La seguente recensione è stata pubblicata da "Analisi. Rivista di teoria e pedagogia musicale",Anno  III, n. 7, 1992

 

 

Nella tradizione degli studi musicali in Italia è pressoché assente la filosofia della musica. Si contano sulle dita di una mano, dopo il fuoco di paglia del periodo idealistico-crociano, gli studi di un qualche rilievo dedicati alla filosofia della musica. Questo volume del Piana interrompe perciò un lungo silenzio e un sostanziale disinteresse della nostra cultura per queste tematiche. Tale studio non è occasionale nel suo percorso di studioso: allievo di Paci, filosofo alla cui scuola si sono formati studiosi che curiosamente hanno spesso condiviso con il maestro la passione per la musica, vista comeun'arte quasi privilegiata per un'analisi fenomenologica dell'arte, anche Piana unisce la passione e la conoscenza della musica con la sua formazione filosofica fenomenologica. Il volume è perciò tanto più interessante perché si pone alla confluenza di un duplice interesse e di una duplice competenza. Nella pressoché totale assenza di un tessuto culturale e di una tradizione in cui tale genere di studi si possa inserire e su cui si possa appoggiare, viene fatto di chiedersi quale potrebbe essere l'interlocutore o anche semplicemente il tipo di lettore per un tal genere di volume. La risposta emerge chiaramente non appena ci si addentra nella lettura dello studio, esempio di chiarezza, di semplicità espositiva, di volontà di rifuggire dal gergo filosofico per iniziati. Qualsiasi persona colta, con qualche nozione di base di musica e di filosofia può addentrarsi con estrema facilità nella ricerca di Piana che si presenta con una sua discorsività semplice e immediata, senza che la precisione filosofica, l'apertura della ricerca, la profondità teoretica ne abbiano minimamente a soffrire.

Ma veniamo al contenuto del saggio. Lo studio si muove tra due polarità, una teoretica e una storica. Non si tratta di affrontare lo stesso problema secondo una diversa sfaccettatura: per cui i due piani s'intersecano di continuo e si sostengono l'uno con l'altro. Il punto di partenza infatti è un'analisi della musica del Novecento, che appare come dominata dal senso della novità. Questa apertura al nuovo che caratterizza l'esperienza musicale novecentesca assume l'aspetto anzitutto di «un'apertura al molteplice» (p. 11). È interessante dunque non tanto verificare quanto di nuovo vi sia nella musica del Novecento, quanto piuttosto riconoscere in essa «una esigenza fondamentale che la caratterizza in profondità»(p. 10). Questo tema della novità e della molteplicità riporta al tema del linguaggio musicale, tema centrale in tutto lo studio del Piana. È corretto per la musica parlare di linguaggio ? Ha un senso preciso tale termine o è solamente un'espressione metaforica che ha più o meno lo stesso valore se la si usa parlando di linguaggio dei fiori o degli uccelli? La posizione del Piana è molto esplicita al riguardo: la semiologia della musica e tutte le dottrine che considerano la musica un linguaggio in senso proprio sono estremamente riduttive e comunque tendono a prendere in considerazione solamente un aspetto del problema musica, cioè il lato soggettivo, distorcendo quindi radicalmente la più complessa natura del fatto musicale. Qualsiasi analisi semiologica infatti tenderà inevitabilmente «a dare il massimo rilievo alla componente temporale, e dunque alla componente soggettiva e intersoggettiva». Di qui ne discende che, sempre in una prospettiva semiologica, fuori da un processo attivo di musicalizzazione, il materiale musicale  «sarà in se stesso senza regole, amorfo e privo di differenze» (p.18).

