Sergio Lanza

Sergio Lanza è compositore e teorico della musica. Ha scritto più di quaranta opere per vari complessi strumentali. Dal 2002 è stato  docente ordinario di Composizione al Conservatorio di Trapani ed insegna attualmente al Conservatorio di Alessandria . E' membro organizzatore del Seminario Permanente di Filosofia della Musica promosso dal Dipartimento di Filosofia dell'Università  degli Studi di Milano. Ha ideato e realizzato un originale ciclo di conferenze di educazione musicale sotto il titolo di DentroLaMusica. Ha scritto numerosi saggi di analisi e di teoria musicale che uniscono la perizia analitica all'ampiezza degli orizzonti filosofici e culturali. [2015]

 


 

"Nel saggio "L'op. 31. La morte del Principe e lo 'spazio dei ritorni'", De Musica, XIV, 2010  Sergio Lanza scrive: 

- Pur sentendo potente la forza del pensiero matematico, non ho però mai inteso concepire architetture formali che attingessero la loro legittimità al di fuori della dimensione dell’ascolto, e questa scelta – non del tutto scontata nel panorama novecentesco che ha conosciuto fasi di accecamento strutturalista in cui l’occhio ha prevalso sull’orecchio – è maturata in modo consapevole grazie al percorso di riflessione fenomenologica apertomi da Giovanni Piana. Negli anni posso dire di aver concepito un’approccio fenomenologico sia alla composizione, sia all’analisi, nella piena convinzione che il senso di un’opera si manifesti, nella sua necessità, solo attraverso il momento del suo disvelarsi all’orecchio, pur con tutti i compromessi e i “tradimenti” che fatalmente l’azione dell’esecuzione porta con sé. -

A mia volta verso Sergio Lanza io ho un debito di riconoscenza per il fatto che, al di là del periodo dei suoi studi universitari, ha mantenuto con me un rapporto costante, ed  ho potuto avvalermi della sua esperienza di compositore e di teorico in uno scambio epistolare che non si è mai interrotto. Abbiamo anche temi e argomenti in comune come quello dell'ornamentazione e del cromatismo, sul quale Sergio Lanza è intervenuto in più occasioni ed al cui lavoro "Il concetto di ornamento in musica. Tensioni ed estensioni" (De musica, 2003) io rimando nel mio saggio "Il cromatismo" (p. 90 in questo Archivio, e p. 192 in Opere complete, vol. VII, Intervallo e cromatismo nella teoria della musica, p. 192); analogamente il suo saggio "Riflessioni di un compositore sul rumore", De Musica, 2008 viene rammentato  nei miei "Barlumi per una filosofia della musica" (Opere complete, vol.  pp. 158-9) e, nello stesso testo (p. 389), a proposito del concetto  di "estraneazione timbrica" da lui introdotto nel saggio citato". [G. P. 2015]

 


ORNAMENTAZIONE

21 agosto 2002

A Sergio Lanza

[...]

"Solo ora ho potuto finalmente leggere il tuo lavoro sulla "ornamentazione". Bellissimo. E aggiungerei anche: geniale. Naturalmente si può non condividere il modo in cui tu pensi si possa estendere il problema, io stesso ho qualche consistente esitazione, ma credo che nessuno potrebbe negare che un simile punto di vista sia produttivo e ricco di pensieri. Ed io ritengo che i punti di vista si debbano giudicare soprattutto dai temi che riescono a mettere in evidenza e dalla discussione che riescono a suscitare. Naturalmente mi piace molto l'uso che fai dell'analogia e delle immagini, questo è un tratto inconsueto in questo genere di lavori. Questo saggio mostra invece la sua efficacia ermeneutica. Anche l'idea della digressione mi sembra originale e dà luogo a sviluppi interessanti.
    Numerosi anche sono i punti che si potrebbero discutere, ma non so se sia il caso di farlo. Si tratta infatti in generali di piccoli dettagli. Ad esempio, quando tu dici che la tecnica delle aumentazioni e diminuzioni "scaturisce DIRETTAMENTE dall'affinità che lega la musica alla matematica" (dove io discuterei solo questo "direttamente"); oppure quando dici che la curva di Koch "costituisce l'esempio più semplice di questo tio di strutture che nel mondo naturale ricorrono con grande abbondanza" (dove io direi più pedantescamente che curve del tipo di quelle di Koch possono essere impiegate per MODELLIZZARE forme che nel mondo naturale ricorrono con grande abbondanza)... Come vedi si tratta di estreme piccolezze"

[...]

