- Riflessioni sull'arte del comporre -

Questo saggio è stato pubblicato nel volume Autori Vari, Il canto di Seikilos.
Scritti per Dino Formaggio nell'ottantesimo compleanno
Guerini e Associati, Milano 1995, pp. 45-55

 


Giovanni Piana, Fenomenologia dei materiali e campo delle decisioni - Riflessioni sull'arte del comporre

Giovanni Piana, G. Piana, Phenomenology of materials and field of decisions

 

Sandro Gorli e il "concerto a carte coperte"

 

 

 

Fenomenologia dei materiali e campo delle decisioni
- Riflessioni sull'arte del comporre -

 

 

 

 

Vorremmo avviare, nelle pagine seguenti, alcune considerazioni che hanno di mira la musica come arte del comporre. Certamente ogni arte potrebbe essere caratterizzata così. Ma già il linguaggio corrente, che talvolta contiene implicitamente preziosi indizi per un’analisi, ha ritenuto di dover riconoscere il comporre come un’azione eminentemente musicale: si dice compositore soprattutto il compositore di suoni.

Ciò dipende forse dal fatto che un narratore o un pittore vanno - o sembrano andare - subito oltre i materiali di cui si servono, le parole o i colori, per mirare a ciò che per mezzo di essi viene visivamente o verbalmente rappresentato; e noi a nostra volta siamo attenti a cogliere nel dipinto quella parte del mondo che in esso, attraverso i colori, viene rappresentato oppure viviamo, ascoltando il narratore, le vicissitudini e le peripezie che fanno parte del suo racconto.

Lo stesso non si può dire invece nel caso della musica. Nel brano musicale non si rappresenta nessuna parte del mondo, e se vi sono peripezie queste sono peripezie dei suoni. Per il musicista i suoni non si presentano come mezzi che debbono essere utilizzati per uno scopo che li oltrepassa in misura più o meno ampia, ma come materiali che sono essi stessi il fondamento della sua pratica artistica. Già per questo motivo questa pratica è eminentemente una pratica compositiva, una pratica del comporre: cioè una pratica del mettere insieme, del dare ordine, dello stabilire relazioni - una pratica il cui risultato è una costruzione sonora che pretende di essere considerata anzitutto esattamente per quello che è, per i rapporti e per le forme di connessione che essa manifesta.

 

In realtà, a vedere questo problema più da vicino sorgerebbero subito diverse complicazioni e forse qualche motivo di contesa. Ma qui non siamo interessati a chiarire fino a che punto sia ben fondata la differenza tra la musica e le altre arti, mentre ci è utile far riferimento ad essa nella sua forma meno sottile e più vistosa.

Di fronte al musicista ci sono già da subito i materiali sonori. Essi stessi rappresentano un problema. Di fronte ad essi il musicista deve prendere delle decisioni.

Potremmo dire che la nostra riflessione sull’arte del comporre deve svolgersi interamente nello spazio determinato da questi due titoli: i materiali da un lato, la decisione dall’altro.

Una simile affermazione sembra inizialmente piuttosto ovvia. Eppure non appena cerchiamo di esaminarla più da vicino essa si mostra carica di problemi. Il suo senso è assai meno univoco di quanto possa sembrare ad un primo sguardo, e secondo l’una o l’altra interpretazione proposta possono avere inizio di qui itinerari divergenti.

Intanto è il caso di chiedersi: che cosa si intende con materiali e che cosa con decisioni? La prima parola sembra opporsi alla seconda anche dal punto di vista delle aree di senso che esse sembrano inevitabilmente ridestare. La parola materiale evoca senza dubbio un’oggettività inerte - che non ha alcun ordine intrinseco, che attende una qualche messa in forma; mentre la parola decisione sembra addirittura contenere la quintessenza dell’attività, dell’azione volontaria: il momento dell’attività, il momento eminentemente soggettivo non sta, in fin dei conti, nella pura e semplice esecuzione di un’azione, nel puro e semplice fare - che può comportare una certa meccanicità o che si svolge comunque sotto l’imperativo dello scopo perseguito - ma sta piuttosto proprio nel momento della decisione: potremmo dire: l’io stesso è messo in questione nelle sue decisioni. Io voglio, e così faccio: io decido.

Pensiamo ora alla proiezione di una simile concezione al problema del comporre. Essa suggerisce indubbiamente un’immagine dell’attività compositiva che si rivela subito, per molti versi, discutibile: da un lato forse troppo semplice, dall’altro non corrispondente a ciò che il compositore effettivamente fa. Secondo questa immagine la soggettività del compositore si erge di fronte al materiale come una soggettività creativa, capace di insuflare nel materiale inerte, quindi senz’anima e senza vita, quella forma di cui esso avrebbe bisogno e in base alla quale essa vivrebbe come opera.

