Giovanni Piana

La notte dei lampi - Quattro saggi sulla filosofia dell'immaginazione, I, Il lavoro del poeta. Saggio su Gaston Bachelard

 

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Su questo testo vedi:

Angela Ales Bello. La filosofia dell'immaginazione

Remo Bodei. Nota su La notte dei lampi di G. Piana

Un ricordo di Valter Binaghi

 


Le figure sono tratte da dipinti di Odilon Redon.


Indice

 

  1. Introduzione
  2. L’immaginazione come «funzione dell’irreale» e come «potenza maggiore della natura umana»
  3. Le interpretazioni psicoanalitiche e l’atteggiamento fenomenologico
  4. Il silenzio della lettura e la solitudine delle immagini
  5. Tema del retentissement
  6. Memoria e immaginazione
  7. Le immagini per le immagini - Bachelard e il surrealismo
  8. Tematica della rêverie - Rêverie e soggettività - «La rêverie illustra il riposo dell’essere»
  9. Poetica dello spazio: messa da parte degli spazi ostili - Lo spazio del riposo e dell’intimità protetta - Una casa per sognare
  10. Elementi per una critica - Ovvietà ed erroneità dell’opposizione tra operazioni razionali e immaginative - L’intervento dell’immaginazione nelle pratiche della conoscenza - Durezza del reale e forza disintegrante dell’immaginazione - Colui che vide una ruota mettere i denti
  11. Ciò che manca in Bachelard: l’immaginazione sociale; la teatralità dell’immaginazione; l’immaginazione festosa
  12. Considerazioni critiche conclusive - L’ingenuità fenomenologica e l’immedesimazione - Fenomenologi e lupi - Le tecniche dell’immaginazione e il lavoro del poeta.


1. Introduzione

Nell’ampia produzione di Bachelard sulla tematica dell’immaginazione, la Poetica dello spazio[1] merita certo di essere considerata come un’opera che apre un nuovo corso: in essa infatti interviene una modificazione metodologica che egli caratterizza con il termine di fenomenologia. Ma qual è il senso che assume questa parola, tanto polivalente, all’interno della sua elaborazione? Noi vorremmo intanto rispondere a questa domanda cogliendo, in una visione di scorcio, alcuni tratti caratteristici della sua impostazione.

È cosa nota che la posizione epistemologica di Bachelard è stata realmente apprezzata nel suo giusto valore e nella sua portata solo in questo ultimo decennio. Negli anni Trenta, benché non si possa dire che la posizione di Bachelard fosse ignorata o mancasse di riconoscimenti e di apprezzamenti, tuttavia non vi è dubbio che essa fosse priva di quella risonanza che gli venne in seguito riconosciuta.

Ciò è dovuto a numerose circostanze di ordine diverso, legate in parte alle vicende della cultura francese, dominata prima dal bergsonismo,di fronte al quale Bachelard aveva preso una posizione ostile, poi dall’esistenzialismo,al quale Bachelard reagì in maniera altrettanto ostile. In parte, allo stesso imporsi della tematica epistemologica sul piano europeo e internazionale, che fu fin dall’inizio prevalentemente legata all’indirizzo neopositivistico a cui, per ragioni di impostazione teorica, Bachelard fu sostanzialmente estraneo. Questo indirizzo prendeva forma, ed era destinato in breve tempo ad assumere un grande sviluppo, negli stessi anni in cui Bachelard andava elaborando le proprie posizioni in sede epistemologica. E non vi è dubbio che la fortuna di questo indirizzo ha contribuito a fare per un certo tempo di Bachelard un caso piuttosto particolare e isolato.

Peraltro vi è almeno un punto che in qualche modo accomuna la posizione di Bachelard con il primo neopositivismo, un punto che conviene tenere d’occhio perché nello stesso tempo conduce a esiti ed a sviluppi interamente diversi.

Si tratta precisamente di un atteggiamento di principio per ciò che attiene non soltanto la sottolineatura dell’importanza della scienza per la riflessione filosofica, ma soprattutto la delimitazione dello spazio della riflessione filosofica alla problematica teoretica emergente dalla scienza stessa. Questa problematica teoretica non definisce soltanto una regione di interessi della filosofia, ma definisce l’unica regione legittima di questi interessi. In particolare la filosofia non deve essere concepita come una riflessione autonoma intorno alla scienza, non deve dunque pretendere di sovrapporsi a essa, ma deve riproporre eventualmente i suoi classici problemi di ordine generale a partire da una riflessione che si misuri di continuo con la scienza stessa, nella sua concretezza e nella sua attualità, nella determinatezza, nella varietà e nel movimento delle sue procedure e dei suoi metodi.

In quest’atteggiamento di principio vi è, quanto meno, un’affinità con la posizione dell’indirizzo neopositivistico. Tuttavia, per tutto il resto la tematica epistemologica di Bachelard diverge profondamente dalle prime versioni del neopositivismo viennese, e diverge già per le conseguenze che vengono tratte da quell’atteggiamento di principio. Si potrebbe anzi osservare che, come l’espansione e la fortuna delle tesi neopositivistiche hanno contribuito a mettere in ombra la posizione Bachelard, così la ripresa di interesse verso questa posizione è in gran parte legata alla crisi di quella impostazione. Sono proprio le concezioni più recenti che fanno parte della storia di questa crisi, a consentire una ripresa della tematica bachelardiana che è apparsa assai più attuale di quanto potesse apparire ai tempi suoi.

Per ciò che riguarda le divergenze, basterà qui attirare l’attenzione su due motivi, attraverso i quali potremo speditamente localizzare la tematica dell’immaginazione, che è lo scopo di queste considerazioni preliminari.

Il primo motivo riguarda la pretesa di far rivivere, a partire da un discorso epistemologicamente orientato, istanze filosofiche di tipo empiristico o, più in generale, realistico. Questa pretesa è presente in varie forme del neopositivismo viennese e si tratta di una pretesa vivacemente attaccata da Bachelard in modo estremamente ricco e articolato. In linea generale, egli tende a esaltare l’aspetto secondo cui la scienza può essere considerata una vera e propria costruzione e ricostruzione razionale della realtà stessa, una tesi che viene elaborata in modo molto sottile e anche seducente, così da evitare nello stesso tempo di cadere nella teorizzazione di un razionalismo di stampo idealistico. All’interno di questo quadro va segnalata anche la critica di un atteggiamento fenomenologico: con l’insistere sui dati percettivi, sui dati come dati da descrivere, piuttosto che da costruire, la fenomenologia sembra presentarsi, secondo Bachelard, come una variante di un atteggiamento empiristico.

Il secondo motivo riguarda l’impronta prevalentemente logica che caratterizza il neopositivismo viennese. Il filosofo neopositivista si pone di fronte alla scienza come se essa fosse un prodotto finito: cosicché ci si deve essenzialmente porre il compito di enuclearne la compagine logica, in modo da ottenere dei veri e propri canoni che circoscrivano l’idea della scientificità. Di qui deriva una pronunciata attenzione agli aspetti formali della scienza, a cui fa da conseguente contrappeso un disinteresse pressoché totale verso le dinamiche concrete dello sviluppo della scienza, verso il problema della sua storicità.

Per Bachelard le cose stanno ben diversamente. L’idea della realtà, posta dalla scienza e dalla tecnica come una realtà razionalmente costruita, si accompagna con il rifiuto di fare di questo razionalismo un’astrazione che trova il proprio modello fissato, una volta per tutte, nella logica. La scienza stessa entra in questione proprio nella sua processualità storico-concreta. In questo secondo motivo si fa sentire in modo consistente anche il peso della polemica antiempiristica. Ciò che distoglie l’interesse epistemologico dalla processualità della scienza consiste nella stessa nozione di processualità implicata da un punto di vista empiristico. Il processo è qui semplicemente un sommarsi di conoscenza a conoscenza, un processo lineare di accumulazione. Ma se consideriamo le cose in questo modo, la processualità non avrà un autentico interesse epistemologico, dal momento che l’acquisizione della verità sta interamente al di fuori dello statuto della verità stessa. Un simile atteggiamento si incontra con la tendenza rivolta prevalentemente agli aspetti logico-formali delle teorie. Qui siamo interessati essenzialmente alla forma della verità, piuttosto che al suo movimento. Nell’orientamento di pensiero di Bachelard, la storicità della scienza assume invece un interesse direttamente epistemologico: e ciò in coerenza con una profonda riformulazione della stessa idea del movimento della scienza considerato come un progredire discontinuo che si sviluppa in una dimensione di intensa conflittualità.

All’interno di una simile concezione, tutta orientata verso i dinamismi effettivi, verso i modi delle concettualizzazioni scientifiche considerate nel loro sviluppo, assume rilievo non solo un’idea della scienza considerata anzitutto come prodotto culturale, che va integrato nell’orizzonte più ampio della cultura, ma anche il riferimento agli scienziati stessi come produttori di essa. La produzione di razionalità non avviene nell’ambito della ragione pura, ma è intrisa di componenti che rimandano allo psichismo concreto degli uomini. Assumendo il punto di vista di Bachelard non può che essere concesso uno spazio piuttosto ampio anche all’incidenza dei fattori psichici come una incidenza connotata in senso negativo. L’idea del sussistere di ostacoli epistemologici, che fa tutt’uno con l’insistenza sugli aspetti conflittuali delle acquisizioni conoscitive - un’idea che assume in Bachelard una grande ricchezza di articolazioni - viene sviluppata anche in questa direzione. Nella stessa misura in cui consideriamo la storia della scienza come significativa ai fini della sua teoria, e sottolineiamo di continuo l’aspetto conflittuale, non possiamo certamente sottovalutare la circostanza che questi conflitti hanno spesso un fondamento psicologico: le idee nuove, le nuove prospettive, i nuovi modi di vedere, la stessa capacità di cogliere la novità di un’osservazione o di un esperimento e la sua portata, incontrano una resistenza dovuta a pregiudizi che sono tanto più radicati quanto più si riferiscono all’ambito della vita emotiva e affettiva. La filosofia stessa intesa come epistemologia, così come una storia della scienza che non voglia ridursi alla sua cronistoria, si deve assumere il compito di esibire i punti in cui la vita affettiva ed emotiva interviene ostacolando il progresso della razionalizzazione.

Del resto l’opera del 1938, La formazione dello spirito scientifico,reca il sottotitolo Contributo ad una psicoanalisi della conoscenza oggettiva,che allude esplicitamente a questo ambito di problemi. Il termine di «psicoanalisi» non è qui certamente da intendere alla lettera, come del resto non sono mai da intendere alla lettera i numerosi termini più specifici tratti da Freud o da Jung che Bachelard impiega spesso, e con compiacenza, a modo suo: e tuttavia questo impiego resta comunque significativo. Parlando di componenti psichici abbiamo fatto riferimento alla sfera delle emozioni e degli affetti: ma all’interno di questo ambito è naturalmente implicata l’immaginazione stessa. Ciò che si richiede ad una psicoanalisi della conoscenza oggettiva è di fugare i fantasmi dell’immaginazione esattamente come sono proprio questi fantasmi che debbono essere fugati dalla terapia psicoanalitica.

In questo modo ci imbattiamo nel problema dell’immaginazione. Ed è inutile dire che si tratta di un incontro che, da un lato, è strettamente subordinato ad un interesse dominante volto altrove, dall’altro esso assume subito connotazioni prevalentemente negative. L’immaginazione è una delle fonti degli ostacoli epistemologici: essa si presenta come una facoltà psicologica, essenzialmente come una facoltà di operare sintesi e associazioni che non hanno alcun fondamento oggettivo, che si sovrappongono all’istituzione di relazioni e rapporti effettivi e che traggono la loro forza dal piano dell’emozione e del sentimento.

Ecco dunque il profilo della prima posizione bachelardiana del problema: da un lato vi è la scienza come realizzazione, ad un tempo progressiva e conflittuale, della ragione; dall’altro vi sono gli ostacoli che la frenano, che danno a quel progresso uno sviluppo discontinuo. Fra questi ostacoli vi è l’immaginazione: che sta dalla parte del sentimento, dell’istinto, di ciò che è dunque intrinsecamente irrazionale.

È interessante notare che questa connessione tra l’immaginazione e l’irrazionale era presente nell’ambito dell’elaborazione epistemologica del neopositivismo viennese, di cui abbiamo per altri versi già misurato la distanza rispetto alla posizione di Bachelard. Anche in quell’ambito di idee valeva una connessione fondata su una contrapposizione del tutto analoga, e anzi forse in modo più diretto e immediato, dal momento che essa non aveva affatto bisogno di alcuna mediazione «psicologica». Secondo le prospettive del neopositivismo viennese, al di là delle scienze e della filosofia che ha rinunciato definitivamente alla metafisica per porsi come teoria del metodo della scienza, si apre l’oscuro campo dell’irrazionale a cui appartiene la vita emotiva e affettiva. In questo campo cade inevitabilmente tutto ciò che può essere detto opera dell’immaginazione - quindi, per esempio, anche i prodotti dell’arte in genere.

Questa divaricazione tuttavia non pone qui alcun problema: in quanto filosofi prendiamo semplicemente nota del sussistere dell’irrazionale, eventualmente ne ammettiamo l’importanza ai fini del soddisfacimento di bisogni particolari, poiché possiamo anche concedere che la scienza non arrivi dappertutto, e da esso distogliamo lo sguardo. Ciò che possiamo ancora ammettere è che questo campo, nella misura in cui da esso derivano determinati prodotti culturali, come la religione o l’arte, possa essere oggetto di indagini specializzate. Queste indagini dovranno tuttavia appartenere più alla scienza che alla filosofia, e rispetto ad esse faremo valere l’istanza di una ricerca positivamente orientata, che si attenga a criteri e a metodi che non possono essere molto diversi da quelli che valgono per la scienza in genere.

Nonostante l’indubbia presenza della stessa contrapposizione in Bachelard, il diverso orientamento in cui è inserita fa sì che essa agisca in tutt’altra direzione.

La concezione dinamica della scienza e l’accento posto più che sul risultato conoscitivo, sul processo attraverso cui si perviene a questo risultato conduce a conferire un interesse filosofico specifico proprio a quegli elementi irrazionali che rimandano a circostanze psicologiche in quanto rappresentano ostacoli allo sviluppo della conoscenza. L’interesse al sottofondo psicologico delle procedure conoscitive è del tutto estraneo all’ambiente neopositivistico: qui si chiede un’analisi logica,una logo-analisi della conoscenza oggettiva, e non una psico-analisi di essa. Di conseguenza in Bachelard, come assume rilievo l’aspetto psicologico, che non deve essere affatto lasciato a se stesso, così può diventare tema di una riflessione approfondita l’irrazionale in genere: e dunque l’immaginazione.

2. L’immaginazione come «funzione dell’irreale» e come «potenza maggiore della natura umana»

L’immaginazione, in Bachelard, assume sempre più importanza con il passare degli anni. All’inizio il problema si prospetta nel senso che abbiamo or ora indicato: ma ben presto esso comincia con l’assumere una precisa e autonoma fisionomia, erodendo progressivamente lo spazio destinato agli studi epistemologici. Fino al punto che questo singolare pensatore si immerge interamente nel problema, pubblicando opere di ampie proporzioni e numerose, nelle quali la tematica dell’immaginario è divenuta dominante.


L’epistemologo Bachelard si è infine innamorato dell’immaginazione. Stando alla superficie delle cose, potremmo forse essere tentati di considerare questa espansione del problema come connessa, più che alle necessità intrinseche di una riflessione filosofica che prosegue il suo corso, alle caratteristiche individuali dell’autore, e anzitutto alla sua personale passione, in particolare, per la letteratura - una passione coltivata inizialmente in privato e che a poco a poco prende sempre più la mano al filosofo invadendo la sfera della sua produzione pubblica.

In effetti, i libri di Bachelard dedicati all’immaginazione sono anzitutto una testimonianza molto viva della sua passione per la lettura, del suo vero e proprio amore appassionato per i libri, e in particolare per i libri di poesia.

L’introduzione alla Poetica della rêverie si chiude con una immagine che rende molto bene lo spirito che anima Bachelard lettore di poeti: «Io vorrei che ogni giorno mi cadessero dal cielo a grandi fasci i libri che raccontano la giovinezza delle immagini... Lassù, in cielo, non è forse il paradiso una immensa biblioteca?»[2]. E ancora: «... ci consigliano di non leggere troppo velocemente e di guardarsi dall’inghiottire pezzi troppo grossi... Tutti questi precetti sono belli e buoni. Ma un principio li comanda. E necessario dapprima un buon desiderio di mangiare, di bere e di leggere. Bisogna desiderare di leggere molto, leggere ancora, leggere sempre. - Fin dal mattino, davanti ai libri accumulati sul mio tavolo, faccio la mia preghiera al dio della lettura: "Dacci oggi la nostra fame quotidiana"»[3].

Isolatamente prese, citazioni come queste sembrano aprirci uno squarcio sulla «sensibilità» di Bachelard, piuttosto che sui suoi pensieri e sulle sue meditazioni di filosofo intorno all’immaginazione. E certamente in parte le cose stanno così. Ma dobbiamo guardarci dall’intenderle solo così. Frasi come queste ci potranno apparire più o meno attraenti, ma certamente ci sfuggirebbe il loro interesse. Facili da leggere, ma difficili da capire - se non vogliamo addirittura concludere che qui non ci sia nulla da capire. E invece dobbiamo assumere, ne i confronti di Bachelard, un atteggiamento sospettoso, un atteggiamento in cui cominciamo subito a sospettare che chi si immagina il paradiso,e proprio il paradiso, come una immensa biblioteca abbia una sua molto precisa filosofia dell’immaginazione, anche se per il momento non la riusciamo a intravedere nemmeno da lontano.

In realtà, con l’emergere della problematica dell’immaginazione all’interno di una concezione della filosofia tutta orientata in senso epistemologico emerge anche l’esigenza di estendere e ampliare quella nozione di filosofia che ora viene avvertita come troppo unilaterale. Lo stesso orientamento epistemologico viene percepito come un limite e la tematica dell’immaginario si propone sin dall’inizio insieme all’aspirazione a superare questo limite.