Giovanni Piana


 

CROMATISMO

 

11 settembre 2004

[…]
    Tante sono le considerazioni che fai e che, ti confesso spudoratamente, vorrei aver fatto io! come quando ti soffermi sul fatto che, nel caso del cromatismo, “l’accidente minaccia la sostanza”, ne mina la struttura (la tonalità). E mi viene subito in mente un tragitto ideale che ricollega i madrigali di Gesualdo alle Lacrimae di Dowland, all’esempio della Passione di Bach che riporti, allo Chopin di certi preludi, al Tristan, a Verklärte Nacht, a Bartòk… insomma si potrebbe aprire tutto un discorso sulla funzione strutturale di quel passus duriusculus che parte con quella valorizzazione immaginativa cristallizzata dalla retorica musicale barocca e finisce per avere effetti di portata devastante, distruggendo - ma poi anche ricostruendo - l’universo linguistico di riferimento. Non potremmo forse dire che la configurazione cromatica, come giustamente la chiami tu, sia in un certo senso la figura per eccellenza dell’ex-pressio? Quel contenuto emotivo umano che viene “premuto fuori” da un interiorità, scaturendo attraverso il cromatismo come il sangue da un taglio?
    A pag. 53 dici del semitono diatonico “che appartiene ad una configurazione che è tale da ostacolare la sua apprensione come cromatismo”. In effetti tu instauri un confronto tra una dimensione scalare, quindi strutturale, statica, astratta e prelinguistica, dove trova il suo legittimo spazio la questione del diatonismo e del semitono di trasposizione, ed una dimensione più musicale, squisitamente espressiva che rimanda al flusso, alla rottura degli argini tra le note, al dinamismo, dove collochi, invece, la problematica del cromatismo.
Io sento però la mancanza di un possibile collegamento tra queste due sfere che il tuo impianto pone in netta contrapposizione, e mi sembra di scorgerlo nella carica tensiva contenuta nel semitono diatonico che segna il passaggio dal 7° all’8° grado: quella tensione verso l’acuto che porta alla sua risoluzione nella tonica, questo minimo principio originario e archetipico di movimento melodico che già porta con sé, dentro l’asettica dimensione scalare, il significativo nome di “sensibile”, questo passaggio tensivo, credo si potrebbe porre come eco o “ricordo di un’origine” dietro molti passaggi cromatici. Del resto conosci bene la distanza dall’intonazione teorica  che caratterizza la pratica degli strumenti ad arco (con buona pace dell’enarmonia) ogni volta che entra in scena la cosiddetta “intonazione espressiva”. Ma quest’ultima parte già dal semitono diatonico della scala stessa: la “sensibile”, per essere intonata correttamente negli strumenti ad arco, deve essere crescente. E’ come se all’interno della rigida struttura scalare si introducesse furtivamente un effetto tensivo che produce quell’alterazione, quella tendenza al riempimento dello spazio che, dici giustamente, è una caratteristica del cromatismo. La “diesizzazione” sarebbe allora interpretabile come “sensibilizzazione” e a questo si potrebbe quindi ricondurre anche l’effetto distruttivo del sistema tonale: di fronte al susseguirsi di sensibili (ponendo in questo rapporto anche il semitono discendente, in alcuni casi interpretabile come “controsensibile”, come un FA che tende al MI) –come nell’esempio dell’aria dell’Evangelista- si può ben perdere l’orientamento e chiedersi dove sia la tonica. Mi rendo conto che tu vuoi mantenere le distanze dall’analisi armonica mentre io, forse per mia deformazione, la sento continuamente implicata da quella dimensione dell’ascolto nella quale avviene la donazione di senso (del resto sei tu stesso ad evocarla quando dici, con parole  molto belle, “l’alterazione modulante ha lo scopo di annunciare un divenir-altro dello spazio tonale”, pag. 24).
    Un esempio mi viene in mente, al limite della tonalità, che sembra fatto apposta per illustrare la tematica del cromatismo, oltretutto con un chiaro riferimento al mondo mitologico greco: è il Prélude à l’apres-midi d’un Faune, che esplora diverse possibilità di realizzazione del segmento scalare discendente-ascendente che si ascolta all’inizio, al flauto solo: in un ambito intervallare che varia dal tritono alla 4a e alla 3a magg., si incontrano nel corso del pezzo 9 diverse distribuzioni di toni e semitoni con netta prevalenza di questi ultimi. Mi piace leggere in questa scelta compositiva un’allusione al diverso riempimento del tetracordo della “teoria dei generi” ma è evidente anche il riferimento ad una sorta di modalità che lo avvicinerebbe al tuo esempio del flauto indiano di Chaurasia.
