Questa nota è stata pubblicata su «Musica viva», n. 4, aprile 1992, anno XVI.
Quirino Principe
Il titolo del libro stupisce proprio per la sua legittimità. Essenziale nella sua formulazione, esso già di per sé presenta i temi e la loro trattazione non come una ricerca settoriale e analitica, ma come un discorso istituzionale: si sovrappone al nome di una disciplina della quale si pone come testo istitutivo e fondante. Troppa ambizione? Forse, in un'epoca in cui l'arroganza del potere culturale coesiste con l'ostentazione di ''umiltà" vista come condizione necessaria della cosiddetta scientificità. Sappiamo tuttavia che spetta ai filosofi degni di questo nome il compito di denunciare e correggere il delirio di scientificità, avvicinabile al delirio del linguaggio burocratico e addirittura poliziesco, riproponendo oggetti (ai quali il sistema di potere universitario antepone sempre i metodi), finalità (cui di norma si preferisce la lunga nota a piè di pagina) e idee (bestie nere della scientificità, vigorosamente rintuzzate a colpi di sigle di riviste tipo "JhMG", "ZM", "AIUGh" e simili). E fu ancora un filosofo tra l'altro molto presente nelle pagine del libro di Piana, Arthur Schopenhauer, a definire il costume universitario della postilla alla postilla come una "ricerca sugli intestini dei vermi intestinali". In secondo luogo, il libro stupisce per la sua apparizione, da tempo desiderabile, e per la centralità del tema, che in un contesto intellettuale carico indubbiamente di tradizione, di maturità e di prestigio com'è quello italiano – lo dice chi scrive queste righe, notoriamente non italianisant e tutt'altro che nazionalista – viene a cadere in una sorta di deserto allietato qua e là da qualche spelacchiato palmizio. Posso sbagliare per difetto d'informazione, ma nel mondo culturale italiano non si configura in modo coerente e contestuale una disciplina denominata "filosofia della musica": non nel Conservatorio, non nell'Università, essendo la cosiddetta estetica musicale, infilata come appendice cenerentola alla storia della musica, tutt'altra cosa, ammesso che dai docenti sia considerata come "qualcosa". Ciò avviene poiché in Italia non è ancora chiaro al legislatore quale debba essere il posto assegnato alla musicologia come scienza complessa e sistema di discipline, nel Conservatorio o nei dipartimenti universitari o nelle "costituende" (da vent'anni " -ende") Accademie di Musica, e qualche esperimento qua e là non fa primavera. In paesi come la Germania, l'Austria, la Francia, la Svizzera, la Danimarca, la Svezia o la Finlandia, la musicologia costituisce un'unità di ricerca scientifica e di attività didattica, e la filosofia della musica ha un ruolo distinto e riconoscibile. Se il concetto e la formulazione di questa disciplina compaiono di frequente, in forma diretta o indiretta, nell’ area culturale germanica o francofona (si pensi a Theodor Adorno, a Vladimir Jankélévitch, a Marius Schneider, e naturalmente ai classici del pensiero moderno, Hegel o Schopenhauer, Kierkegaard o Nietzsche, senza escludere Richard Wagner), la cultura italiana può richiamarsi, ed curioso, al piccolo e assai marginale libro di Giuseppe Mazzini, la cui autorità in campo musicologico è assai tenue, nonché ad alcune acutissime pagine del geniale Giannotto Bastianelli; più di recente, a libri di grande vigore filosofico ma di approccio alla musica obliquo e indiretto, come quelli di Enrico Castelli Gattinara e di Vittorio Mathieu.