La filosofia non deve soltanto aggirarsi nei dintorni delle scienze, appropriandosi della razionalità che si sviluppa in esse; ma deve anche circoscrivere lo spazio dell’immaginazione, acquisendolo nell’ambito delle proprie riflessioni, allo scopo di ricomporre l’unità dell’essere umano che deve essere riconosciuto non solo come un essere che conosce la realtà e la trasforma, ma che anche di continuo la «sogna». La contrapposizione iniziale deve essere così nello stesso tempo superata e presupposta,mentre la nozione di filosofia, direttamente praticata da Bachelard più che esplicitamente teorizzata, muta di accento, tende a dilatarsi.

Se consideriamo le «facoltà», ragione e immaginazione, per esempio, o i loro prodotti - la scienza e l’arte -, ci troveremo indubbiamente di fronte ad una contrapposizione. Ma se consideriamo la soggettività stessa nella sua unità, allora la contrapposizione è superata per il fatto stesso che l’uomo, nella sua concretezza è ragione pensante, che si misura attivamente con la realtà, con l’esterno, ed anche sognatore, che si ripiega nella propria interiorità in una continua produzione di irrealtà. L’uomo è ad un tempo ragionatore-realizzatore; e sognatore-irrealizzatore.

Ad un tempo, evidentemente, non nel senso della contemporaneità temporale. La vita dell’immaginazione, dell’emozione, del sentimento, degli affetti deve esplicarsi altrove ed in un tempo diverso che nell’esercizio delle facoltà propriamente razionali. Bachelard attribuisce a queste ultime il carattere di ciò che egli chiama «funzione del reale». Attraverso l’esercizio di questa funzione, egli dice, «noi fabbrichiamo opere che sono della realtà»[4]. Ma non meno importante è «la funzione dell’irreale»,la quale ha il compito, di estrema importanza, di custodire «lo psichismo umano al di fuori di tutte le brutalità di un non-io ostile, di un non-io estraneo»[5].

Si comprende subito che impostando il problema in questo modo ci siamo ampiamente lasciati alle spalle l’idea di una considerazione della tematica dell’immaginario subordinata ad un orizzonte epistemologico. Qui l’immaginazione non è in questione in quanto taglia la strada alla scienza, in quanto si interpone sul suo cammino. Ciò su cui cade ora l’accento è la pura e semplice alterità dell’immaginazione rispetto a ciò che appartiene alla scienza e questa alterità si esercita legittimamente esplicando una sua precisa funzione nello spazio suo proprio. La contrapposizione viene mantenuta. Ma anche superata, perché questa alterità riconfluisce nell’unità dell’essere umano che non può essere ridotto né all’uno né all’altro polo della contrapposizione.

Ma proprio perché l’essere umano viene chiamato in causa, il percorso che conduce dalla subordinazione epistemologica della tematica dell’immaginazione all’immaginazione considerata nella sua autonomia è anche un percorso che sposta l’asse della stessa nozione di filosofia in Bachelard. Lo sposta insensibilmente - dal momento che in rapporto a ciò non vi è alcuna discussione esplicita in Bachelard, ma dobbiamo piuttosto affidarci a suggestioni interne al testo che talvolta hanno l’apparenza di annotazioni di sfuggita. Eppure in esse si avverte con chiarezza il senso di questo spostamento: la concezione della filosofia come epistemologia tende ora ad essere sostituita da una concezione della filosofia che vorrebbe assumersi senza pompe e un poco tacitamente il compito di prospettare una vera e propria concezione dell’uomo nel mondo. Si comincia a proporre un complesso di problemi che potrebbero forse essere attribuiti all’ambito di una «antropologia filosofica».

Tuttavia, una simile espressione deve essere intesa in modo attenuato: con essa non possiamo voler dire che Bachelard si proponga di mettere nero su bianco una vera e propria concezione dell’uomo e della natura umana. Si tratta soltanto di una inclinazione che assume la tematica dell’immaginazione: proprio per il fatto che ci occupiamo di essa come di una funzione dell’irreale, questa funzione andrà considerata in riferimento all’essere che la esercita - all’uomo stesso. Così, quando per esempio, nella Poetica dello spazio, leggiamo: «La nostra proposta è quella di considerare l’immaginazione come potenza maggiore della natura umana»[6], abbiamo tutti i diritti di considerare una simile affermazione come riguardante, prima ancora che l’immaginazione, la «natura umana» stessa. In questo senso potremmo dire che essa appartiene all’ambito di un’antropologia filosofica. Ed analogamente, quando leggiamo che l’immaginazione è «al tempo stesso un divenire espressivo ed un divenire del nostro essere» [7]tenderemmo a dare importanza all’espressione «il nostro essere»; un’importanza e un’accentuazione che in realtà non è affatto arbitraria. Poco oltre infatti Bachelard osserva che con ciò viene definito «il livello dell’ontologia a cui lavoriamo»[8].

Se espressioni come «natura umana» o «il nostro essere» sono forse troppo deboli per essere notate, di contro una parola come questa: «ontologia», è anche troppo forte, e il nostro esercitato orecchio di filosofi reagisce vivacemente. Dunque Bachelard lavora ad una «ontologia»?

Del resto Bachelard non rinuncia nemmeno a impiegare la parola «metafisica» che così spesso si accompagna a «ontologia».

Proprio al termine della Poetica dello spazio egli parla, per esempio, di metafisica concreta. Citando una poesia di Rilke nel quale si parla di un grande albero che «sviluppa in rotondo il proprio essere», egli dice che questo albero deve certamente occupare un posto significativo «nel mio album di metafisica concreta»[9]. E così altrove egli parla semplicemente di ontologia dell’immaginazione o di metafisica dell’immaginazione, in contesti in cui questi termini si presentano in un certo senso all’improvviso, inattesi, un poco sorprendenti.

Per rendersi conto di questi impieghi dovremmo ripetere all’incirca ciò che abbiamo osservato parlando di una direzione filosofico-antropologica. Proprio perché abbiamo di mira l’essere umano potremmo parlare di una inclinazione antropologica, ma in fondo anche di una ontologia, di una metafisica, purché la si intenda non già come una esplorazione dell’essere «assoluto», che sta alle nostre spalle e che incombe su di noi, ma come l’essere che noi siamo: il nostro essere.

Si tratta in ogni caso di impieghi molto tenui. Direi quasi che Bachelard riesce a usare con dolcezza persino termini così duri, così rigidi come «ontologia» o «metafisica». Guardiamo del resto in che modo si parla di metafisica concreta nel passo che abbiamo or ora citato: la metafisica concreta di Bachelard assume subito la forma, così privata, così personale, di un album, nel quale andiamo raccogliendo e ricomponendo, nelle ore della tranquillità, come un gioco che ci rasserena, le immagini che ci hanno fatto sognare.

Tuttavia questi impieghi non debbono essere troppo sotto-valutati per ciò che concerne le intenzioni filosofiche vere e proprie. Attraverso queste parole che irrompono nel testo e che subito diventano fluide come il testo stesso, si affaccia almeno lo spunto di un’operazione più sottile di quanto possa apparire ad un primo sguardo. E in ogni caso un fatto che Bachelard, in rapporto alla tematica dell’immaginazione, è indotto a parlare di metafisica. E in particolare di metafisica concreta. Anche questo aggettivo deve avere un suo preciso significato.

Riusciamo probabilmente a cogliere la portata di queste espressioni se le consideriamo orientate in una direzione polemica abbastanza precisa, in una direzione che ha di mira la filosofia esistenzialistica.

Infatti non vi è dubbio che la filosofia esistenzialistica si muova in primo luogo sul terreno di un’antropologia filosofica - pensiamo soltanto a Essere e tempo di Heidegger. La «natura umana», l’uomo in genere è il tema effettivo anche se, per varie ragioni, Heidegger rifiuta l’impiego di questi termini, introducendo la parola Dasein (Esserci) in un’accezione peculiare. Questa parola rimanda a sua volta al problema più ampio dell’essere, al problema ontologico e metafisico in grande, entro il cui orizzonte l’antropologia filosofica deve essere inserita. Questo problema viene riproposto in tutta la sua serietà; e soprattutto in tutta la sua imponenza. Lo stile di pensiero che troviamo sviluppato in Essere e tempo è uno stile fortemente sistematico, e questa sistematicità assume a suo modo il carattere di qualcosa di simile ad un rigore «filosofico»: almeno nel senso che nella descrizione dei modi d’essere dell’esistente, si segue un determinato schematismo secondo il quale questi modi vengono identificati, concatenati e sviluppati l’uno dall’altro.

Su questo sfondo persino lo stemperamento di Bachelard nell’impiego dei termini assume subito il carattere di una contrapposizione tendenzialmente polemica. Il pastore dell’essere è invitato a rimettersi le pantofole e a rientrare tra le mura domestiche.

Questa polemica indiretta e implicita diventa tuttavia talvolta del tutto esplicita. La stessa aggettivazione di metafisica concreta ha una chiara intonazione polemica. E l’astratto schematismo della filosofia esistenziale, il suo impianto, nonostante tutto, ancora categoriale - la lontana imitazione, su un nuovo terreno, del modello kantiano che viene presa di mira.

Non appena si comincia a parlare dell’uomo, dell’esserci, ecco che esso viene immediatamente fissato e circoscritto, anzi per meglio dire fulminato da determinazioni che sono in realtà pure astrazioni, che non hanno nulla a che fare con la ricchezza, la varietà, la molteplicità delle dimensioni esistenziali concrete. Abbiamo appena accennato alla dimensione esistenziale dell’uomo, ed ecco che subito diciamo che ciò che caratterizza questa dimensione è, per esempio, l’essere gettato dell’uomo nel mondo - cosicché quest’uomo noi lo vediamo subito lì, lungo tirato.

Ecco come operano i metafisici fulminei - quei filosofi che quando parlano di «apertura al mondo», scrive Bachelard, «sembra che abbiano soltanto da tirare una tenda per trovarsi di colpo in faccia al mondo»[10]. Così, nel capitolo dedicato alla casa, Bachelard osserva che la «situazione della casa nel mondo» «ci offre in maniera concreta,una variazione della situazione, spesso così metafisicamente riassunta,dell’uomo nel mondo»[11].

Ciò che è interessante in questa frase è proprio il fatto che la concretezza viene qui contrapposta alla contrazione metafisica, che è anche astratta semplificazione,cosicché l’accoppiamento in positivo operato da Bachelard quando parla di «metafisica concreta» diventa significativo di una direzione polemica ben determinata.

Tuttavia, proprio il fatto che Bachelard impieghi comunque in positivo questo termine, mostra che vi sono anche altre implicazioni. Non si tratta in effetti solo di polemizzare contro la filosofia esistenziale: si affaccia anche un’aspirazione a occuparne lo spazio.

In rapporto a questo aspetto ci è utile ancora una volta il rimando alla posizione neopositivistica. Naturalmente, anche a partire da questa posizione si sviluppa una polemica antiesistenzialistica. Tuttavia questa polemica può risolversi in un puro e semplice gesto di rifiuto metodologico. In fin dei conti si tratta qui soltanto di mostrare che la filosofia esistenziale non solo non rispetta i canoni autentici della razionalità scientifica, ma si situa esplicitamente in opposizione a essi.

Questo gesto di rifiuto non può essere considerato sufficiente nel contesto di discorso di Bachelard: e ciò proprio perché attraverso l’immaginazione si ripropone con particolare forza almeno il nucleo dei problemi che sta alla base della riflessione esistenzialistica.

Bachelard parla in ogni caso di metafisica, assume in qualche modo questo termine nel proprio vocabolario, cosa che mai e poi mai avrebbero potuto fare i filosofi viennesi. E con ciò egli riconosce la legittimità di una riflessione proprio entro un ambito che si contrappone o che è comunque altro rispetto alla scienza e alla ragione, riconosce dunque il buon diritto di una filosofia inclinata verso i problemi «esistenziali» secondo una direzione che è aperta appunto dalla tematica dell’immaginazione.

Per questo motivo abbiamo parlato di spostamento dell’asse della nozione di filosofia in Bachelard. In un certo senso, se adottassimo lo schema elementare proposto dal neopositivismo secondo cui si avrebbe la filosofia come epistemologia e poi nient’altro che la filosofia come metafisica,non ci sarebbe da dubitare che secondo Bachelard la filosofia deve essere anche metafisica. Una simile affermazione dovrebbe poi essere seguita da tutte le attenuazioni del caso; anzitutto l’attenuazione che riferisce questo termine entro una dimensione filosofico-antropologica; quindi l’attenuazione di questa dimensione in direzione di un rifiuto di una teoria filosofica vera e propria; infine l’attenuazione estrema consistente nel ricondurre tutto ciò ad una pura e semplice inclinazione che assume la tematica dell’immaginazione.

La congiunzione di questi termini - metafisica e immaginazione - non rimanda peraltro, in Bachelard, ad una tendenza sempre rinascente ad attribuire all’immaginazione una sorta di vocazione metafisica, una sorta, cioè, di predisposizione ad accedere ad un campo di realtà profonda e ignota, che resta in linea di principio inaccessibile agli strumenti e ai metodi della ragione, ma è orientata se mai nella direzione opposta.

Ogni discorso che pretenda di mostrarsi come esplorazione di una realtà situata oltre la superficie delle cose acquista interesse proprio in quanto viene considerato come espressione dell’immaginazione stessa. Idea certamente non nuova; anzi, molto vecchia, dal momento che qualunque polemica antimetafisica ha sempre sottolineato, con maggiore o minore sarcasmo, l’immaginarietà delle costruzioni metafisico-speculative. Ma questa vecchia idea assume in Bachelard una singolare trasformazione. Il punto della questione sta non tanto nell’esibire la relazione con l’immaginazione del discorso orientato metafisicamente, ma nel segnalare il suo interesse quando ci accingiamo a considerarlo così.

La distinzione tra epistemologia e metafisica non può qui essere presentata come una distinzione simmetrica a quella tra senso e nonsenso. Al contrario, scopriamo la ricchezza di senso, lo spessore del discorso metafisico nella stessa misura in cui mettiamo in evidenza la sua connessione con l’immaginario, operandone la riconduzione al discorso «poetico». Così alla fine Bachelard non nasconde la propria ammirazione, accompagnata da una punta di invidia, verso il metafisico esplicito, senza remore, che ha perduto ogni freno, che parla come se avesse gli occhi rovesciati verso il mondo che sta al di là. E qualche volta desidererebbe trovarsi al suo posto: «Quale gioia professorale, quale gioia sonora nell’incominciare la lezione di metafisica...dicendo: "Das Dasein ist rund". L’essere è rotondo. Ed attendere poi che il rombo del tuono dogmatico si calmi sugli estasiati discepoli» [12

3. Le interpretazioni psicoanalitiche e l’atteggiamento fenomenologico

Vogliamo ora volgere la nostra attenzione alla nozione di fenomenologia proposta da Bachelard. Come abbiamo osservato, proprio la Poetica dello spazio può essere considerata come opera di apertura di un nuovo periodo caratterizzato dall’adozione di un punto di vista che egli caratterizza come «fenomenologico». Non è nostra intenzione approfondire la questione se con ciò si annunci una vera e propria svolta, oppure se si tratti piuttosto di un riorientamento della tematica bachelardiana, nel quale molte cose subiscono una modificazione, alcuni temi perdono di importanza, mentre altri vengono in primo piano, senza che tuttavia si modifichi l’impianto di base[13].  Volendo indicare in che modo viene impiegato da Bachelard il termine di fenomenologia, non possiamo affatto contare su qualche pagina nella quale il nostro autore si diffonda specificatamente intorno alla questione, dibattuta in primo luogo in se stessa, eventualmente con rimandi ad altri autori che illustrino per analogia o per contrapposizione il modo del suo impiego. Il termine di fenomenologia viene gettato di continuo dentro il testo senza particolari preamboli e senza rimandi culturali immediatamente appariscenti. Quindi dobbiamo, anche in questo caso, ottenere i chiarimenti di cui abbiamo bisogno operando una ricomposizione di problemi intorno a questa nozione. Vedremo allora ben presto che una discussione intorno alla nozione di fenomenologia in Bachelard non riguarda propriamente una questione di modo di approccio metodologico, ma ci porta direttamente nei punti nodali della sua filosofia dell’immaginazione.

Un modo di cominciare ad operare questa ricomposizione sta forse nel notare che spesso, laddove si parla di fenomenologia, si trova anche una più o meno esplicita contrapposizione tra punto di vista fenomenologico e punto di vista psicoanalitico. In altri termini, uno dei momenti che orientano Bachelard in direzione di una fenomenologia dell’immaginazione sta nelle perplessità e nei dubbi che possono essere sollevati di fronte ad un modo di approccio che tragga ispirazione dalla psicoanalisi.

Questi dubbi Bachelard li rivolge in primo luogo alla propria impostazione precedente che appariva influenzata dalla psicoanalisi. I modi di questa influenza richiederebbero una discussione a parte, benché si possa senz’altro affermare che su questo aspetto autocritico non sia il caso di calcare troppo la mano. Infatti, Bachelard si mantiene sempre fortemente indipendente da schematismi di derivazione psicoanalitica, non rinunciando nemmeno a impiegare, come abbiamo già osservato, concetti e termini di derivazione psicoanalitica in modo personale, aggiungendovi spesso del suo con molta disinvoltura e senza troppe preoccupazioni. Inoltre, anche uno sguardo sommario alla produzione di Bachelard mostrerebbe il peso della presenza di Jung, cosa che comporta fin dall’inizio un atteggiamento molto prudente di fronte alle interpretazioni psicologiche delle opere d’arte in genere.

Per questo è opportuno insistere piuttosto sul fatto che Bachelard ha di mira una tendenza implicita soprattutto nella impostazione freudiana, che sembra avere conseguenze fuorvianti qualora essa venga fatta valere in rapporto alle opere letterarie. Questa tendenza può essere ricollegata alla nozione di interpretazione e ha a che vedere sia con il problema della particolarizzazione, cioè della riconduzione del sogno alle determinatezze del sognatore, sia con il tema del simbolismo e delle assegnazioni puntuali e stabili di significati reali ai simboli; sia infine con il terreno vero e proprio delle ipotesi psicoanalitiche con il loro rimando centrale al tema della sessualità.

