Il saggio di PierAngelo Sequeri "La seduzione dei suoni. Un’introduzione alla filosofia della musica di Giovanni Piana"  è stato pubblicato in "L'erbaMusicA", Anno II, n. 5, genn-marzo 1992. Ad esso fa seguito una lettera di risposta  del giugno 1992.


PierAngelo Sequeri

"Da Wikipedia desidero trarre almeno queste poche righe:

"Figlio di due musicisti (il padre era concertista di violino e la madre una pianista), ha studiato a sua volta violino e composizione parallelamente alla sua vocazione religiosa. Ordinato sacerdote nel 1968 ha proseguito gli studi, ottenendo un diploma in biblioteconomia musicale all'Università di Urbino, e un dottorato in teologia nel 1972. Dal settembre 2012 è preside della Facoltà teologica dell'Italia settentrionale, dove è anche professore ordinario di teologia fondamentale; è inoltre incaricato di estetica teologica presso l'Accademia di Belle Arti di Brera. È inoltre direttore della rivista "L'ErbaMusica" (trimestrale di pedagogia speciale e cultura musicale). A parte gli argomenti teologici e filosofici, i suoi studi si orientano ai temi di confine tra le scienze religiose, la filosofia, la psicologia e l'estetica."

Aggiungo che conobbi personalmente PierAngelo Sequeri e fui in grado di apprezzarne la vasta cultura, per la sua prossimità e amicizia con Enzo Paci" [G.P, 2015].

 

 

PierAngelo Sequeri
La seduzione dei suoni. Un’introduzione alla filosofia della musica di Giovanni Piana


Una nuova "filosofia della musica" –  La "folla di questioni malposte" che derivano dall'irrigidimento dell'immagine "linguistica" del musicale –  La necessità di una "teoria generale della musica" che rompa decisa-mente con le banalità di un approccio "psicologistico" al simbolismo musicale –  La musica come "serbatoio di  immagini inesplose" e come "memoria ancestrale del mondo" che sollecita la valorizzazione dell'alone immaginoso in cui si muovono le cose, gli eventi, le esperienze nella dimensione "creativa"' della coscienza.

    Le orecchie non debbono essere anteposte al pensiero (Platone, Repubblica, VII, 530b). Ma non è necessario neppure che il pensiero si opponga ad esse. La somma di queste esclusioni potrebbe circoscrivere, in prima battuta, l'orizzonte nel quale si muove il bel saggio di Giovanni Piana sulla “Filosofia della musica” del quale vorrei presentare qualche tratto significativo. Sufficiente, spero, ad invogliare il lettore curioso.
    L'argomento appunto è la musica. E la modalità della esplorazione è quella fenomenologica: quel tipo di indagine cioè che mira a verificare i "discorsi" che si fanno intorno alle "cose" svolgendo minuziosamente le pieghe dell'esperienza elementare che vi si riflette. Il dis-piegamento fenomenologico della cosa è per la verità operazione che richiede manualità assai fine. Una mano da chirurgo insomma: o da musicista, per rimanere in carattere con l'argomento. Come per gli antichi papiri, ciò che è scritto fra le pieghe rischia in ogni momento di rimanere vittima della foga dell 'esploratore, andando in mille pezzi che è poi impossibile decifrare.
    In ogni modo, l'impresa di una "filosofia della musica" è già di per sè azzardata. L' indifferenza dei filosofi di professione e degli uomini di cultura nei confronti dell'oggetto musicale, è risaputa. Ma la faccenda è poi ulteriormente complicata dal prevedibile sospetto del musicista di mestiere: ancora in larga misura più che scettico nei confronti dei vantaggi di un’analisi della musica estranea agli interessi compositivi ed esecutivi. La situazione è resa particolarmente delicata, infine, da un contesto culturale come il nostro, che tende ancora largamente a collocare l'estetico in genere –  e il musicale in particolar modo –  nella zona dell'ornamentale e dunque dell'effimero. E che pone in ogni caso l'esperienza musicale nello spazio tutto "irrazionale" della fantasia, del sentimento, dell'emozione.
    Una bella scommessa insomma, non c'è che dire. Piana in verità ha le carte in regola, anche per quanto riguarda la competenza musicale. E d'altro canto la sua pratica del metodo "fenomenologico" è ampiamente collaudata da non marginali frequentazioni nel campo dell'esperienza ''estetica".
    L'intonazione del libro è di fatto piacevolmente discorsiva, e procede per ampi moti circolari. Ma nei punti di volta si fa asciutta e stringente: toccando in pochissimi passaggi nuclei di grande densità teorica. Ci sembra dunque di fare cosa utile per il lettore non specialista scegliendo di illustrare precisamente questi punti nodali: che rappresentano altrettante conquiste per la istruzione del problema in termini di interesse generale. L'interesse, quanto meno, di tutti coloro che sono attratti dalla possibilità di restituire alla pratica musicale dell'uomo la dignità di esperienza fondamentale. Che ha a che fare col "senso" insomma, e non solo con i "sensi".