Concepite in questo modo sia la decisione che il materiale diventano pure astrazioni. Sembra invece il caso di obiettare che dovremmo richiamare l’attenzione anzitutto sul fatto che la soggettività creativa è sempre immersa in una dimensione storica - cosa che chiama naturalmente in causa anche il modo di intendere le sue decisioni, che soggiaceranno necessariamente ai vincoli determinati dalla relatività storica.

Sul lato opposto: non vi è una nozione di materiale come mero materiale sonoro, ma il materiale sonoro ha sempre una mediazione linguistica, e ciò significa che non è mai dato in sé e per sé, ma è sempre proposto al musicista all’interno di una tradizione musicale.

Parlare di mediazione linguistica significa anche parlare di mediazione storica - l’un problema sembra essere incapsulato nell’altro. Forse è già addirittura sbagliato parlare di «materiale»: dovremmo parlare invece di «linguaggio». Ciò che il compositore trova di fronte a sé non è mero materiale, ma è anzitutto linguaggio e lo è, al di là di ogni considerazione più precisa su questo termine il cui uso può essere molto ampio e controverso, già per il fatto che il compositore si inserisce in ogni caso in una tradizione del comporre. Quando si parla di tradizione - è opportuno notarlo - non occorre spingere lo sguardo indietro, lontano lontano. Ciò che è appena stato nuovo diventa, quasi in un soffio, già tradizione.

Vogliamo ora riflettere proprio su questo punto. Infatti, quest’obiezione, che sembra del tutto ragionevole, può essere sviluppata in una direzione da apparire non solo come un aggiustamento critico della posizione precedente, ma come un suo totale ribaltamento. Che cosa si intende dire infatti parlando di una immersione in una dimensione storica, oppure quando si accenna ad una tradizione del comporre con la quale propriamente ha a che fare il compositore misurandosi con essa, in varie forme di accettazione o di rifiuto? A seconda delle risposte che noi diamo a queste domande si imboccano strade molto diverse.

Supponiamo, ad esempio, di porre l’accento sulla continuità dello sviluppo: allora ne potrebbe risultare indebolito il momento della decisione, il momento dell’intervento soggettivo. Tenderemo invece a considerare ogni passaggio, ed anche ogni momento autenticamente innovativo, persino i momenti di rottura, come fasi dello sviluppo del linguaggio musicale - uno sviluppo che ha una sua logica interna, collegata o addirittura dipendente da una più ampia logica storico-sociale, e che ha dunque anche una sua direzione necessaria. Soggetto e tema effettivo di questo modo di considerazione è il linguaggio musicale stesso, considerato dinamicamente, come un linguaggio che si evolve, che si modifica di continuo.

Un esempio assai significativo di questo atteggiamento è rappresentato proprio dalla scuola di Vienna: per mostrare la profondità della rottura con il passato musicale che essa viene ad operare è necessario disporsi in un atteggiamento che è in realtà ad essa estraneo. A cominciare da Schönberg fino a Webern si è infatti sempre insistito piuttosto sulla necessità e sulla naturalità dell’evoluzione che conduce al superamento della tonalità, e quin-di non tanto sulle decisioni prese sul linguaggio, ma sullo sviluppo del linguaggio stesso come uno sviluppo necessario - proponendo uno schema di discorso che sopravvive in una misura sorprendentemente larga ancora oggi tra teorici, storici e musicisti.

Che senso può avere, all’interno di un simile punto di vista parlare di decisioni compositive? In realtà sarebbe possibile sostenere che il momento della scelta non è altro che un dettaglio psicologico, una vera e propria apparenza psicologica, secondo la duplice inclinazione - negativa, positiva - del termine di apparenza: la decisione è il luogo in cui appare (si manifesta) sul piano psicologico-individuale qualcosa che appartiene ad una tendenza che sopravanza questo piano e che fa parte piuttosto della storicità profonda dell’esperienza musicale. È in questa storicità profonda che andrebbe ricercata la dimensione reale rispetto alla quale la decisione in senso psicologico è mera apparenza, dunque irrilevante finzione.