Contro di ciò, e avendo di mira gli esempi più grezzi e sprovveduti, Bachelard prende netta posizione: le interpretazioni psicoanalitiche nei confronti delle opere poetiche, e quindi delle immagini in genere, sono da respingere non tanto perché sono false, ma soprattutto perché la loro eventuale giustezza è priva di interesse ai fini di un’autentica apprensione delle immagini.

Il metodo psicoanalitico - osserva Bachelard - resta in ogni caso un metodo degno di attenzione «per determinare la personalità di un poeta»[14]; da questo punto di vista le interpretazioni psicoanalitiche hanno «un vasto campo di applicabilità»[15]; ma nel cogliere le immagini della poesia non siamo rivolti alla personalità del poeta, ed inoltre l’immagine poetica viene afferrata in tutta la sua densità espressiva proprio per il modo in cui essa si mostra alla superficie; anzi potremmo dire che questa densità va perduta se l’immagine viene spiegata in termini psicologici e risolta in simboli che a loro volta rimandano a dati di fatto riguardanti le vicende interiori ed esteriori del poeta stesso. Se assumiamo l’atteggiamento psicoanalitico rischiamo dunque di porci in una disposizione che preclude di rivivere l’immagine - presi come siamo a sbrogliare la matassa delle nostre interpretazioni[16], ricorrendo di continuo ad un «simbolismo globalizzante» [17]e precostituito [18] che tende all’uniformità e alla monotonia.

Un simile atteggiamento critico, che può essere ampiamente condiviso avendo di mira le applicazioni più ingenue dello strumento psicanalitico al campo della letteratura e dell’arte in genere, potrebbe preludere ad un’accentuazione del fatto letterario nella sua autonomia e nella sua specificità. Di contro all’opera, considerata essenzialmente come documento psicologico, che deve essere integrata nella storia personale della soggettività che la ha prodotta, potremmo proporre l’integrazione dell’opera stessa come fatto letterario nel contesto della letteratura come una totalità relativamente omogenea di prodotti che ha le sue norme e le sue tipicità interne e che quindi esige dei modi specifici di approccio e degli specifici criteri di valutazione. |59|

Bachelard invece non imbocca questa strada - anzi, sotto certi riguardi, sembra avviarsi in una direzione opposta. Ed è a questo punto che si presenta la questione dell’atteggiamento «fenomenologico».

Ciò che sfugge alle interpretazioni psicoanalitiche è lo stesso atto poetico, dice Bachelard[19]. Parlando di atteggiamento fenomenologico, egli vuole indicare in primo luogo un atteggiamento che aderisce all’atto poetico, in modo da riviverlo dall’interno. L’immagine, prima ancora che compresa o interpretata, deve essere colta, afferrata. E afferrarla significa partecipare alla sua vitalità, immedesimarsi con essa.

Cominciamo ora con il renderci conto del modo in cui l’origine dicotomica dell’impostazione iniziale del problema dell’immaginazione si rifletta già sui primi sviluppi. Abbiamo detto che l’attività immaginativa si svolge nell’unità di un soggetto concreto insieme alle altre attività che ascriviamo alla ragione: ma anche che essa si svolge su un piano interamente diverso, che essa occupa uno spazio e un tempo diversi. Ora questa alterità, questa contrapposizione si manifesta anche all’interno della riflessione che si orienta in direzione di questa attività. Così Bachelard osserva, facendo riferimento a se stesso e ai propri interessi epistemologici, che il filosofo che ha legato «tutta la formazione del suo pensiero ai temi fondamentali della filosofia delle scienze», quando si accinge a studiare i problemi posti dall’immaginazione poetica «è obbligato a dimenticare il suo sapere ed a rompere con tutte le consuetudini di ricerca filosofica» [20]

Nelle intenzioni di Bachelard, questo «dimenticare il sapere», questa messa in parentesi delle proprie «consuetudini di ricerca» è l’azione preliminare che dovrebbe introdurci all’atteggiamento fenomenologico. Si sarebbe forse tentati di notare qui un’analogia con la tematica della «epoché» in Husserl, che talvolta si presenta come una operazione di messa in parentesi, di sospensione di validità relativa alle teorie a nostra disposizione che ci dovrebbe mettere in grado di afferrare i dati così come si presentano, indipendentemente da opinioni pregiudiziali. Tuttavia converrà non aver fretta nel tentare di stabilire parallelismi e analogie come queste che, per quanto sembrino giustificate, in realtà potrebbero fuorviarci facendoci correre il rischio di una doppia incomprensione. Anziché andare senz’altro alla ricerca di analogie che ci portano al di fuori del contesto del discorso bachelardiano, è opportuno attenersi strettamente ad esso facendo notare, invece, che questa messa in parentesi delle «consuetudini di ricerca filosofica» è una diretta conseguenza dell’impianto iniziale, proprio di Bachelard, della tematica dell’immaginazione.

Del resto questa messa in parentesi non riguarda soltanto l’orientamento metodico dell’indagine epistemologica. L’atteggiamento fenomenologico deve lasciare dietro di sé «tutti gli allettamenti della cultura»[21]: il lettore deve disporsi di fronte a un’opera poetica in una dimensione di ingenuità, di semplicità proprio perché solo se ci disponiamo all’interno di questa dimensione possiamo essere realmente preparati all’afferramento della vita delle immagini. Talvolta Bachelard parla anche di primitivismo, alludendo appunto a questa dimensione di totale disponibilità che richiede poi essenzialmente che il lettore legga per il piacere di leggere, senza «secondi fini».

Vi sono dunque delle ragioni filosofiche del fatto che Bachelard ami presentare se stesso come un simile lettore, come un lettore elementare e «incompetente». Nell’ambito di queste ragioni è compreso anche quell’apparente disimpegno che traspare nei suoi libri dedicati all’immaginario e che talora viene esplicitamente denunciato: come quando egli dice di aver scritto il proprio libro come un «libro di piacere»[22], come una sorta di vacanza spirituale del vecchio epistemologo che invita i suoi stessi lettori ad una vacanza con lui.

In tutto ciò dobbiamo essere preparati a scorgere gli elementi di una teorizzazione che ha il suo punto focale nell’idea di atteggiamento fenomenologico nella forma in cui esso viene prospettata in Bachelard.

Lo stesso problema che abbiamo preso in considerazione per le interpretazioni psicoanalitiche si ripresenta naturalmente per le interpretazioni psicologizzanti in genere; come del resto per le informazioni biografiche che possono essere eventualmente esibite in connessione con il testo.

Di fronte ai versi di Verlaine che evocano l’azzurra calma del cielo («le ciel est par dessus le toit/si bleu, si calme»),il biografo «ci può aiutare dicendoci che questa poesia è stata scritta quando Verlaine era nella prigione di Mons». Il commento di Bachelard a questo proposito è molto significativo: «In prigione! Ma chi non è in prigione nelle ore di malinconia?» [23]Che è quanto dire: quella informazione può interessarci solo nella misura in cui la prigione stessa diventa un’immagine. Ma allora essa, in quanto è informazione, è senz’altro superflua. Essa non può aggiungere qualcosa al testo così com’è, il cui motivo interno è appunto l’ora della malinconia. Se dovessimo accentuare l’importanza di quella informazione tenderemmo indubbiamente a degradare la poesia dell’ora della malinconia a qualcosa di completamente diverso, che non è più «poesia», ma piuttosto una sorta di documento, di attestazione. La poesia diventa una cosa - come se dicessimo: «Questo lo abbiamo scritto in prigione» per documentare con quel foglio di carta che siamo stati effettivamente in prigione.

Per dirla con parole nostre: un’informazione biografica può togliere di mezzo quella neutralizzazione delle posizioni d’essere che è essenziale per il mantenimento dell’immagine. L’informazione biografica deprime l’immagine proprio perché connette l’immagine alla realtà incollandola a essa: anche se non potremmo essere certi che ciò debba accadere in ogni caso, se non altro per lo stesso rilievo implicito nel ribaltamento operato da Bachelard nel passo citato a proposito della prigione di Verlaine. Potrebbe cioè accadere una operazione più complessa dell’immaginazione che approfitta dello stesso riferimento biografico e fattuale per trarne una suggestione immaginativa rafforzando e ravvivando il livello delle immagini in luogo di deprimerlo. Checché ne sia di questa complicazione eventuale del problema, non vi è dubbio che un impiego ingenuo dei rimandi biografici possa incorrere nelle stesse critiche che potremmo rivolgere alle interpretazioni psicologizzanti in genere. E che il rifiuto delle «riduzioni» biografiche sia coerente con l’idea di un approccio fenomenologico.

Con questa idea, sviluppata secondo le intenzioni di Bachelard, è infine coerente anche una netta separazione tra atteggiamento critico-letterario in genere e atteggiamento fenomenologico. Quest’ultimo «non ha niente a che vedere» con l’atteggiamento critico-letterario[24]. E ciò ha le sue ragioni nel semplice fatto che l’esercizio della critica letteraria, comunque venga inteso, rimanda pur sempre ad una lettura del testo con «secondi fini». Certamente anche qui la lettura deve aderire al testo, ma in un senso abbastanza diverso dalla lettura di un comune lettore. Potremmo dire che nel leggere raccogliamo mentalmente appunti per il nostro commento critico, richiamando e riattivando tutta la nostra cultura.

Di qui la distinzione di principio tra atteggiamento critico-letterario e atteggiamento fenomenologico, che non deve certamente essere inteso come una alternativa e nemmeno in senso ottusamente svalutativo nei confronti dell’analisi critico-letteraria. Si tratta piuttosto di connettere questo tema alla rivendicazione di una lettura diretta e immediata, che dovrà pur trovare modo di essere difesa, se esiste un piacere di leggere e se i libri vengono scritti forse anche per questo.

La dimensione fenomenologica è proprio quella in cui ci abbandoniamo ad una lettura disinteressata, interamente libera da obiettivi che le sono estranei. Cosicché da un lato non esiteremo a circondare questa dimensione con espressioni di modestia; dall’altro, saremo sempre abbastanza pronti a sottolineare questa modestia con una punta di orgoglio: «Quanto a noi, dediti ad una lettura felice, non leggiamo e rileggiamo se non quanto ci piace, con una piccola dose di orgoglio di lettura mescolata a molto entusiasmo»[25].

4. Il silenzio della lettura e la solitudine delle immagini

La parola fenomenologia in Bachelard indica dunque qualcosa di completamente diverso da un criterio metodico di lettura. Se ci imbattiamo nell’espressione «metodo fenomenologico», non vi è dubbio che la parola metodo sia usata in modo improprio. Proprio perché l’accento viene posto sulla partecipazione e sull’immedesimazione, sull’ingenuità e la felicità della lettura, dovremmo piuttosto pensare al senso usuale della parola atteggiamento, che spesso viene impiegata anche in rapporto alle posizioni del corpo. E come se si trattasse di assumere una posizione con lo spirito, anziché con il corpo. Di fronte alle immagini devi atteggiarti così...

Nello stesso tempo, e forse proprio per questo, ci rendiamo subito conto del fatto che a questa povertà metodologica, corrisponde un legame interno tra l’atteggiamento nei confronti delle immagini e il modo di concepire l’immagine. In ciò che viene detto intorno all’atteggiamento fenomenologico si rispecchia ciò che potremmo dire in rapporto alle immagini e, infine, all’immaginazione stessa.

Uno dei temi che affiora spesso in Bachelard, e che del resto si percepisce nello stesso stile del testo, è quello della solitudine della lettura. La lettura condotta da Bachelard è una lettura silenziosa esolitaria.Qualcosa di simile ad una lettura ad alta voce, la voce effettivamente risonante nella stanza delle nostre letture - ecco qualcosa che turberebbe la nostra immersione nelle immagini. Proprio perché la parola risonante è una parola che si rivolge a qualcuno, e in generale avendo di mira l’esercizio di una qualche funzione della realtà. In certo senso, la parola enunciata a voce alta appartiene alla realtà dello spazio circostante, è un evento fisico esteriore: mentre di questa esteriorità non ha bisogno la parola poetica, che può essere intimamente rivissuta in un silenzio che rappresenta, in certo senso, una «sospensione» dello spazio e del tempo della realtà.

Ciò non significa che venga sottovalutato il peso dell’aspetto sonoro della parola poetica. Al contrario Bachelard si sofferma spesso, in pagine suggestive, sul suono delle parole - e proprio sul loro suono puro e semplice, sul «significante», indipendentemente dal significato. Sul suono delle parole come un momento in cui l’immaginazione può innestarsi, come un suono che ci fa sognare.

Così, per esempio, nella Poetica dello spazio: «Esiste un solo sognatore di parole che non sentirà risuonare dentro di sé la parola armoire? Armoire, una delle grandi parole della lingua francese, insieme maestosa e familiare. Quale volume di respiro, bello e grande insieme! Apre il respiro con la a della prima sillaba e lo chiude dolcemente, lentamente con la sillaba che espira»[26].

Nella Poetica delle rêverie egli stesso si definisce un sognatore di parole: «Io sono infatti un sognatore di parole, un sognatore di parole scritte. Io credo di leggere. Una parola mi blocca. Abbandono la pagina. Le sillabe della parola cominciano ad agitarsi. Accenti tonici cominciano a rovesciarsi. La parola abbandona il suo significato come un carico troppo pesante che impedisce di sognare. Le parole assumono allora altri significati come se avessero acquisito il diritto di essere giovani»[27].

Questa attenzione al suono della parola non è tuttavia affatto in contrasto con ciò che dicevamo prima sulla silenziosità della lettura. Se facciamo risuonare a voce alta la parola, a nostra volta - vorremmo dire quasi - la dobbiamo ascoltare in silenzio, anzi la facciamo risuonare proprio per poterla ascoltare in silenzio.

Ciò traspare anche dalle frasi che abbiamo or ora citate. La parola armoire risuona dentro di noi. E quando Bachelard si presenta come sognatore di parole, sente subito il bisogno di aggiungere: di parole scritte. Cioè di parole silenziose.

La lettura silenziosa è anche una lettura solitaria - se non altro perché se leggiamo con altri, qualcuno deve leggere ad alta voce. Altrimenti ognuno leggerebbe per conto suo. Si sarebbe quasi tentati di vedere anche in questo una coerente conseguenza della contrapposizione fondamentale. Indubbiamente è possibile leggere insieme un testo di chimica, di fisica e persino di filosofia. Infatti qui c’è qualcosa da capire; e qualche volta accade che io non capisca. Cosicché un altro mi può venire in aiuto. Ma sembra difficile leggere insieme un poeta, leggerlo rivivendo le sue immagini, immedesimandosi con esse. Se debbo immedesimarmi proprio io, gli altri che cosa c’entrano? La loro presenza potrebbe essermi di disturbo.

Nel tema della solitudine della lettura si rispecchia, d’altro lato, il tema parallelo della solitudine delle immagini.

È un fatto che le considerazioni di Bachelard si sviluppano sempre facendo riferimento ad immagini isolate. Il commento, la citazione riguarda sempre versi o frasi ampiamente sottratte al contesto poetico o narrativo, che appare accennato spesso solo di sfuggita o del tutto omesso. L’unità della poesia non è mai presente in Bachelard. Non già nel senso che non si proponga in Bachelard il problema dell’unità immaginativa. Al contrario: la frantumazione delle unità poetiche avviene proprio in forza del problema di una ricomposizione delle immagini clic vengono ricondotte intorno a centri tematici ben determinati. Ciò che importa è appunto il tema: il fuoco, l’acqua, l’aria, lo spazio... e i versi dei poeti vengono sottratti ai loro contesti per essere ricomposti sotto quelle unità tematiche.

Tuttavia sarebbe un errore ritenere che questo isolamento delle immagini sia solo una naturale conseguenza di questo interesse orientato verso i temi dell’immaginazione. Esso ha anche a che vedere con la nozione di fenomenologia e con la concezione dell’immagine poetica che corrisponde a essa.

Nell’introduzione alla Poetica dello spazio, Bachelard attira esplicitamente l’attenzione su questo punto: la nostra fenomenologia è in primo luogo una fenomenologia di immagini isolate [28]. Di ciò viene in parte data una giustificazione che rimanda alla modestia dei compiti proposti. Vogliamo muoverci su un piano elementare e quindi non vogliamo assumere il problema tanto complesso «della composizione della poesia come agglomerato di molteplici immagini»[29]. Non intendiamo spingerci così lontano. Una fenomenologia «completa», ci avverte Bachelard, dovrebbe certamente considerare anche il problema della composizione e dunque implicare riferimenti a quegli elementi complessi che «associano la cultura più o meno lontana e l’ideale letterario di un tempo»[30].

Ma anche questa volta non ci lasceremo troppo convincere da queste considerazioni, andando invece alla ricerca di ragioni meno estrinseche.

In effetti Bachelard procede a isolamenti anche in luoghi in cui i motivi di elementarità qui addotti non sarebbero certamente pertinenti.

Fra i non numerosi scritti di Bachelard dedicati alla pittura, ve ne è uno che riguarda un gruppo di illustrazioni di episodi della Bibbia di Marc Chagall[31]. Qui troviamo in atto la stessa tendenza alla frantumazione delle immagini, una circostanza che ci colpisce sia per il fatto che il saggio non ha di mira il problema delle unità tematiche, sia per il fatto che non ci muoviamo più all’interno delle immagini poetiche, ma di quelle pittoriche.

Ciononostante si presenta anche qui questa tendenza a isolare, a rompere un ordine, a distogliere l’attenzione dall’unità delle composizioni. Bachelard sfoglia il libro delle immagini chagalliane, assumendo l’aria del lettore avido e impaziente[32]. Anzi, egli afferma espressamente: «Penso però che, ove si voglia fruire di tutte le ricchezze visionarie che sono i frutti succulenti tipici dell’opera illustrata, ove si voglia spezzare il filo della storia, più prodigo di pensieri che non di immagini, sia meglio andare per le pagine un po’ a caso, senza troppo curarsi di seguire un ordine. Dal canto mio, è così che ho organizzato la mia piacevole avventura»[33].