La musica come "linguaggio": i limiti di una metafora diffusa

Un primo luogo di condensazione dell'analisi è toccato medi-tando sulla nota – e discussa metafora linguistica del musicale. L'idea che la musica sia un  "linguaggio", cioè un modo di espressione e di comunicazione corrispondente a quello della parola, appartiene indubbiamente al senso comune.

Si tratta in verità "di una connessione molto antica, da sempre operante nella riflessione sulla musica e nella storia della sua terminologia". Ma occorre rimanere avvertiti: "se per certi versi la musica può essere vista alla luce del linguaggio, per altro invece questo richiamo può condurre ad una vera folla di questioni malposte" (p. 24). Sono tutte quelle domande, per rimanere all' esperienza comune, che danno per scontata l'idea della musica come vocabolario alternativo: dove cioè il musicista si comporta come uno che dice, con il "linguaggio dei suoni" le cose che noi diciamo con le parole e le frasi, le descrizioni o i racconti. Kierkegaard ha scritto ironicamente di una tale associazione che essa è come una "spiritosa trovata" : del tipo di quella messa in atto da certi "preti sentimentali ", che ogni tanto aprono per noi "il gran libro della natura, leggendovi cose che nè essi stessi nè i loro ascoltatori capiscono". Ancora più ringhiosamente, Strawinskij ha puntigliosamente dichiarato: "io considero la musica, a motivo della sua essenza, impotente ad esprimere alcunchè: un sentimento, uno stato psicologico, un fenomeno naturale".
    Al di là delle contrapposizioni polemiche, ben note alla storia del pensiero musicale, ciò che deve essere messo in discussione, secondo Piana, è appunto l'arbitraria e ingenua per-suasione che ogni universo semantico, cioè ogni sistema di segni, funzioni per ciò stesso come immagine della lingua verbale. Nel caso della musica del resto, è la stessa analisi specialistica ad aver appurato l'impraticabilità di questo modello. L'analisi di tipo semiologico infatti ha trovato il suo limite decisivo proprio nella impossibilità di individuare vantaggiosamente, nella composizione musicale, l'omologo dei segni verbali della significazione. Ma prima ancora, la "regressione verso il suono" in molti modi perseguita ed esaltata nella sperimentazione musicale del Novecento, documenta lo sforzo di sottrarre la musica alla prevaricazione del modello di "un discorso che organizza significati". L’esaltazione della preistoria folklorica e del primitivismo strumentale (che ora è stata ingenuamente ereditata –  aggiungiamo noi –  dagli insegnanti elementari e dai musicoterapeuti), la composizione “rumoristica” o la poetica dell' “alea" e dell'improvvisazione, sono tutti sintomi di un’esigenza sentita come vitale per il rinnovamento dell'espressione musicale: la musica può e deve sottrarsi all'inerzia del suo imprigionamento nella logica dell’espressione di tipo linguistico. (Sarebbe però interessante vedere quanto, di fatto, la metafora linguistica del musicale sia stata impiegata ossessivamente come ovvia anche per indicare e argomentare le alternative).
    Piana comunque non ha intenzione di discutere più a fondo questo problema, perchè non muove in ogni caso verso la radicale delegittimazione della metafora. Mira invece al suo spostamento di livello, attraverso una sorta di ribaltamento. Insomma: la metafora della quale ogni giorno in realtà ci serviamo per dire che la musica è qualcosa di più che un sistema per accarezzare piacevolmente l'orecchio interno, altrimenti diffi-cile da raggiungere, non è priva di senso. Si tratta però di rovesciare il punto d'appoggio: invece di concepire il sistema delle parole come modello di ogni possibile sistema semantico, e dunque anche di quello musicale, bisogna pensarli entrambi come specificazioni diverse dell'universo globale della significazione. L'affinità dei vari "mondi" che compongono questo "universo" (visivo, gestuale, sonoro, sensoriale, ecc.) può dunque essere cercata e pensata nel concetto di linguaggio: purchè con esso si intenda l'idea del sistema semantico in quanto tale: cioè quella dimensione tipica dell'esperienza umana in cui accade che qualcosa rinvii ad altro in modo da indicare un senso ed esibire una logica.
    La rappresentazione materiale della lingua prevarica nei confronti della specificità del musicale: che effettivamente, non si-gnifica quasi niente al modo della lingua. Invece l'idea del linguaggio come metafora del multiforme sistema semantico, di cui la "lingua" verbale è una specificazione, allo stesso modo che la musica, rimette in gioco l'interesse della correlazione fra i due mondi. Liberata infatti dalla ricerca delle corrispondenze tipiche dei segni verbali della significazione (secondo la foga tipica della stagione semiologica dell'analisi), la connessione tra i modi della significazione musicale e le forme della significazione verbale può essere adeguatamente istruito con ricchezza di relazioni infinitamente più ampia e interessante.
    Ma appunto: in che modo far valere questo stimolo per riconoscere il nesso intrinseco esistente fra la composizione musicale dei suoni e l'universo globale della significazione?

