Pubblicato in «Musica/Realtà», n. 39, dicembre 1992, pp. 27-53.

iconConsiderazioni inattuali su Theodor Wiesengrund Adorno

 


1.


 Vi sono, in realtà, moltissimi buoni motivi per i quali della concezione di Adorno della musica novecentesca non mette più conto di parlare: abbiamo ormai una chiara coscienza, che è diventata sempre più chiara proprio sul finire degli anni ottanta, del fatto che l’intera riflessione teorica, e non certamente soltanto in rapporto ai casi della musica, abbia bisogno di un rinnovamento così profondo, di uno sguardo così attento a cogliere le tracce del futuro, che discutere ancora intorno ad Adorno può sembrare attardarsi su un’epoca ormai definitivamente chiusa, può sembrare (e per certi versi lo è indiscutibilmente) una sorta di improduttivo esercizio delle rimembranze. Adorno appartiene ad un’altra èra.

E poi non se ne è parlato in ogni caso anche troppo? Le sue tesi, così semplici da trasformare in slogans, predisposte come erano, nonostante la sofisticatezza letteraria dello stile, all’ottusità della ripetizione, non hanno forse finito per generare tacitamente quella saturazione che in realtà può sostituire adeguatamente la critica più severa?

Eppure vi è almeno qualche motivo altrettanto buono per rendere in qualche modo desiderabile che se ne riparli ancora, almeno un poco, quel tanto che basta non già per riaprire un discorso, ma proprio al contrario: per chiuderlo meglio. Benché infatti si possa parlare di un declino dell’adornismo, sia dal punto di vista filosofico generale, sia rispetto alla problematica più propriamente musicale, già agli inizi degli anni settanta, tuttavia si è trattato di un declino sommesso, tanto inappariscente quanto era stata imponente la sua diffusione nel dibattito filosofico e teorico intorno alla musica novecentesca, la sua capacità di determinare orientamenti e linee di tendenza in ogni aspetto della vita musicale di quegli anni.

Proprio questo non può essere considerato soddisfacente: un autore che ha cercato di imprimere così pesantemente il proprio marchio all’intera vicenda musicale novecentesca, e che quasi riusciva in un simile intento, merita certamente un congedo più meditato. Tanto più che un’effettiva riflessione critica non può certo arrestarsi ad Adorno, ma è destinata a porre, prima lateralmente e poi sempre più direttamente, interrogativi intorno agli strumenti e ai modi di approccio rispetto a quella vicenda considerata nel suo passato più o meno lontano, ma anche e soprattutto nel suo futuro.

Non c’è dubbio che ogni esigenza di rinnovamento nei modi di pensare deve recidere nettamente molti nodi alle proprie spalle, senza le supponenze del senno del poi, naturalmente, e con l’assoluto rispetto che ogni autentica vicenda intellettuale esige: ma questi nodi debbono in ogni caso essere sciolti.

Ora ci chiediamo: il nodo che si chiama Adorno - «questo grande maestro al quale dobbiamo praticamente tutto» [1] - non è dunque già stato tagliato?

Forse no. I maestri non debbono essere dimenticati troppo facilmente - altrimenti che ne sarà degli allievi? Del resto sembra ancora possibile accingersi a rivendicare una rinnovata attualità di Adorno alla luce di una «pregnanza teorica» che verrebbe messa in non cale dal «sorpasso delle mode culturali» più che dalla cosa stessa. È quanto sostiene, in realtà con molto equilibrio e acume e non senza apportare nuovi elementi di giudizio, Alessandro Arbo nel suo recente saggio su Adorno [2] . Questa presa di posizione è tuttavia particolarmente significativa per il fatto che la «pregnanza teorica» viene ricercata negli angoli più riposti, sconosciuti ai più - mentre su tutto ciò che ha fatto la fama di Adorno l’autore sorvola oppure dice cose che potrebbero ben figurare in un pamphlet di particolare pesantezza polemica.

Questa tendenza a far valere l’Adorno minore, un Adorno piccolo piccolo, di fronte al mastodontico e protervo moralista della scuola di Vienna non è nuova: la si ritrova già nel noto e notevole intervento di Gioacchino Lanza Tomasi al Convegno sul tema «Adorno in Italia» che si tenne a Palermo nel marzo del 1982, intervento che è specificamente dedicato alla «fortuna italiana degli scritti musicali di Adorno» [3], come si dice nel sottotitolo. Ma il titolo principale, nel quale si parla di «discepoli selvaggi», enuncia già la chiave che poi viene fatta valere nel testo. Una volta date per scontate le contingenze che suggerirono in mezzo a mille equivoci e manipolazioni [4] l’idea della Filosofia della musica moderna come «manifesto progressista», e così anche l’insostenibilità degli schematismi proposti da Adorno, è necessario in ogni caso, secondo Lanza Tomasi, distinguere tra Adorno e ciò che egli chiama, trasponendo il termine dalla sua prima applicazione alla psicoanalisi, «adornismo selvaggio». Ecco la valvola verso cui sfogare la critica: cosicché l’elogio di Adorno può continuare, ed addirittura assumere qui e là nuovamente toni apertamente apologetici. Tuttavia in questo caso non è affatto facile applicare meccanicamente lo schema del re e dei realisti più realisti del re. Di fatto Lanza Tomasi si avvia a reinventare l’immagine di Adorno di cui l’adornismo avrebbe appunto irrigidito i contorni, impietrito gli schemi, esasperato il moralismo. Ma è un’immagine che dobbiamo andare a cercare là dove Adorno non si vieta di contraddire Adorno, negli scritterelli più o meno d’occasione, «in alcuni brevi saggi postumi» - dove egli «si sottrae, quasi per dimenticanza alla propria griglia culturale». Dove non c’è più il sociologo, ma solo il musicista, Adorno si abbandona ad un ascolto addirittura edonistico, ai puri piaceri che sgorgano dalle debolezze del cuore: mentre i discepoli di Adorno non hanno concesso a quest’uomo «la tenerezza, la debolezza, non hanno scavato l’umanità nelle analisi dedicate ai figli preferiti, gli Herzgewächse che costellano i suoi saggi e rivelano l’esperienza culturale e artistica di un uomo che ha saputo amare» [5].

Ora, la questione ha un suo lato estremamente semplice: nulla vieta di mettere da parte l’Adorno teorico e filosofo della musica moderna e della dialettica negativa, l’Adorno critico della cultura e della civiltà, per preferire ad esso gli scritti d’occasione del letterato e dell’elzevirista eccelso. Ma nel momento in cui questa preferenza viene proposta come un’immagine autentica che una vicenda culturale ha semplicemente occultato e nascosto, allora è giusto avanzare qualche timida rimostranza. I libri di Adorno, maggiori e minori, sono tutti là - con tutto il peso della tradizione culturale che sta alle loro spalle, con la teorizzazione esasperata della verità e dell’eticità dell’opera d’arte, con tutte le enfasi di una sociologia fondata su una filosofia della storia, con tutto il peso del pensiero dialettico: che non è mai stato, è il caso di ricordarlo?, un pensiero «debole».

Alla luce di ciò saremmo quasi tentati di non tener in nessun conto la formula dell’« adornismo selvaggio» - che può certo avere qui e là qualche esemplificazione pertinente - e di rovesciare interamente i termini della questione. In tutta franchezza: non è affatto facile trovare un adornismo più selvaggio di quello che si trova in Adorno stesso. Mentre si possono citare a iosa frasi di studiosi influenzati dalle posizioni adorniane ed interessati alla loro diffusione che mostrano tuttavia imbarazzo di fronte all’adornismo di Adorno e cercano, in modi diversi, di limitarne la portata e le conseguenze. Cosicché l’adornismo «selvaggio» più che rappresentare qualcosa di simile ad una chiave interpretativa, diventa un pretesto per una difesa estrema e tardiva, che arriva a toccare aspetti critici ormai universalmente riconosciuti. La limitazione dell’intero discorso adorniano alla musica di tradizione tedesca, che in realtà sta profondamente all’interno dell’impostazione filosofica di Adorno, sarebbe una consapevole ed innocua restrizione di campo, dovuta all’umile consapevolezza di non poter pretendere «di svolgere un’analisi culturalmente policentrica»; così come sarebbe necessario distinguere l’« analisi» dalla «provocazione» - cosa che l’« adornismo selvaggio» non avrebbe saputo fare - e addirittura considerare la «provocazione» come consapevolmente legata al ruolo di «educatore che la grande cultura per diritto si arroga» [6]. In questa frase, e proprio in un discorso che riguarda Adorno, ciò che colpisce come un lapsus rivelatore, è quest’ultima espressione, che avrebbe potuto certamente essere un’altra, ma che intanto è proprio questa: si arroga. La grande cultura, se è veramente grande, non si arroga proprio nulla - io credo.

In affermazioni come queste risulta con chiarezza quale funzione subordinata ed elusiva abbia il parlare di adornismo selvaggio o semplicemente di adornismo con connotazioni negative equivalenti. L’intera questione deve essere interamente reimpostata, e non so nemmeno se sia corretto porla secondo lo schema del pro e contro, come se si trattasse di fare una scelta tra coloro che propugnano le posizioni di Adorno e coloro che le hanno avversate fin dall’inizio e le continuano ad avversare. Come osservavo all’inizio, non ci occuperemmo di Adorno se non fossimo interessati ad una nuova riflessione sui modi di approccio alla musica dei tempi nostri; e ce ne vorremmo occupare almeno un poco perché di fatto Adorno ha voluto marcare la musica novecentesca e, a quanto sembra, dobbiamo ancora decidere con chiarezza se sia opportuno o necessario liberarsi definitivamente di questo marchio. Un breve sondaggio su scritti particolarmente autorevoli mostra che ciò non è affatto facile. Da un certo momento in poi le dichiarazioni di dissenso nei confronti di Adorno non si contano. Ma che tenore hanno queste dichiarazioni? Molto spesso esse sono circonvoluzioni, aggiramenti, classici scambi tra la porta e la finestra, nelle quali Adorno viene prospettato in tutte le posizioni possibili, ed anche impossibili. Ecco un altro esempio che mi sembra particolarmente eloquente e rappresentativo di una situazione molto diffusa: «Oggi penso di non condividere letteralmente, di non condividere molte cose di Adorno anche in tesi essenziali, ma ho l’impressione che - confrontando alcuni testi - finisse con il non condividerle nemmeno lui stesso»[7]. Che dire?

 


 

2.

 

In realtà se ci venisse richiesto di illustrare in breve le ragioni della «fortuna» di Adorno negli anni sessanta in Italia risponderemmo all’incirca così: un discorso filosofico come quello di Adorno specificamente mirato a valorizzare l’esperienza musicale della scuola di Vienna rispondeva alla necessità di superare un ritardo storico che in quegli anni rappresentava un’ esigenza inderogabile della vita musicale [8]. Ma particolarmente importante per rendere conto di questa fortuna era naturalmente anche il quadro filosofico in cui quella valorizzazione veniva realizzata: esso era infatti intessuto di motivi che erano sempre stati familiari alla cultura filosofica italiana: l’impianto hegeliano di Adorno non era certamente una cosa nuova! Un’ analisi che prescinda da questa circostanza non può pretendere la minima attendibilità. A ciò si ricollega la questione marxista. La polemica adorniana contro un marxismo di stile positivistico e la ripresa più o meno esplicita di motivi lukacsiani, non stiamo qui a discutere in che senso e in che modo, si poteva incontrare in maniera relativamente spontanea con le tradizioni del marxismo italiano; ma nello stesso tempo poteva anche confluire con gli entusiasmi più recenti verso una rifondazione del marxismo (il «marxismo occidentale») certamente non privi di vivacità polemica non solo nei confronti del socialismo sovietico, ma anche nei confronti del comunismo italiano. Tutto ciò spiega quella che fu indubbiamente l’« attualità» di Adorno ed anche il fatto che la sua Filosofia della musica moderna potesse assumere a tratti il carattere di un «manifesto progressista»: questo carattere poteva riceverlo proprio in forza della sua integrazione in un movimento di idee molto più ampio di cui essa sembrava coerentemente far parte [9].

Ma le cose, che sembrano, dette in questo modo, così semplici, si complicano subito e di molto, non appena ci accingiamo anche solo a qualche modesto approfondimento. Vogliamo intanto rammentare qualche data, del resto ben nota. La Filosofia della musica moderna venne elaborata nella sua prima parte negli anni 1940-41, nel periodo americano, e compiuta nella sua seconda parte al ritorno di Adorno in Germania in vista della pubblicazione dell’opera che avvenne nell’anno 1949. La traduzione italiana dell’opera, dovuta a Giacomo Manzoni, avvenne nel 1959 [10] - dunque dieci anni dopo la sua pubblicazione in Germania e quasi vent’anni dopo la sua prima elaborazione. Ed è certo anche il caso di aggiungere che Adorno, nella sua opera, fa riferimento ad una problematica musicale che risale all’inizio del secolo e ad un’ elaborazione teorica che rappresenta il punto culminante di un’attività cominciata una ventina d’anni prima . Siamo di fronte dunque di fronte a divari temporali estremamente rilevanti e non certo privi di conseguenze che riguardano non solo la ricezione del discorso teorico come tale, ma soprattutto il rapporto tra il discorso teorico e la pratica musicale.

Di fatto tra i paradossi che certamente occorre mettere in conto di un analisi più approfondita dell’intera questione sta indubbiamente il fatto che la notorietà e la diffusione di Adorno in ambiente italiano avvenne quando era il momento del suo declino. E si trattava di un declino non decretato da questo o da quel critico musicale, da questo o quel filosofo, ma dalle vicende stesse della musica. I memorabili saggi di Boulez - e si presti ancora attenzione alle date - «Schönberg è morto» (1952) e «Stravinsky rimane» (1953) rappresentavano obiettivamente la dimostrazione non solo dell’inadeguatezza degli strumenti adorniani ad affrontare la produzione più recente, ma anche della necessità di rifiutarne l’impostazione di principio e l’intero modo di approccio alla musica novecentesca [11]. Per Boulez non si trattava infatti di capovolgere banalmente i termini della contrapposizione adorniana. Il problema era piuttosto quello di riacquisire senza paraocchi le molte cose che stanno dentro la musica novecentesca, di ripensare ad essa individuando nuove possibilità, diverse tradizioni, ridisegnando nuovi quadri possibili di riferimento per lo sviluppo della musica. E nemmeno si trattava soltanto di una ripresa della tradizione francese, di Debussy ad esempio, ma anche, sviluppando motivi certo ampiamente presenti in quella tradizione e, attraverso Messiaen, nella formazione del musicista, di aprirsi alle grandi civiltà musicali extraeuropee - un’apertura che in realtà resta un compito assolutamente attuale, ed ancora irrisolto persino sotto i profili più semplici di una seria ed onesta informazione culturale. Ancora più semplicemente si trattava, per Boulez come per tutta la musica più giovane di allora, di proseguire le molte strade aperte, di sperimentare nuovi materiali sonori, nuove tecniche, di riformulare i progetti stessi del comporre alla luce delle nuove possibilità di produzione del suono che la tecnologia metteva a disposizione del musicista.

Gli anni cinquanta si aprono dunque con alcune significative denunce dell’inadeguatezza delle posizioni adorniane. Ma si aprono anche con scritti di Adorno che non fanno altro che confermare questa inadeguatezza, convertendola naturalmente, a sua volta, in un rifiuto critico. Altrettanto memorabile degli scritti di Boulez prima citati è il saggio adorniano sull’Invecchiamento della musica moderna (1955, ma redatto come intervento radiofonico nel 1954). La traduzione italiana di questo saggio fu pubblicata a ridosso della traduzione della Filosofia della musica moderna, essendo compresa nel volume Dissonanze uscito in italiano, sempre a cura di Giacomo Manzoni, nel 1959 [12]. La musica che pretende di apparire nuova, sostiene Adorno in quel saggio, è in realtà rapidamente invecchiata: ancora una volta si tenta di giocare la carta del progresso e del regresso. E se andiamo a vedere le ragioni di questo «invecchiamento» ci troviamo di fronte a niente altro che ad un’applicazione meccanica dei temi della Filosofia della musica moderna, soprattutto dei temi, tra loro strettamente connessi, dell’angoscia come motivazione necessaria dell’espressione musicale e della «società amministrata» che reprime ogni affermazione dell’individualità soggettiva generando angoscia come forma di una protesta condannata all’impotenza. Tuttavia questi temi si accompagnano ora coerentemente con due altri motivi che non sono altro che una versione sofisticata - una circostanza questa largamente sfuggita all’attenzione dei commentatori - del vecchio schema della valutazione estetica gravitante sulla reciproca esteriorità di forma e contenuto o, come ovvia variante, sulla soppravvalutazione dell’uno o dell’altro polo. Oggetto della critica sono infatti, da un lato, gli interessi tecnologici legati all’impiego della macchina, e quindi in generale all’impiego di procedure matematico-formali nella prassi compositiva (il tutto ricondotto, è appena il caso di notarlo, sotto il devastante dominio della «razionalizzazione» tecnocratica), dall’altro l’« infatuazione per il materiale» e la «cecità per quel che ne risulta»[13].

Come si sa, vennero poi parziali riconoscimenti, qualche rettifica e qualche valutazione generosamente gratificante verso autori ed opere che avevano ormai ricevuto un riconoscimento universale. Adorno più di ogni altro sapeva quanto poco potesse permettersi di restare isolato rispetto al movimento musicale. E nulla potrebbe essere più erroneo, o meglio più improduttivo sotto il profilo del progresso della riflessione teorica che sopravvalutare questi parziali riconoscimenti, queste modificazioni, come se in esse vi fossero elementi tali da indurre una revisione completa dei cardini del primitivo impianto filosofico-musicale [14].

Contro tutta una tendenza che, come abbiamo visto, è ancora viva in tempi recenti a tenere in gran conto citazioni adorniane marginali, valutazioni strumentali, tentativi più o meno felici di correggere il tiro per ragioni di forza maggiore, in uno scritto che ha un’importanza grandissima proprio per la problematica della ricezione di Adorno in Italia, e in particolare per la sua accoglienza in ambiente marxista, Luigi Pestalozza richiamava l’attenzione, in stretta concomitanza con la pubbblicazione della Filosofia della musica moderna, non solo sulla profonda equivocità dell’inclusione di Adorno nell’area marxista, ma sulla coerenza tra l’incomprensione di Adorno nei confronti della «neoavanguardia» e le posizioni di ordine generale, mostrando in particolare di non ritenere affatto credibile il ripensamento che si annunciava già nella prefazione scritta da Adorno per presentare i saggi raccolti in Dissonanze [15]. In quella prefazione Adorno «riforma» la propria condanna nei confronti dei nuovi sviluppi postweberniani. «Sulla base di quali criteri non è detto: ma in forza di quali contraddizioni è ben chiaro» [16]. Per la verità, questo saggio è costruito sulla base di categorie marxiste che possono apparire anche troppo massicce, ma sarebbe sbagliato ritenere che siano queste categorie a determinare l’intera valutazione. Persino la classica opposizione tra teoria e prassi viene qui giocata per rivendicare anzitutto i diritti del divenire della musica, e dunque di un’interpretazione teorica che non faccia violenza ad essa, come fa invece la posizione adorniana. Cosicché è possibile rileggerne le tesi, più che per la loro portata di ordine ideologico-politico, per le conseguenze che se ne traggono ai fini di schizzare un’immagine di Adorno come interprete della musica del nostro tempo. Un richiamo alla necessaria «aderenza alla storicità del reale» di cui parlava Banfi, il cui nome ricorre significativamente all’inizio del saggio, introduce l’« apriorismo» adorniano - il che è quanto dire: visione puramente pregiudiziale, che ha il suo fondamento in una pura costruzione concettuale. Di questa costruzione fa parte l’idea di un processo che va incontro ad «una situazione irrimediabilmente chiusa»: il catastrofismo adorniano non è che una conseguenza di un’ eternizzazione dell’angoscia che a sua volta corrisponde all’assolutiz-zazione di una condizione storicamente relativa. Deve dunque essere sottoposta a critica la concezione della «società amministrata» - almeno nella misura in cui la «massificazione del mondo moderno» rappresenta un’ occasione per ribadire un’« aristocratica avversione all’u-guaglianza» e per accreditare «il rilancio di una teoria delle élites»; ma anche deve essere messo in rilievo fino a che punto sia «angusta» la simpatia adorniana per l’espressionismo e sterile l’opposizione tra Schönberg e Stravinsky come chiave per una «filosofia della musica moderna». L’idea del possibile moltiplicarsi delle antitesi che Pestalozza propone chiude il cerchio della critica [17].

Non vi è uno solo di questi temi che non debba essere ripreso in una riflessione critica effettiva intorno ad Adorno. Una simile riflessione sembra oggi ricca di interesse per il fatto che essa tende fin dall’inizio a mettere in discussione un atteggiamento generale intorno alla musica novecentesca, ed anche, di scorcio, intorno alla musica stessa, di cui Adorno fornisce una versione in certo modo esemplare. Sullo sfondo di questo atteggiamento vi è indubbiamente la concezione, così caratteristica della tradizione storicistico-idealistica, secondo cui la storia è costituita da opposizioni polari fondamentali e nel gioco di queste opposizioni va ricercato a tutti i costi un filo conduttore strettamente unitario, una trama ideale i cui nodi sono tra loro concatenati: ogni passo rende esplicito ciò che era implicitamente contenuto nei passi precedenti seguendo un percorso che seguirà in ogni caso inesorabilmente il modello dell’ascesa, acme e decadenza.

Il cammino dell’idea: nei termini della problematica musicale, a cui converrà prestare l’attenzione prima ancora che alla sua integrazione in un quadro socio-filosofico, l’idea che è qui in cammino è una concezione della temporalità del brano musicale come una temporalità organica, secondo l’accezione più forte dell’organicismo elaborata in èra romantica e sul cui terreno la nozione generale della dialetticità ha del resto le sue radici. Si tratta dunque dell’idea della variazione-sviluppo che raggiunge la sua massima pregnanza espressiva nella forma-sonata. Per Adorno questo cammino comincia con Bach [18], culmina in Beethoven, termina in Schönberg e nella scuola di Vienna [19]. Queste sono circostanze mille volte ripetute nei commenti che hanno spesso analizzato a fondo e con ricchezza di dettaglio la centralità che assume in Adorno il riferimento al classicismo viennese. Così come si è anche più volte chiarito che questo riferimento non rimanda affatto a pure questioni di gusto e di preferenze musicali: in esso deve anzi essere ricercato il nucleo stesso della concezione adorniana della musica [20]. Ma non sarebbe stato forse anche giusto manifestare almeno un poco di stupefazione di fronte al fatto che l’intera vicenda della musica novecentesca venisse affrontata con una forma mentis musicale la cui impronta decisiva veniva dalla forma-sonata? Sull’importanza di quel nucleo della concezione adorniana occorre dunque richiamare ancora una volta l’attenzione, ma con la novità di questo stupore.

Ed allora si comprendono subito il senso e la portata che assumono in Adorno i temi dello sviluppo e della ripetizione - sia in rapporto all’opera considerata nella sua struttura interna sia per ciò che riguarda il modo di intendere il divenire stesso della musica.

Sviluppo e ripetizione non possono essere considerati, quali essi sono, come titoli generalissimi inscritti nella stessa essenza della musicalità e che possono essere giocati in un’imprevedibile molteplicità di modi dal punto di vista espressivo. Essi diventano invece gli estremi di una polarità relativa al modo d’essere temporale dell’opera intorno a cui si giocano tutte le valutazioni musicali più significative di Adorno, senza alcuna eccezione. In essi inoltre va ricercato il nodo elementare di raccordo con le interpretazioni socio-filosofiche. Contro la tendenza corrente a considerare la tematica musicale come subordinata ad una visione generale dello sviluppo sociale, si sarebbe invece tentati di considerare l’integrazione della tematica musicale in un contesto socio-filosofico come se le chiavi socio-filosofiche si aggiungessero a queste valutazioni come una sorta di loro naturale prolungamento. Nella stessa parola «ripetizione» non par già di avvertire il battito ostile della macchina in azione - il valore d’uso che diventa valore di scambio, la società amministrata, la perdita dell’identità soggettiva in una umanità massificata?

Lo «sviluppo», d’altra parte, sembra definire il senso stesso dell’essere storico, dunque il divenire della musica, anche se dobbiamo prendere atto che si tratta di uno sviluppo che va decadendo nella «ripetizione». Il modello hegeliano, in realtà in una sua versione fortemente elementarizzata, resta a fondamento di questa «dialettica negativa»: di essa fa parte anzitutto la concezione delle contraddizioni fondamentali, che rimandano peraltro ad una sola contraddizione fondamentale, l’unica realmente significativa che trova puntualmente le sue «figure» rappresentative perfettamente adeguate. Naturalmente Schönberg e Stravinsky non sono altro che figure «fenomenologiche» nel senso hegeliano del termine, così come lo sono Schönberg, Berg e Webern che si ordinano meravigliosamente in una triade nella quale Webern non può fare altro che rappresentare la sintesi a rovescio di un processo nel quale, secondo la prospettiva adorniana, la contraddizione va sempre più approfondendosi sino al suo definitivo irrigidimento. Dal punto di vista soggettivo, ciò significa angoscia crescente, angoscia che diventa così grande da essere incommensurabile rispetto a qualunque forma di estrinsecazione. In rapporto al problema del divenire della musica si tratta di un processo destinato a sfociare in quella necessaria autonegazione che rappresenta per Adorno l’essenza stessa del percorso della scuola di Vienna.

E’ necessario rendersi conto fino in fondo che tutto ciò comincia proprio dal fatto che la forma-sonata ha assunto carattere di modello in rapporto all’essenza stessa della musica, che a partire da questo modello si descriverà questa storia come un ineluttabile declino, nel quale il mortuum - la ripetizione - non potrà che prevalere sul vivo. Tutte le limitazioni e le attenuazioni imposte ad una simile impostazione ed alla sua interna coerenza in nome di una sua attualizzazione non fanno altro che immiserire la sua grandiosa drammaticità: al contrario questa viene interamente riguadagnata restituendo alle concezioni adorniane la loro giusta dimensione storica. Rammentiamo gli anni in cui il pensiero di Adorno ha preso forma: quegli anni potevano ben essere vissuti con il senso di uno sprofondamento in un abisso, dal quale solo una speranza molto simile ad una fantasia utopica avrebbe potuto intravvedere la possibilità di riemergere. Il tramonto della musica - il ripresentarsi in una nuova, in certo senso realistica, inclinazione del tema della morte dell’arte - rappresenta qualcosa di molto serio per Adorno: l’elogio della scuola di Vienna è di fatto l’elogio degli ultimi bagliori di questo tramonto, al di là del quale vi può essere soltanto il vagare del messaggio nella bottiglia in un oceano infinito.

Ma lo schema elementare di cui ci siamo or ora serviti, e che sembra stia nel nucleo più profondo della complessità di Adorno, è particolarmente adatto non solo per comprendere i termini della sua impostazione, ma anche per fornire le linee iniziali di un orientamento critico.

Se consideriamo il primo aspetto della questione, la temporalità interna all’opera, occorre attirare l’attenzione sul fatto che, se non facciamo agire fin dall’inizio scelte pregiudiziali, dal punto di vista musicale, e sotto il profilo della problematica temporale, il secolo si apre con una volontà artistica esplicitamente diretta contro l’idea di un modo di essere obbligatorio rispetto a qualunque modello di organizzazione temporale. Il tempo viene invece restituito alla forma originaria di mero flusso di fronte alla quale sta la capacità strutturante della creazione musicale rispetto alle molteplici possibilità di differenziazione e di articolazione. In certo senso, sviluppo e ripetizione vengono rimessi in gioco proprio nell’accezione generale a cui ci siamo richiamati in precedenza, come termini che delimitano un campo estremamente vasto per il libero gioco delle azioni espressive. Assumendo questo punto di vista si tenderà allora ad accentuare un atteggiamento di rottura caratterizzato in via di principio da una idea della musicalità interamente aperta, e in questo senso da una radicale messa in questione della sua essenza. Ora, una delle circostanze assai poco notate dalla critica è che in Adorno il motivo della rottura si prospetta soprattutto sul piano dell’interpretazione socio-ideologica, mentre dal punto di vista musicale prevale l’idea del passo necessario di uno sviluppo fondamentalmente coerente ed unitario, della degenerazione conseguente e ricca di senso di una forma dell’espressione musicale, che assume la massima pregnanza in rapporto a ciò che la musica è «nel suo concetto». Si tratta di un’idea che particolarmente presente nella stessa avanguardia musicale europea, con maggiore o minore coscienza delle sue implicazioni filosofiche, e al di là di differenze anche rilevanti nelle pratiche musicali. Questa stessa idea caratterizzava d’altronde anche l’interpretazione data da Schönberg intorno al senso della propria attività creativa [21].

Il problema dello «sviluppo», di portare un processo alle sue conseguenze necessarie ed estreme, esiste solo nella misura in cui ci si considera solidamente attestati all’interno della continuità di una tradizione concepita come se essa fosse fatta di tappe, ciascuna delle quali ha la forma del «passo avanti». Di qui la natura duplice e apparentemente contraddittoria del rapporto con la tradizione: ad un simile punto di vista appartiene un vero e proprio bisogno di tradizione, in esso vi deve essere la permanente consapevolezza di una dimensione storica, dove la storicità deve essere concepita in modo tale che la sua pluralità di dimensioni, la sua complicata stratificazione di piani temporali, possa sempre essere sottoposta ad una operazione di riduzione. Di conseguenza deve esservi una precisa localizzazione del passato, e un non meno precisa localizzazione del presente [22]. Il passato deve trovarsi sempre esattamente alle nostre spalle. Ma proprio per questo nulla può ripugnare maggiormente ad un simile punto di vista di una ripresa di moduli compositivi appartenenti alla tradizione o in ogni caso di una creatività musicale che si manifesti, in un modo o nell’altro, anche attraverso una rinnovata riflessione sul passato musicale. Una simile creatività non può essere considerata creatività autentica, dal momento ogni sguardo verso il passato ha in via di principio un carattere regressivo, il carattere di un effettivo sguardo all’indietro, di una mera ripetizione del già stato.

Ora le nostre considerazioni intorno alla temporalità interna all’opera possono essere trasposte anche in rapporto al «divenire» della musica: una simile concezione non è affatto obbligatoria, e la sua assunzione come una pura ovvietà è fonte di equivoci fondamentali. Questo divenire non deve essere affatto obbligatoriamente concepito secondo i canoni di una temporalità lineare, e nemmeno deve essere obbligatoriamente subordinato ad una idea di tradizione che, in rapporto a quei canoni, è caratterizzata da un’unicità di principio. L’eurocentrismo e il disinteresse verso la musica popolare in genere che così spesso è stato segnalato come una carenza del punto di vista adorniano non è una carenza accidentale, che ci possiamo limitare a indicare come se nulla fosse, come se essa non si radicasse al centro della prospettiva filosofica di Adorno. Qui è in questione un diverso modo di concepire la dimensione temporale. Una volontà artistica che ha deciso di disporre liberamente della temporalità, forse ha anche deciso di disporsi liberamente in essa. E allora si prospetta immediatamente una molteplicità di tradizioni, facendo venire meno qualunque pregnanza al problema della «continuazione» e della «rottura nella continuazione»: non vi sono più propriamente antecedenti e conseguenti. La storia in genere e la storia della musica in particolare non è una successione di stazioni - ed uno sguardo all’indietro può ben essere semplicemente uno sguardo altrove. Si presta attenzione alla varietà del paesaggio più che alla catena delle stazioni - cosicchè le cose possono anche stare esattamente all’inverso di quanto si pensa di solito: il divieto dello sguardo indietro non è affatto di per se stesso segno certo della rottura con la tradizione, ma al contrario dove vige questo divieto, perchè ogni sguardo verso il passato assume necessariamente il senso di uno sguardo indietro, proprio là vi è un legame tenace con il passato e la pregnanza della tradizione.

 


3.

 

Una discussione intorno alle vicende di Adorno e dell’adornismo risulterebbe certamente priva di un significativo riferimento se non prendesse in considerazione il modo in cui queste vicende si sono intrecciate con la tematiche fenomenologiche nelle forme in cui venivano sviluppate in quegli anni in Italia. Desidero soffermarmi sull’argomento perché vi sono degli aspetti della questione che sono passati quasi inosservati e che sono invece sintomatici di complicazioni inattese e ricche di spunti per una riflessione.

Nel 1959, la traduzione della Filosofia della musica moderna veniva proposta con un saggio introduttivo di Luigi Rognoni [23], nel quale si delineava con chiarezza, e anche con una relativa ovvietà, la necessità di questo incontro. La fenomenologia a cui Rognoni faceva riferimento era quella mediata in quegli anni da Enzo Paci: si trattava di un’interpretazione delle problematiche husserliane che risentiva in modo significativo dei motivi filosofici che Paci aveva elaborato in precedenza, sotto i titoli dell’« esistenzialismo positivo» e del «relazionismo» e che si muoveva nello stesso tempo nella prospettiva di un incontro con il marxismo. Attraverso Rognoni, il problema appena aperto di che cosa avrebbe potuto significare una considerazione filosofica della musica nello spirito della fenomenologia, veniva fatto rifluire nell’area dell’adornismo e consegnato ai suoi caratteristici schematismi ed alle sue idiosincrasie.

Ora, proprio nel 1959 Enzo Paci riteneva di dover intervenire sulla rivista «Il Verri» con un articolo «Sulla musica contemporanea» [24], il cui contenuto sostanziale rappresenta una polemica coperta, ma in realtà particolarmente aspra, nei confronti della posizione adorniana, e quindi dello stesso Rognoni. Del resto in un rapidissimo cenno autobiografico durante una tavola rotonda organizzata dalla rivista diretta da Dino Formaggio «Fenomenologia e scienze dell’uomo» in occasione del centenario della nascita di Banfi, Rognoni non solo rammenta le «accese discussioni» avute con Paci sulla questione Adorno, ma anche la reazione del tutto negativa di Antonio Banfi [25].

Vogliamo rammentare i termini della discussione che Paci svolge nel saggio sulla musica contemporanea, in realtà assai suggestivo.

Dopo una breve introduzione di carattere generale nella quale Paci richiama i temi dello schematismo kantiano e dell’irreversibilità temporale - che a loro volta si ricollegano all’idea di una »dialettica« necessaria capace di superare l’opposizione tra astrazione e concretezza e ad una concezione dell’esistenza caratterizzata dalla capacità di porre scopi e fini e di perseguirli in una libera progettualità - la discussione si apre come un tentativo di rispondere alla domanda che chiede in che modo nella musica contemporanea si esprima la condizione di crisi che caratterizza la cultura contemporanea nel suo insieme. E non può non essere sintomatico che, nel rispondere a questa domanda, Paci pensi anzitutto a Stravinsky [26]. «Nella musica contemporanea - scrive Paci - la crisi non si esprime soltanto come conseguenza dell’esaurimento del linguaggio tonale» [27]. Ciò che si cerca è un «nuovo contenuto, un fondo esistenziale originario, una dimensione empirico-materiale nuova, non precostituita dalla tradizione e dalla civiltà, una dimensione che affondi nella vita più segreta, più inafferrabile dell’inconscio, della natura, della storia» [28]. Vi è una sorta di aspirazione ad allontanarsi dalla cultura, un «disagio della civiltà» che è stato indotto dalla civiltà stessa - naturalmente da una civiltà che ha obliato la propria teleologia interna. A questa civiltà ci si ribella, la musica stessa si ribella, operando un «annientamento del mondo» che ha anzitutto il senso di un annientamento della dimensione «colta» e del ritorno alla pura istintualità, alla pura vita corporea, ad una naturalità non ancora compressa e modificata dall’uomo.

I richiami a motivi husserliani sono qui del tutto evidenti: il tema della crisi, la riduzione fenomenologica come Weltvernichtung, il tema del mondo della vita. Ma altrettanto evidenti sono le elaborazioni a cui Paci sottopone questi motivi facendoli rientrare nel proprio orizzonte teorico. In particolare Paci è portato a vedere il mondo della vita non solo come una articolata rete di strutture eidetiche, secondo la concezione prevalente in Husserl, ma anche come una variante dell’ingens sylva vichiana; cosicché questo tema risulta in Paci essenzialmente caratterizzato da una possibile doppia interpretazione, da un’ambivalenza ricca di senso. La stessa doppia interpretazione spetterà allora alla riduzione fenomenologica - alla Weltvernichtung - che da un lato assume il senso di una rigenerazione e di una radicale Erneuerung, e ciò appartiene certamente al pensiero dell’ultimo Husserl, dall’altro invece di una rischiosa «discesa nell’inconscio» che evoca dimensioni arcaiche ed angosciose.

Il centro musicale di questo discorso filosofico è il Sacre di Stravinsky. In esso troviamo «la gioia dionisiaca» generata dall’inserimento «in una struttura esistenziale primitiva, arcaica, dirompente» [29]. Ma troviamo anche l’angoscia dell’operazione negatrice che forma la sua premessa e la sua condizione. L’elemento ritmico dominante esalta il ritorno alle forze della terra e della natura, ma annuncia anche l’elemento demoniaco che esplode nell’atto culminante del sacrificio.

Nella musica di Stravinsky si afferra ad un tempo «sia il fascino che l’orrore del fondo barbarico presente nell’uomo» [30]. Attraverso di essa si vuole «far sentire ad una società cosiddetta civile che nel suo fondo è ancora attivo il senso del sacrificare delle vittime» [31]. Ciò che è inquietante dunque, secondo Paci, nel Sacre non è il puro fatto del sacrificio umano come ricordo di un passato lontano, legato ad arcaiche pratiche rituali, ma è soprattutto il fatto che si tratta di una presenza barbarica che il processo di «civilizzazione» non è ancora riuscito a svellere. La reazione contro quest’opera ha il senso di una rimozione così come il cercare di addossare a Stravinsky «la barbarie trionfante nel mondo dopo il 1913».

Il Sacre rappresenta dunque un vero e proprio viluppo di significativi contrasti. Ma il lato più originale della sua proposta interpretativa sta forse nel suggerimento che essa contiene di una riconsiderazione dello Stravinsky cosiddetto «neoclassico» e poi delle ultime produzioni di carattere religioso e spesso ispirate al «culto dei morti». Ciò su cui Paci richiama l’attenzione è proprio il percorso compiuto dalla produzione stravinskiana che sembra idealmente riproporre, a partire dalla dimensione della crisi, rivissuta come «disagio della civiltà», il percorso della cultura europea: i richiami a figure della mitologia classica assumono il senso di un cammino che deve essere nuovamente compiuto dopo essere discesi nel profondo caos dell’originario, la necessità di porsi nuovamente sotto il segno di Apollo, dopo aver sperimentato la gioia e l’angoscia di Dioniso. Si tratta dunque di richiami che riguardano non tanto il passato, quanto un futuro che deve essere in grado di operare una nuova sintesi.

Il passato, certo, è dominante nelle opere «funebri» di Stravinsky, ma ancora in stretta connessione con questo futuro possibile. Così Paci rammenta la prima esecuzione, avvenuta un anno prima a Venezia di Threni, id est Lamentationes Jeremiae Prophetae (1958), facendo notare come circostanza ricca di significato il fatto che nel corso dello stesso concerto erano state eseguite le Sinfonie per strumenti a fiato, dedicate alla memoria di Debussy, i canoni funebri In Memoriam Dylan Thomas, oltre che le Variazioni canoniche sul corale bachiano Von Himmel Hoch. Il tema funebre è dunque legato ad un ricordo che contiene l’intento di fare rivivere in modo nuovo le grandi opere del passato. Il principio dell’irreversibilità temporale insegna che il passato non può per principio essere ripetuto, che esso può essere soltanto ritrovato attraverso il rinnovamento: renovatio e innovatio formano un unico nodo, che è lo stesso nodo che ricongiunge la morte con la vita. L’intero percorso stravinskiano, sembra voler dire Paci, rappresenta un itinerario che, nel suo concludersi, ritorna sui suoi inizi portando alla luce ancora una volta, ma in un senso del tutto diverso, il motivo del sacrificio dell’Eletta che nel Sacre prepara e annuncia una nuova primavera.

Più succinti (e meno interessanti) i riferimenti a Schönberg, nella seconda parte del saggio. Si nota qui la tendenza a mostrare la presenza di una problematica per molti versi affine, dal punto di vista generale, per quanto possano essere diverse le forme della realizzazione espressiva. Se l’atonalismo ci riporta al disordine espressionistico, la teoria dodecafonica contiene invece un’esigenza di ordine, di superamento della pura regressione all’istintualità originaria: in essa vi è tuttavia anche l’idea di una «disciplina assoluta», e dunque quell’« arbitrio dell’ordine» che, per «antitesi dialettica», può imporsi proprio a partire dalla dimensione espressionistica del puro caos. Il problema di fondo di Schönberg è quello di aver vissuto sul piano musicale questa opposizione, nella quale si rispecchia la forma stessa della crisi, di essersi dibattuto in essa come di fronte ad un enigma che esige imperiosamente una soluzione. Dunque nulla sarebbe più erroneo che assolutizzare questa struttura antinomica: l’elemento della negatività non può in alcun modo essere irrigidito e fissato. E tanto meno possiamo cogliere questa vicenda musicale come una sorta di preannuncio della morte dell’arte.

Il riferimento polemico alle posizioni di Adorno, e dunque all’equivoco connubio di queste posizioni con le tematiche fenomenologiche, presente ovunque nel saggio, diventa ora interamente esplicito: «Fissata nella sua insolubilità statica, l’opera di Schönberg viene imbalsamata come negativa, come se l’unica possibilità dell’uomo contemporaneo fosse quella di vivere il negativo per il negativo. Si tratta, in un’interpretazione di questo tipo, di un’incomprensione di base dovuta ad un eccesso di astrazione intellettualistica, interpretazione nella quale si nasconde il crollo della volontà estetica e filosofica» [32]. Particolarmente dura è la conclusione di questa valutazione: «Questa caduta dell’intenzionalità si associa ad un sordo rancore verso l’opera d’arte e alla sfiducia totale nella razionalità della vita e del suo fine» [33]. Ciò che colpisce in questa frase - a parte l’inclinazione in senso etico che del resto è propria della interpretazione di Paci dell’intenzionalità - è soprattutto l’espressione di «rancore verso l’opera d’arte» che concentra in modo efficacissimo una raffinata e durissima presa di posizione critica: l’insistenza adorniana sull’elemento della negatività finisce con l’avere il senso di un cupio dissolvi che l’artista novecentesco dovrebbe pronunciare su se stesso, sulla propria opera, così come sull’arte in genere. La morte dell’arte non solo non si aggiunge dall’esterno alla compagine del discorso adorniano, con tutto il suo corteo di pretese giustificazioni socio-filosofiche, ma è anche un motivo intensamente desiderato - in questo l’espressione del «rancore» coglie realmente nel segno.

Eppure nonostante una presa di posizione tanto dura, che dà un preciso corpo teorico alle »vivaci discussioni« rammentate da Rognoni, non vi è dubbio che non vi fu un effettivo interesse da parte di Paci ad esasperare la polemica antiadorniana. E le ragioni di ciò sono in realtà meno difficili da comprendere di quanto possa apparire ad un primo sguardo, benché esse siano tutt’altro che prive di complicazioni interne e abbiano un’inclinazione tendenzialmente paradossale. Nonostante le presupposizioni filosofiche fortemente contrarie alla fenomenologia da parte di Adorno e dell’intera scuola di Francoforte, la tematica husserliana della Crisi delle scienze europee mostrava aspetti che certamente potevano essere assorbiti nel quadro categoriale di quella scuola. Ora, l’interpretazione che Paci andava proponendo della fenomenologia faceva riferimento soprattutto alle posizioni dell’ultimo Husserl e alla tematica lukacsiana della reificazione e si iscriveva di conseguenza in un terreno al quale appartenevano anche Adorno e la scuola di Francoforte. Da questo punto di vista il connubio tra fenomenologia e adornismo operato da Rognoni non era affatto arbitrario, anche se non era provvisto di alcuna necessità intrinseca. Inversamente quella polemica che Paci sentiva come necessaria non poteva che incontrare dei limiti invalicabili.

 


4.

 

Forse nulla si presta meglio per riprendere e riannodare insieme i fili della discussione proposta che fermare conclusivamente la nostra attenzione sul volume di Armando Gentilucci, Oltre l’avanguardia. Un invito al molteplice che risale al 1980, che è stato riproposto, dieci anni dopo la sua prima pubblicazione, nel 1991 [34]. Di questo libro sono stati messi in evidenza soprattutto i grandi pregi sul piano della critica musicale, piuttosto che gli elementi di teoria che esso contiene [35]. In realtà, anche da quest’ultimo punto di vista, esso rappresenta un tornante estremamente significativo nella determinazione di un nuovo atteggiamento e nell’apprestamento di nuovi strumenti concettuali per l’approccio alla vicende musicali più recenti. Il suo nucleo teorico sta tutto nella connessione concettuale, enunciata nel titolo e nel sottotitolo, tra una critica della nozione stessa di avanguardia, sentita ormai come un’ esigenza improrogabile, e la necessità di adottare un punto di vista «plurilinguistico», di superare quella che Gentilucci chiama «mentalità integralista» [36] e dunque l’intero apparato di categorie e di quadri concettuali di cui questa mentalità è costituita.

Con particolare chiarezza viene colta la relazione che vi è tra l’idea di avanguardia ed una nozione di progresso concepito come movimento rettilineo, unidirezionale, provvisto di una sua precisa logica interna, che deve essere sviluppata e proseguita. Su questa relazione forse non si è riflettuto abbastanza. In essa vi sono assunzioni che possono talora rimanere inavvertite e solo latenti, ma che non sono per questo meno impegnative nella loro portata e nelle loro conseguenze. Non ci sarebbe avanguardia se non vi fosse l’unità di un sentiero, se non vi fosse cioè un movimento unitario di cui essa rappresenta appunto l’espressione più avanzata. Ma ciò comporta che l’idea della «rottura» rispetto al passato, che ad essa è sempre stata associata, ha in sé una precisa complicazione interna. Occorre comprendere infatti che essenziale all’idea di avanguardia è proprio quel bisogno di tradizione a cui abbiamo accennato in precedenza e che abbiamo riferito ad un determinato modo di atteggiarsi verso la dimensione temporale, ad un determinato modo di vivere la stessa dimensione del presente. Il tempo corre via - saremmo tentati di dire: noi ci troviamo sul treno del tempo. Ma questa metafora «ferroviaria» potrebbe essere profondamente erronea, profondamente fuorviante, in ogni caso non obbligatoria per ciò che riguarda il modo di intendere la nostra appartenenza alla temporalità. Pensiamo piuttosto ad un paesaggio visto dall’alto, ad una visione aerea: come se il presente fosse proprio «quel luogo» che occupiamo in un viaggio aereo. Ma quale luogo? Se ha senso affermare che, a terra, in un viaggio ferroviario, ci troviamo sempre tra due stazioni esattamente determinate e quindi in un luogo esattamente determinato, il luogo del presente aereo diventa tanto indeterminato quanto lo diventa l’« essere tra». Persino ciò che sta davanti e ciò che sta dietro - ciò che sta prima e ciò che sta dopo, sembrano trasformarsi in orizzonti fluttuanti. Dov’è il sentiero? E lo sviluppo conseguente? Quale luogo, laggiù, appartiene al passato e quale al futuro? E molte sono le strade che si vedono di qui e che collegano in molti modi i luoghi. Ci rendiamo così finalmente conto che l’idea di una linea maestra dello sviluppo, così connessa con quella di avanguardia, non è qualcosa che c’è già, ma è anzitutto una costruzione concettuale.

Certo, Gentilucci non dice le cose esattamente in questo modo: il primo capitolo del suo libro comincia con un vero e proprio elenco di fatti - di avvenimenti musicali profondamente differenti nella vita musicale dal 1949 al 1976, che certamente non persegue l’intento di ridurre il tema del «plurilinguismo» ad una pura e semplice presa d’atto. Si tratta di mostrare invece che la vocazione alla molteplicità linguistica è una vocazione interna delle pratiche musicali e deve diventare nello stesso tempo una fondamentale premessa teorica. Credo anche che si possa sostenere che per Gentilucci questo problema si presenta non solo per la produzione musicale successiva agli anni cinquanta, ma che valga in genere per lo stesso spirito della musicalità novecentesca. Questa estensione è evidentemente della massima importanza al fine di stabilire un nuovo atteggiamento nei confronti delle vicende musicali del novecento. E’ infatti particolarmente significativo il fatto che, secondo Gentilucci, la crisi della tonalità debba essere interpretata nella sua portata più generale «come sciogliersi dell’idea totalizzante che in un momento storico determinato debba esistere un modo ed uno solo di fare musica» [37]. Ciò che è realmente importante, dunque, non è tanto il fatto che il secolo si apra con un gesto di dissoluzione del sistema di regole che è la tonalità, quanto invece l’esemplarità di questo gesto: cosicché non viene contestato in esso soltanto la validità, in forza di pretesi motivi «naturalistici» di quel sistema di regole, ma l’idea che si dia in generale un modo del comporre per eccellenza. Ed è un ovvio corollario di ciò la negazione che sia possibile stabilire un coordinamento tra un’epoca storica determinata ed un modo del comporre che sia l’unico realmente all’altezza di essa. In coerenza con una simile posizione vi è certamente, non già la difesa di un ecclettismo senza idee, ma il rifiuto di vincolare la libertà compositiva attraverso una «scelta di sistema» effettuata una volta per tutte. «Le regole gioco si inventano giocando» [38]- afferma una volta Gentilucci con una formulazione non solo nello spirito, ma anche nella lettera prettamente wittgensteiniana, e del resto Wittgenstein, che nel testo non appare mai citato, merita certamente di essere richiamato in un simile «invito al molteplice».

Si tratta di prese di posizione della massima importanza per le conseguenze che da esse si possono trarre - basti qui rammentare almeno la rimessa in questione del rapporto tra «musica sperimentale e ideologia politica» e il capitolo dedicato ad «estendere» la «tradizione» della musica novecentesca e a rivendicare l’interesse, contro la tendenza a ridurre i compiti della critica musicale alla realizzazione di intollerabili casistiche sulle pochissime persone veramente importanti, di una considerazione dell’esperienza musicale liberata finalmente dal problema dell’appartenenza o meno alla linea maestra.

E in questo contesto che ne è di Adorno e della sua filosofia della musica moderna? Qui siamo sul punto di liberarci veramente di lui. Non vi è infatti aspetto delle problematiche contro cui si polemizza che non abbia in Adorno una sorta di riscontro e di documentazione esemplare. La critica di Gentilucci investe lo stesso atteggiamento intellettuale che presiede alla Filosofia della musica moderna e in generale alla produzione musicologica di Adorno come un atteggiamento incapace di rendere conto dell’intera vicenda musicale novecentesca: la sua prospettiva è «troppo provocatoriamente semplificatoria», essa si è rivelata ormai «inagibile», unilaterale, addirittura «malata di eurocentrismo pangermanico» [39].

Tuttavia, e qui ci imbattiamo in una nuova complicazione, sarebbe sbagliato sostenere che il bersaglio polemico centrale di Gentilucci sia la posizione adorniana. Il fulcro autentico a partire dal quale può cominciare ad agire l’« invito al molteplice» sta propriamente nella critica dello «strutturalismo musicale», e dunque si tratta di un fulcro che si trova sul terreno delle pratiche musicali più che su quello delle dispute filosofiche. Inoltre l’intera discussione di Gentilucci va localizzata strettamente all’interno delle vicende della musica italiana a partire dagli anni cinquanta ed oltre. Sullo sfondo vi sono gli interventi di Luigi Nono a Darmstadt nei quali Gentilucci rileva non solo l’affermazione della «necessità di guardare oltre i limiti di una problematica esclusivamente tecnica per collegare idealmente la ricerca musicale con i grandi processi di trasformazione sociale e politica», ma anche la presenza di un gesto di «esplicita ribellione nei confronti dell’asettica impostazione tecnocratica darmstadtiana, di una rivalsa dell’» impuro« nell’ambito dei ben coltivati orticelli dello strutturalismo integrale» [40]. Di qui vengono tratti i motivi per ricollegare in un unico nodo e con questa inclinazione polemica le tematiche teoriche precedenti, la critica stessa della nozione di avanguardia, il rifiuto del «mito risibile delle estreme conseguenze» [41], della concezione del nuovo come puro rovesciamento del vecchio [42], così come anche il problema dell’ampliamento della «genealogia» della musica novecentesca.

Ma proprio perché l’angolatura è questa si colgono subito alcune caratteristiche complicazioni. Una critica che coinvolga simultaneamente e con particolare durezza Adorno e lo strutturalismo musicale non è evidentemente troppo facile da condurre coerentemente. La critica dello strutturalismo musicale infatti poteva essere sviluppata con motivi che in un modo o nell’altro ci riportano nell’area delle problematiche adorniane: si pensi all’attacco nei confronti dello scientismo di facciata, o alla pretesa acquiescenza ai meccanismi della civiltà industriale, in generale ai temi anticonsumistici trasferiti nell’ambito musicale ed ai motivi strettamente interdipendenti riconducibili sotto il titolo della perdita della soggettività. All’interno di un simile orizzonte ideologico - sia pure con proprie peculiarità che andrebbero considerate più a fondo - vanno certamente situati gli interventi critici di Luigi Nono in quegli anni: ed allora ci rendiamo conto che la posizione di Gentilucci non è subito leggibile nella direzione che ci sembrava di poter imboccare con sicurezza e decisione fin dall’inizio [43].

Vi è in Gentilucci la critica aperta di una «mentalità integralista» e vi è la chiara identificazione della figura di Adorno come un’ illustrazione esemplare di questa mentalità. Vi è la posizione estremamente chiara della necessità di modi di approccio interamente nuovi ai problemi della musica del novecento nel suo insieme. Ma ad una lettura attenta si ha infine la sensazione che la critica nei confronti di Adorno non venga condotta fino al punto in cui le premesse lasciavano prevedere: anzi, addirittura che alcuni aspetti sia pure attenuati, e soprattutto liberati dalla presunzione dogmatica così caratteristica del pensiero e dello stile di Adorno, restino in qualche modo ancora attivi sullo sfondo.

Mi sembra, ad esempio, si possa ancora scorgere nell’insieme delle valutazioni di Gentilucci un’ inclinazione moralistica che è così tipica della cultura musicale di quegli anni, e di cui peraltro non vi è quasi traccia nella produzione del Gentilucci compositore. Si tratta di un’ inclinazione del tutto priva di enfasi, ma avvertibile, per citare una circostanza di stile solo apparentemente marginale, nella ricorrenza di espressioni «gustative», come «contaminazione ghiotta», «attrazione golosa», «abbandono goloso al suono», «golosa seduzione», «delibare sonorità» [44] - tutte espressioni impiegate per lo più con un’ambigua inflessione negativa che suonano all’orecchio come varianti affievolite delle geremiadi adorniane contro la musica gastronomica. Che vi sia un genuino piacere della musica, al di là di tutte le speculazioni sull’unità trinitaria del bello, del buono e del vero, Gentilucci come musicista lo sa meravigliosamente bene: come teorico mostra invece qualche esitazione [45].

Ora, un’inclinazione moralistica è portatrice di altre che in essa sono quasi annidate come corollari inevitabili: ad esempio, la tendenza a ritenere che la musica debba essere portatrice, sempre e comunque, «se è vera musica», di grandi messaggi, del messaggio più grande di tutti, di un messaggio tanto grande da non potersi dire in parole, ma soltanto in suoni (vi è una singolare graduazione che conduce dall’enfasi politico-moralistica all’enfasi mistica). Quanto più l’accento cade sulla sublimità della musica, tanto più la musica sarà esposta ad un immiserimento rispetto alla molteplicità delle sue forme e modi di espressione ed è appena il caso di notare che una simile tendenza riduttiva è profondamente incompatibile con l’invito al molteplice di Gentilucci.

Questa incompatibilità non manca certo di manifestarsi in molti modi in questo suo libro. Eppure inclinazione moralistica, di origine politico-ideologica, e preoccupazioni nei confronti di una concezione minimalista della musica affiorano talvolta inattese, limitando in modo piuttosto sensibile la capacità innovativa delle premesse teoriche anche sul piano delle valutazioni critiche. Un solo esempio: la giusta rivendicazione dell’importanza dell’esperienza musicale americana stabilisce una sorta di cesura tra i classici più lontani quali sono Ives e Varèse e i classici più vicini, come Morton Feldmann e John Cage. Ed eccoci dunque a ripetere - con mille altri - che le «paradossali proposte» di Cage sono «quietisticamente rinunciatarie»; che il suo interesse, che avrebbe dovuto meritare un elogio di principio, per le culture extraeuropee viene subito degradato come «misticismo zen made in USA»; che il suo «democraticismo di un’arte povera e casuale, non aristocratica, non intimidatoria» è una «cortina fumogena»; che il suo scandalismo è in realtà «un ilare e ambiguo conformismo, un acquietamento nell’alveo del capitalismo americano», ecc.[46]. Questi giudizi su Cage, che sono quasi una velina della critica musicale italiana, richiamano inesorabilmente i giudizi adorniani su Stravinsky. Cosicché non desta più sorpresa - ma semmai stanchezza per un nodo che non si riesce a sciogliere - il fatto che questi giudizi vengano ripresi pari pari e con esplicita approvazione a proposito di un lavoro come l’Histoire du soldat, per il quale si evoca la categoria del neoclassicismo che, in quanto categoria critica, può oggi essere messa definitivamente da parte senza rimetterci nulla, anzi guadagnandoci qualcosa.

«La storia del soldato (...) è inquadrata musicalmente nel secco, lineare linguaggio del primo neoclassicismo strawinskiano, veicolo ideale per una gestualità energica quanto ambigua, nella quale T. W. Adorno ha individuato quelle componenti regressive presenti in tutto ciò che vuole essere épatant e come tale disposto, sia pure in chiave di paradossale negazione ironica, ad un’intesa con i valori consacrati della cultura dominante, ossia della cultura borghese» [47].

Le ragioni di questo adornismo di ritorno sono già state spiegate: esse sono da inquadrare in una critica allo strutturalismo musicale che ritrova, nonostante tutte le intenzioni critiche, le valutazioni adorniane su Stravinsky, avanzando naturalmente la pretesa senza speranza di separarle dal contesto filosofico generale di Adorno. Di fronte a tutto ciò occorre naturalmente rivendicare la validità delle premesse da cui prende le mosse Gentilucci, sottolineando nello stesso tempo la necessità di dispiegarle in tutta la loro portata.

La folla di questioni emerse nel corso della nostra discussione - e che sono naturalmente esposte ad ogni possibile approfondimento - mostra, io credo, che avevamo qualche ragione nel chiedere, come ci siamo espressi all’inizio, un più meditato congedo dalle posizioni adorniane. D’altro lato, appare chiaro dall’andamento di questa discussione che non sono affatto in questione queste posizioni come tali e la loro corretta interpretazione. Si tratta invece, detto in una parola, di comprendere a quale profondità si trovino le valutazioni, gli atteggiamenti, gli orientamenti di pensiero che debbono essere rimessi in gioco.

 


Note


[1] M. Bortolotto, Un’immagine culturale del viaggio di Adorno in Italia, in Adorno in Italia, a cura di A. Angelini, Siracusa, Ediprint, 1987. Questo libro raccoglie gli atti di un convegno che si è tenuto a Palermo nel 1982.

[2] A. Arbo, Dialettica della musica - Saggio su Adorno, Milano, Guerini, 1991.

[3] G. Lanza Tomasi, Adorno e i discepoli selvaggi. Un commento alla fortuna italiana degli scritti musicali di Adorno, in Adorno in Italia, op. cit., pp. 85 sgg.

[4] Lanza Tomasi ricorda «i tagli di brani contrari ai regimi socialisti nella traduzione italiana dei Minima moralia», ivi, p. 86.

[5] ivi, p. 92.

[6] ivi, p. 88.

[7] M. Bortolotto, art. cit. p. 9.

[8] «Non meno che in Germania, la critica musicale italiana nel dopoguerra manifestava chiaramente i guasti gravissimi dell’asservimento al regime fascista, che aveva incoraggiato le manifestazioni del più retrogrado nazionalismo conservatore togliendo spazio ai tentativi di un movimento critico più avvertito, che pure tentò di affermarsi in sedi affatto marginali. Soprattutto risultava evidente la mancanza d’informazione sugli sviluppi recenti della musica di avanguardia, ma ancor più pesava la carenza di un retroterra storico, culturale e sociale che consentisse il dispiegarsi di una coscienza adeguata ai fenomeni di quella musica»: G. Manzoni, Adorno e la musica degli anni ’50 e ’60 in Italia, in «Musica/Realtà», I (1980), n. 2, p. 72. - Proprio questo ritardo, tuttavia, impone certamente più di una distorsione nella ricezione di Adorno, facendo apparire nuovissimo ciò che in realtà era già vecchio. Adorno fu, in larga parte, la conseguenza di un ritardo culturale.

[9] Lo schema interpretativo proposto da F. Juvarra, Die Wirkung Adornos im italienischen Musikleben, in Adorno und die Musik, a cura di O. Kolleritsch, Graz 1979, pp. 71 sgg., secondo il quale vi sarebbe stata una «bipolarità interpretativa» che avrebbe visto da un lato i sostenitori di Lukàcs (con esplicito e unico riferimento a La distruzione della ragione) sfavorevoli ad Adorno e dall’altro una linea di confluenza tra Adorno e le posizioni fenomenologico-esistenziali, promossa soprattutto da L. Rognoni, sotto la mediazione di Banfi, mi sembra priva di fondamento. La fortuna italiana di Adorno è accompagnata dall’interesse crescente per il Lukàcs, non già della Distruzione della ragione (trad. it. Einaudi, Torino, 1959), ma di Storia e coscienza di classe, (trad. it. Milano, Sugar, 1967) la cui traduzione francese, che ha immediata circolazione in Italia, esce a Parigi per Les Editions de Minuit nel 1960.

[10] Einaudi, Torino 1959.

[11] P. Boulez, Note di apprendistato, trad. it. di L. Bonino Savarino, Einaudi, Torino 1968. La stesura del saggio su Stravinsky era conclusa nel 1951.

[12] Feltrinelli, Milano 1959.

[13] ivi, p. 169. E’ estremamente indicativo delle ambiguità nelle quali avviene la ricezione italiana di Adorno il fatto che il saggio sull’« invecchiamento» non genera nulla di simile alla vivace discussione avvenuta invece in ambiente tedesco, di cui divenne portavoce H.K. Metzger con l’articolo - pubblicato un anno prima della traduzione italiana di Dissonanze - intitolato Das Altern der Philosophie der neuen Musik (in «Die Reihe» , 4, 1958, pp. 64-84). Si può anche affermare che quella stessa discussione non ebba in Italia alcuna eco. Per la traduzione italiana di un «documento» così significativo si dovrà attendere sino al 1985, quando esso venne tradotto da Marta Keller in Europa 50/80. Generazioni a confronto, Pubblicazione della Biennale di Venezia in occasione del 42 Festival Internazionale di Musica Contemporanea, 1985, pp. 41-62. Cfr. nota 43.

[14] Per gli argomenti che potrebbero essere fatti valere in questa direzione si veda P. Gizzi, Stravinsky e la Nuova Musica nella musicologia filosofica di Adorno, in Adorno in Italia, op. cit. pp. 33-42.

[15] L. Pestalozza, La contraddizione pratica di Adorno, in L’opposizione musicale - Scritti sulla musica del Novecento, a cura di R. Favaro, Milano, Feltrinelli 1991, pp. 75-90. Il saggio venne pubblicato per la prima volta su «La Rassegna musicale», XXX, n. 1, 1960, pp. 9-23.

[16] ivi,p. 78. La presa di posizione intorno al saggio sull’Invecchiamento rappresenta indubbiamente un punto critico non marginale per ciò che riguarda il giudizio sull’« attualità» di Adorno. A fronte della valutazione di Pestalozza si può porre quella espressa da Manzoni, art. cit., dove si legge che «all’iniziale sospetto, diffidenza, in qualche caso ostilità verso la musica nuova - che va intanto imponendosi all’attenzione di tutti i giovani compositori dell’Europa Occidentale - segue la fase di avvicinamento che lo conduce ad aprirsi dialetticamente, con gli opportuni e in lui sempre imperativi processi di mediazione, alla problematica viva di quegli anni: come osservava Bussotti nel 1967, «Adorno ha punteggiato e continua a sottolineare l’attuale evoluzione del linguaggio musicale». Si salda così il cerchio che porta il pensiero adorniano nel vivo del dibattito musicale e nell’interno stesso della coscienza di tanti compositori anche italiani« (p. 75).

[17] ivi, p. 84-85. « (...) la verità o la falsità dei molteplici indirizzi in cui s’è manifestata e si manifesta la decadenza egemonica occidentale non si valuta in sè ovvero in rapporto a una metafisica soggettivistica, ma nella concretezza e praticità dei rapporti fra sovrastruttura e struttura che escludono di assorbire negli estremi la ’natura’ e il ’contenuto’ di verità della musica moderna. Appunto perché la dialettica della musica moderna si sconta nella reale storicità umana, e non nell’ideale ipotesi di una crisi eternizzata. Soltanto a questo patto gli estremi possono essere presi in considerazione.In effetti sono gli estremi di una situazione e di un momento particolare in divenire, non assorbono gli intermedi che, a loro volta (e si pensi a Hindemith, a Prokof’ev, a Bartok, a Weill e così via) sono gli estremi di un’altra situazione e di un’altro momento particolare (corsivo mio) (...) ». Non è possibile tuttavia - e questo fa parte della densità dei problemi suscitati da una riflessione su Adorno - fare a meno di risentire un’eco delle valutazioni adorniane su Stravinsky nell’intervento che Pestalozza proponeva nel Convegno internazionale di studi svoltosi a Milano nel 1982 (Stravinskij oggi, a cura di A. M. Morazzoni, Unicopli, Milano 1986) e ripubblicato con il titolo «Trascrizione e comunicazione nell’opera di Stravinskij» in L’opposizione musicale, op. cit. pp. 193-203.

[18] Su Bach visto da Adorno, cfr. A. Arbo, op. cit., p. 21-26. Secondo Adorno, si può riconoscere «nella tecnica della ’variazione progressiva’ di Bach il fondamento dei criteri costruttivi che saranno poi alla base del classicismo viennese» (ivi, p. 25).

[19] Per tutta la problematica relativa all’importanza del classicismo viennese e la centralità di Beethoven, ma anche in generale per un’effettiva riflessione critica sulla sociologia adorniana della musica, si veda A. Serravezza, Musica, filosofia e società in Th. W. Adorno, Dedalo Libri, Bari 1976. Questo libro va considerato come il più importante contributo italiano sull’argomento ed è in realtà una critica tanto pacata quanto serrata delle posizioni teoriche di Adorno e delle loro conseguenze sul terreno della riflessione filosofico-musicale.

[20] «La musica, in quanto arte che si svolge nel tempo, è legata, attraverso il suo puro mezzo alla forma della successione [...] Appena incomincia si assume l’impegno di andare avanti, di diventare qualcosa di nuovo, di svilupparsi [...] il fatto di procedere sempre oltre se stessa non è un imperativo metafisico ad essa imposto, bensì è inerente alla sua costituzione, contro la quale non può nulla [corsivo mio]»: questa nettissima formulazione di Adorno (tratta da Quasi una fantasia, Frankfurt a. M. 1963, p. 208) è opportunamente rammentata da C. Dahlhaus ( La polemica di Adorno contro Stravinskij e il problema della «critica superiore» in Stravinskij oggi, Atti del Convegno Internazionale di studi, Milano 28-30 giugno 1982, a cura di Anna Maria Morazzoni, Unicopli, Milano 1986) per sottolineare come le valutazioni adorniane su Stravinsky siano strettamente dipendenti da una concezione dell’essenza della musica (questa espressione impiegata da Dahlhaus è qui del tutto pertinente) che ha il suo modello in Beethoven. Naturalmente con questa concezione della musica è strettamente connessa quella della sua natura essenzialmente linguistico-discorsiva. P. E. Carapezza, Adorno a Palermo, in Adorno in Italia, cit. p. 14: «Questa concezione logica, discorsiva, della musica era radicata così profondamente in Adorno che egli non poteva ammetterne altre».

[21] Sulla battaglia di Adorno «in difesa di Schönberg e della ’Scuola di vienna’, sulla sua rigorosa dimostrazione della necessità di non adagiarsi nel già noto, pena l’impossibilità di produrre in musica qualcosa di sensato, non è il caso di tornare; così come ci è ben presente la sua convinzione - che lo fa quasi più schönberghiano di Schönberg - che il nuovo debba scaturire dalla storia e della tradizione, come quando per esempio scrive che ’gli elementi e le problematiche della musica nuova hanno tutti tratto origine dalla musica tradizionale’, o che ’la musica nuova rimane pur sempre musica, perché tutte le sue categorie, pur non identiche a quelle tradizionali, sono nello stesso tempo identiche ad esse’» (corsivo mio)»: G. Manzoni, art. cit., p. 78. Affermazioni come quelle qui citate hanno come importante presupposto la decisione sull’essenza della musica nella direzione or ora indicata (con l’inevitabile corollario implicito dell’unicità della tradizione), e traggono da questo presupposto il loro senso effettivo.

[22] «A dar vita ad un’opera d’arte non è mai l’ubbidienza a un principio schematico (sia esso scientifico o matematico), bensì solo la sintesi - intesa come risultato dialettico - tra un principio e la sua realizzazione nella storia, cioè la sua individuazione in un momento storico assolutamente determinato, non prima e non dopo». Così diceva molto efficacemente per illustrare il proprio punto di vista Luigi Nono in un intervento tenuto a Darmstadt nel 1959 (edito ne «La rassegna musicale», XXX, 1 (marzo 1960), pp. 1 sgg. con il titolo Presenza storica nella musica d’oggi. Il corsivo è nostro). - In apertura della frase si può naturalmente cogliere uno spunto polemico nei confronti di Stockhausen e di Boulez (benché l’obbiettivo critico principale di questo intervento sia Cage). E’ tuttavia necessario da parte nostra mettere in rilievo il fatto che il «serialismo integrale» non avrebbe potuto neppure essere immaginato se alle sue spalle non vi fosse l’idea del «passo avanti» che «continua» e porta alle necessarie conseguenze un passato che sta immediatamente alle nostre spalle. Cfr. nota 41.

[23] Il saggio intitolato «La musicologia filosofica di Adorno» venne poi ripubblicato nella raccolta Fenomenologia della musica radicale, Garzanti, Milano 1974

[24] Esso compare con questo titolo in Relazioni e significati, iii, Lampugnani Nigri, Milano 1966, pp. 80-93 a cui facciamo riferimento nelle citazioni seguenti, mentre ne «Il Verri», 1959, n. 1, p. 3-11 esso era intitolato Per una fenomenologia della musica contemporanea. A partire dall’articolo di Paci si sviluppò, sotto il titolo di «A proposito di una fenomenologia della musica contemporanea», un dibattito a cui presero parte, G. Gavazzeni, L. Pestalozza, B. Rondi («Il Verri», III, 1959, n. 3, pp. 109 sgg.), F. D’Amico e P. Santi (IV, 1960, n. 2, p. 104 sgg.). Tuttavia nessuno degli intervenuti dà un qualche rilievo alla polemica antiadorniana che rappresenta invece il nucleo effettivo del saggio di Paci e di conseguenza non viene avvertito il fatto che era in realtà in discussione un modo di «applicare» le tematiche fenomenologiche in campo musicale.

[25] «Dirò soltanto - dichiara Rognoni - che negli ultimi anni della sua vita Banfi fu piuttosto perplesso e contrariato dal mio vivo interesse per la sociologia di Adorno e la Scuola di Francoforte che giudicava deviante e pericoloso (del resto lo fu anche Paci, col quale ebbi accese discussioni). Ed era logico per Banfi, proprio perché la sua ’ragione teoretica’ mirava sempre al positivo»: Ricordo di Antonio Banfi, in «Fenomenologia e scienze umane», 1986, n. 3, p. 247. Mi sembra peraltro che il riferire l’atteggiamento di Banfi ad una generica tendenza ottimistica sia troppo riduttivo. Banfi aveva le proprie idee sui rapporti tra arte e società, e proprio pensando ad Adorno, è assai istruttivo rileggere, per apprezzare la profondità del contrasto, il saggio intitolato Arte e socialità (1956) pubblicato in A. Banfi, Vita dell’arte. Scritti di estetica e filosofia dell’arte, Opere, v, a cura di E. Mattioli e G. Scaramuzza, Istituto Antonio Banfi, Bologna 1988, pp. 254-272. - Per le «accese discussioni» tra Paci e Rognoni su Adorno, si può vedere anche l’affettuosa rievocazione dello stesso Rognoni intitolata Ascoltando Schönberg, in «Aut Aut», Luglio-Ottobre 1986, n. 214-216, pp. 21 sgg.

[26] Certamente significativi sono anche i richiami a R. Vlad, anche se uno di essi è parzialmente critico (cfr. ivi, p. 85).

[27] ivi, p. 83

[28] ivi.

[29] ivi, p. 83

[30] ivi, p. 82

[31] ivi, p. 84

[32] ivi, p. 90

[33] ivi.

[34] A. Gentilucci, Oltre l’avanguardia. Un invito al molteplice, Fiesole, Discanto Edizioni 1980. Ristampa con Prefazione di A. Guarnieri, Ricordi-Unicopli, Milano 1991. (Le nostre citazioni si riferiscono alla ristampa).

[35] Ciò è confermato dalla recente nota a firma di P. Petazzi uscita sulla rivista «Sonus» (n. 3, Luglio-Agosto 1991, pp. 86 sgg.) sotto il titolo «Ripubblicazione di Oltre l’avanguardia di Gentilucci». Non si fa qui alcun cenno alla rilevanza teorica che riveste questo libro, operando di esso un’evidente sottovalutazione.

[36] ivi, p. 22.

[37] ivi, p. 21. E si aggiunge: «anche se non subito si colse la portata decisiva di una tale motivazione, oggi chiarissima».

[38] ivi, p. 23.

[39] ivi, p. 20. L’« estraneità di Adorno a tutto ciò che, in musica, non sia germanico o fortemente apparentato con la storia musicale germanica» era già stato uno dei motivi vivacemente polemici dell’articolo di F. D’Amico «Adorno e la ’nuova musica’» edito nel 1959 e ripubblicato ne I casi della musica, Il Saggiatore, Milano 1962, pp. 491 sgg.

[40] ivi, p. 27.

[41] ivi, p. 31. Si allude qui a P. Boulez e in generale agli «alfieri della serialità». Val la pena citare qualche passo di questa critica: «Concretamente, l’operazione linguistica radicale voluta dagli alfieri della serialità, andava tutta nell’ordine di una subalternità per rovesciamento, di tipo negativo, rispetto alla tradizione musicale europea, alla tonalità. Anche le prime opere della scuola darmstadtiana sono, come sempre era stato per la musica occidentale, fondate sulla priorità nettamente egemonica di una dialettica delle altezze di natura dunque intervallare [...] E questo, non dimentichiamolo, molti anni dopo che un musicista come Varèse (e prima di lui, Charles Ives) aveva dimostrato la possibilità di comporre musica nuova, fatta di suoni anche indeterminati o di materiali acustici vari, direttamente sperimentati, senza passare per la via obbligata del rovesciamento dall’interno del sistema linguistico precedente, caro al pensiero idealistico o ad una malintesa dialettica informata al mito risibile delle ’estreme conseguenze’» (ivi).

[42] ivi.

[43] Proprio per la linea di discorso che stiamo cercando di tracciare è importante richiamare l’attenzione sul fatto che l’atto di «rispettosa contrizione» (come lo chiama F. Evangelisti in Dal silenzio ad un nuovo mondo sonoro, Semar, Roma 1991, p. 23) recitato da Heinz-Klaus Metzger con il saggio «Das Altern der jüngsten Musik» (in «Collage», n. 2 (8), marzo 1964, ora anche in H.K. Metzger, Musik wozu. Literatur zu Noten, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. M. 1980, pp. 113 sgg.) è strettamente ricollegato da Metzger, a torto o a ragione, al nome di Nono: «Quei moniti di Cassandra lanciati da Adorno potevano difficilmente trovare conferma nella situazione musicale. Buon gioco polemico, fin troppo facile, aveva contro di lui chi metteva sul tappeto le ultime partiture, purché evitasse di andare a cercare proprio quelle di Nono, che già allora gli davano ragione [corsivo mio]» (ivi, p. 113). Sulla posizione di Metzger si veda anche l’articolo intitolato Adorno und die Geschichte der musikalischen Avantgarde, in Adorno und die Musik, op. cit, pp. 9 sgg.

[44] Cfr. ivi, pp. 63, 64, 80, 136, 88.

[45] Mi sembra giusto segnalare che in un notevole intervento al Seminario internazionale di musica contemporanea tenutosi nel corso dell’VIII Cantiere Internazionale d’Arte di Montepulciano 29 luglio-6 agosto 1983, intitolato Attraverso i sentieri del comporre, che ho potuto leggere per la cortesia di Anna Maria Morazzoni, Gentilucci mostra un atteggiamento parzialmente autocritico rispetto a Oltre l’avanguardia che risaliva a soli tre anni prima, richiamandosi anche alla difficoltà di mettere d’accordo il critico e teorico con il musicista: «(...) in un libro che, ancor recente, mostra già agli occhi dello stesso estensore profonde rughe: croce/delizia del musicista che scrive di critica, il non sapere o potere mai annotare osservazioni definitive, neppure per se stesso (...)».

[46] ivi, p. 26.

[47] ivi, p. 123.