In realtà questa tendenza all’isolamento delle immagini ha una sua precisa motivazione nei lineamenti della filosofia dell’immaginazione che stiamo cercando di rintracciare. Essa anzi rimanda forse allo stesso impianto di principio del problema, alla contrapposizione tra operazioni razionali e operazioni immaginative. Il sospetto che le cose stiano così ci viene da una breve affermazione contenuta nell’introduzione alla Poetica della rêverie nella quale Bachelard osserva che mentre nel caso degli sviluppi razionali, delle argomentazioni, abbiamo sempre a che fare con frasi che debbono essere considerate come momenti di una «catena di verità», un simile rinvio ad una unità più ampia non si rende necessario in rapporto alla coscienza produttiva di immagini[34].

In questo passo Bachelard difende esplicitamente un modo di approccio che considera le immagini nel loro isolamento, come immagini «separate», come egli dice, avanzando la convinzione che l’immagine mantiene almeno in gran parte intatto il suo valore anche quando viene isolata ed estratta dal contesto in cui è inserita. Un’osservazione che ha certamente una sua portata, dal momento che potremmo ammettere, almeno fino ad un certo punto, che un’immagine possa essere giocata da sola. Talvolta anche un verso soltanto, o il frammento dì un verso, può apparirci carico di senso o di pregnanza espressiva.

Tuttavia, ciò su cui dovremmo attirare l’attenzione è che questa circostanza viene comunque proposta in modo che in essa risentiamo un’eco della contrapposizione fondamentale. Questa eco è presente persino nella breve citazione che abbiamo tratto dal saggio intorno a Chagall, laddove si invita a «spezzare il filo della storia», cioè del racconto implicito nelle illustrazioni del pittore, dal momento che questo è «più prodigo di pensieri, che non di immagini».

I pensieri vengono contrapposti alle immagini,ed in modo tendenzialmente esclusivo: laddove ci sono pensieri, c’è anche un filo che li conduce; e laddove vi è un filo conduttore, esso è opera più del pensiero che dell’immaginazione.

Prescindendo dal filo conduttore con cui sono intessute le immagini, noi prescindiamo dal momento del pensiero, da una componente, in senso lato, intellettuale, cogliendo attraverso questa procedura di isolamento la componente immaginativa autentica. Perciò la messa da parte del problema dell’unità compositiva non si presenta più soltanto come una necessità dipendente dalla elementarità delle nostre considerazioni, ma appare come uno dei temi che ci aiuta a cogliere il profilo della tematica bachelardiana dell’immaginario; un tema che diventa particolarmente significativo al fine di individuarne le implicazioni che forse non sono fin dall’inizio direttamente visibili.

Del resto, se ritorniamo all’affermazione già ricordata che richiama l’idea di un «completamento» dell’indagine in direzione dei problemi dell’unità compositiva, ci troviamo di fronte a questa significativa limitazione: «Un programma tanto vasto - osserva Bachelard alludendo a quel completamento - potrebbe tuttavia nuocere alla purezza delle osservazioni fenomenologiche»[35]. E perché mai? Bachelard non lo spiega nel dettaglio, ma ormai siamo in grado di renderci ragione di ciò, senza operare alcuna forzatura. Considerare l’immagine nel contesto della poesia significa ritrovare un filo conduttore che non risiede alla sua superficie immaginifica, ma che fa poggiare le immagini, anzi le fa scaturire da una trama di pensieri.Una considerazione contestuale delle immagini non può che condurre, secondo l’impostazione di Bachelard, ad attenuare la «purezza» delle osservazioni fenomenologiche, proprio perché con «purezza» si intende qui il puro e semplice rivivere simpatetico dell’immagine che comporta l’elisione di tutto ciò che ci conduce al di là dell’immaginazione, quindi all’ambito dei suoi motivi, psicologici e culturali, all’ambito dei pensieri che la motivano.

5. Tema del retentissement

Redon Dalla solitudine della lettura siamo rimandati alla solitudine delle immagini. E di qui ancora una volta all’idea di una immedesimazione, di una partecipazione diretta alla vita dell’immagine. Tra le molte espressioni di cui Bachelard si serve per indicare questa immedesimazione, particolarmente frequente è la parola retentissement: «È dunque a livello delle immagini singole che possiamo fenomenologicamente provare il retentissement»[36].

Questo termine può forse essere reso con qualche espressione che rimanda alla eco, all’echeggiare, togliendo tuttavia di mezzo quel senso di attenuazione, di indebolimento del fenomeno originario, della voce che provoca l’eco, un’attenuazione che è indubbiamente presente negli impieghi correnti, come mostrano espressioni come «pallida eco» oppure «eco lontana». L’immagine invece echeggia dentro di noi con voce viva, e noi siamo invasi e pervasi dalla eco dell’immagine come se noi stessi fossimo una grande caverna.

In ogni caso deve essere evitato il termine, che ci potrebbe sembrare adatto, di «risonanza» per il semplice fatto che Bachelard lo riserva ad un altro impiego, ad un impiego contrapposto.

Bachelard parla di risonanza (resonance), e la contrappone all’echeggiare dell’immagine, essenzialmente per indicare il ridestamento dei ricordi di nostre esperienze realmente vissute, che l’immagine poetica può eventualmente provocare. Si ha una semplice risonanza, una «mediocre» risonanza, quando l’immagine propone niente altro che «ripercussioni sentimentali, richiami del nostro passato»[37].

E come se nel leggere una poesia d’amore fossimo semplicemente richiamati ai sentimentalismi dei nostri amori - come se la poesia che stiamo leggendo non facesse altro che fornire uno spunto per riandare alle nostre esperienze passate, uno spunto per la rievocazione.

A questo punto ci imbattiamo in altri aspetti del nostro problema. In realtà, non appena ci accingiamo a parlare di atteggiamento fenomenologico così come ne abbiamo parlato all’inizio, come immedesimazione e come partecipazione immediata, tendiamo subito a scorgere una inclinazione psicologistica che potrebbe disporci in una posizione fortemente critica. L’atteggiamento fenomenologico di cui parla Bachelard non è in fondo niente altro che uno «stato d’animo». E il fatto che poi ci troviamo in difficoltà nell’illustrare di che si tratta, il fatto, per esempio, che si parli di retentissement e poi si stenti a trovare una traduzione adatta dipende proprio da questa circostanza: come ogni stato d’animo, più che essere definito e descritto, deve essere direttamente sperimentato. Leggiamo i poeti, e allora sapremo che cosa è questo retentissement. Ed eventualmente dopo aver letto i poeti potremo provarci a descrivere quello stato d’animo seguendo la via obbligata dell’introspezione. Noi siamo tuttavia così maldisposti verso il ricorso dell’introspezione nelle questioni filosofiche che, una volta messo in rilievo questo punto, saremo fortemente tentati di voltar pagina e di lasciare Bachelard al suo destino.

Tuttavia avremmo indubbiamente torto nel comportarci così, nel dare cioè un giudizio troppo sommario rilevando l’inflessione psicologistica della nozione di atteggiamento fenomenologico in Bachelard senza procedere oltre. Infatti siamo qui di fronte ad una elaborazione molto raffinata che merita in ogni caso di non essere messa da parte troppo frettolosamente, senza una comprensione reale della sua portata. Per questo cerchiamo - nella misura del possibile - di trattenere la critica per dare spazio all’esposizione, anche se non siamo certi che questo nostro sforzo abbia un effettivo successo.

D’altra parte proprio la differenza proposta tra risonanza e retentissement, insieme alla critica delle interpretazioni psicologizzanti, mostra che ci sono aspetti antipsicologistici nella impostazione di Bachelard. L’accentuazione negativa che cade sulla risonanza è volta proprio in questa direzione.

Nella risonanza non è l’immagine che viene rivissuta: l’immagine rappresenta qui unicamente l’inizio di un percorso orientato verso la soggettività psicologica che si è di fatto costituita attraverso le accidentalità della vita vissuta. Nella risonanza sono proprio queste accidentalità che vengono richiamate. Nello stesso tempo, quanto più il lettore si immerge nella rievocazione della propria esperienza passata, tanto più si allontana e si distrae dall’immagine. Dice una volta Bachelard: «Non si legge una poesia pensando ad altro»[38]: una frase in realtà molto felice nella sua espressiva sinteticità. Nel retentissement restiamo presso la poesia; mentre leggiamo la poesia pensando ad altro se la poesia si limita a suscitare «risonanze» sentimentali del nostro passato. Nello stesso tempo si presenta qui, secondo l’angolatura bachelardiana del problema, la differenza tra fatti e valori immaginativi. Nella risonanza sono richiamati determinati fatti, mentre nel retentissement ci muoviamo nello spazio dei valori immaginativi. Come in precedenza, a proposito delle interpretazioni psicologizzanti e delle riduzioni biografiche, si era criticato il rimando alle circostanze di fatto che connettono il prodotto poetico con il suo autore come significativo ai fini della sua comprensione, così ora la stessa critica si ripresenta dall’altro lato, dalla parte del lettore.

In riferimento a questa tendenza antipsicologistica va infine illustrato anche ciò che Bachelard chiama l’essenza transsoggettiva dell’immagine [39]. La soggettività oltre la quale l’immagine si situa, la soggettività superata dall’immagine è appunto ancora una volta la soggettività intesa nelle sue determinatezze psicologiche. Non dovremmo forse provare meraviglia di fronte al fatto che l’immagine prodotta da un altro, non appena viene proposta, subito «affondi le proprie radici in me» [40]- un altro che ha un carico di esperienze vissute diverse dalle mie e che quindi ha presumibilmente motivazioni fattuali che suggeriscono l’immagine diverse da quelle secondo le quali avviene da parte mia la sua ricezione? Come può accadere che questa differenza tra le soggettività psicologiche venga senz’altro trascesa?

Attraverso l’immagine entriamo direttamente in contatto con l’altro per il fatto che non è l’altro nella sua specificità e nella sua singolarità che viene in questione, ma l’immagine stessa in quanto essa opera il trascendimento non tanto della soggettività come tale, ma di ciò che nella soggettività appartiene al puro e semplice dato di fatto. Nell’immagine è possibile un incontro - anche se poi si tratterà di discutere in che senso si possa parlare veramente di incontro e in che misura su tutto ciò continui a pesare la tematica della solitudine.

6. Memoria e immaginazione

Un altro caratteristico parallelismo tra l’idea di atteggiamento fenomenologico e la concezione dell’immagine si può ritrovare nella messa in parentesi della cultura che , come abbiamo visto, rappresenta uno dei requisiti di una lettura fenomenologicamente orientata. Questo «primitivismo» è proprio anzitutto dell’immagine. L’immagine non ha antecedenti,non ha un passato, non vi è qualcosa che sta prima di essa come condizione del suo sorgere[41]. Ciò mette in questione ancora una volta la critica delle interpretazioni psicologizzanti: ma affermazioni come queste hanno una portata più ampia. Non si escludono solo quegli antecedenti delle immagini che rinviano alla «psicologia» dei loro produttori, ma anche quegli antecedenti che rimandano allo stesso passato letterario, al contesto culturale.

«Un’immagine poetica - dice Bachelard - non è preparata da nulla, soprattutto non dalla cultura, secondo i moduli letterari, soprattutto non dalla percezione, secondo i moduli psicologici»[42].

Come deve essere intesa un’affermazione così impegnativa? In essa non si vuole certamente negare il dato di fatto secondo cui oltre ad antecedenti psicologici, vi sono anche antecedenti culturali dell’immagine. Ogni immagine ha una storia, anche quando è un’immagine nuova. Ma la novità dell’immagine intesa in questo modo riguarda appunto l’integrazione dell’opera poetica in genere all’interno del contesto letterario. In una considerazione di questo contesto noi possiamo eventualmente prendere atto della sua novità: questo prendere atto appartiene probabilmente all’ambito delle acquisizioni conoscitive, piuttosto che a quello della partecipazione diretta alla vita dell’immagine. Invece Bachelard parla della novità e dunque del primitivismo dell’immagine in tutt’altro senso, accentuando la relazione con il fruitore delle immagini piuttosto che il riferimento al contesto letterario. Secondo Bachelard, l’opera poetica non vive in quanto riferita al contesto della letteratura, ma vive nell’incontro con il lettore. Di qui consegue non tanto la negazione del passato dell’immagine, quanto l’affermazione della sua irrilevanza in rapporto alla presenza dell’immagine. Ciò che caratterizza l’immagine non è tanto il suo avere un passato che mi può essere più o meno noto, ma il suo essere immediatamente viva nella sua diretta presenza al lettore.

Il poeta esibisce l’immagine stessa, qui e ora: egli «non mi fornisce il passato della sua immagine». Di questo passato io potrei non sapere nulla[43].

E inutile dire che una simile posizione, portata all’estremo, opera una netta e discutibile discriminazione tra l’afferramento dell’opera poetica e il problema della sua valutazione, che richiederebbe appunto, indubbiamente, il ricorso a «moduli letterari». Cosicché si affaccia il rischio che il lettore ingenuo sia realmente troppo ingenuo e finisca con l’entusiasmarsi della novità delle immagini quando non ne sarebbe affatto il caso. Ma può essere che Bachelard consideri tutto ciò come un rischio da correre di fronte al rischio opposto di rimetterci la vita delle immagini, all’interno di uno stile di lettura più sapiente, ma anche troppo obbligatorio.

Per altri aspetti, il tema dell’assenza di antecedenti dell’immagine chiama invece in causa il vecchio problema delle «relazioni tra le facoltà». In particolare, la relazione dell’immaginazione con la percezione attraverso il ricordo.

Il modo empiristico di impostare questo rapporto - secondo il quale i contenuti dell’immaginazione possono essere sempre ricondotti a contenuti memorativi e questi a dati della percezione o, più in generale, ad una realtà di fatto che è stata vissuta nel nostro passato - viene senz’altro respinto da Bachelard che, del resto, già in sede epistemologica organizza la propria concezione in funzione antiempiristica.

Val tuttavia la pena di considerare questo problema un poco più da vicino perché esso ci consente di accennare ad un altro aspetto notevole dell’impostazione bachelardiana.

In essa la nozione di immagine ovunque prevalente è quella che chiama in causa l’immaginazione come attività sintetica,mentre l’immaginario nel senso di un puro contenuto immaginativamente inteso non appare nemmeno come problema. Più precisamente: si teme un impiego psicologizzante dello stesso termine di immagine che, a titolo di contenuto mentale in genere, non avrebbe nessuna applicazione specifica ai prodotti dell’immaginazione, ma sarebbe egualmente riferibile alla memoria e perfino alla percezione.

In questo senso si parla delle confusioni di cui è gravida la parola immagine secondo un approccio psicologicamente orientato: «... in generale, la parola immagine è gravida di confusioni nei lavori degli psicologi: si vedono immagini, si riproducono immagini, si conservano immagini nella memoria. L’immagine è tutto tranne che un prodotto dell’immaginazione»[44].

Il rischio di un’accezione di immagine come contenuto mentale e la preoccupazione di accentuare il momento della produttività dell’immagine inducono Bachelard ad un vero e proprio salto della tematica del fantastico-immaginario. L’immagine che è un prodotto «diretto» dell’immaginazione è appunto essenzialmente, per Bachelard, l’immagine immaginosa.

In questo contesto cade il problema della restituzione della distanza tra immaginazione e ricordo, il nostro interesse a «bloccare il processo che assimila le immagini ai ricordi»[45]. In ciò andrà vista essenzialmente una posizione parallela e corrispondente sul piano della concezione dell’immagine a ciò che si era già detto a proposito del problema della risonanza e della distinzione tra questa e il retentissement. L’immagine può avere radici nel ricordo, nella nostra esperienza vissuta, ma essa supera questa dimensione proponendosi nel suo emergere come irriducibile a essa. Semmai è l’avvenire che viene messo in questione dall’immagine, proprio in quanto la parola poetica si presenta come parola nuova, che irrompe nelle consuetudini del linguaggio mostrandone le immense e sconosciute possibilità. La parola poetica è una parola che «si sforza di avere un avvenire»[46]. L’immagine poetica «nella sua novità apre un avvenire al linguaggio»[47].

Tuttavia il problema dei rapporti tra ricordo e immaginazione si presenta secondo una trattazione più elaborata. Nonostante l’esplicito chiarimento relativo alla distanza dell’immagine dai contenuti memorativi, si presentano spesso in Bachelard formulazioni che si richiamano direttamente ad una connessione: si parla, per esempio, di solidarietà della memoria e dell’immaginazione[48], di una loro funzionale mescolanza[49]. Ciò non significa certamente che la distanza, nel senso in cui la abbiamo affermata in precedenza, sia messa in discussione. Non si tratta di questo. Il ricordo viene ancora in questione per una ragione che riguarda la stessa vitalità delle immagini, la loro capacità di toccarci nel profondo. L’immagine non può apparirci realmente viva se nello stesso tempo ci appare lontana ed estranea.

Ciò che occorre cogliere qui, secondo lo spirito della riflessione bachelardiana, è il modo in cui il tema del ricordo, che caratterizza in primo luogo la risonanza, si innesti anche in maniera determinante nel retentissement delle immagini. Ciò che muta è naturalmente il tipo di rapporto tra memoria e immaginazione: non si tratta più di subordinare la seconda alla prima stabilendo un rapporto di dipendenza, ma di cogliere appunto una fusione funzionale, in cui lo sfondo della memoria potenzia e arricchisce l’immaginazione e nello stesso tempo si tinge esso stesso di una tonalità immaginaria. Il passato conferisce profondità all’immaginazione; e viene risucchiato nel campo dell’immaginario. I valori immaginativi si possono rafforzare attraverso il ricordo; e d’altro lato ai nostri ricordi si sommano valori di sogno [50]. Nello stesso processo rievocativo vi è qualcosa che appartiene già all’immaginazione: nel ricordo «noi non siamo mai veri storici, siamo sempre un po’ poeti, e può darsi che la nostra emozione non faccia che tradurre poesia perduta» [51].