La composizione dei suoni: un "gioco" di scelte polarizzato dall'"immaginazione immaginosa".

Una seconda svolta della ricerca di Piana, che rimette in gioco la questione del linguaggio, è quella relativa al processo compositivo: dove un supplemento di discussione circa l'im-piego corretto della metafora linguistica nell 'ambito musicale consente appunto di "illuminare un nuovo e fondamentale aspetto". Se vogliamo parlare dei linguaggi della musica per indica-re i modi in cui sono realizzate le sue opere, portando l'accento sulla loro varietà e molteplicità, è “chiaro che qui viene implicata anzitutto la dimensione temporale: le differenze che istituiscono questa molteplicità rimandano infatti a validità socialmente sedimentate, alle differenze delle tradizioni e delle culture. Ma allora si impone anche la distinzione tra piano linguistico, essenzialmente legato alla dimensione temporale, e piano prelinguistico, al quale debbono anzitutto essere riferite le considerazioni fenomenologico-strutturali. All’ interno di una prospettiva empiristico-semiologica questa distinzione sarebbe improponibile per il semplice fatto che, in rapporto al problema dell'origine del senso, il piano prelinguistico non sarebbe altro che un puro nulla. Tutto accade, appunto, dentro un gioco linguistico, del quale certamente fa parte l 'esperienza stessa, ma in ogni caso come un 'esperienza essenzialmente determinata dalle regole che istituiscono quel gioco” (p. 54– 55).
    Di qui la necessità di "regredire" rispetto alla forma dell'opera composta: per raggiungere il punto in cui l'energia pla-stica attivata dal sonoro e la decisione tra i possibili compiuta dal soggetto interagiscono nella dimensione temporale e lingui-stica costitutiva dell’“opera” (la "creazione" musicale, appunto).
    In tale contesto appare una seconda tesi fondamentale del nostro Autore. L’elemento che "plasma” la materia musicale, e rende “ragione” della composizione sonora che ne scaturisce non è in ultima analisi né il bisogno espressivo né il meccanismo combinatorio come tale. Esso scaturisce piuttosto dai suoni stessi: ovvero dalla capacità che i suoni possiedono di attivare e polarizzare intorno a loro stessi gli schemi dell'immaginazione. In questa prospettiva, il suono è tenuto fermo non tanto come identità astrattamente soggiacente alle sue determinazioni, bensì "ogni sua determinazione" praticabile va pensata come un possibile punto di innesto per le operazioni valorizzanti dell'immaginazione. Ciò è a dire che non abbiamo dei suoni predeterminati come “oggetti” o “vocaboli” che qualcuno utilizza per una intenzione espressiva di cui essi sono strumenti possibili, bensì una nativa capacità dei suoni di provocare l'immagi-nazione e di sollecitarla a dare forma e senso musicale a ciò che attraverso tale interazione si genera.