Proprio contro questa prospettiva si muove e si sviluppa tutto il discorso a sfondo fenomenologico del Piana. Ciò non significa che non si possa parlare in alcun modo della musica come linguaggio, ma piuttosto che non vi è nessuna necessità intrinseca di ciò: l'idea della musica come linguaggio non è altro che una possibile angolatura dalla quale può essere considerata la musica, «uno dei tanti strumenti utili», sia in positivo che in negativo, «per circoscrivere,arricchire e movimentare la trattazione» (p.25).Il piano linguistico, o la dimensione temporale, che è la dimensione propria della soggettività o ancora come viene definita la «potenza dell'abitudine» e più in generale le forze che hanno il loro fondamento nella dimensione storico-temporale dell'esperienza, vengono contrapposte alla «potenza della struttura» (p.53). Il senso della musica scaturisce pertanto dall'incontro di queste due forze. Per struttura il Piana intende quell'elemento che si potrebbe chiamare pre-musicale o prelinguistico che s'impone in maniera irriducibile al compositore, all'interno del quale si possono poi operare delle scelte, mettere in atto delle decisioni. Perciò il Piana afferma che una filosofia della musica comincia e può cominciare «soltanto facendo un passo indietro» (p.55); ciò significa che il filosofo non si rivolge alla musica «nella molteplicità aperta delle sue forme espressive», ma «regredisce al piano dell'esperienza del suono come un'esperienza che forma il presupposto e il fondamento di ogni progetto compositivo» (ivi). In altre parole nel momento in cui si inizia a formulare un qualsiasi progetto, è vero che esso ha le sue origini nella soggettività, ma tuttavia può assumere corpo e diventare realmente produttivo solamente quando «si incontra con un materiale concepito come ricco di vita e animato da tensioni interne»(p.56). In quest'ottica il Piana afferma che è lecito parlare di veri e propri «a priori fenomenologico-strutturali» (ivi): essi rappresentano il concreto campo di possibilità aperto all'azione compositiva. «La composizione – conclude il Piana –  può allora essere considerata come il risultato dei dinamismi del materiale quando essi siano concretamente entrati nel gioco delle scelte» (p.58). Se si può e si deve parlare di natura del fatto sonoro, ciò non implica, secondo il Piana, che un qualsiasi linguaggio possa essere definito come più naturale di un altro, come curiosamente avevano fatto altri filosofi e musicologi di impostazione fenomenologica, - così ad esempio il Leibowitz per quanto riguardava la dodecafonia o I'Ansermet per quanto riguardava il linguaggio tonale.

Questo sfondo filosofico diventa la base per un'interpretazione di tutta la vicenda storica della musica del nostro secolo. Si può immaginare la classicità nella musica come il momento caratterizzato da un equilibrio tra «l'elemento logico e quello fenomenologico» (p.63), tra ciò che altrimenti è stato chiamato natura e cultura o ancora tra l'elemento linguistico e il prelinguistico. La cosiddetta crisi della tonalità può significare tra l'altro «la rottura di questo equilibrio tra l'elemento logico e quello fenomenologico» (ivi), rottura che si manifesta anche attraverso la radicale divaricazione dei due termini. Nella musica del nostro tempo in effetti sono presenti due tendenze opposte: da una parte la propensione verso l'esasperazione dell'elemento linguistico, organizzativo, formale, insieme ad una esibita indifferenza verso qualsiasi parametro percettivo e uditivo: dall'altra un movimento verso l'allentamento di qualsiasi vincolo organizzativo, la tendenza ad allentare la regola e la norma, per un ritorno al materiale sonoro, allo sperimentalismo allo stato puro. Non è difficile, pensando alla musica del Novecento, incominciando dalla contrapposizione tra atonalismo e dodecafonia, rintracciare questi due momenti che possono anche essere compresenti in uno stesso musicista in quanto inquietudine che sorge dalla messa intensione di questi due piani. Ciò che pertanto è avvertibile assai chiaramente nella musica contemporanea, sia che inclini verso una radicalizzazione dell'elemento linguistico, sia che inclini verso un ritorno al suono puro come elemento originario dell'esperienza musicale, è la tendenza a una vera e propria rifondazione del musicale(p.64).