La funzionalità della connessione sta proprio in questo scambio: sulle immagini grava un senso di passato, esse evocano in qualche modo ricordi, ma in questa evocazione i ricordi vissuti diventano «ricordi dell’immaginazione» [52]e tendono così a sfumarsi nella loro determinatezza, attraverso la quale essi sono riferiti ad un destino personale individuale.

Attenendoci all’esemplificazione di Bachelard: le immagini della casa possono ricondurre alla mia infanzia, in qualche modo la evocano - ma ciò che propriamente evocano è il sogno stesso dell’infanzia, che non è più soltanto la mia: è l’infanzia stessa, l’infanzia Immobile, come egli dice [53].

Questo sfumarsi della determinatezza del ricordo è anche uno sfumarsi della nozione stessa del passato. Il passato diventa indefinito [54]. assume una caratteristica di intemporalità: è un passato che si trova al di là del passato, così come la memoria di questo passato si trova al di là della memoria. In questo senso, Bachelard impiega talvolta il termine immemoriale - un termine che vorrebbe ad un tempo affermare e negare la connessione tra memoria e immaginazione, riunendo il riferimento al passato e il suo sfumare nell’intemporalità, l’appartenenza dell’immagine al campo del ricordo e al campo del sogno.

«In quella remota regione, memoria e immaginazione non si lasciano dissociare, l’una e l’altra lavorano al loro reciproco approfondimento, l’una e l’altra compongono, nell’ordine dei valori, una comunanza del ricordo e dell’immaginazione» [55]. E ancora: «I sogni discendono talvolta così profondamente in un passato indefinito, in un passato liberato dalle date, che i ricordi precisi della casa natale sembrano distaccarsi da noi... arriviamo a dubitare di avere vissuto dove abbiamo vissuto: il nostro passato è in un altro tempo e una irrealtà giunge a impregnare i luoghi e i tempi» [56].

«Una irrealtà si infiltra nella realtà dei ricordi che stanno alla frontiera della nostra storia personale e di una preistoria indefinita...» [57].

Le immagini di cui io parlo, avverte infine Bachelard, non sono «semplici metafore» [58]. Ed a ciò che egli chiama «intellettualismo della metafora» contrappone l’immaginazione pura, le immagini nella loro purezza. Naturalmente la distinzione tra immagine e metafora è significativa unicamente all’interno della sua impostazione filosofica e il richiamare l’attenzione su di essa è utile soltanto per ribadirne la direzione.

All’inizio del capitolo terzo della Poetica dello spazio in cui vengono dedicate alcune pagine a illustrare questa distinzione, Bachelard si serve esemplificativamente della famosa metafora bergsoniana del cassetto.

I cassetti vengono spesso richiamati da Bergson all’interno di una polemica contro le filosofie che egli considera intellettualistiche, dunque contro ogni tendenza alle concettualizzazioni rigide e alle classificazioni schematiche. Il cassetto diventa l’immagine di una ragione astratta che di fronte a qualunque nuovo oggetto si chiede unicamente entro quale cassetto, tra i tanti a disposizione, esso debba essere opportunamente sistemato.

A parte la portata di questa polemica che in ogni caso Bachelard giudica troppo rudimentale, egli osserva che proprio facendo riferimento ai cassetti di Bergson si può illustrare la differenza tra ciò che è una «semplice metafora» e ciò che è invece un’immagine autentica. Naturalmente i cassetti di Bergson sono, secondo la proposta terminologica di Bachelard, appunto soltanto «semplici metafore». Questo termine viene infatti destinato da Bachelard a indicare quelle figure immaginative che in realtà sono impiegate non già nella loro pura e semplice portata immaginativa, ma in funzione di uno scopo che sta oltre il piano dell’immaginazione. Così fin dall’inizio si fa notare la funzione polemica dei cassetti di Bergson: la parola «cassetto» in Bergson, «comanda e giudica» [59]e questo è appunto ciò che un’immagine autentica non fa mai. Questa funzione polemica dipende appunto dallo scopo, che è essenzialmente uno scopo intellettuale. La metafora del cassetto intende osteggiare un atteggiamento filosofico a partire da un altro atteggiamento filosofico, che viene implicitamente rivendicato.

In questo senso potremmo dire che quando si presenta una metafora «l’immaginazione è fuori causa» [60]. L’immaginazione è fuori causa perché la metafora non si offre alla partecipazione: in rapporto ad essa non avrebbe senso parlare di un atteggiamento fenomenologico necessario per afferrare l’immagine. La metafora «non può sostenere uno studio fenomenologico», non ha un valore «fenomenologico» [61]- dice Bachelard impiegando espressioni che certamente stenteremmo a capire se non tenessimo chiaramente presente ciò che abbiamo osservato in precedenza intorno alla nozione di fenomenologia qui in questione. Si tratta invece di un’immagine fabbricata [62], che tende ben presto a trasformarsi in uno stereotipo e che infine, proprio mentre pretende di tradurre immaginativamente un pensiero, finisce con il risparmiarci di pensare. Il richiamo alla fabbricazione della metafora rimanda del resto alla differenza che in ultima analisi è determinante per Bachelard: la metafora non viene prodotta all’interno di una coscienza immaginativa, non scaturisce cioè da un autentico atto poetico, ma viene appunto appositamente costruita per significare qualcosa che si trova al di fuori del campo dell’immaginazione.

7. Le immagini per le immagini - Bachelard e il surrealismo

La filosofia dell’immaginazione di Bachelard deve essere rintracciata anche nei dettagli dello stile. Prestiamo allora attenzione alle immagini per le immagini che incontriamo nel testo: e forse rimarremo colpiti dal fatto che esse sono per lo più orientate in una direzione ben determinata. Nelle immagini per le immagini di Bachelard il riferimento dominante è quello della luce. Un aggettivo, un verbo, una espressione che rimanda in qualche modo alla sfera del luminoso, del lucente, dello scintillante sembra imporsi spontaneamente alla penna di Bachelard quando parla delle immagini. Già nelle prime pagine della Poetica dello spazio,l’immagine si presenta come una fiammata d’essere [63]. E l’essere stesso che, nell’immagine, fiammeggia. L’essere significa qui, certamente, il nostro essere - il nostro essere in quanto si esprime nel linguaggio, nella parola. E ancora: l’immagine è folgorante [64] è una luce splendente; è un minuscolo fenomeno della coscienza luccicante.

Questo riferimento immaginativo alla luce, in realtà, ben si adatta alle caratteristiche che Bachelard attribuisce alle immagini. Per esempio, quando parla della luce originaria delle immagini [65], l’originalità rimanda indubbiamente all’autonomia dell’immagine, al fatto che l’immagine trae il proprio senso unicamente da se stessa. Nel fiammeggiare dell’immagine è presente sia l’idea della vitalità interna delle immagini, sia quella del loro emergere improvviso dal linguaggio stesso: l’immagine come «parola nuova», come un guizzo del linguaggio che non ha una storia, ma si brucia interamente nel presente in cui essa appare.

Al senso immaginativo della fiamma è indubbiamente inerente la dimensione temporale del presente, anzi ancor più: il senso di ciò che è istantaneo. E l’apprensione dell’immagine si situa interamente in questa istantaneità. Per cogliere l’immagine «è importante essere presenti, presenti all’immagine nell’istante dell’immagine» [66]. La «fenomenologia» non può che accordare un privilegio alla dimensione dell’attualità [67].

L’apprensione dell’immagine può essere descritta proprio come uno stato nel quale noi siamo illuminati dall’immagine. In questo senso noi «comprendiamo» l’immagine: una comprensione che non avrà alcun carattere intellettuale. L’immagine viene afferrata nella sua evidenza, ma ciò non significa che in questa evidenza essa ci appaia nella trasparenza dei suoi elementi costitutivi, come quando comprendiamo una nozione o uno sviluppo argomentativo. La «comprensione» - se vogliamo usare questo termine - è nello stesso tempo stupore di fronte alla immagine.

L’immagine è una «meraviglia fenomenologica» - dice Bachelard [68] - giocando sulle sfumature di senso della parola. «È una meraviglia»: e qualcosa di luccicante forse ci brilla già di fronte agli occhi.

Nello stesso tempo le immagini che gravitano intorno alla luce sono anche in grado di rappresentare, insieme al tema dell’istantaneità e dell’attualità, anche quello della solitudine. L’immaginazione è un balenio, un lampeggiamento. Infine, le immagini che convergono nella regione della luce si connettono certamente al tema della sublimazione pura di cui parla Bachelard nell’introduzione alla Poetica dello spazio [69].

Sublimazione pura: un’espressione, presa in se stessa, alquanto misteriosa. Ma il suo impiego si chiarisce ben presto tenendo conto del riferimento alla psicoanalisi freudiana. In Freud il termine di sublimazione viene impiegato per indicare una trasformazione degli impulsi sessuali, la cui energia viene incanalata e orientata verso una mèta che non ha carattere sessuale. Secondo Freud sono le attività intellettuali nel senso ampio del termine, e le attività artistiche in particolare, che possono essere interpretate come attività che derivano da un processo di sublimazione: determinate inclinazioni del carattere che debbono essere ricondotte a inclinazioni sessuali vengono deviate dalla loro mèta sessuale, e la forza degli impulsi che sta alla loro base viene impiegata per scopi più «elevati». Per questo si parla di sublimazione: per indicare la distanza dalla sfera degli istinti e degli impulsi, ma anche nello stesso tempo per mantenere una connessione e per tentare di ricomporre in una unità il piano delle attività spirituali con quello dell’istinto.

Bachelard trae il termine di qui, ma lo ritorce, mutandone il senso, contro la stessa psicoanalisi. Questo mutamento e questa ritorsione sono contenuti nell’aggettivazione sublimazione pura. L’immagine sta oltre l’impulso e il desiderio, e in questo senso vi è qui una sublimazione. Una sublimazione che peraltro «non sublima nulla, alleggerita dal carico delle passioni, liberata dall’impulso dei desideri» [70].

Si ripresentano così vari aspetti della tematica che abbiamo già discusso in precedenza. Ma il vero motivo per cui ci interessa in modo particolare richiamare l’attenzione sulle immagini per le immagini di Bachelard non sta solo nel fatto che in esse convergono i fili conduttori della sua concezione.

Proprio il carattere delle immagini bachelardiane ci consente infatti di guardare un poco oltre la filosofia del nostro autore per mostrare in modo semplice e diretto una connessione culturale particolarmente significativa che va almeno segnalata, benché su di essa non ci sia possibile indugiare.

Negli stessi anni in cui Bachelard inizia a elaborare la propria tematica relativa all’immaginario, va affermandosi, in particolare in Francia, nell’ambito dell’avanguardia artistica, il movimento surrealista.

Le immagini per le immagini di Bachelard ci offrono lo spunto per gettare uno sguardo su questo rapporto. Anche in André Breton le immagini connesse alla luce hanno una parte importante. Al punto che potremmo assumere come particolarmente significativo il frammento di un sogno che Breton racconta di aver sognato e nel quale egli si rappresenta nell’atto di scrivere poesie: «Ma pur abbandonandomi alla più grande spontaneità possibile, riesco a scrivere sul primo foglio solo queste parole: la luce... Lo strappo subito e sul secondo foglio: la luce.., e sul terzo foglio: la luce...» [71].

La luce e la poesia; la luce e l’immaginazione così come essa si esprime nelle immagini della poesia. Questa connessione appare formulata in modo del tutto esplicito nel Primo manifesto del surrealismo scritto da Breton nel 1924.

Lo spirito, scrive Breton, che si è convinto a poco a poco della realtà suprema delle immagini, «va, portato da quelle immagini che lo rapiscono, che gli lasciano appena il tempo di soffiare sul fuoco delle sue dita» [72].

Questo passo si conclude così: «È la più bella delle notti, la notte dei lampi».

Le immagini che rimandano alla luce, alla fiamma, alla scintilla, ai lampi che illuminano la notte tendono qui a diventare immagini per le immagini. L’immagine si forma attraverso l’accostamento associativo di cose distinte e separate, e n questo accostamento sprizza «una luce particolare, luce dell’immagine, a cui ci mostriamo infinitamente sensibili» [73].

E naturalmente la notte dei lampi di Breton, che è la più bella delle notti, è un’immagine per l’immaginazione stessa. |148|

Essa ci riporta alla tematica bachelardiana - fra l’una e l’altra posizione ci sono indubbiamente almeno alcune affinità, anche se ad un esame più approfondito potrebbero emergere e apparire forse più importanti le differenze. Vi è qui il privilegio accordato all’immaginosità in genere, e in particolare alla poesia ricca di immagini, e vi è anche una tendenza a far valere l’immagine in se stessa, come qualcosa che vive unicamente in forza dell’accostamento associativo, per lo scintillio che si sprigiona da esso. Di fatto, nel Primo Manifesto, Breton esibisce immagini isolate alla nostra ammirazione:

- nel ruscello c’è una canzone che scorre

- il giorno si è dispiegato come una tovaglia bianca

- una chiesa si ergeva squillante come una campana

- durante una pausa della partita, come i giocatori si riunivano intorno ad una tazza di punch bollente, chiesi all’albero se avesse sempre il suo nastrino rosso [74].

In Bachelard, in stretta coerenza con il tema dell’isolamento delle immagini, si afferma anche una tendenza a contrapporre la poesia al romanzo. Questa tendenza la abbiamo già marginalmente incontrata rammentando un passo del saggio su Chagall. Ma se consideriamo l’album «spezzando il filo della storia», e mantenendo tuttavia la presa sui suoi disegni, come potremo apprezzare il romanzo, in cui quel filo sembra essere, se non l’essenziale, almeno una parte importante di ciò che è essenziale?

In realtà, se già tendiamo a conferire il massimo valore all’immagine sottratta persino all’unità della poesia, quasi che nell’organizzazione delle immagini in una poesia si annunciasse già una funzione del pensiero in linea di principio estranea all’immaginazione considerata nella sua purezza, saremo ben poco disposti a entusiasmarci dell’immaginazione letteraria in quanto si esplica nella forma del racconto. Qui abbiamo appunto il filo della storia, che non può essere spezzato a piacere, e i fatti che il romanzo descrive a uno a uno e che quel filo ricuce l’uno all’altro. In effetti le idee di Bachelard si orientano in questa direzione, benché in modo molto sfumato. Perciò occorre dare rilievo a quei passi in cui affiora una sorta di ostilità verso le descrizioni. Ciò che è opera dell’immaginazione non può essere descritto: il rivivere dell’atteggiamento fenomenologico di Bachelard si contrappone al descrivere. Le nostre dimore, le case nelle quali abbiamo abitato in un tempo lontano e che sono divenute, nel ricordo stesso, dimore dell’immaginazione, non possono essere descritte, perché la descrizione non può che ridursi ad un puro elenco di fatti, di circostanze, di luoghi, sopprimendo proprio la componente immaginativa che circonda quei fatti, quelle circostanze, quei luoghi. Essi debbono conservare la loro «penombra» - una penombra che possiamo penetrare senza dissolvere attraverso «la letteratura che scruta nel profondo, vale a dire la poesia», e certamente non attraverso «la letteratura faconda che ha bisogno del romanzo altrui per analizzare l’intimità» [75].

Le descrizioni sono sempre descrizioni di fatti, cosicché i valori immaginativi si sottraggono a esse: e di qui comincia con l’affiorare una singolare condanna della stessa forma di romanzo. La poesia scruta nel profondo. E questo è certamente un elogio. Mentre il qualificare il romanzo come letteratura faconda è, altrettanto certamente, un elogio a rovescio. Diciamo facondo per non dire chiacchierone. L’ironia intende mettere in evidenza la superflua prolissità del romanzo di fronte alla concisione e alla pregnanza espressiva della poesia che ci porta direttamente nel cuore dell’esperienza immaginativa, che non ha bisogno per giungere alla nostra intimità di fare, come il romanzo, un lungo giro attraverso le vicende di un altro, pazientemente e meticolosamente descritte.

Ciò che in Bachelard appare come una coerente linea di tendenza che affiora a tratti con sufficiente chiarezza, si presenta nel Primo manifesto del surrealismo come un gesto violento, provocatorio, gustosamente paradossale.

Breton rammenta qui che il poeta Paul Valéry «proponeva di recente di riunire in un’antologia il più gran numero possibile di inizi di romanzo; e si aspettava grandi cose in fatto di imbecillità» [76]. E rammenta ancora che lo stesso Valéry assicurava che «quanto a lui si sarebbe sempre rifiutato di scrivere: la marchesa uscì alle cinque» [77].

In questo modo si avvia una polemica distruttiva che dovrebbe semplicemente e paradossalmente espungere la forma di romanzo dalla letteratura.

Si noti peraltro il modo di procedere che qui viene proposto: prendiamo le frasi iniziali di un romanzo e le poniamo l’una dopo l’altra, così come in precedenza abbiamo esibito i versi di poesie disparate. Si propone dunque una procedura di isolamento, proprio quella procedura che, nel caso della poesia, darebbe il massimo risalto alla luce dell’immagine. Ma questa procedura, ora noi la applichiamo al romanzo per mettere in evidenza il decadimento nella descrizione più piatta e banale di un dato di fatto: la marchesa uscì alle cinque. Una frase che non regge il confronto con il più mediocre dei versi.

«E le descrizioni! - esclama Breton - Nulla è paragonabile al nulla delle descrizioni: è il puro e semplice sovrapporsi delle illustrazioni di un catalogo e l’autore prende sempre più confidenza, approfitta dell’occasione per rifilarci le sue cartoline, cerca di strappare il mio consenso con una serie di luoghi comuni» [78]. Segue una citazione dimostrativa tratta da Dostoevskij e si conclude: «Quella descrizione permettetemi di saltarla, come tante altre» [79].