    La questione poi delle note “alterate” rispetto ad un sistema di riferimento (pag.11), mi ha risvegliato tanti pensieri pensati in questi anni. E’ la questione del superamento di un insieme di segni nati storicamente per esprimere suoni appartenenti ad un certo universo linguistico e che il ‘900 trova, improvvisamente inadeguati. Il riferimento alla matematica, come quadro di riferimento per ripensare alle note come “punti”, scevri dagli “inquinamenti” di una semantica di valori tonali, diventa quindi prioritaria per molti (penso a Xenakis, che si riferisce alle scale come partizioni algebriche; a Boulez, a Stockhausen, e persino, in ambito analitico ad Allen Forte, che ritiene di poter analizzare –beato lui- le musiche atonali attraverso strutture insiemistiche). Messiaen in questo senso esprime una strana contraddittoria eccezione: da un lato teorizza nuove scale modali, ricombinando toni e semitoni “astrattamente”, dall’altro parla delle armonie attribuendovi connotati qualitativi, addirittura visivi, come i colori. 
    Ma altri due esempi che certamente conoscerai mi vengono in mente: Grisey e Nono. Il primo proprio in polemica con i padri darmstadtiani elabora un universo sonoro modellato sull’analisi spettrale, quindi denso di “inarmonie” che legittimano microtoni fuori dal calcolo scalare (ricordo ancora la sua ironia nei confronti delle scale di 24 suoni, una serialità a quarti di tono che rischia di raggiungere un “grigio”, solo più intenso). Nono invece potrebbe rientrare in questo quadro considerando un suo pezzo dell’84, A Carlo Scarpa architetto, ai suoi infiniti possibili –  per orchestra a microintervalli. Nelle note introduttive troviamo simboli per alterazioni di 1/4, 1/8 e, addirittura, 1/16 di tono e una gamma dinamica che va da fff +p poss., e un’esortazione ad “evitare banali approssimazioni” nel realizzare questi che lui chiama –significativamente –  microintervalli di altezza e dinamica (Ornaments of Expression, dunque!).
    La questione, come sappiamo, è complessa e controversa e incontra spesso la seria difficoltà di ottenere queste nuaces dagli interpreti (il “vibrato” vocale, di cui parli, è proprio un punto dolente che ha fatto soffrire tanti compositori, incluso me, che avrebbero voluto solo un tremare del suono, quasi un alone, e si sono ritrovati, a volte, un ingombrante trillo!).
    Nel mio piccolo, anch’io ho percorso un sofferto tragitto di ripensamento sull’uso delle alterazioni: sono partito con una griglia di 24 suoni, lavorando su carta quadrettata ed elaborando spesso configurazioni di riempimenti armonici resi complementari dal calcolo combinatorio. Ma, ascoltando il risultato con l’ausilio di elettronica e violino, ho finito poi per convergere l’attenzione compositiva sull’apprezzamento liminare di alcuni passaggi “ipercromatici”. Un esempio semplice: dopo aver abituato l’orecchio ad un bicordo di 3a calante si porta la nota superiore “un poco più in su” fino a raggiungere la 3a minore intonata: l’effetto è sorprendente, si assiste ad uno schiarimento paragonabile al passaggio dalla 3a minore alla 3a maggiore, ma meno forte. Sono sfumature sottili dell’ascolto (attraverso le quali, sappiamo, passano enormi significati) che mi sembrano rientrare nel quadro che tracci del “piccolo intervallo” e che potrebbero indicare la possibilità di rileggittimare il senso dell’alterazione: non di una nota ma di un intervallo, cioè non consumata nella dimensione lineare monodica, ma su un piano bidimensionale che implichi una prospettiva armonica.
    Mi è piaciuto anche molto come hai parlato del concetto di “saturazione”, sia nell’ambito cromatico sia a proposito dell’ornamento più in generale, ho trovato affinità con quell’idea di complicazione del percorso (e forse di horror vacui/amor infiniti) che sai che mi è cara.
[…]
Sergio Lanza