Questa prospettiva di discorso ha in realtà una sua giustificazione filosofica - anzi forse più di una, dal momento essa rimanda ad una concezione idealistica, e più in generale storicistica della realtà e delle vicende della cultura, ma può anche essere formulata in termini sociologizzanti che potrebbero appoggiarsi su sfondi metodici di carattere empiristico. E naturalmente il richiamare l’attenzione sul fatto che una simile impostazione ha una giustificazione filosofica o addirittura più di una, non significa affatto che essa sia teoricamente ineccepibile, ma al contrario che essa è esposta alla discussione, alla controversia, come sempre accade appunto nell’ambito della filosofia. In nessun caso siamo obbligati ad accoglierla come tale - come talvolta si pretende.

Per mostrare come una simile impostazione possa diventare problematica proviamoci a proiettarla sul presente, che rappresenta la dimensione originaria della storicità.

La storia non è affatto qualcosa che comincia nel passato, che attraversa il presente e prosegue poi nel futuro. Il presente, a sua volta, non è uno stato meramente transitorio: esso è invece la dimensione temporale primaria nella quale si svolge tutta la nostra vita e dalla quale prendiamo le mosse per ricostituire l’orizzonte del passato e costituire quello del futuro. La storia ha un centro ed un’origine e noi, nella nostra vita al presente, ci troviamo in questo centro e in questa origine|

A questa considerazione bisogna aggiungerne un’altra non meno importante: lo sguardo verso il passato - che appartiene ovviamente in via di principio ad un’intenzione storiografica - tende a trasformare in una sorta di necessità ciò che una necessità non era, tende, come ci siamo espressi, ad indebolire il momento della scelta e della decisione.

Ciò accade già nella nostra vita personale. Se guardiamo alle nostre vicende passate - contrassegnate da passaggi cruciali che hanno orientato la nostra esistenza in una direzione piuttosto che in un’altra - tenderemo certo ad indebolire il momento della decisione e ad accentuare piuttosto quello della necessità. Ci sono diverse circostanze che agevolano e facilitano questa inclinazione. Ad esempio: la decisione con la sua caratteristica apertura ad una molteplicità di strade possibili, è diventata dopo la sua realizzazione un dato di fatto irrevocabile. E forse non è nemmeno privo di interesse il rilevare quanto sarebbe gravoso, sul piano dell’esperienza personale, avere la permanente consapevolezza dell’apertura delle decisioni avvenute in passato. Considerazioni come queste non possono naturalmente essere trasportate di peso dentro il nostro contesto di discorso, ma esse non si trovano tuttavia nemmeno del tutto al di fuori di esso.

Abbiamo detto: proviamo a proiettare un simile modo di vedere, ed anche di sentire il passato, sul presente stesso ed allora avvertiremo subito che in luogo di installarci nel presente inteso come dimensione originaria da cui ha origine la storicità e di vivere direttamente le sue tensioni interne, dovremo invece assumere in rapporto a questa dimensione un atteggiamento in qualche modo «storico» (e dunque anche paradossalmente storico).

In rapporto al nostro problema ciò significa ritenere che anche ora, nel mio presente, ci sia una logica interna dello sviluppo del linguaggio musicale. L’unica differenza sta nel fatto che questa logica potrebbe non essere per me del tutto chiara. Ma quel che importa è l’idea che ci sia nel mio presente una tendenza necessaria, una via maestra dello sviluppo, anche se posso essere incerto su quale sia questa via maestra, su quale - tra le varie tendenze in gioco - sia la tendenza a cui il futuro del linguaggio musicale è consegnato. Allora il problema del decidere si converte nel problema di raggiungere chiarezza su questo destino storico - in quanto questa chiarezza rappresenta una condizione affinché il comporre si integri all’interno di quella tendenza, si consegni a sua volta a quel destino.

Prima dicevamo che, secondo una simile concezione, le decisioni compositive non sono importanti come decisioni, ma in quanto in esse si concretizzano direzioni necessarie dello sviluppo. La trasposizione di un simile atteggiamento sul piano del presente è anche una trasposizione dal piano dell’essere a quello del dover essere: è come se la decisione compositiva fosse strettamente subordinata all’idea di una tendenza necessaria del divenire della musica e il problema compositivo fondamentale fosse quello di scoprire questa tendenza e di adeguarsi ad essa.

Si potrà parlare di decisione autentica in un simile contesto di implicazioni teoriche? Certamente no. Posto in questi termini il problema compositivo si propone nella forma di un allineamento ad un ipotetico destino del linguaggio musicale. E si conferma ciò che abbiamo osservato in precedenza sull’appiattimento della decisione a mero veicolo dello sviluppo del linguaggio, a mero dettaglio psicologico privo di importanza.