Giovanni Piana, che entra con coraggio nell'agone, è nato nel 1940, ed è titolare della prima cattedra di filosofia teoretica all'Università Statale di Milano. Dirò subito che l'aspetto saliente del suo libro non è l'originalità, non perché Piana non riesca ad essere originale, ma perché non vuol esserlo, e il suo partire non proprio da una teorizzazione originale è infatti la sua forza. Elémire Zolla, vent'anni fa, distinse in memorabili pagine una "civiltà del commento'', il cui lavorìo intellettuale è frutto di ripensamento della tradizione (di tal natura fu l'opera di Boezio o quella di Dante), e una "civiltà della critica", i cui sforzi sono indirizzati ai rovesciamenti radicali e "originali'' piuttosto che alle alternative, le quali non escludono né radicalizzano. Forse un filosofo vero come Piana ne trarrà motivo di sdegno, ma credo che la benemerita circolazione del pensiero debole nella cultura del nostro secolo abbia rappresentato, di fronte a una vittoriosa civiltà della critica, le ragioni minoritarie ma alla fine penetranti di una già sconfitta civiltà del commento. Il libro di Piana ha il grande pregio di trasformare le innumerevoli fonti stimolatrici dalla funzione di "bibliografia" a quella di "discorso": le presenta, consente al lettore di rintracciare il percorso intellettuale del libro e del suo autore, ridiscute il già discusso, evitando i ruoli di filologo della filosofia e di storiografo della filologia musicale. È un riportare al primo grado una riflessione che di solito si pone al secondo o al terzo grado.
S'impone, poi, un 'altra e più decisiva considerazione. Se gli statuti di una filosofia della musica ci sono chiari, chi può affrontarne con piena legittimità le quaestiones è il filosofo più che non il musicologo o il musicista di professione. In tal senso, Hegel e Schopenhauer, Nietzsche e Bergson, persino un critico d'arte con personalità filosofica come Hans Sedlmayr, diedero superbe prove d'intelligenza. Piana si pone deliberatamente in tale prospettiva, con l'aggiunta di una competenza musicale che è quella del "non musicista" non in un significato riduttivo ma in vista di una riflessione metamusicale, cui la competenza specifica del musicologo e dello studioso di estetica musicale non contraddice. Questo spiega, forse, perché Piana coltiva con maggiore interesse la lezione di uno Schneider che non quella di un Ansermet, musicista prima che filosofo della musica, e matematico prima che musicista. Fra le prime reazioni al libro di Piana da noi udite, ve ne sono di altezzose, e indebitamente altezzose, da parte di musicologi piuttosto che di musicisti: questa Filosofia della musica sarebbe, si è detto, totalmente elusiva dell'intenso lavorìo condotto su dissimili e disparati versanti da uomini come Eggebrecht e Dahlhaus, Bianconi e Nattiez. In realtà, contro la dea della moda, la semiologia musicale, Piana non ha proprio nulla da obiettare, né egli ne mette in forse la legittimità, anche perché non potrebbe farlo. Semplicel mente, Piana critica con forza la filosofia implicita che si vorrebbe presente nella semiologia della musica, il che è tanto giusto quanto il respingere i discorsi di un Gianni Agnelli o di un Lee Jacocca quando parlano di una "filosofia" della produzione industriale, o i discorsi di questo o di quell'economista che discetti di "filosofia" del mercato. Il faut purifier la langue de la tribu: l'assioma di Mallarmé ha valore eterno. La produzione industriale ha la sua ragion d'essere, la serniologia musicale ne ha una ancora più forte (essendo la musica e le altre arti, en passant, di gran lunga più importanti persino della salvezza dell'anima); basta chiamare le cose con il loro nome proprio, non con un altro. Un libro ricco, certo: possiamo leggerlo come un compendio della nostra cultura secondo un taglio insolito che alla fine ci dà una sensazione di benessere intellettuale, ciò che è proprio di un gran signore della cultura com'è lo schivo e riservatissimo Piana. Ma la sostanza del libro non si riduce al percorso su sentieri tracciati nell'erba folta di letture, ricordi, confronti e verifiche. Ciò che in questo saggio è primario non è, appunto, l'evento misurato e soppesato, analizzato e ricomposto: ciò che, da parte sua, non è fonte di poca delizia, al momento giusto. Semplicemente, siamo in un'altra sfera: quella della forma, non quella dell'evento. A parte il capitolo introduttivo, che fra i cinque costituenti il libro rappresenta, alla maniera di T. S. Eliot, una "critica della critica", e fa il punto sulla situazione logica e terminologica che investe oggi la musica (musica “nuova'”, si dice ancora, ma in un secolo giunto alla fine), gli altri quattro capitoli sono dedicati a quattro categorie supreme, in ordine simmetrico, tali che le due estreme sono in relazione tra loro, e così le due intermedie: materia, tempo, spazio, simbolo. È compito, appunto del filosofo, questo percorrere la via che conduce dall'infinito all'infinitesimo, e viceversa.
Quirino Principe
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