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16 settembre 2004


Mio caro Sergio,

non so se tu possa immaginare quanto piacere mi abbia fatto la tua lettera e le tue annotazioni al saggio sul cromatismo! In realtà io qui lavoro solo soletto, e affido poi i miei saggi a questo strumento impalpabile che è l’ “on line” - mezzo incomparabile certo per essere raggiunti con facilità, ma con l'apparenza di qualcosa di fragilissimo, che può sparire da un momento all'altro. Talora ho l'impressione di scrivere sulla sabbia. Il saggio sul cromatismo poi, benché cammini su un sentiero per me molto dissodato, presentava comunque dei rischi... Il fatto che tu lo abbia letto con l'interesse che dimostrano le tue annotazioni è per me un motivo di grandissima soddisfazione. E di questa soddisfazione fa parte anche il  contenuto di quanto dici - il fatto che sento nelle tue parole che sei stato stimolato ad andare oltre per conto tuo, e particolarmente bello è il fatto  che anche la tua pratica musicale venga chiamata in causa. Tutto ciò che dici è, a sua volta, per me molto interessante e altrettanto stimolante. Sul semitono diatonico  e la questione della sensibile ci sono certamente questioni aperte, e l'idea di considerare la diesizzazione come sensibilizzazione con la conseguente problematizzazione della tonica è assolutamente suggestiva – a suo tempo mi sembrava di poter parlare di una scala cromatica come una sequenza di note di cui ciascuna è la sensibile della successiva... Ma questa formulazione mi sembra oggi arrischiata e tende ad introdurre qualche possibile confusione. In realtà il tema della tensione della sensibile va affrontato a mio avviso tenendo conto della consonanza di ottava, ed in generale dei rapporti consonantici forti (così tenderei a vedere l'"instabilità" del tritono come un effetto di sensibile verso la quinta), spero di precisare meglio questo punto prima o poi;  il mio interesse qui era chiarire nel modo migliore la differenza tra alterazione di trasposizione e alterazione cromatica, che è apparentemente ovvia e che tuttavia va poi ad ingarbugliarsi nella teoria musicale appena ci si muove di tre passi. Inoltre intendevo mostrare l'affinità del problema cromatismo/ornamentazione alla luce della tematica dell'espressione. Da questo punto di vista sento il tuo lavoro sulla ornamentazione come complementare al mio e per questo lo ho citato come merita. Io mi auguro proprio che tu possa ritornare su questi argomenti, con nuovi contributi.
[...]             
Giovanni Piana

 