    In altri termini, e seguendo da vicino le nozioni impiegate dall' Autore, ciò significa che il suono, entrando nei dinamismi delle sintesi immaginative, tende a diventare esso stesso, in ogni sua determinazione, un vettore dell'immaginazione. L'A. si serve a tale proposito di una differenza, che egli stesso introduce, fra l'immaginazione fantastica , la quale mantiene un qualche rapporto con un nocciolo figurativo della realtà, e l'immaginazione immaginosa, che rielabora piuttosto una sorta di schematismo delle forze che attraversano la realtà: evocando precisamente un modo di tendersi, di aggregarsi, di vibrare e di risuonare, appunto. In questa visione, nel caso della musica, il profilarsi del senso emerge come valore riconosciuto in un determinato modo di protendersi verso la volontà di significare, più che nel compiuto adeguamento rappresentativo (segnico o simbolico che sia) di un significato privilegiato.
    Da questo modo di guadagnare la connessione viene anche, secondo Piana, la possibilità di ritrovare e percorrere l'in-sieme dei nessi certamente significativi che rilegano l'esperienza musicale con le molte dimensioni del pensare, del sentire, dell'immaginare e del parlare degli uomini. Spetta ai "musicisti" che della musica "sono i padroni" (!) decidere che cosa debba di volta in volta accadere di questi nessi nello spazio del musicale. Ma intanto, la direzione (il "senso") lungo la quale questi nessi possono venire esplorati appare ripulita dal pregiudiziale affollarsi di questioni che nascono dalla precipitosa imposizione di un orizzonte semantico univocamente precostituito rispetto all'esperienza "compositiva" specificamente musicale ("esprimere i sentimenti" , "suscitare le emozioni", "dire l'ineffabile" , "esaltare i rapporti sociali" , " sondare l' interiorità" , e via discorrendo).
    In questo modo, conclude l'A., anche l'articolazione della nozione di "simbolicità" del musicale sembra poter trovare il quadro per una equilibrata trattazione del suo specifico nocciolo teorico. In essa infatti "non si parla soltanto di una memoria interna alla sequenza sonora , non si parla di un immaginare che si esau-risce nell 'anticipazione di nessi strutturali, e nemmeno di una pura presenza percettiva di una oggettività sonora in sè definita e chiusa. Ma si avanza l 'idea di una memoria del mondo profondamente immersa nelle risonanze dei suoni e che attraversa dunque le operazioni valorizzanti dell'immaginazione. Ed è certaamente compito della ricerca storica e analitica portare alla luce questa memoria mostrando in concreto la stupefacente ricchezza di forme con le quali la musica si misura con la realtà” (p. 295). Le battute conclusive ci consentono di aprire anche, brevemente, qualche interrogativo mirato all'approfondimento. E per prima cosa, ci lasciamo attrarre da quella suggestiva immagine della "memoria del mondo" che funge da vettore metaforico di una linea di indagine tenacemente costruita dall’A.

La musica come "memoria ancestrale" del mondo:
di nuovo la questione dell'origine.