Per questi motivi in precedenza abbiamo notato che la critica nei confronti della pura e semplice contrapposizione tra materiali e decisioni in nome della dimensione storica può portare ad un ribaltamento vero e proprio dell’immagine contenuta in quella contrapposizione. E proprio per questo si rivela altrettanto insoddisfacente. L’enfasi posta sulla creatività originaria del compositore, sulle sue capacità di plasmare una materia inerte, non ci convince; ma non ci convince nemmeno, inversamente, la concezione della decisione artistica come mera adeguazione ad una tendenza dello sviluppo. Anch’essa sembra, quanto l’altra, lontana dalla realtà effettiva dell’atteggiamento che caratterizza dall’interno la dimensione dell’arte del comporre.

Tra l’una e l’altra concezione sembra inoltre esservi una sorta di solidarietà segreta - la solidarietà che stringe in modo indissolubile tra loro le simmetrie oppositive, le immagini speculari: le polarità sono radicalmente invertite, ma l’una immagine si coglie nell’altra come riflessa in uno specchio.

Io credo che il cercare di comprendere che cosa vi sia di sbagliato in questa duplice impostazione della questione abbia diverse e interessanti conseguenze non solo sugli aspetti più remoti di ordine teorico o filosofico ma anche su problemi strettamente inerenti alle pratiche compositive, o più precisamente sugli atteggiamenti che sono alle spalle di queste pratiche e che non sono conseguenze di esse, ma piuttosto loro premesse. Sono infatti gli orientamenti ideali che imprimono un senso al nostro modo di percorrere l’arsenale delle pratiche compositive.

Cominciamo allora con il dire che il nostro primo inizio che considerava l’arte del comporre come disposta fra il tema del materiale e quello della decisione deve essere vivacemente riproposta, benché essa abbia bisogno di una critica preliminare che imbocca una strada del tutto diversa dalla precedente.

Questa critica deve infatti colpire anzitutto il modo in cui questa contrapposizione viene proposta, come una polarità rigida, priva di un movimento interno; ed il primo passo di questa critica non è affatto l’evocazione immediata di una dimensione storica che non può avere altro risultato che operare quel ribaltamento che abbiamo prima rammentato. Si tratta piuttosto di rendersi conto di quanto siano fuorvianti le idee che sembrano subito accompagnare quei titoli: il materiale, la decisione. Dunque, dal lato del materiale: l’inerzia, l’assenza della forma, il puro contenuto di cui ha sempre parlato l’estetica idealistica nelle sue diverse varianti; l’attività plasmatrice, creativa, dal lato della soggettività che decide.

Di fronte a chi ci proponesse questa antitesi noi faremmo notare anzitutto che vi è una fenomenologia del materiale, e che la nozione determinante non è tanto la nozione della decisione come tale ma piuttosto quella di campo delle decisioni la cui delimitazione è realizzata proprio da questa fenomenologia.

Che vi sia una fenomenologia dei materiali vuol dire in primo luogo che i materiali, dunque, nel nostro caso i suoni in genere, hanno caratteri molteplici, che essi si diversificano e si differenziano in molti modi e che queste differenze e diversità stanno a fondamento di possibili forme di articolazione e di conseguenza di possibili tensioni espressive.

Ma questo - si può forse obbiettare - non lo sanno tutti? Forse lo sanno tutti. Meglio di tutti, io credo, lo sanno i compositori. Un po’ meno i teorici, gli storici, i critici, i filosofi. Ed in ogni caso c’è bisogno di rammentarlo e di attirare l’attenzione proprio su questo punto.

Riflettendo su di esso ci rendiamo subito conto che questa avrebbe dovuto essere stata la prima evidenza da mettere sul terreno della discussione, perché questa prima evidenza mostra subito che è del tutto sbagliato parlare dei materiali come meri contenuti privi di forma attribuendo ogni attività di messa in forma all’attività soggettiva; e così anche se parliamo di tensioni espressive che stanno all’interno dei materiali alludiamo indubbiamente ad un elemento di attività che contraddice la loro pretesa inerzia.

Potremmo arrivare a dire: affermare che vi è una fenomenologia dei materiali significa, tra le altre cose, affermare che, a loro modo, i materiali hanno già preso le loro decisioni. Ma naturalmente il senso effettivo di una simile formulazione è quello di mostrare che ciò che caratterizza questa polarità non è la pura e semplice contrapposizione fra i due poli (con le vecchie risonanze dell’estetica della forma e del contenuto) ma piuttosto lo slittamento dall’uno all’altro polo.