8. Tematica della rêverie - Rêverie e soggettività - «La rêverie illustra il riposo dell’essere»

Ci si sarà probabilmente resi conto, nel corso della nostra esposizione, che leggendo il testo di Bachelard cercando di farne emergere lo sfondo teorico, si presentano numerosi temi - certamente più numerosi di quanto potrebbe apparire ad un primo sguardo. Ma anche, nello stesso tempo, che essi si presentano tanto strettamente intrecciati tra loro che l’uno appare come una variazione dell’altro, come se si trattasse di considerare da diverse angolature un unico nucleo problematico. |162| Ciò può essere detto anche in rapporto alla nozione dirêverie. Attraverso di essa non aggiungeremo nulla di realmente nuovo rispetto ai nostri sviluppi precedenti. Questa nozione contiene l’intero quadro che abbiamo delineato: e dà ad esso un altro tocco.

Che cosa intende Bachelard quando parla di rêverie? Se incontrassimo questo termine in un contesto non troppo impegnativo, potremmo tradurlo con fantasticheria, ma in riferimento alla problematica che stiamo illustrando questa parola sarebbe inadatta, se non altro per quella sfumatura un po’ peggiorativa che essa riceve in molti impieghi correnti.

In realtà mentre, come vedremo subito, tra sogno e rêverie dobbiamo porre una netta differenza, è proprio al sogno che converrà richiamarsi per illustrare il senso della rêverie. Anche in italiano infatti la parola «sogno» non viene impiegata solo per indicare quegli strani eventi che ci accadono mentre dormiamo, ma anche le nostre fantasticherie diurne. E ancor più converrà tenere presenti espressioni come «atmosfera sognante» o «paesaggio sognante»: qui ci troviamo molto prossimi alla sfumatura di senso della parola rêverie. La rêverie è una fantasticheria sognante - forse potremmo esprimerci così.

Il senso di questa nozione, e il rilievo che ci accingiamo a dare ad essa, si comprende invece se la contrapponiamo al sogno in senso usuale, al sogno che accade nella notte.

La rêverie si esercita in ogni caso nella veglia, e non durante il sonno - e proprio di qui essa trae quelle caratteristiche che la rendono tanto importante agli occhi di Bachelard. Egli osserva che, in quanto la dimensione della réverie è la dimensione autentica dell’esercizio concreto dell’immaginazione, noi dobbiamo dedicare ad essa un’attenzione molto maggiore di quanto forse lo psicologo sia disposto a concederle. Alla base di una possibile sottovalutazione della rêverie sta, secondo Bachelard, il fraintendimento della sua natura.

Se consideriamo la rêverie come un peculiare stato di coscienza, tendiamo ad attribuire subito ad essa un carattere crepuscolare, che interpretiamo come un allentamento della coscienza che ci induce in una sorta di stato intermedio tra la piena consapevolezza, attivamente diretta all’ambiente circostante, e la totale inconsapevolezza dello stato di sonno. Potremmo allora ritenere che il caso intermedio sia implicitamente considerato nella considerazione dei casi estremi, e sarebbero questi dunque i casi veramente importanti e degni della massima attenzione. La rêverie non è altro che «un po’ di materia notturna dimenticata nella limpidezza del giorno» e la psicologia può applicarsi ai due poli, «quello del pensiero chiaro e quello del sogno notturno, sicura di avere in questo modo sotto controllo l’intero ambito della psiche umana» [80].

Secondo Bachelard, una simile risoluzione della rêverie come stato intermedio tra veglia e sogno non corrisponde alla sua natura «fenomenologica» - e qui il termine di fenomenologia rimanda proprio alla superficie descrittiva del fenomeno. Parlando di stato crepuscolare, di allentamento della coscienza si pensa subito ad un suo ottundimento, ad un suo offuscamento. Ma le cose stanno veramente così?

Leggiamo, con Bachelard, questo passo tratto da Victor Hugo e citato nella introduzione alla Poetica della rêverie «Tutto questo non era né una città, né una chiesa, né un fiume, né colore, né luce, né ombra; era rêverie. - Sono rimasto a lungo immobile, lasciandomi dolcemente penetrare da questo insieme inesprimibile, dalla serenità del cielo, dalla malinconia dell’ora. Non so che cosa capitava nel mio spirito e non potrei dirlo, era uno di quegli istanti ineffabili in cui si sente in se stessi qualcosa che si sveglia» [81].

Quest’ultima frase è soprattutto significativa in rapporto al problema della rêverie in Bachelard. Il paesaggio cittadino si allontana, si offusca, diventa indeterminato; le cose perdono la definitezza dei loro contorni. Ma questo allentamento della coscienza, anziché preludere al sonno che si avvicina, alla perdita della coscienza, prelude a quell’istante nel quale sentiamo in noi stessi qualcosa che si ridesta. In quell’istante, è l’immaginazione stessa che entra in opera, attivando quella funzione dell’io che è puntata verso l’irreale.

Il diventare opaco del mondo appare così, più che un allentamento della coscienza, come una condizione per il ridestarsì della coscienza attivamente immaginante. Il crepuscolo della rêverie è il crepuscolo della realtà stessa, non è un decadere dell’io nella passività del sonno e del sogno, ma un emergere dell’io «irrealizzante» nell’allontanamento della dimensione della realtà.

Ecco dunque che nella condizione della rêverie si annuncia la tematica stessa della soggettività, e di una soggettività emergente nella sua dimensione di libertà. E qui diventa particolarmente significativa, nel contesto del discorso di Bachelard, la differenza tra rêverie e sogno. Se ci disponiamo dal punto di vista della rêverie considerata nella sua natura autentica, essa si presenta non già come qualcosa di intermedio tra il sogno e la veglia e che dovrebbe dunque avere tratti in comune con l’uno e con l’altra: sono proprio quei due estremi che invece hanno forse qualcosa in comune. Nella veglia abbiamo dì fronte a noi la realtà stessa, che ci appare anzitutto come qualcosa che si impone e che si oppone alla soggettività. Anche se naturalmente noi possiamo intervenire liberamente sulla realtà: tuttavia essa si presenta in primo luogo nel suo essere come è, come un dato di fatto di cui dobbiamo prendere atto. Ma anche il sogno, per quanto debba essere annoverato tra i prodotti dell’immaginazione, considerato alla sua superficie, si presenta con un analogo carattere «necessitante». Noi non siamo padroni dei nostri sogni, non possiamo intervenire sugli eventi che accadono in essi. Proprio per questo gli eventi dei nostri sogni ci possono apparire profondamente estranei.

A questa estraneità rispetto alla soggettività che sogna e che racconta i propri sogni Bachelard tende a conferire un particolare significato. Non solo non riconosciamo senz’altro, alla superficie del sogno, l’operare dell’immaginazione, ma nemmeno possiamo riconoscerci nei nostri sogni: «Spesso - osserva Bachelard - l’estraneità di un sogno può essere tale che un altro soggetto sembra sognare in noi» [82]. Naturalmente noi sappiamo che questa estraneità può avere una sua precisa spiegazione psicologica e rimanda alla tematica dell’inconscio e della dialettica tra conscio e inconscio. E Bachelard non lo ignora. Ma questa circostanza non toglie l’estraneità del sogno rispetto all’io e le spiegazioni psicoanalitiche possono essere rilevate in questo contesto nella stessa misura in cui sanciscono una sorta di frattura tra due livelli dell’io confermando, in un certo senso, che nel sogno l’io soggiace interamente all’inconscio e l’immaginazione come funzione dell’irreale ne segue le leggi.

L’inconscio rappresenta così una sorta di nozione parallela alla nozione di realtà: né nell’uno né nell’altro caso l’io si può senz’altro riconoscere. La realtà si presenta - e abbiamo già avuto occasione di citare questa espressione di cui tuttavia solo ora possiamo valutare la portata - come «un non-io ostile, un non-io estraneo» [83]. E questa stessa ostilità ed estraneità potrebbe essere attribuita all’inconscio.

L’idea di una profonda scissione della soggettività si presenta in Bachelard nella considerazione del rapporto attivo della soggettività con la realtà; e nella elaborazione «cieca» che l’immaginazione compie, alle nostre spalle, nei nostri sogni.

Alla luce di tutto ciò assume un peso, in rapporto agli stessi contenuti della filosofia bachelardiana dell’immaginazione, la tematica della rêverie intesa come una vera e propria riconciliazione della soggettività stessa. L’io che sprofonda nella rêverie è l’io che ritorna a se stesso, quel «qualcosa che si ridesta» - nel passo di Hugo - è l’io stesso che, nell’immaginazione effettua il riconoscimento di sé, che si sente finalmente a casa.

È proprio nella rêverie, e non nel sogno, che questa funzione fondamentale di riconciliazione, nella quale dobbiamo cogliere l’importanza autentica dell’immaginazione come funzione dell’irreale, può pienamente esplicarsi: «Se un sogno notturno può disgregare un’anima, diffondere nel giorno stesso le follie sperimentate nella notte, la rêverie aiuta veramente l’anima a fruire di una facile unità» [84].

Attraverso la nozione di rêverie l’immaginazione si ricongiunge con lo stesso concetto di soggettività. Nello stesso tempo comincia a diventare esplicita una nozione di soggettività tutta puntata in direzione dell’interiorità. La soggettività di cui si parla è la soggettività che si riconosce anzitutto nell’intimità delle proprie fantasticherie sognanti.

A partire da questo punto di vista possiamo ritrovare molti dei motivi che abbiamo già incontrato in precedenza come caratteristici della filosofia dell’immaginazione di Bachelard. Ma ritrovarli da questo punto di vista significa anche proiettarli su un piano che va oltre quello dei lineamenti di una filosofia dell’immaginazione, richiamando invece quell’aspirazione alla realizzazione di una «metafisica concreta» a cui abbiamo accennato all’inizio dei nostri commenti: l’aspirazione cioè a delineare, attraverso la tematica dell’immaginazione, il profilo di una concezione dell’ esistenza stessa.

Questa concezione assume un’impronta pronunciatamente interioristica. Tutti i temi precedenti debbono essere riconsiderati secondo questa prospettiva.

Se, per esempio, in precedenza abbiamo attirato l’attenzione sul tema della solitudine, ora dobbiamo mettere in rilievo che questo tema è strettamente dipendente da un determinato modo di concepire il nesso tra immaginazione e soggettività.

Del resto l’immaginazione in Bachelard non è solo solitaria: e anche un’immaginazione sedentaria. Ciò suona certamente un poco ironico: ma rimanda comunque ad un problema molto serio per Bachelard. Egli dice: «La rêverie illustra il riposo dell’essere» [85]. Possiamo abbandonarci alle nostre fantasticherie sognanti solo nella distensione del nostro essere. E intanto si ripresenta in contesti come questi la terminologia «ontologica», utilizzata naturalmente in modo tipicamente bachelardiano: la metafisica dell’immaginazione tende a diventare una metafisica del riposo.

9. Poetica dello spazio: messa da parte degli spazi ostili - Lo spazio del riposo e dell’intimità protetta - Una casa per sognare

Tutto ciò trova piena conferma e illustrazione nei contenuti specifici della Poetica dello spazio. Questo lavoro si propone di mostrare i modi di valorizzazione immaginativa dello spazio. In esso è dunque presente una delle idee guida fondamentali che attraversa l’intera produzione sul versante dell’immaginario: l’idea di una considerazione che si rivolge non tanto alla forma, alla struttura delle operazioni immaginative, quanto piuttosto ai contenuti che essa mette in gioco. All’interno di una simile prospettiva si affaccia il problema di organizzare la molteplicità delle immagini intorno ad alcuni centri gravitazionali. Nelle opere precedenti alla Poetica dello spazio questi centri sono rappresentati dai quattro elementi fondamentali delle antiche cosmogonie: la terra, l’acqua, l’aria, il fuoco. Sarebbe certamente interessante cercare di esaminare più da vicino le ragioni dì questo orientamento, che peraltro mantiene in Bachelard il carattere di una suggestiva assunzione, più che di una vera e propria posizione filosoficamente teorizzata ed elaborata. Anche in questo caso si potrebbe mostrare che ha un suo peso la contrapposizione fondamentale che fa parte dell’impianto iniziale del problema: benché anche nella scienza si elaborino teorie onnicomprensive, tuttavia essa è essenzialmente caratterizzata non tanto dal riferimento all’universo considerato come una totalità, quanto piuttosto dalla delimitazione del campo di indagine a regioni relativamente circoscritte di oggetti.

È invece l’immaginazione che oltrepassa di continuo questa determinatezza e si orienta verso la problematica del tutto. Vi è un respiro cosmico dell’immaginazione - anche per questo aspetto essa si differenzia dall’ambito della scienza. Questa è certamente una delle ragioni che orientano Bachelard ad una considerazione della metafisica arcaica dei quattro elementi dal punto di vista di una filosofia dell’immaginazione «materiale»: così come anche uno dei motivi del presentarsi di questa filosofia come una metafisica.

Questo orientamento viene abbandonato in un’opera come la Poetica dello spazio e il motivo di questa modificazione viene illustrato così: «Nelle nostre ricerche precedenti sull’immaginazione avevamo in effetti preferito collocarci con la maggiore obbiettività possibile davanti alle immagini dei quattro elementi della materia, dei quattro principi delle cosmogonie intuitive. Fedeli alle nostre abitudini di filosofi delle scienze, avevamo tentato di considerare le immagini al di fuori di ogni ricerca di interpretazione personale» [86]. Una motivazione, in realtà, ingannevole. La modificazione non consiste tanto nel fatto che in precedenza si era adottato un punto di vista scientifico. Accade invece un significativo spostamento nella nozione di «metafisica» impiegata in rapporto alla filosofia dell’immaginazione: una sorta di passaggio da una nozione totalizzante dell’essere, nella quale la soggettività è solo indirettamente implicata, a un’altra nozione in cui la soggettività è l’essere stesso, l’essere che immagina. Il tema dell’autocritica è dunque uno stile in qualche modo oggettivistico che, dalla metafisica intesa come descrizione della sostanza del mondo trapassa in quella metafisica che è diventata una metafisica dell’immaginazione e che si propone di descrivere la sostanza delle immagini. La riconduzione delle immagini ai quattro elementi si dimostra insufficiente per la «fondazione di una metafisica dell’immaginazione» per il fatto che ora al centro del problema vi è invece la connessione tra immaginazione e soggettività.

Il venir meno della «teoria» dei quattro elementi non significa la caduta dell’idea della possibilità di un’organizzazione delle immagini - questa idea è ancora ben presente nella Poetica dello spazio. Tuttavia non appena il problema riceve i suoi primi sviluppi ci rendiamo subito conto che le direzioni di sviluppo delle valorizzazioni operate sono strettamente determinate dall’orizzonte filosofico entro cui si situa ormai lo stesso problema dell’immaginazione. Fin dall’inizio Bachelard ci avverte che «gli spazi di ostilità», «gli spazi dell’odio e della lotta», dunque gli spazi che rimandano a forme di conflitti e all’immaginazione dinamica «sono appena evocati nelle pagine che seguono». «Per ora ci poniamo davanti alle immagini che attirano» [87].

Così lo spazio di cui ci si occupa anzitutto è lo spazio della casa, e precisamente della casa come un centro intorno a cui gravitano immagini di intimità protetta [88]. E non è ormai più necessario far notare che questa limitazione, così come anche il prendere le distanze dalle immagini del conflitto, sia coerente con le idee che abbiamo precedentemente esposte. |188|

Questo riferimento intimistico assume spesso toni particolarmente accentuati. Si noti, del resto, che si parla qui non semplicemente di valori di protezione, ma di intimità protetta.

La casa in effetti ci protegge da molte cose - dal freddo, dal vento, dalla pioggia: ma ciò su cui cade l’accento è che, proteggendocì in molti modi, la casa protegge anzitutto la nostra intimità, diventando essa stessa un’immagine di intimità. Secondo un caratteristico movimento di pensiero Bachelard risucchia la dimensione immaginativa della casa nei termini della sua stessa filosofia. |190|

La casa protegge anzitutto il sognatore: essa «ci consente di sognare in pace» [89]. Come se fosse necessario arrivare a stabilire una connessione intrinseca tra la casa come valore immaginativo e la dimensione stessa della rêverie. Questo tema, che si annuncia nel primo capitolo, serpeggia dappertutto e si ripresenta infine nel capitolo conclusivo, dedicato alla «fenomenologia del rotondo». Il rotondo è una «centralizzazione di vita protetta da ogni parte» [90]. Così come si ripresentano i temi ad esso connessi. Per esempio, il tema del riposo: «E nel paesaggio arrotondato tutto sembra riposare» [91].

Ciò non significa certamente che la riflessione di Bachelard si sviluppi monotonamente secondo un’unica direzione e che il testo non sia ricco di spunti che hanno una portata autonoma rispetto all’impianto filosofico di base. Al contrario: a partire da un tema immaginativo, Bachelard opera di continuo, e con estrema mobilità, spostamenti, amplificazioni, variazioni tematiche. Come egli dice una volta per indicare il proprio metodo: si tratta di «sensibilizzare il documento moltiplicandone le variazioni» [92].

Tuttavia questa stessa sensibilizzazione del documento, la ripresa cioè di un’immagine come indicazione di un tema da variare liberamente, viene a sua volta operata secondo moduli che riconducono di continuo all’impostazione di base - e in particolare alla nozione della rêverie.

Del resto mostrando le implicazioni di questa nozione possiamo anche mostrare che in essa l’intera tematica di Bachelard raggiunge il suo coerente estremo e, in certo senso, in questo estremo si consuma.

La sensibilizzazione dell’immagine non si realizza in altro modo se non installandosi all’interno dello stesso atto poetico, nella condizione della rêverie. Ma allora dovremo affermare coerentemente che la dimensione della lettura si svolge essa stessa come un atto della rêverie. Il lettore deve coincidere con il poeta: deve farsi poeta. La sensibilizzazione del documento può avvenire certamente passando da un documento all’altro, dal verso ad altri versi che operano una amplificazione e uno spostamento introducendo temi tra loro concatenati. Questo modo di procedere deve poter contare sulla nostra capacità di istituire relazioni e connessioni, e non è altro che un modo indiretto, un modo obliquo di proseguire per conto nostro l’immaginazione poetica che in quel verso ha iniziato il suo corso. La lettura continua la scrittura, e il rivivere di cui si parla non è il vivere una seconda volta, da parte del lettore, un’esperienza vissuta da un altro, ma il coincidere con l’altro nella stessa attività produttiva di immagini.