Il filo rosso della indagine di Piana mi sembra riconoscibile nello sforzo paziente e originale di ricomporre dialetticamente le condizioni mediante le quali si accende l'immaginario musicale dell'uomo. Nel corso della esposizione, soprattutto in riferi-mento ai capitoli centrali dedicati alla "materia", al " tempo", allo "spazio", intesi come strutture fondamentali del musicale, ritorna più volte in gioco l'ambivalenza tipica del modello genetico che caratterizza la riflessione sull'esperienza musicale: la modulazione dei suoni come eco della natura mondana e come articolazione della voce umana.
    Il problema qui non è tanto –  come lo stesso Piana giustamente avverte –   quello dell'origine storica: bensì quello dell’origine del senso. Ora, l'Autore ha ragione quando riconduce l'accendersi dell 'esperienza costruttiva del musicale al fatto che i suoni sono attraenti e invitano a sperimentare il gioco della loro manipolazione prima ancora che sorga il vincolo di una intenzione espressiva e rivolta all'uso mediale della musica (per comunicare, per sedurre, per rallegrare: insomma per altro) .
    Ma perché i suoni sono attraenti? “Il suono si muove ed è pro-prio per questo che esso attrae, nello stesso modo in cui l'occhio è attratto da ciò che si muove nel campo visuale” (p. 281). Questo movimento, precisa Piana, innesca le operazioni valo-rizzanti dell'immaginazione: che possono essere seguite –  e perseguite –  con un movimento intenzionato alla ricerca e alla conoscenza del loro senso. Ovvero, della direzione verso la quale possono portare. Ma già questa destinazione, per essere riconosciuta e determinata come tale, non ha forse bisogno di immaginarsi in un certo modo la propria origine? La metafora conclusiva del libro, non per caso mi sembra, evoca precisamente questa prospettiva. Ma tutte le metafore più brillanti delle pagine precedenti sono polarizzate dal riferimento all'originario: la musica "consta di suoni risonanti" (p. 286); la musica è "un serbatoio di immagini inesplose" (p. 288). La musica stessa del Novecento, nell'intepretazione di Piana, cerca la propria destinazione sul filo di una "novità" che è tipicamente influenzata dalla regressione ad un originario non univocamente predestinato del suono (l'influsso emblematico della etnomusicologia).
    Ma di nuovo: perchè –  se vediamo bene –  l'immaginazione (la "fantasia") dell'origine ci appare sbilanciata, nelle me-tafore più suggestive del libro, dalla parte della seduzione dei suoni, della musica mundana insomma (l 'antica figura della me-moria ancestrale del mondo, custodita nell'originaria armonia delle sfere cosmiche)?
   I miti del musicale orientano l'esplorazione del senso mantenendo l'ambivalenza dell'origine. L'impostazione platoni-ca, della quale si dà suggestivamente conto (pp. 222-225), rappresenta già la versione "politica" della questione del musicale: la polarizzazione del problema intorno all'uso sociale della mu-sica evoca le questioni fondamentali in misura strettamente funzionale alla questione "pratica" (nel senso della "filosofia" pratica naturalmente: di qui l'ironia platonica intorno ai pro-blemi della percezione intervallare e l'enfasi sui diritti del pensiero nei confronti dell’orecchio).
    La battaglia contro lo psicologismo insomma è sacrosanta: ma il difetto della psicologia è appunto un difetto di fenome-nologia della coscienza e di teoria dell'esperienza. Quando il mito di Atena, che crea nomoi destinati alla modulazione liberatoria e armonizzatrice del pianto delle sorelle di Medusa, ci ricorda la necessità di dare forma al grido per superare la forza disgregante del dolore, non iscrive forse la radici del musicale in una sfera della quale il mondo non può avere memoria: precisamente perchè il suono non conosce né la possibilità né la ne-cessità di nomoi siffatti? E l'esperienza musicale dell'uomo- anzi, l'esperienza musicale tout-court - sarebbe nata senza lo sviluppo di questa esigenza?