Vi è attività sul lato dei suoni, e vi è anche, conseguentemente, in un’accezione peculiare, passività sul lato opposto. In certo senso non dobbiamo fidarci troppo dall’accentuazione in senso attivistico che la parola «comporre» ha in se stessa, o più precisamente non dobbiamo ritenere che questa accentuazione copra la sua intera area di senso. Forse potremmo rappresentarci il compositore anzitutto come un grande ascoltatore, come qualcuno che ode suoni a tal punto che li ode anche quando non ci sono, un visionario dei suoni, se così si può dire. Questo grande ascoltatore ascolta, intanto, le decisioni dei suoni.

Ma dire questo non basta: nello stesso tempo, deve essere rivalutato, in un contrasto solo apparente, proprio il momento soggettivo della scelta, secondo un ordine di considerazioni che ripropone inevitabilmente in modo nuovo il tema della sua dimensione storica.

Una simile rivalutazione comincia dall’osservazione che le peculiarità e le differenze tra i suoni, le differenze nei rapporti di intervallo e nelle forme di ordinamento scalare, le differenze tra consonanza e dissonanza, ed anche naturalmente ancora prima, le differenze timbriche con le loro latenze espressive, e così via, sono in grado soltanto di delineare puri ambiti di possibilità, e precisamente ambiti di possibilità alternative che determinano il campo entro cui possono esplicarsi le decisioni compositive. Non c’è decisione, non c’è scelta se non entro un campo di decisioni e di scelte possibili.

Naturalmente anche noi prendiamo atto del fatto che i materiali sonori in quanto materiali del comporre sono in ogni caso di fronte al compositore sotto la presa di una tradizione compositiva, si presentano già come un linguaggio - e questa espressione allude qui indubbiamente ad una dimensione specificamente storico-culturale. Ma questo problema, che potrebbe essere sollevato polemicamente nei confronti della posizione che vado esponendo, è appunto un problema, non è un dato di per se stesso significativo.

Una qualunque costruzione musicale può essere concepita come un oggettività stratificata, secondo strati che si trovano a livelli diversi di profondità e di accessibilità. Ma non dobbiamo concepire la stratificazione come una semplice giustapposizione orizzontale di piani.

È invece opinione corrente il considerare una costruzione musicale come se essa fosse costruita semplicemente su uno strato di pure sonorità a cui si sovrappone uno strato di sensi musicali, il quale peraltro tende a corrodere, a risucchiare ed a dissolvere lo strato su cui esso poggia. In questa linea di discorso si sottintende che questi sensi musicali siano in tutto e per tutto un portato della dimensione storico-culturale, ed è una ovvia conseguenza di ciò il fatto che l’ascolto debba essere per principio un ascolto «storico». Ma ciò non significa forse che l’ascolto dovrebbe cogliere ogni momento del decorso musicale come uno stilema riconoscibilmente appartenente ad un linguaggio di cui sono note tutte le regole? Questa storicità dell’ascolto, ovvero questa apprensione della struttura musicale come struttura linguistica, sarebbe dunque una condizione imprescindibile della comprensione stessa.

A ben pensarci una simile idea viene fatta valere anche per rendere conto della difficoltà di approccio nei confronti della musica più recente - ad esempio, quando ci si appella ad una consuetudine non ancora acquisita nei confronti delle nuove timbriche e della nuove sintassi. Ci si appella evidentemente, anche in questo caso, alla «storicità» dell’ascolto come condizione della comprensione, condizione che, in questo caso, non è ancora venuta a maturazione.

Contro di ciò potremmo osare di affermare che un accordo di settima diminuita è anzitutto un fatto sonoro qualitativamente determinato che può essere esibito qui ed ora come un fatto sonoro senza storia e senza nome, e già così può essere trovato musicalmente interessante. Esattamente la stessa cosa potremmo dire, avvicinandosi ai tempi nostri, per il violino suonato dietro il ponticello oppure con l’arco dalla parte del legno, per i suoni prodotti con le più svariate tecniche strumentali che in realtà hanno ormai storia, nome, tradizione e grafia nella musica novecentesca.

Evidentemente stiamo cercando qui di erodere il terreno ad un’altra falsa contrapposizione che fa parte di opinioni correnti: musicale e sonoro tendono a fissarsi come due poli rigidamente contrapposti l’uno all’altro, secondo una prospettiva che tende ad allontanare il più possibile il sonoro dall’orizzonte della musica.

Anche in rapporto a questa nuova contrapposizione tenderemo piuttosto a far valere l’idea di intrecci molto più complessi, così come l’idea di possibili slittamenti, di complicate intersezioni tra il piano «linguistico» e quello «prelinguistico».