Arduo seguire ulteriormente il cammino percorso dal Piana nei densi capitoli centrali del suo studio dedicati rispettivamente alla materia , al tempo , e allo spazio in quanto elementi primari e originari dell'esperienza musicale: analisi sottili e dense con continui rimandi tra quella che si può chiamare un'analisi fenomenologica e i suoi risvolti sul piano della storia. L'ultimo capitolo è dedicato all'annosa questione della semanticità ovvero del significato della musica. Ovviamente la polemica del Piana, cui già si è fatto riferimento, nei confronti della semiologia e della linguistica applicata alla musica, implica una posizione tendenzialmente formalistica, anche se tale termine è troppo generico per definire in modopreciso la sua posizione. Infatti, secondo il Piana, chiedersi che cosa significhi la musica, presuppone già, indipendentemente dalla risposta, il considerare la musica come un sistema di segni; in altre parole presuppone già il punto di vista semiologico. Il Piana è ben consapevole che la prospettiva formalistica è in fondo giusta ma largamente insoddisfacente perché evita tutta una serie d'interrogativi ineludibili; e proprio perciò cerca di correggere il tiro riprendendo ancora una volta i problemi relativi non tanto al significato della musica ma piuttosto al senso della musica. È innegabile che la musica abbia un senso o meglio che ne abbia molti, ma ciò non significa che sia in alcun modo una riproduzione del reale, neppure libera o fantastica. Il Piana afferma pertanto che la musica o meglio «il suono è ricco di risonanze. La musica consta di suoni risonanti» (p.286). Perciò non si può sostenere che il suono è unicamente un qualcosa che si rinchiude circolarmente su se stesso. Il suo operare nell'ambito dell'immaginazione fa sì che si possa riaprire un discorso sulla tematica del simbolismo musicale. Il vecchio tema dell'indeterminatezza del significato della musica viene quindi ripreso ma in quest'ottica fenomenologica, partendo ancora una volta dal principio che nella musica è presente in modo ineliminabile questo sfondo prelinguistico o strutturale , come lo chiama il Piana, ed è proprio qui che va ricercato quel particolare simbolismo di cui è dotata la musica e che non ha nulla a che vedere con un simbolismo di tipo linguistico. «La musica è un serbatoio di immagini inesplose» (p.288), afferma in modo assai efficace il Piana; in questo senso il simbolismo della musica appartiene al campo delle sue possibilità originarie. l suoni, infatti, «considerati nelle loro distinzioni elementari e nei rapporti che, in forza di queste distinzioni, essi possono intrattenere tra loro, sono attraversati da dinamismi immaginativi latenti» (ivi). Ma tutto ciò non è possibile sottoporre a verifica empirica, come pretenderebbe la semantica musicale; non si tratta di relazioni tra figure musicali e fatti del mondo esterno o interno che siano! Il rapporto della musica con la realtà esiste dunque, ma è comunque sfuggente e ambiguo e il tentare di fissarlo significa impoverirlo e isterilirlo. Il Piana conclude affermando che pertanto anche se la musica è pur sempre un pensare con i suoni, d'altraparte «nessun pensiero musicale potrebbe sorgere se non ci fossero altri pensieri»«»p.295). Quest'ultimo capitolo forse la parte più debole dello studio, non tanto perché non siano convincenti le argomentazioni addotte, quanto perché si tratta sempre di un terreno minato, su cui si danno troppo spesso risposte sfuggenti e inafferrabili. Il complesso e tortuoso tema del significato o del senso della musica è sempre un terreno assai scivoloso in cui le risposte possibili e accettabili sono sempre dialettiche e in qualche modo vaghe e insoddisfacenti. Appena accennato, nello studio, il problema strettamente connesso a quest'ultimo, dell'unione musica-parola, problema che rappresenta un po' come il banco di verifica del tema della semanticità della musica. Forse un approfondimento del difficile nesso musica-parola potrebbe rappresentare, sempre all'interno della problematica del Piana, un approfondimento ed un chiarimento dell'annosa questione della semanticità della musica.Pertanto, pur con questi limiti, la trattazione di tale nodo di problemi presenta un grande interesse e costituisce un indubbio stimolo per un'ulteriore riflessione sull'argomento. Non ci si può che augurare che tale volume,che già di per sé rappresenta un importante raggiungimento sul piano speculativo, segni l'inizio di un rinnovato interesse per l'estetica musicale in Italia, in direzioni più dense e più produttive rispetto all'indirizzo semiologico che da tempo mostra i segni dell'esaurimento della sua forza propulsiva e dei suoi grossi limiti sul piano non solo speculativo, ma anche storico-critico.

Enrico Fubini


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