    La vocalità è pre-musicale almeno quanto è pre-linguistica: non sembra necessario dunque far convergere la questione del suo senso con il profilo derivato del legame tra musica e parola, suono e linguaggio. Se dunque ci si può sottrarre a questa deriva, forse potrà essere riscattata compiutamente anche la inclinazione a confondere l'espressivo con lo strumentale e il mediale. L' idea di espressività, ricondotta alla antica tradizione dell'estetico, che fa perno sulla dottrina della percezione sensibile di un senso non empirico, potrebbe orientare una linea di riflessione già di per sè del tutto difforme rispetto a quella psi-cologistica. Dove cioè l'elemento "espressivo" sarebbe da rico-noscere piuttosto in una qualità " rivelativa" secondo la quale si modula la risonanza del fenomeno, invece che in una intenzio-ne "esibizionistica" degli atteggiamenti mentali del soggetto. Differenza minima sul piano strettamente semantico, che può risultare massima sul piano ermeneutico. Inducendo un interesse –  un incanto, talora –  per l'ascolto dell'apparire in quanto tale. Dando vita ad un simbolo (musicale, nel caso) che in qualche modo vuole orientare ad un senso: secondo un dinamismo che non è né puramente soggettivo né puramente oggettuale (sì da battere veramente alla radice l'ingenuità psicologistica, come quella strutturalistica).
    "Ineffabile" non è soltanto "l'aroma del caffè", secondo la brillante immagine che serve all'ironia di Wittgenstein, effica-cemente evocata dal Nostro. Ineffabile è anche "un tono di voce rassicurante": che pure appartiene ad esperienze molto nor-mali del quotidiano. Ma questo, a differenza dell'aroma del caffè, è certamente qualcosa che ha a che fare con lo sviluppo dell'esperienza musicale. E anche con una trascendenza del senso che non può essere detta altrimenti che con un certo modo di risuonare del dire medesimo. Questa esigenza, di far risuonare il non dicibile, non nasce dalla mundana possibilità di risuonare dei suoni: bensì dalla humana necessità di suonare - amplificare, dare corpo e intenzione, esprimere infine - una risonanza. Si può dire allora che la nascita della musica ha come condizione originaria quella di una risonanza che esige la ricerca del suono, e non soltanto l'aprirsi delle molte (infinite?) possibilità di risuonare dei suoni? Non è forse questo che rende non banale quella parte della ricerca novecentesca che ha di mira nuove possibilità del musicale (per il resto essa pure, anche se in modo diverso da quello dell'enfasi romantica, così permeabile alla pura simulazione esibizionistica di una inesistente densità rivelativa del sonorico originario)? E non è proprio qui che deve essere innescata la questione di una forma etica del gioco musicale? Rassicurante è anche il tono di voce preferito del truffatore: ma dietro non c'è l'intenzione di onorare la fiducia che ne consegue.
    "Il nostro scopo è insegnare la complessità del problema" (p. 291) . Questo è, in ogni caso, l'obiettivo sul quale è necessario oggi rimanere più saldamente attestati. La materia è interamente circondata da un agguerrito esercito di luoghi comuni: che hanno una formula già predisposta per iscrivere ogni dialettica nella rigidità di una tesi risolutiva. E per ogni tesi, uno schieramento di auctoritates è pronto all’omologazione.
    Al compito di rigorosa illustrazione della complessità dell'indagine questo originale saggio provvede in modo affatto istruttivo. Non a partire dalla storia documentaria della musica già fatta, né a partire da una deduzione assiomatica dell'essenza della musica: bensì muovendo dallo studio delle condizioni di possibilità dell 'esperienza musicale. E tenendo ben ferma, per altro, l'eterogenea molteplicità delle assegnazioni di senso delle quali il musicale è suscettibile. In perfetta consonanza con questo orientamento, e del tutto convinti della necessità di enucleare la vasta problematica filosofica direttamente implicata nell'indagine relativa, abbiamo inteso proporre anche qualche interrogativo.
    Al lettore curioso lasciamo il piacere di scoprire il resto. Certo l'intersezione dei campi, così marginalmente frequentata nella nostra cultura (sia quella di base come quella alta) qualche sforzo supplementare lo richiede. Ma è tempo ormai che i filosotì imparino a "leggere" la musica, e i musicisti la filosofia. Il testo coraggioso che abbiamo presentato, fornisce ottime ragioni ad entrambi.
 