Occorre infatti anzitutto sottolineare che le legalità di ordine fenomenologico non stanno semplicemente prima della costruzione musicale, ma interagiscono in molteplici modi nella percezione e proprio in quanto essa è percezione di una costruzione musicale. Non vi è da un lato l’oggetto sonoro - puramente percepito, con le sue strutture percettive tipiche - e dall’altro l’oggetto musicale come oggetto culturale. Ma vi è una interazione tra i diversi strati di senso e lo strato puramente percettivo che tutti li attraversa.

Ciò mostra naturalmente anche quanto sia semplificatorio il parlare di una pura e semplice storicità dell’ascolto nell’accezione a cui accennavamo in precedenza. Lo stesso processo dell’ascolto si muove infatti tra la tradizione storica e i suoi margini, oscilla ambiguamente tra l’elemento tradizionale ed acquisito e l’elemento percettivo come tale. Togliere questa oscillazione equivarrebbe in realtà a sopprimere la vitalità interna, il fascino musicale del brano. In generale non c’è alcun autentico ascolto musicale che sia un ascolto di puri stilemi, e nessun fatto sonoro può avere interesse musicale solo in quanto convenzione espressiva, quindi come puro fatto linguistico, così come del resto come puro fatto percettivo.

Nello stesso tempo l’afferramento della presenza di stilemi, la conoscenza delle loro vicende come vicende che appartengono alla storia di un linguaggio, è condizione imprescindibile affinché l’opera musicale possa essere penetrata nella complessità dei suoi strati significativi.

Considerazioni analoghe che esigono un ripensamento del problema della musica come linguaggio e quindi anche del modo di concepire la sua dimensione storica si ripropongono con evidenza forse anche maggiore nell’altra direzione del nostro problema.

All’interno del nostro contesto di discorso, il fatto che vi sia un linguaggio normale della musica - e con ciò si deve intendere un linguaggio prevalente, l’esistenza di regole riconosciute come valide che formano nel loro insieme la norma in un senso che allude certamente anche ad un aspetto prescrittivo - significa essenzialmente che molte decisioni sono già state prese, che sono già state operate delle scelte tra le alternative possibili proposte dallo spazio sonoro nei suoi caratteri fenomenologici eminenti. E lo sono state in base a motivazioni, a prese di posizioni, in base ai pensieri che orientano l’immaginazione musicale quando essa si attiva in direzione di un progetto espressivo. Naturalmente vi potrebbero essere altre motivazioni, altri pensieri, altri orientamenti immaginativi. Molte decisioni sono già state prese, ma noi potremmo prendere una nuova decisione. Questa mi sembra essere la struttura della situazione - e siamo qui lontanissimi sia dall’idea di un atto dello spirito che soffia nella materia imponendo ad essa l’anima che le è necessaria sia da quella della decisione artistica come un puro dettaglio psicologico che si dissolve di fronte alle tendenze necessarie di una temporalità in cammino.

Ma se questa è la struttura della situazione allora assume risalto anche da questo versante, dal versante del campo delle decisioni, il fatto che il campo fenomenologico non si dissolve affatto dietro le forme e le convenzioni linguistiche, ma rimane sempre sullo sfondo, e si fa più vicino o più lontano a seconda dei modi in cui noi ci localizziamo rispetto al linguaggio stesso.

Potremmo anzi dire che esso si fa particolarmente vicino quando si mutano le regole, quando in luogo di aderire alle decisioni già prese, si prendono nuove decisioni.

È della massima importanza comprendere che non si passa affatto da una vecchia regola ad una nuova regola come se si passasse da un capitolo all’altro di una grammatica della musica in divenire. Questo non è altro che un modo di considerare la storicità avendo come modello uno sguardo rivolto al passato.

Dobbiamo dire invece che in questi passaggi ci avvaliamo della possibilità di avviarci verso i margini del linguaggio, quindi ai margini della sua stessa storicità, per riattualizzare il campo delle possibilità fenomenologiche riproponendo le alternative espressive che sono in esso contenute.

Io penso che tutto ciò abbia una consistente esemplificazione proprio nelle tendenze della musica novecentesca. Fra queste tendenze si può forse annoverare una vera e propria tendenza alla destorificazione del materiale musicale: o almeno mi sembra interessante adottare un punto di vista dal quale le molteplici istanze negatrici, i reiterati richiami all’innovazione ed al superamento delle norme sul piano della sintassi della musica e dei suoi materiali possano essere interpretati come conseguenze di un atteggiamento di radicale messa in questione della componente storico-linguistica e come un’esplicita e radicale riattualizzazione dello sfondo delle possibilità fenomenologiche che è implicita in ogni mutamento delle regole.

