiero di un dominio e di un controllo che ha di mira la totalità stessa. Ed è il caso forse di attirare l'attenzione sul fatto che si tratta di un pensiero che in passato non è mai stato formulato, nemmeno in una prospettiva utopica.
Annotazioni
1. A. Schoenberg, Manuale di armonia, Il Saggiatore, Milano 1963, vol. II, p. 302: "Credo invece al nuovo, credo che il nuovo sia quanto di buono e di bello noi bramiamo involontariamente e irresistibilmente con il nostro essere più interiore, così come tendiamo al futuro: ci dev'essere nel nostro futuro una perfezione sovrana, a noi ancora ignota, dal momento che tutto il nostro essere associa ad essa le sue speranze. Forse questo futuro è uno stadio d'evoluzione superiore del nostro genere in cui si adempie quello struggimento che oggi non ci dà pace; forse esso è solo la morte, forse però è anche la certezza di una vita superiore dopo la morte: il futuro reca con sé il nuovo, e per questo il nuovo è per noi così spesso e a ragione identico al bello ed al buono".
2. E. Varèse, op. cit., p. 70: "In ogni opera d'arte, ciò che conta è la novità".
"Filosofia della musica" è stato tradotto in portoghese (brasiliano) ed è reperibile all'indirizzo seguente: