Giovanni Piana
Stralci di vita
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Un commento di Antonio Di Mauro
Presentazione
In un dimenticato cassetto di un armadio della nostra casa vi è sempre stata una borsa di plastica che conteneva alla rinfusa lettere risalenti all’incirca agli anni 1957-1963. Mia moglie Marina ed io ci riproponevamo, prima o poi, di rileggerle rapidamente e poi di bruciarle come ricordi di un passato lontano che non ha senso «lasciare ai posteri», per il fatto che per loro essi sono del tutto privi di interesse. Quelle lettere contenevano infatti soprattutto il racconto dei nostri amori – ma anche, nello stesso tempo, dei nostri primi approcci alla vita adulta, delle avventure e delle inquietudini di quell’età difficile. Volevamo, Marina ed io, dare insieme un’ultima occhiata alla nostra gioventù, alle persone che la avevano in certo senso popolata ed arricchita, per prendere da quel periodo definitivamente congedo.
Prima che questo progetto potesse realizzarsi, io sono rimasto drammaticamente solo. Ed il mio primo pensiero fu quello di prendere quella borsa di plastica, senza nemmeno aprirla, e di consegnarla alle fiamme che bruciano ogni ricordo. Invece è accaduto qualcosa della quale, per quel che sapevo di me stesso, provai una profonda meraviglia. Io sono sempre stato volto al futuro, la mia memoria è scarsa, sono un pessimo fisionomista, per non dire della capacità di datare le stesse vicende della mia vita. Ed invece proprio il silenzio abissale da cui mi sono sentito circondato dentro e fuori di me, mi ha violentemente rigettato sul passato. Mi sono talvolta chiesto se la ragione che spinge le persone anziane a continuare a raccontare i fatti più o meno significativi della loro gioventù e che le rende spesso tanto noiose da richiedere da parte dell’ascoltatore, per così dire, una pazienza «di rispetto», fosse niente altro che il restringimento dell’orizzonte temporale, di un futuro che non è un futuro autentico perché toglie ogni autentica progettualità. Chissà, forse in parte è questo il motivo del fatto che mi sono alla fine deciso ad aprire la borsa dei ricordi! E tuttavia non appena diedi avvio alla rilettura, mi andavo rendendo conto di molte altre cose, che mi sembra, anche se non ne sono del tutto sicuro, possano giustificare il fatto che non mi sono limitato a rileggere, ma ho cominciato, a «stralciare» da queste lettere quei pezzi di vita che esse lasciavano non tanto vedere, quanto intravvedere – a ricopiare dunque, assai raramente una lettera intera, ma questa o quella frase o successioni di frasi, contrassegnando questi stralci con una data leggibile all’interno della lettera o sulla busta quando c’era.
In tutto questo non vi era in realtà all’inizio alcun preciso proposito: soprattutto mi resi conto che questo sguardo retrospettivo realizzato non astrattamente, ma con le voci che balzavano ancora vive da quelle pagine scritte aveva anzitutto per me un effetto di rasserenamento di cui avevo un bisogno estremo. Eppure l’intento a conservare qualche traccia di ciò che andavo leggendo tradiva evidentemente un intento ad una comunicazione possibile. Questo lavoro di ritaglio non lo facevo soltanto per me! Nel realizzarlo al centro dei miei pensieri vi era Marina, la donna che non solo è stata mia compagna, ma anche sostegno e protezione – che mi ha consentito di realizzare i miei progetti nella tranquillità di cui essi avevano bisogno, e che a sua volta si era realizzata con i suoi progetti, con la sua attività personale e politica, con il suo innovatore entusiasmo ambientalista, con la sua espansiva vita sociale che io condividevo con grande simpatia, ma solo alla lontana.
Dallo scambio di lettere nei primi passi dei nostri rapporti, più di tutto questo si avvertono le inquietudini di due giovani spaesati che cercano una strada – le si avvertono con una vivacità per me inattesa, tanto vicine, tanto immediate da generare una pace interiore che riusciva ad averla vinta, almeno a tratti, sull’abissalità del silenzio. Ma altrettanto vivaci mi sono sembrate le voci degli altri che in un modo o nell’altro si inserivano nei nostri dialoghi d’amore. Questi rappresentano in certo senso il filo conduttore della storia: ma quante altre storie, quante altre fisionomie si affacciano intorno a quel filo!
Proprio per questo l’idea degli «stralci» cominciò allora a sembrarmi sempre meno privata, sempre più comunicabile. E per un motivo opposto a quello che queste stesse mie parole fin qui hanno indotto a sospettare.
La vivacità e la vicinanza del ricordo fa pensare ad una sorta di ritorno al reale, di regresso a ciò che è realmente stato; quindi ad una sorta di realismo. Invece quel che più mi colpiva è che il ricordo si trasformava in una specie di racconto ed ogni stralcio di lettera perdeva quasi completamente lo scopo di documentare qualcosa – sia perché in esso i fatti erano realmente minimi, sia per effetto della frammentazione e della frantumazione che emarginava ancor più quei fatti, dando invece spazio a nodi di emotività, profili psicologici appena delineati, pensieri o riflessioni elaborati all’istante.
Le vicende personali come tali perdevano così d’importanza, ed il racconto intravisto assumeva i tratti di qualcosa che apparteneva, sia pure in maniera fortemente ambigua, all’immaginario. Cosicché sarei tentato di mettere in calce a questo scritto, come talvolta si usava soprattutto nelle produzioni cinematografiche, l’avvertimento che ogni riferimento che sembra rimandare a persone reali è puramente apparente e del tutto casuale. Ciò non è vero, naturalmente: eppure, se assumiamo questo punto di vista, le persone reali, che vengono qui indicate con il loro proprio nome e cognome – molte delle quali già note in quei tempi lontani, molte destinate a diventarlo – assumono il carattere di «personaggi» e come tali finiscono con il condividere alcune fortunate proprietà dei personaggi di un romanzo o di un pezzo di teatro. Essi appartengono e non appartengono al tempo, e balzano dallo scritto che li pone in essere come sempre vivi di fronte a te – non sono mai morti e mai sono stati sepolti, né mai lo saranno. In essi il lettore può forse anche riconoscere qualche tratto di se stesso, oppure, nonostante la varietà e l’individualità assoluta delle vicende reali che accadono a ciascuno di noi, qualcosa che assomiglia ad esse. Ciò da cui sono stato colpito, in questa revisione, in cui, lo confesso, ho sforbiciato le lettere nostre e altrui con assoluta libertà – senza naturalmente togliere o aggiungere una virgola ai passi che ho ritenuto potessero essere «salvati» – è il fatto che basta una frase soltanto a rendere un carattere, un’atmosfera, una sfumatura psicologica, un atteggiamento. Una frase è come un gesto che «fa vedere» la persona talvolta con una vivezza e completezza davvero sorprendente.
Lo stesso può valere per le fotografie – anche quando esse non hanno intenti d’arte e nemmeno si pongono particolari problemi espressivi. Di qui l’inserimento di immagini fotografiche intanto nella prima parte di questo volumetto, in cui vi sono soprattutto «Lettere». Quando mi è stato possibile ho proposto in essa fotografie di persone effettivamente menzionate nella narrazione – ma come un suo arricchimento, e mai come un documento in più. Tutta la prima parte è poi attraversata da «particolari» di dipinti di Chagall. Certo, il mondo russo-ebraico di Chagall non poteva che essere fattualmente molto lontano da noi, eppure quanto in quegli anni ci è stato vicino!
La seconda parte («Immagini»), è stata intesa come tutta fatta di figure che riescano a dare un poco di seguito alla storia che nella prima si parte si chiude, come è giusto che sia per le favole, con il matrimonio degli innamorati. Ma questo finale mi è sembrato avesse bisogno di un’integrazione. Ho pensato dunque ad una scelta soprattutto di immagini fotografiche, con qualche annotazione aggiuntiva. A differenza della prima parte la componente del «documento» è forse più presente – eppure sono convinto che anche in questa seconda parte lo «stralcio di vita» finisca per avere il sopravvento e faccia così regredire sullo sfondo il particolare biografico. L’immagine diventa forse capace di aggiungere ad esso quel momento espressivo che non appartiene più al «documento», ma vorrei quasi dire, al «sentimento». Per la maggiore parte delle persone una fotografia documenta qualcosa – un battesimo, un matrimonio, un nipotino che gioca… Questo aspetto non è assente dalle fotografie contenute nella seconda parte di questo libretto, ma io vorrei che esse fossero viste secondo quell’altra angolatura – come uno stralcio di vita in cui in un volto intravediamo un tratto significativo del carattere, in un albero una traccia della natura intera.
Debbo ancora aggiungere che gli anni di cui si tratta nella prima parte non vanno oltre quelli dei miei studi universitari. Quando conobbi Marina, ella aveva venti anni ed io diciassette.
Generoso lettore, ti debbo dare proprio questo appellativo, perché ci vuole generosità nello sfogliare questo libretto – ed io te la chiedo.
Giovanni Piana
Pietrabianca di Sangineto
5 giugno 2012