Ma se possiamo effettivamente adottare un simile punto di vista è subito chiaro che dobbiamo metterci sulla via di una critica di quelli che io vorrei chiamare i pregiudizi più recenti - di una critica cioè di quei pregiudizi che si sono andati insensibilmente accumulando in un secolo intero che ha sempre ritenuto di dover praticare, sul piano della teoria e della pratica musicale, una sorta di permanente critica del pregiudizio.

Ma un secolo è lungo, molto lungo. In un secolo di musica, alle vecchie e più volte condannate consuetudini se ne aggiungono delle nuove, che non sono affatto riconosciute come tali. Si accumulano «convenzioni» e «stilemi». E si consolidano senza critica opinioni pregiudiziali, in realtà assai poco innocue dal punto di vista teorico, che diventano talvolta veri e propri luoghi comuni attraverso la mediazione di metafore correnti.

Si pensi alla metafora del logoramento, del consumo di un linguaggio musicale come se esso, con il passar del tempo, si consumasse come si consuma una sedia sulla quale siamo stati troppo a lungo seduti. In questa metafora del logoramento va richiamato in particolare l’attenzione sull’inclinazione obbiettivistica, quasi che i processi della musica non fossero dipendenti dall’ambito degli investimenti e dei disinvestimenti di significato che mettono in questione il campo delle decisioni e l’orizzonte di pensieri che determinano l’immaginazione musicale, e fossero invece processi obbiettivi, di cui sarebbe possibile rendere conto unicamente nei termini di considerazioni di sociologia empirica o filosofica.

La stessa inclinazione obbiettivistica è d’altronde presente anche nell’idea così diffusa che l’ampliamento dei mezzi di espressione musicale sia una sorta di necessità ineluttabile che faccia parte del progresso stesso della musica. Spesso questo ampliamento è inteso in termini grossolanamente quantitativi, mentre è importante sottolineare, che la semplicità e la relativa povertà dei mezzi sono appunto conseguenze di decisioni e non hanno nulla a che vedere con una nozione sensata di progresso nell’arte. Altrimenti dovremmo considerare l’avvento del melodramma come un regresso rispetto alle anteriori strutture polifoniche, o una cattedrale gotica più progredita di una chiesa romanica per via del numero dei suoi pinnacoli.

È possibile che siano in molti a convenire che una simile idea di progresso nel campo dell’arte è inaccettabile; ma spesso non ci si avvede che coerentemente con una simile posizione va respinta anche l’idea che esistano in modo ovvio tendenze regressive e progressive nella musica e che queste tendenze possano essere valutate con un criterio elementarmente temporale, anzi più precisamente con un criterio che rimanda ad una concezione troppo elementare della stessa dimensione temporale.

Proprio su questo punto vorrei condurre la mia considerazione conclusiva. La critica all’idea della tendenze necessarie - e quindi di una concezione del linguaggio musicale e della sua storicità secondo forme che appiattiscono il momento della decisione e dei pensieri che la motivano - può essere riformulata e sintetizzata in un’interpretazione della temporalità, dunque anzitutto della dimensione temporale fondamentale del presente. Il problema a cui abbiamo già accennato in precedenza merita di essere brevemente ripreso.

Quando diciamo «ora», questa paroletta sembra indicare un luogo temporale altrettanto certo e sicuro quanto la paroletta «qui» che indica inequivocabilmente il luogo nel quale mi trovo. Ma diversamente stanno le cose se la dimensione del presente non viene considerata come una dimensione astrattamente e vuotamente temporale, ma come una dimensione ricca di senso, e dunque nella pienezza della sua storicità. Al presente così inteso spetta un’indeterminatezza e un’instabilità essenziale. Esso non deve dunque essere concepito «ferroviariamente», come un luogo puntualmente determinato tra due stazioni. A questo modo di concepire il presente, che può essere sintetizzato in una metafora ferroviaria, si è tentati di contrapporre una metafora aerea: mentre sul treno in corsa possiamo sempre dire di essere lungo una via e in un luogo precisamente determinato tra due stazioni, nella visione dall’alto abbiamo a che fare con una spazialità aperta, indeterminata, in cui si intersecano molte vie che formano una rete di luoghi, verso i quali mi volgo non tanto guardando avanti o indietro - espressioni che tendono quasi a perdere di significato - ma volgendo lo sguardo tutt’intorno.