PierAngelo Sequeri

 


 

Caro Prof. Sequeri,

ho atteso qualche tempo prima di scriverLe dopo la lettura della suo bellissimo articolo intorno al mio volume per poterlo fare con la calma che gli impegni universitari non sempre consentono. Io credo che non vi sia bisogno di dire quanto sia bello per un autore, che si è impegnato a fondo nella misura delle sue possibilità su un argomento, poter ricevere pareri, opinioni, elementi di riflessione e di discussione, e per di più in un modo - cosa rarissima questa! - che ha di mira un comune e appassionato interesse per la cosa stessa.
     Il Suo scritto è per me veramente prezioso per vari motivi, ed anzitutto perchè rappresenta un incoraggiamento ed una dimostrazione, di cui in realtà ogni tanto c'è bisogno, della possibilità di un pensiero che non si svolge in modo troppo solitario, ma che riesce a tradursi in un inatteso colloquio. Si scoprono così, magari prendendo le mosse da punti lontani e seguendo itinerari differenti, non solo esigenze comuni, ma anche valenze dei nostri stessi discorsi che erano prima quasi inavvertibili.
     Di tutto ciò voglio dunque anzitutto ringraziarLa calorosamente - a cominciare dalla cura e dall'attenzione in cui Lei riferisce intorno al contenuto del mio lavoro e alle sue tesi principali, sulle quali molti altri interventi (quasi tutti) sorvolano distrattamente soffermandosi su dettagli marginali o parlando addirittura di altro. Ma questo Suo scritto è molto di più di una recensione, esso avvia una discussione che in realtà coglie dei problemi che non sono affatto costruiti artificiosamente sul testo ma che sono dentro di esso e che mi hanno fatto riflettere.
     Le varie questioni che Lei solleva mi sembra convergano tutte su un’inclinazione complessiva del discorso teorico sulla musica che ho cercato di delineare, in certo senso su una sua piega, su una tendenza a portare l'accento, per dirla in breve, sui momenti che appartengono all'area delle oggettività –  sia pure fenomenologiche! - piuttosto che sulle motivazioni soggettive profonde che precedono, come infine Lei suggerisce, e fondano la musicalità dei suoni, la loro possibilità di essere risonanze del mondo. Si possono innestare allora quei significativi richiami conclusivi ad un'eticità del "gioco musicale", che poi sono richiami soprattutto all'elemento generalmente umano, a quella ricchezza, varietà, drammaticità e felicità che caratterizza l'esperienza umana in genere.
     Mi sembra che questo sia il tema generale che non resta affatto generico ma che si va specificando in osservazioni condotte su vari piani –  nella rimessa in gioco della questione dell'origine, nella sottolineatura dell'importanza della vocalità, nel richiamo critico, riferito a certi aspetti della musica novecentesca, alla "pura simulazione esibizionistica di un'inesistente densità rivelativa del sonorico originario", e in tante altre notazioni ognuna delle quali meriterebbe di essere riconsiderata con una lente di ingrandimento e arricchita di tutti gli sviluppi che lascia chiaramente intravvedere.
Come dicevo prima, mi sembra che in questa Sua discussione finale si colga un nodo effettivo –  che mostra una sorta di incompletezza, di necessità di guardare più a fondo, ma che ha anche naturalmente alcune sue ragioni. Vi è sempre qualcosa che sta alle nostre spalle, ed anche qualcosa che sta di fronte a noi che fa inclinare i nostri pensieri in una direzione prevalente piuttosto che in un'altra: nello stesso tempo siamo spesso stimolati dalla ricerca di un’unica risposta a domande in realtà abbastanza diverse.
      L'idea per me centrale di una teoria della musica nel senso più pieno e proprio del termine, che non può non avere agganci molto profondi con le tematiche filosofiche; il modo di approccio secondo uno stile fenomenologico che in certo senso vuole recuperare il tempo perduto in discorsi troppo evanescenti; e poi ancora, benchè sullo sfondo, le vicende così ricche di enigmi e di evidenze della musica novecentesca, insieme ad altre implicite prese di posizione –  ad esempio il moralismo che io sento così greve nella filosofia della musica adorniana e che è in realtà penetrato profondamente nelle "poetiche" musicali, in particolare in Italia, negli ultimi trent'anni; lo stesso problema, che avverto così vivo nelle sue pagine, di dare alla musica il senso della "voce che rassicura" di cui Lei felicemente parla, ed ancora: tutta una tradizione di riflessione estetica rivolta a deprimere, ad un tempo, la materia e la tecnica:  tutte queste cose insieme hanno contribuito a rafforzare l'inclinazione complessiva della tematica.
    Caro Sequeri, mi permetta di ringraziarLa ancora di cuore per l'attenzione che ha voluto dedicarmi; e nello stesso tempo voglio cogliere questa occasione per esprimere la mia ammirazione per l'attività che Lei e il Suo gruppo vanno svolgendo attraverso il Laboratorio di Musicologia Applicata. Con i miei saluti e auguri più cordiali

7 giugno 1992
Giovanni Piana

 


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