Giovanni Guanti

 


 

Giovanni Guanti (1952), dal 2005 è professore ordinario di Musicologia e Storia della musica presso l'Università di Roma TRE. Laureatosi in Filosofia nel 1976, ha proseguito in Inghilterra le sue ricerche sull’ermetismo rinascimentale e sulle fonti dello spinozismo. Ha svolto attività didattica presso la Cattedra di Estetica della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Perugia dal 1977 al 1983. Dal 2001 al 2005 è stato  professore a contratto presso la Facoltà di Musicologia di Cremona (Università di Pavia). Ha conseguito i diplomi di Musica Corale e Direzione di Coro (1978) e di Composizione (1982). Nel 1992 ha seguito il corso annuale di Musica informatica tenuto da Alvise Vidolin presso l’Istituto Musicale “A. Benvenuti” di Conegliano Veneto.

Pubblicazioni

 


 

Nel saggio "Interrogare filosoficamente la musica", pubblicato in "Punti e contrappunti. Voci dell'estetica musicale di oggi" a cura di Sara Zurletti, pp. 296 sgg. Giovanni Guanti suggerisce (pp.298-99) un confronto tra la posizione di Peter Kivy e quella di Giovanni Piana, di cui si propone qui l'estratto rimandando ad una lettura dell'articolo intero reperibile all'indirizzo

http://shop.ilcorrieremusicale.it/downloads/punti-e-contrappunti/



 

[...] interrogare filosoficamente la musica significa per lo più e per i più questo: previa una massima enfasi sulla qualifica dell'Interrogante – riconosciuto, appunto, quale pensatore per antonomasia (Platone Agostino Descartes Rousseau Hegel Adorno Nancy...) – analizzarne e ricostruirne la peculiare riflessione sulla musica in un esercizio di contestualizzazione culturale e approfondimento esegetico-speculativo che, ovviamente, oltre che singoli autori può riguardare anche specifiche 'scuole' o correnti di pensiero: per es., la musica nell'idealismo tedesco, o nel pragmatismo anglosassone, o nella fenomenologia continentale... Ma la qualifica dell'Interrogante non è tutto: vale, e significa forse molto di più, almeno per me, la qualità, ossia – se ci si concede l'espressione – il “tasso filosofico” degli interrogativi. Certo, non lo si potrà valutare con la stessa comodità di quello alcolico; ma un aiuto indiretto potrà giungerci dalla comparazione degli indici (riflesso precipuo delle rispettive, principali articolazioni) di testi presentati al lettore sotto analogo o identico titolo: Estetica della musica, Filosofia della musica

Per limitarci a un solo raffronto, dei moltissimi che potrei citare, Peter Kivy ( Introduction to a Philosophy of Music, 2002) riflette sulle emozioni (nella musica e in noi, capp. III e VII), sul formalismo (storico e arricchito) e sui suoi avversari (capp. IV-VI, VIII), sull'opera d'arte musicale e la sua interpretazione (capp. XI-XII) e sull'atto di ascoltare (cap. XIII). Giovanni Piana (Filosofiadella musica, 1991) articola invece il discorso in quattro grandi sezioni, di cui indichiamo tra parentesi i principali contenuti: Materia (silenzio voce suono segnale rumore timbro...); Tempo (durata evenienza trascorrere ritmo suono-evento schematizzazione temporale forma dell'accadere...); Spazio ('spazio sonoro' ciclicità intervallo continuità discontinuità consonanza dissonanza...); Simbolo (autonomia e eteronomia del musicale? sentimento origini della musica immagine e immaginazione musicale piacere...).

È chiaro che entrambi sentono il bisogno di parlare filosoficamente di musica, e di interrogare e saggiare le credenze che abbiamo intorno all'esperienza di essa per chiarirne aspetti che altrimenti rimarrebbero oscuri. Kivy, illustre rappresentante dell'estetica 'analitica', formula innanzitutto questo radicale quesito: “Perché una filosofia dell’arte e non anche una filosofia del baseball o una filosofia delle acque di scarico o una filosofia delle scarpe”?, cui risponde così: “una pratica o una disciplina o un corpo di conoscenze pare [...] diventare ‘eleggibile’ (se questo è il termine giusto) per la filosofia propriamente detta, se diventa per noi un modo di vivere; quando cioè incide così profondamente nella nostra natura di esseri umani che siamo spinti a esplorarne e rivelarne il suo più intimo funzionamento”. Che tale conclusione resti tanto generica quanto circolare – e che 'importante' non voglia dire ancora niente, a meno che non si specifichi sotto quale profilo lo sia, e per chi – è parso evidente a molti pensatori 'continentali', per nulla interessati (come Kivy) a riflettere anche su altre, almeno in passato apparentemente ineludibili, questioni quali quelle riguardanti i rapporti tra la musica e le altre 'belle arti' o tra la musica e l'Arte tout court. Per non parlare del dibattito sulla (presunta?) e irriducibile specificità (formale espressiva comunicativa ecc.) della musica; oppure, dell'altrettanto problematica difesa delle analogie tra le procedure compositive e fruitive delle diverse forme d'espressione artistica, che alimenta una smisurata letteratura dedicata alla delucidazione dei nessi tra musica e poesia, musica e cinema, musica e architettura, ecc.

Diversissimo dal punto di partenza di Kivy – l'interrogativo: perché (non) una filosofia dell'arte in generale, e della musica in particolare? – quello di Piana: “È invece importate per determinare l'orientamento di una filosofia della musica fissare il punto da cui essa ha inizio. E noi sosteniamo allora che una filosofia della musica comincia e può cominciare soltanto facendo un passo indietro: essa non si rivolge da subito alla musica stessa considerata nella molteplicità aperta delle sue forme espressive, ma regredisce al piano dell'esperienza del suono come un'esperienza che forma a un tempo il presupposto e il fondamento di ogni progetto compositivo”.

Soltanto prospettive filosofiche differenti che s'esprimono in diverse filosofie (e/o estetiche) della musica? No, se si procede oltre l'irenica e 'neutrale' presa d'atto che una miriade di testi dal titolo identico o equivalente – Estetica della musica, Filosofia della musica – non sono affatto accoglienti ed elastici raccoglitori dei medesimi interrogativi, ma che questi ultimi variano invece (oltre che nel tempo, nello spazio e nel contesto di provenienza) anche nel loro intrinseco “tasso filosofico”. Ed è quest'ultimo che andrebbe speculativamente vagliato, sia pure soltanto per accantonare da un lato gli interrogativi che sorsero e ottennero risposte in un contesto storico ben delimitato; dall'altro, quelli di dubbia pertinenza filosofica, perché ormai presi in consegna da altri saperi, discipline o scienze. Come, e se e perché, i filosofi e gli estetologi della musica possano proficuamente dialogare anche con i neuroscienziati e gli esperti di fisiologia e psicologia dell'ascolto è comunque e senza dubbio un problema più di prassi, di strategia e di diplomatica, che una questione filosofica stricto sensu. Così pure la verifica della duplice ipotesi che la comunicazione (compresa quella musicale) abbia a proprio fondamento la comunità linguistica o che questa sia, al contrario, fondata su quella. Ipotesi antagoniste, che rientrano di diritto nel labirintico panorama relativo agli studi sul carattere linguistico della musica, a sua volta iscritto in quello ancora più ampio e complesso in cui si articola e rimodula incessantemente la riflessione sul rapporto mondo/pensiero/linguaggio."

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