«La rêverie poetica scritta, portata sino a dare la pagina letteraria, diventa per noi una rêverie comunicabile, una rêverie che ispira, cioè una ispirazione a misura del nostro talento di lettori» [93].

La dimensione della rêverie - che è la dimensione stessa della creazione poetica - è anche la dimensione entro cui può e deve realizzarsi una lettura autentica dei poeti: «La lettura dei poeti è essenzialmente rêverie» [94]

E ancora: «Quali consigli ci suggerisce l’atteggiamento fenomenologico? Esso ci richiede di istituire in noi un orgoglio di lettura capace di darci l’illusione di partecipare al lavoro stesso del creatore di libri... Insensibilmente arriviamo a illuderci che problemi e soluzioni ci appartengano. Eppure è tale sfumatura psicologica («Avrei dovuto scrivere io questo libro») a porci nella condizione di fenomenologi della lettura» [95].

Affermazioni coerenti con l’insieme, e tuttavia estremamente impegnative. Che cosa accade infatti considerando il problema della nozione di fenomenologia in Bachelard secondo questa angolatura? Accade che l’atteggiamento fenomenologico si identifichi con lo stesso fantasticare in atto. Per caratterizzare questa intrinsecità del metodo con il tema dell’immaginazione, Bachelard osserva una volta che l’immaginazione è un tema in certo senso privilegiato del metodo fenomenologico e che una fenomenologia dell’immaginazione potrebbe essere impiegata come una sorta di propedeutica alla fenomenologia in genere [96]. Ma si tratta di un’affermazione troppo debole: infatti, che senso dovremmo attribuire all’espressione di fenomenologia in genere, se tutto il discorso di Bachelard è orientato nel senso della esibizione di una coincidenza, di una risoluzione dell’atteggiamento fenomenologico con l’atto del fantasticare, della fenomenologia con la poesia? Per questa ragione assume particolare importanza per Bachelard una frase di Van den Berg che formula questa stessa coincidenza nella direzione inversa: «I poeti e i pittori sono fenomenologi nati» [97].

Ma sempre seguendo con filosofica coerenza un simile sviluppo di idee ci rendiamo infine conto che se una critica può essere rivolta ai nostri libri, essa potrebbe consistere in questo: nell’essere essi ancora troppo filosofici e troppo poco poetici. La nostra ambizione sarebbe quella di realizzare «una poetica della rêverie poetica» [98]: un’ambizione troppo grande dal momento che in essa si tratta di effettuare un rovesciamento che «ci faccia passare dall’espressione poetica ad una coscienza di creatore» [99]. L’innescare questo processo resta comunque lo scopo. L’aspirazione al libro poetico sorge così direttamente dai motivi filosofici entro i quali Bachelard elabora là tematica dell’immaginazione. Questa aspirazione è il punto estremo a cui giunge la sua filosofia dell’immaginazione e nel quale essa cessa ormai di essere una filosofia dell’immaginazione.

10. Elementi per una critica -Ovvietà ed erroneità dell’opposizione tra operazioni razionali e immaginative - L’intervento dell’immaginazione nelle pratiche della conoscenza - Durezza del reale e forza disintegrante dell’immaginazione - Colui che vide una ruota mettere i denti

È ormai tempo di raccogliere le nostre idee intorno alla posizione di Bachelard, cosa che significa certamente per noi ordinare gli elementi per una critica [100]. Infatti, nonostante tutti i nostri buoni propositi, è apparso chiaro dall’andamento della nostra esposizione che essa si è sviluppata in modo da sospingere sempre più la tematica bachelardiana verso quelli che sono, a nostro avviso, i suoi limiti critici, operando una sorta di amplificazione progressiva di indicazioni che all’inizio non ci sembravano probabilmente tanto cariche di conseguenze come poi ci sono di fatto a poco a poco apparse.

Il discorso va aperto sull’antitesi iniziale tra le operazioni razionali e le operazioni immaginative. Abbiamo infatti avuto modo di constatare nel corso della nostra esposizione che quella antitesi, da cui prende l’avvio l’intera problematica di Bachelard, non delimita soltanto un orizzonte di carattere generale, ma penetra sino alla determinazione degli ultimi dettagli.

A nostro avviso la tematica dell’immaginazione deve essere impostata in primo luogo entro il quadro di una «dottrina dell’esperienza» ed entro questo quadro lo stesso problema dell’antitesi, all’inizio, non si pone neppure. Se poi, assumendo un simile punto di vista, siamo indotti a prenderla in considerazione, eventualmente proprio per via del rilievo che le conferisce Bachelard, essa ci appare ad un primo sguardo come un luogo comune di tutta una tradizione filosofica, un luogo comune che ha alcune circostanze piuttosto ovvie dalla propria parte, ma che è ben lontano dal giustificare una contrapposizione tanto ricca di impegnative conseguenze.

L’immaginazione considerata all’interno di una dottrina dell’esperienza non è altro che una modalità di essa, e dunque una delle tante nostre «capacità». Come ogni nostra capacità essa è autonoma, ma anche strettamente intrecciata con ogni altra secondo una complessa molteplicità di rapporti. Cosicché non ha senso né attribuire ad essa unicamente il carattere di freno nelle operazioni conoscitive né riconoscerle uno spazio di movimento legittimo.

Al più possiamo riconoscere che entro questo o quell’ambito vi siano funzioni dominanti rispetto ad altre: e nelle pratiche del conoscere non sono certo dominanti le funzioni immaginative. Altrettanto indubbio è che l’immaginazione possa essere fonte di errore. Questa è la base ovvia del luogo comune che conduce all’antitesi. Ma l’antitesi stessa è ben lontana dall’essere giustificata perché non abbiamo alcun preciso motivo per escludere che, all’interno delle operazioni conoscitive e razionali in genere, l’immaginazione possa svolgere un ruolo produttivo e positivo.

Ciò non deve essere inteso come se si volesse rivendicare l’importanza nella scienza delle intuizioni geniali; come se si volesse soltanto porre l’accento sul fatto che, se badiamo alle procedure concrete della scienza, non possiamo ignorare che, accanto a tutti gli apparati logici e sperimentali, intervenga spesso un quid di irrazionale, una sorta di scintilla che conduce infine alla nuova teoria, alla nuova scoperta.

Se così fosse resteremmo interamente nell’ambito dell’opposizione, muovendoci all’interno di una concezione dell’immaginazione che si ostina ad attribuirle la qualifica di diritto dell’irrazionalità.

La genialità dello scienziato singolo, l’intervento di intuizioni che orientano ad una scoperta, che formano il germe di una nuova teoria, tutto ciò è fuori discussione. Ma il problema di una considerazione in positivo dell’immaginazione nei processi conoscitivi assume reale interesse qualora lo si consideri da un punto di vista completamente diverso. Si tratta infatti di riconoscere che l’immaginazione può intervenire produttivamente nelle pratiche della conoscenza proprio in quanto viene considerata nella specificità delle sue funzioni.

Pensiamo, per esempio, all’immaginazione associativa: sulla base di associazioni possono realizzarsi sintesi immaginative che dànno luogo ad immagini. Ma questa stessa capacità associativa non è affatto predestinata all’immaginazione poetica. Attraverso associazioni si possono effettuare trasposizioni, realizzare analogie che non hanno necessariamente il carattere del mero accertamento di una somiglianza di fatto, ma che sono in grado di prospettare nuovi modi di approccio ad un campo di problemi. Una trasposizione analogica, che è una vera e propria trasposizione immaginativa, potrebbe assumere una funzione propriamente conoscitiva nella misura in cui fosse integrata in un contesto in cui gli interessi conoscitivi sono gli interessi dominanti.

Oppure si pensi alla nozione di esperimento mentale, alla finzione immaginativa di eventi che non potrebbero essere concretamente realizzati e che tuttavia siamo interessati a prospettare come parte integrante di una riflessione scientifico-teorica. Oppure ancora ai vari modi in cui l’immaginazione viene messa in questione nelle illustrazioni concrete di concetti e formulazioni teoriche astratte: illustrazioni che, in realtà, suggeriscono l’idea che l’immaginazione non intervenga solo dopo la formazione del concetto, ma che possa anche intervenire nella sua stessa produzione.

Ma a parte ogni discussione più precisa, ciò a cui siamo interessati è indicare una linea di impostazione della problematica filosofica dell’immaginazione che non escluda la proponibilità del problema della subordinazione delle operazioni immaginative a funzioni propriamente conoscitive, mostrando al tempo stesso che una simile esclusione dipende soltanto da opinioni filosofiche prive di fondamento. Assumendo questo punto di vista non sentiremmo come un paradosso il fatto che si parli non solo di immaginazione letteraria, poetica, pittorica, ecc., ma anche di immaginazione scientifica; oppure di immaginazione tecnologica.

Contro la tendenza così fortemente riduttiva di Bachelard, che tende a restringere l’ambito «autentico» di esercizio dell’immaginazione all’immaginazione poetica, noi saremmo tentati di moltiplicare le aggettivazioni: soprattutto con lo scopo di mantenere viva la consapevolezza che sotto il titolo dell’immaginazione può essere raccolta una enorme molteplicità di problemi, anche se una filosofia dell’immaginazione ha come scopo primario quello di cominciare con l’attirare l’attenzione su alcuni pochi temi fondamentali. Tuttavia questi temi possono poi essere specificati in una grande varietà di direzioni.

Prendiamo per esempio il tema della neutralizzazione delle posizioni d’essere e quello ad esso connesso della decostruzione della realtà. Nell’immaginazione non abbiamo bisogno di attenerci al dato di fatto, a ciò che c’è. Possiamo fantasticare. Il fantasticare stesso d’altronde assolve qualche scopo, non foss’altro che quello di illustrare «il riposo dell’essere» stando a Bachelard. Ma questo tema riceve subito un nuovo senso se lo prospettiamo all’interno di un contesto che abbia di mira scopi pratici, scopi che derivano dalla soggettività stessa in quanto fronteggia la realtà con tutti i suoi bisogni. Di qui sorgono problemi che la realtà, così com’è, lascia irrisolti.

Come farò a sollevare quella pietra così in alto? - Il «ragionamento» che in questo modo si avvia è fatto di molte componenti, e anche di componenti immaginative. Il fatto che nell’immaginazione non abbiamo bisogno di attenerci al dato significa ora, nello stesso tempo, che possiamo cogliere il dato non solo nel suo essere così com’è, ma anche nel modo del poter essere altrimenti. La forma degli oggetti ci appare come una forma alterabile, l’oggetto integrato entro un contesto dato ci appare come disintegrabile da quel contesto; la funzione che gli è assegnata si presenta come una funzione che può essere modificata. Questa plasticità immaginativa dell’oggetto che rimanda alla forza disintegrante dell’immaginazione si installa all’interno del problema a cui ora, ragionando, cerchiamo di dare una soluzione. In questo modo non vi è solo l’immaginazione che ripara dentro le pareti domestiche, affinché l’io possa ritrovare la pace nelle sue sognanti fantasticherie, ma anche l’immaginazione che si misura direttamente con la durezza della realtà, cominciando con l’esibire la sua possibile plasticità.

Pensiamo all’invenzione della ruota dentata - questo oggetto semplicissimo e straordinario che contiene l’idea di tutte le macchine. Pensiamo addirittura all istante in cui venne inventata la ruota dentata: in quell’istante, l’oscuro inventore vide, fissando una ruota, che essa metteva i denti. L’immagine si sovrappone all’oggetto, che si trova già sotto la presa di un problema, come termine medio per la sua soluzione.

11. Ciò che manca in Bachelard: l’immaginazione sociale; la teatralità dell’immaginazione; l’immaginazione festosa

Mettendo in questione il buon fondamento dell’antitesi iniziale, tenderemo ad attaccare tutte quelle posizioni che siamo andati via via esponendo e che sono da essa dipendenti secondo mediazioni più o meno esplicite. In particolare da essa dipende quella tendenza ad una considerazione pronunciatamente unilaterale che diventa sempre più evidente nella lettura di Bachelard, come se lo stesso impianto filosofico del problema ci imponesse progressive e coerenti restrizioni del raggio d’azione dell’immaginazione.

Abbiamo già notato che Bachelard tende a porre al centro della propria trattazione il tema della valorizzazione immaginativa, il cui concetto peraltro non viene teorizzato. E non vi è dubbio che proprio per questo si possano trarre molti spunti e motivi ricchi di interesse, cercando di estrarli dalla cornice filosofica in cui essi sono inseriti.

In primo luogo vi è la netta accentuazione della differenza tra fatto e valore. Il fatto non basta [101]: nell’immagine «l’essere è immediatamente un valore» [102]. A partire da questa distinzione si assume implicitamente l’idea che le sintesi immaginative hanno un fondamento contenutistico. Tenendo conto di ciò si può approfittare largamente degli esempi per mettere in evidenza estensioni e sviluppi del problema che hanno a che fare proprio con la differenza tra la dimensione positivo-descrittiva e la dimensione della valorizzazione.

Si vedano, per esempio, le suggestive considerazioni intorno alla «completezza onirica» della casa. La casa per l’immaginazione è una casa verticale, è una casa che ha uno spazio intorno, una cantina e una soffitta, un pianterreno e un primo piano, e già un secondo piano è probabilmente di troppo. L’immaginazione intorno alla casa sa contare al massimo sino a tre o quattro [103]. Qui ciò che importa non è il modo in cui sono fatte le case o come erano fatte una volta; e nemmeno è importante che noi abbiamo realmente abitato in case di questo tipo. Ciò che importa è che per l’immaginazione la casa è fatta proprio così.

Quanto ai nostri alloggi condominiali, a cui ormai quasi tutti siamo assegnati e rassegnati, essi sono case oniricamente incomplete,nella loro inflessibile orizzontalità; e la loro commisurazione alla casa immaginaria mostra quante valenze immaginative restino aperte in rapporto a questi nostri «buchi convenzionali».

In questa stessa direzione di discorso potranno essere apprezzate le numerose esemplificazioni che portano l’attenzione sulle curiose asimmetrie introdotte dall’immaginazione. La simmetria di fatto della scala, per esempio, che serve per scendere come per salire, oppure delle chiavi che servono per chiudere e per aprire, viene spesso meno nell’operazione valorizzante: la chiave, dice Bachelard, serve soltanto per chiudere [104]; e vi sono scale che scendono sempre, altre che salgono sempre.

Di queste esemplificazioni potremmo ampiamente approfittare per arricchire la tematica della valorizzazione; ma per approfittare di esse dobbiamo isolare gli esempi dal quadro filosofico complessivo: cosa non sempre facile, perché esso si rivela particolarmente impegnativo, particolarmente ingombrante.

L’attenzione unilaterale per la tematica dell’immaginosità si accentua ancor più non appena ci rendiamo conto che essa punta in direzione quasi esclusiva dell’immagine verbale, dell’immagine fatta di parole, e infine dell’immagine poetica. Questa limitazione è stata messa più volte in luce da parte degli interpreti di Bachelard. Una simile concezione dell’immaginazione, che indugia così a lungo sull’immaginazione poetica, si rivela piuttosto povera di indicazioni se ci volgiamo ad altri campi, pur restando all’interno della produzione artistica.

E anche in rapporto a questa ulteriore restrizione vi sono ragioni che vanno oltre il piano delle predilezioni personali, del resto legittime.

Vi sono considerazioni, in Bachelard, che connettono strettamente la rêverie,e quindi l’immaginazione stessa nel suo concreto esplicarsi, con il linguaggio: anzi, più precisamente, con la scrittura.

Dobbiamo perciò dare tutta l’importanza che merita ad un’osservazione contenuta nella Poetica della rêverie nella quale si nota che, a differenza del sogno, la rêverie non la si racconta. Ma può accadere che la si scriva. Più importante che il dire è lo scrivere. Lo scrivere non è un modo come un altro di realizzare le nostre fantasticherie, ma è un’azione diretta della stessa atmosfera sognante, l’immersione nella rêverie genera la scrittura.

«Quanti amanti - esclama Bachelard - al ritorno dai più teneri incontri aprono lo scrittoio!» [105].

Questo richiamo un poco sentimentale, un poco fotoromanzesco, è comunque significativo per illustrare questa connessione: la condizione sognante fa tutt’uno con la dimensione della scrittura come la dimensione stessa dell’immaginario. La rêverie poetica «esiste già davanti a questo grande universo che è la pagina bianca» [106].

Se al ritorno dai loro teneri incontri gli amanti aprono lo scrittoio, ciò non accade certamente perché abbiano dimenticato di dirsi qualcosa. Accade invece perché quel che resta da dire non poteva essere detto alla presenza corposa, carnale, dell’altro. Nella scrittura, invece, l’altro è percettivamente assente e può essere reso presente nell’immaginazione come un momento della stessa dimensione sognante. L’altro a cui ci rivolgiamo nella scrittura è un fantasma della rêverie. La scrittura diventa soliloquio interiore, la presenza poetica dell’altro può realizzarsi solo nella condizione della solitudine: nella quale possiamo finalmente rimirarci nel nostro stagno.

Perfino il privilegio concesso all’immagine poetica è dunque connesso con il tema della solitudine, integrandosi in una filosofia dell’esistenza il cui centro è rappresentato dal tema dell’intimità.