Ma che cosa ha tutto ciò a che fare con i casi e le vicende della musica? Possiamo rispondere proprio richiamandoci ad esse. La musica novecentesca ci ha proposto nei cento anni del suo sviluppo un orizzonte straordinariamente vasto di possibilità creative, di scoperte, di invenzioni, di progetti. Eppure si può avere la giustificata sensazione che questa vastità, questa ricchezza di esperienza musicale sia costantemente minacciata proprio da una idea troppo elementare della storicità, concepita come un filo che sta dietro le nostre spalle e di cui dobbiamo afferrare il capo e in questo dovrebbe consistere in certo modo la norma assoluta delle nostre decisioni. Questa idea elementare assume poi forma concreta nell’individuazione di pretese tendenze necessarie, nell’indicazione di pretese vie maestre dello sviluppo, anzi - questa espressione può essere a stento usata al plurale - della via maestra dello sviluppo. La complessità del presente, il fatto che noi ci troviamo sempre in un intrico di strade, che ogni direzione non c’è già ma deve essere sempre di nuovo costruita, tutto ciò scompare di fronte ad uno sguardo per così dire bloccato, irrigidito, che non sa affatto «volgersi intorno».

È evidente che tutto ciò ha molte altre conseguenze che, a mio sommesso parere, non sono affatto desiderabili: l’idea di una via maestra è un’idea riduzionista per eccellenza, non vi è bisogno di insistere particolarmente su questo punto.

Ma il riduzionismo implicato in questa idea non riguarda solo le potenzialità espresse dalla musica novecentesca: esso ha come conseguenza anche una tendenziale riduzione della multidimensionalità su cui si è sempre giocata l’espressione musicale. In questa multidimensionalità consiste quella che io chiamerei semplicemente l’umanità della musica: il suo poter aderire al sonno del bimbo in culla nella ninna nanna, il suo poter accompagnare tutte le manifestazioni umane: dalla Tafelmusik sino alle grandi meditazioni sul senso ultimo della vita e della morte. A questa multidimensionalità tende a subentrare una sorta di ossessione monodimensionale, che naturalmente non può che tagliare fuori dall’ambito della musica «autentica» tutto ciò che si approssima alla dimensione quotidiana, per assegnare alla musica unicamente il compito di manifestare il Sublime, il compito del Grande Messaggio, sia esso il Grande Messaggio fortemente connotato in senso politico, sia esso l’Indicibile Messaggio metafisico, a cui la musica sembra per così dire predestinata.

Ma la catena delle conseguenze non si ferma affatto a questo punto. All’idea del Grande Messaggio non è certo associato, per esprimerci così, il semplice compositore, colui che possiede l’arte del comporre, un possesso che in ogni epoca, anche nella nostra, richiede lavoro, esperienza e conoscenza - colui che padroneggia con maestria questa arte, dunque il padrone della musica. Questa sembra una dizione particolarmente ambiziosa: eppure essa ci appare subito estremamente modesta se la paragoniamo alla figura del portatore del Grande Messaggio. Questa figura è infatti la figura del Genio.

Beninteso: i geni esistono veramente, e sono esseri molto misteriosi. La figura del genio invece non è alcunché di reale, ma è una costruzione filosofica e immaginativa insieme, ed anche una costruzione datata storicamente, una costruzione romantica. Questa figura, nel nostro secolo che ha così spesso amato atteggiarsi da spregiatore del romanticismo, è forse stata dimenticata? Tutt’altro.

Questo tema che qui richiamiamo per ultimo ci consente di riagganciarci agli inizi del nostro discorso. Forse potrebbe sembrare che la figura del genio renda conto della creatività nel senso del soffio divino sulla materia inerte di cui abbiamo parlato in precedenza. Invece, assai più profondamente, occorre rendersi conto della solidarietà tra questa immagine della creatività e quella del suo ribaltamento, tra l’enfasi posta sull’astratta libertà dell’intervento creativo e l’appiattimento del motivo della scelta e della decisione. Sarebbe infatti un grave errore ritenere che in questa figura del genio il tema della decisione assolva un ruolo significativo. È vero invece il contrario. Il genio è in via di principio una figura passiva, è mero tramite e portatore di decisioni - che avvengono altrove: nelle profondità anonime dell’inconscio, più o meno arricchite di sapori metafisici, nello spirito assoluto di cui parlava Hegel, nella teleologia della storia - non importa dove! Il genio è comunque puro tramite, puro veicolo.

La discussione e la delimitazione della nozione di decisione che abbiamo voluto proporre fin dall’inizio rappresenta dunque una sorta di premessa necessaria strettamente collegata con questi nostri esiti critici.