Sullo sfondo di questi problemi è interessante notare che una delimitazione della tematica elementare delle funzioni immaginative, operata da un punto di vista fenomenologico strutturale, potrebbe assumere la situazione del gioco come situazione esemplificativa iniziale. Il gioco potrebbe fornirci il nostro primo filo conduttore, la nostra prima guida. E non è difficile rendersi conto che molte cose sono già decise se prendiamo le mosse dal gioco oppure dalla rêverie nel senso di Bachelard. Si definisce così una precisa alternativa nella quale l’una nozione può essere polemicamente rivolta contro l’altra, rimandando ad un atteggiamento di principio interamente diverso. Prendendo le mosse dal gioco noi cominceremo, di fronte alla connessione istituita da Bachelard dell’immaginazione con la soggettività solitaria, con il fare un elogio dell’immaginazione sociale. Contro la rêverie,ci richiameremo ai giochi dei bambini: di qui possiamo trarre tutto ciò di cui ha bisogno una filosofia dell’immaginazione. E così faremo l’elogio della teatralità dell’immaginazione; e dell’immaginazione festosa. Se ammettiamo che cominciando dalla rêverie si possa accennare ad una ontologia, ad una metafisica dell’immaginazione che si conclude con una metafisica del riposo, cominciando dal gioco, contro la rêverie,si accennerà forse ad una metafisica tutta diversa: di cui sappiamo se non altro che il suo paradiso - dal momento che ogni buona metafisica deve avere un paradiso - non sarà affatto una «immensa biblioteca».

12. Considerazioni critiche conclusive - L’ingenuità fenomenologica e l’immedesimazione - Fenomenologi e lupi - Le tecniche dell’immaginazione e il lavoro del poeta.

Vi sono almeno due punti nella nozione bachelardiana di fenomenologia che ricordano alla lontana la posizione di Husserl. Il primo riguarda ciò che Husserl chiamava epoché fenomenologica; il secondo invece quelle connotazioni dell’atteggiamento fenomenologico in Bachelard che possiamo riunire sotto il titolo di «partecipazione» o di «immedesimazione». L’uno e l’altro sono poi tra loro connessi dal momento che l’esercizio della epoché introduce appunto all’atteggiamento fenomenologico.

Entrambi questi aspetti erano già stati rammentati in precedenza con l’invito a non concludere troppo frettolosamente ad un’effettiva affinità. In realtà la differenza è nettissima, e balza agli occhi non appena teniamo conto del modo in cui il primo momento si connette al secondo in entrambi gli autori. L’interesse principale di Husserl è quello di conferire un preciso statuto filosofico ad una problematica descrittiva orientata nel senso della esibizione di differenze di struttura. Per questo motivo, la cosiddetta epoché fenomenologica è, almeno all’inizio dell’elaborazione di Husserl, niente altro che una sorta di artificio metodologico della cui artificiosità siamo interamente consapevoli. Nello stesso tempo essa può assumere anche la forma di una vera e propria argomentazione filosofica - la forma di una ripresa della argomentazione cartesiana del dubbio.

In Bachelard invece questa messa in parentesi introduce all’idea di un atteggiamento fenomenologico inteso come una sorta di disposizione dell’animo, nella quale l’assenza di pregiudizi si converte nell’immedesimazione secondo quelle caratteristiche di partecipazione, di immediatezza e di semplicità che abbiamo così spesso rammentato. L’aspetto descrittivo viene così addirittura esplicitamente contestato, come un aspetto certamente troppo prosaico per una nozione come questa che è destinata a far rifluire una filosofia dell’immaginazione nella sua poesia.

La differenza balza agli occhi: e tuttavia ciò dipende più dalla chiarezza delle nostre idee che dalla natura del problema. Sulla stessa nozione husserliana di fenomenologia - ed a parte ogni considerazione relativa a Bachelard - si addensano interpretazioni che arrivano a rendere quella differenza abbastanza sfumata. Inoltre il tema della assenza di pregiudizi, e quindi anche il tema dell’ingenuità, si può ritrovare in contesti diversi che non si prestano ad una critica troppo ovvia.

Per esempio, questo tema lo si ritrova talvolta negli psicologi della forma e, con intonazioni diverse, all’interno dell’indirizzo fenomenologico in psichiatria. E almeno fino ad un certo punto, il richiamo all’ingenuità ha, in entrambi i casi, giustificazioni piuttosto precise nella stessa misura in cui è inserito in un contesto di dibattito ben determinato.

Negli psicologi della forma si tratta in effetti di porre il problema di un livello preliminare dell’indagine entro l’ambito dell’esperienza che non risulti fin dall’inizio pregiudicato da costruzioni teoriche - alludendo in particolare alla psicologia associazionistica. Quindi non si tratta affatto di un richiamo all’ingenuità pura e semplice: si tratta invece di un modo abbreviato di presentare una posizione critica piuttosto complessa e articolata.

In parte, ma solo in parte, ciò può essere detto per la presenza di questo tema all’interno della psichiatria fenomenologica. Il prescindere dalle teorie assume qui il senso di una messa da parte, nel contatto diretto con il malato mentale, delle categorizzazioni e delle tipologie istituzionali, sia per il fatto che queste categorizzazioni e queste tipologie sono spesso sature di opinioni pregiudiziali; sia perché, in fin dei conti, il malato mentale non è né un tipo né una categoria.

Tuttavia non vi è dubbio che non appena si allentano i legami del tema dell’ingenuità con la determinatezza dei suoi riferimenti, l’esortazione ad uno sguardo semplice, ad un atteggiamento immediato, ecc., diventa un’esortazione del tutto vuota, alludendo ad un atteggiamento di disponibilità e di apertura che non può che apparire alquanto misterioso.

Tutto ciò che resta allora è un generico anti-intellettualismo che affida interamente la stessa attività del comprendere e dell’interpretare ad un momento puramente intuitivo che per principio si sottrae a qualunque considerazione di ordine metodologico.

Bachelard si trova certamente su questo versante: e anche se il tema fenomenologico orientato in questa direzione viene acquisito percorrendo una via propria e sulla base di motivi che sono specificamente suoi, tuttavia egli trova il terreno già dissodato nell’ambito della psichiatria fenomenologica.

Infatti, nonostante ciò che abbiamo or ora osservato, la tematica teoretica dell’orientamento fenomenologico in psichiatria è fin dall’inizio tutta puntata in direzione di una polemica anti-intellettualistica che esalta il momento della comprensione intuitiva, che fa tutt’uno con la partecipazione, con l’immedesimazione.

Così scrive Binswanger in un saggio del 1922 dedicato alla fenomenologia: «Esistono però anche uomini i quali sanno come, accanto alla percezione sensibile, si dia altresì un altro genere di conoscenza,di esperienza immediata diretta e che, accanto alla scomposizione concettuale dell’oggetto nei suoi singoli elementi, esiste la possibilità di coglierlo in modo più originario e più totale. Flaubert, per esempio, riconosce questo modo di conoscenza quando, esprimendo in poche parole il principio fondamentale di qualsiasi fenomenologia, dice: "A forza di guardare un ciottolo, un animale, un dipinto, me ne sono sentito compenetrare". Osservare, guardare e poi ancora guardare; il risultato: un essere trasportato dentro l’oggetto osservato (un oggetto sia animato che inanimato della natura o dell’arte)» [107].

Questa citazione è molto significativa proprio per il fatto che essa è del tutto chiara ed esplicita. Qui si parla di un altro genere di conoscenza, di una conoscenza intuitiva che viene contrapposta alla «scomposizione concettuale dell’oggetto nei suoi singoli elementi» - quindi alla conoscenza intellettuale. Con l’ausilio della citazione di Flaubert, si formula l’atteggiamento fenomenologico come un atteggiamento che si realizza nella concentrazione osservativa sull’oggetto, una concentrazione e un’osservazione che tuttavia hanno il solo scopo di farci trasmigrare nell’oggetto, di farci coincidere con esso.

Nonostante le sue particolari motivazioni filosofiche, la nozione di fenomenologia in Bachelard ha all’incirca le caratteristiche descritte da Binswanger, anche se l’autore di riferimento è piuttosto Minkowski, che appartiene in ogni caso all’area della psichiatria fenomenologica.

Teorizzando l’atteggiamento fenomenologico come immedesimazione e partecipazione; il problema di una fenomenologia dell’immaginazione tende a perdere il carattere di una indagine autentica. Talvolta Bachelard parla di studio fenomenologico delle immagini [108] : ma in fin dei conti questa parola è qui impiegata impropriamente proprio perché questo studio si risolve nell’atto del retentissement. Da questo punto di vista, diventa particolarmente significativa la tendenza a convertire la lettura «fenomenologica» di un testo poetico in una continuazione della rêverie. All’interno delle immagini non c’è nulla da pensare. Esse ci danno soltanto da immaginare. L’atteggiamento fenomenologico non è niente altro che un immaginare attraverso le immagini.

Certamente bisogna prendere atto di questa circostanza: per cogliere le immagini bisogna effettivamente partecipare ad esse. Non si può dare torto a Bachelard su questo punto. Bisogna partecipare ad esse, così come quando attestiamo, ridendo, la nostra partecipazione ad un racconto, ad un evento, ad una battuta di spirito ben riuscita. Anche nel riso c’è partecipazione, e molta immaginazione. Prendendo atto di ciò l’intera questione può essere riconsiderata nelle sue giuste proporzioni. Guardiamo invece che cosa accade in Bachelard. Di fronte alla storia di un lupo affamato che si avventa contro una tartaruga per divorarla, Bachelard osserva: «Occorre che il fenomenologo abbia per un istante viscere da lupo davanti alla preda che diventa pietra» [109]. Ora, è certo che se raccontiamo la storia anche ad un bambino, probabilmente egli manifesterà la propria partecipazione in qualche modo, per esempio ridendo divertito. Ha rivissuto tutta la storia con viscere da lupo? Ammettiamolo senz’altro. Non c’è bisogno di essere «fenomenologi» per questo!

Certamente, parlando di semplicità o di ingenuità Bachelard non intende richiamarsi a qualcosa di simile a uno stato d’animo infantile. Sarebbe sbagliato orientare la critica in questa direzione. Il punto del problema sta altrove. Nella Poetica dello spazio, Bachelard osserva che si tratta di partecipare attivamente «al lavoro stesso del creatore di libri» e che un simile atteggiamento «non si può certo assumere alla prima lettura, lettura che conserva ancora troppa passività, in quanto il lettore è ancora un po’ bambino, che la lettura distrae» [110]. Invece dopo una prima lettura dell’opera, deve seguire una seconda lettura, e dopo la seconda una terza.., perché in questo modo veniamo a conoscere i problemi e le soluzioni di cui quell’opera è fatta. Tutto ciò è molto ben detto - soprattutto per ciò che concerne l’idea che nell’opera siano contenuti problemi e soluzioni. Ma in che modo diventiamo coscienti di essi? Leggendo, rileggendo, rileggendo ancora... Questa iterazione delle lettura sembra avere un senso non molto dissimile dalla concentrazione dell’attenzione negli atti dell’osservare, del fissare intensamente l’oggetto che ci dovrebbe far trasmigrare nel suo interno. Del resto, al termine di questo passo la tendenza di fondo della filosofia bachelardiana si afferma ancora una volta. L’espressione «Avrei dovuto scrivere io questo libro», che Bachelard rammenta come espressione di una sfumatura psicologica che caratterizza il passaggio dalla coscienza di lettore di libri alla coscienza di creatore, può essere intesa anche secondo un’altra angolatura: forse essa dice, quasi inavvertitamente, che anche il libro deve diventare uno stagno in cui io possa rimirarmi. Certamente, si tratterà di un io sublimato. Ma forse, in qualche senso del termine, era sublimato anche l’io di Narciso.

Ritorniamo così alla tematica dell’interiorità, il centro autentico della filosofia bachelardiana dell’immaginazione. L’immaginazione è l’organo dell’interiorità, le immagini sono effusioni dell’ anima.

Nella introduzione alla Poetica dello spazio, Bachelard rammenta che nella lingua francese «si è un po’ sordi rispetto ai temi così numerosi nella filosofia tedesca nei quali la distinzione tra lo spirito e l’anima (der Geist e die Seele) è tanto netta e definita» [111]. Bisogna invece riprendere questa distinzione, e tanto più in una filosofia che voglia essere fenomenologia della poesia. Lo spirito, il Geist,richiama l’idea stessa della storia e della cultura; di ciò che è pubblico e intersoggettivo. L’anima invece l’interiorità solitaria, separata da tutto il resto, considerata nel suo isolamento, quell’isolamento così necessario affinché l’io, sognando, possa riconciliarsi con se stesso: «Il registro poetico che corrisponde all’anima deve dunque rimanere aperto e disponibile alle nostre ricerche fenomenologiche» [112].

È inutile dire che in una simile prospettiva non può avere nessun rilievo il fatto che vi siano delle tecniche dell’immaginazione;e più specificamente tecniche della scrittura, tecniche dell’immaginazione letteraria. E che in qualche modo il lavoro del poeta sia pur sempre un lavoro. Il poeta spesso suda sulle sue carte. Questa evocazione del sudore del corpo genera una certa ripugnanza in un contesto di discorso come quello di Bachelard. Il corpo non è in questione, è l’anima che conta. E l’anima che si immerge nella fantasticheria sognante.

Nel Manifesto del surrealismo si racconta di un poeta stravagante che, ogni volta che andava a dormire, appendeva alla propria porta un cartello con sopra scritto «Il poeta lavora». Senza pretendere di proiettare sul surrealismo idee che sono di Bachelard e tenendo conto del resto del fatto che qui si parla del sogno e non della rêverie, cosicché ci muoviamo in un ambito di problemi essenzialmente diverso, questo simpatico aneddoto può tuttavia, in un senso modificato, essere posto a conclusione anche delle nostre considerazioni intorno alla filosofia dell’immaginazione di Bachelard.

 


Note


[1]La poétique de l’espace,PUF, Paris 1957. In seguito si farà riferimento, con la sigla PS, alla traduzione italiana a cura di E. Catalano, Dedalo, Bari 1975.

[2] La poétique de la rêverie,PUF,Paris 1960. In seguito si farà riferimento, con la sigla PR,alla traduzione italiana a cura di G. Silvestri Stevan, Dedalo, Bari 1975. PR,p. 33.

[3] PR, pp. 33-34.

[4] ivi, p. 20.

[5] ivi.

[6] PS, p. 24.

[7] ivi, p. 13.

[8] ivi.

[9] ivi, p. 261.

[10] ivi, p. 10.

[11] ivi, p. 55.

[12] ivi, p. 260.

[13] Su questo punto, come su molti altri che possiamo toccare solo marginalmente o che dobbiamo del tutto tacere si rimanda al volume che Giuseppe Sertoli ha dedicato a Bachelard: un libro che si raccomanda sia per la limpidezza dell’esposizione, sia per la ricchezza di analisi dei testi bachelardiani sia per l’ampiezza realmente notevole dei riferimenti al contesto culturale. G. Sertoli, Le immagini e la realtà. Saggio su Gaston Bachelard,La Nuova Italia, Firenze 1972.

[14] PS, p. 7.

[15] ivi, p. 257.

[16] ivi, p. 14.

[17] ivi, p. 53.

[18] ivi, pp. 93 e 109.

[19] ivi, p. 7.

[20] ivi, p. 5

[21] ivi, p. 257.

[22] PR, p. 22.

[23] ivi, p. 16.

[24] PS, p. 15.

[25] ivi

[26] ivi, pp. 103-104.

[27] PR, p. 24.

[28] PS, p. 15.

[29] ivi.

[30] ivi.

[31] Le droit de rêver, PUF, Paris 1970, tr. it. a cura di M. Bianchi, Dedalo, Bari 1974, pp. 14-29.

[32] ivi, p. 22.

[33] ivi, p. 20.

[34] PR, p. 8.

[35] PS, p. 25.

[36] ivi, p. 15.

[37] ivi, p. 13.

[38] PR,p. 10.

[39] PS, p. 8.

[40] ivi, p. 7.

[41] ivi, p. 6.

[42] ivi, p. 14.

[43] ivi, p. 7

[44] ivi, p. 24. I termini di sintesi immaginativa, di fantastico-immaginario e di immaginoso sono usati qui nell’accezione fissata in Elementi di una dottrina dell’esperienza, cap. III.

[45] ivi.

[46] PR, p. 9.

[47] ivi.

[48] PS, p. 34.

[49] ivi, p. 43

[50] ivi, p. 34.

[51] ivi.

[52] ivi, p. 54.

[53] ivi, p. 33

[54] ivi, p. 82.

[55] ivi, p. 33.

[56] ivi, p. 82.

[57] ivi, pp. 83 e 59.

[58] ivi, p. 29.

[59] ivi, p. 98.

[60] ivi, p. 101.

[61] ivi, p. 100.

[62] ivi.

[63] ivi, p. 7.

[64] ivi, pp. 6, 7, 17.

[65] ivi, p. 257.

[66] ivi, p. 5.

[67] PR, p. 10.

[68] PS, p. 254.

[69] ivi, p. 19.

[70] ivi, p. 70.

[71] Clair de Terre (1923), in Breton e il surrealismo, a cura di Ivos Margoni, Mondadori, Milano 1976, p. 209.

[72] ivi, p. 276.

[73] ivi, p. 275.

[74] ivi, pp. 269-270.

[75] PS, p. 41.

[76] Op. cit., p. 254.

[77] ivi.

[78] ivi, p. 255.

[79] ivi.

[80] PR, p. 17.

[81] ivi, p. 19.

[82] ivi, p. 18.

[83] ivi, p. 20.

[84] ivi, p. 23.

[85] ivi, p. 19.

[86] PS, p. 7.

[87] ivi, p. 26.

[88] ivi, p. 31.

[89] ivi, p. 34.

[90] ivi, p. 257.

[91] ivi, p. 256.

[92] ivi, p. 255.

[93] ivi, p. 14.

[94] ivi.

[95] ivi, p. 45.

[96] PR, p. 8.

[97] PS, p. 18.

[98] PR, p. 23.

[99] ivi.

[100] In tutta la discussione che segue delle posizioni di Bachelard, si presuppone l’impostazione data ad una teoria fenomenologica dell’immaginazione nel capitolo terzo degli Elementi di una dottrina dell’esperienza.

[101] PS, p. 46.

[102] ivi, p. 35.

[103] ivi, p. 53.

[104] ivi, p. 97.

[105] PR, p. 14.

[106] ivi.

[107] L. Binswanger, Per un’antropologia fenomenologica, Feltrinelli, Milano 1970, p. 7.

[108] PS, pp.100 e 190.

[109] ivi, p. 152.

[110] ivi, p. 49.

[111] ivi, p. 9.

[112] ivi, p. 10.


 

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