IL CANTO DEL MERLO

30 settembre 2007

 
[...]
Desidero mandarti qualche considerazione sul tuo scritto sul merlo, che è così legato a te, personalmente, alle tue avventurose scoperte naturalistiche e tecnologiche… La consueta originalità della tua riflessione mi provoca –come sempre– mi stimola, evoca in me risonanze di altri pensieri e percorsi…
    Con semplice eleganza fai piazza pulita del problema di una “fondazione naturalistica” della musica circoscrivendo il problema al territorio del “come se” che è quello proprio della fenomenologia.   Ti limiti, come affermi, a «fare alcune considerazioni sulla struttura del canto del merlo» ma il livello di indagine strutturale che metti in campo (l’individuazione «dei caratteri strutturali interni ai motivi, quindi delle ricorrenze caratteristiche, oltre affinità significative, varianti, ripetizioni..») è così ricca e articolata da ricordarmi assai da vicino le pagine migliori di investigatori delle strutture musicali come N. Ruwet! Il tuo senso analitico-musicale ti spinge a trovare clausole e ripetizioni variate ed io condivido pienamente questa posizione! Tu conosci la mia passione per l’analisi musicale, da compositore l’ho sempre considerata una disciplina creativa, l’altra faccia della pratica compositiva vera e propria. Tra l’altro rilevo una felicissima coincidenza di metodo: quello che chiami “metodo delle libere variazioni” che deforma e trasforma l’oggetto per penetrarne il senso, io sento di praticarlo da anni nel mio campo, pensa solo alle "varianti" di Bach che ho introdotto, anche nel saggio sull’ornamento,  per sondare le scelte possibili implicate da un materiale musicale. Anche l’attuazione del microscopio uditivo che agisce sulla velocità per indagare la struttura mi trova consonante: è un esperimento che ho fatto spesso quello di rallentare (producendo un’aumentazione) enormemente un segmento di musica per studiarne le nuove possibilità compositive ed espressive che si aprono (quando si trasforma un sedicesimo in una semibreve)…
    Posso dire veramente che lo studio della filosofia – in particolare dei tuoi testi – mi aprì la strada a quell’attitudine alla ricerca radicale, a quella riduzione ai termini ultimi e semplici dell’esperienza anche estetica che «mette in luce somiglianze che istituiscono dei rapporti», rivela percorsi di senso. Ma proprio questo è il punto. Forse possiamo dire che, dal punto di vista antropologico, siamo straordinariamente propensi alla donazione di senso, tanto che, rinunciando a parlare della cosa in sé, accettiamo tranquillamente il “rischio” di donare agli oggetti (eventi, fenomeni, al limite anche opere) un senso altro.  E’ stato così per “Modì 2” (ricorderai la burla di quegli studenti che produssero false sculture alla Modigliani, ingannando i critici che vi rinvennero stilemi). Può succedere –e questo è interessante e inquietante– con alcune opere musicali, create con procedimenti aleatori: i “rapporti” tra eventi, che non possiamo non cogliere,  sono un prodotto casuale e tuttavia entrano a far parte del senso, cioè si offrono all’ascolto strutturale. Accade cioè che vengano letti come intenzionali dei tratti caratteristici cui non corrisponde alcuna intenzionalità.
    Succede forse anche con il canto del merlo che, nella sua meravigliosa capacità di articolarsi, si rende alle nostre orecchie segno di un’intelligenza musicale superiore (superiore rispetto ad altri animali più vicini a noi). So bene che tu non hai affatto parlato di intenzionalità del merlo! anzi, valutando il suo comportamento hai preso le distanze da qualsiasi pretesa di oggettività “psicologica”. Tuttavia parli di adeguatezza e di pertinenza, riferendoti a quelle valutazioni (e non si può darti torto!). Ma io mi domando quale significato siamo disposti a dare all’operazione che attribuisce ad un suono il carattere di “clausola” ? Quale significato ci consente di rimanere veramente al riparo dal livello dell’indagine della cosa in sé ? (fai riferimento agli archetipi formal-strutturali e una giustificazione biologica  più profonda, cosa che mi solletica l’orecchio come il canto delle Sirene…). E, d’altra parte, l’indagine stessa non rischia di dirci più sull’autore (sul suo metodo, sullo sfondo dei problemi che lo muovono, etc.) che sull’oggetto ?  Perdona la mia enfasi, non sto mettendo in questione né la perspicuità delle tue osservazioni analitiche, né la leggitimità dell’operazione, il dubbio che mi assale è il riflesso dei dubbi che mi assediano quando sono alle prese con l’analisi (specialmente di pezzi contemporanei)….
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Sergio Lanza

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16 ottobre 2007

[...]
Lasciami anzitutto dire che tu sei un lettore dei miei testi semplicemente meraviglioso, e il merito di una bella lettura non è dell'autore del testo ma del lettore. Mi ha interessato moltissimo il fatto che ci troviamo, io in certo senso in modo un po' naiv, tu certo con maggiore coscienza di causa, su un terreno molto prossimo in fatto di analisi e che addirittura qualche metodo sia comune ed abbia una efficacia particolarmente ampia. Una cosa di cui mi rincresce è di non poter aver mai assistito direttamente alle tue lezioni ed alle serie di conferenze di cui di tanto in tanto mi hai dato notizia - sono certo che sarebbero state per me un vero godimento. Ma non si può volere tutto!

Credo anche che tutte le domande che mi poni e che ti poni siano giustificate - ad esempio quelle relative alla effettiva portata del qualificare qualcosa come una clausola, o altre dello stesso tenore. In effetti io mi riparo - stavo per dire dietro, ma è meglio dire davanti allo schermo del fenomeno... ma probabilmente c'è dell'altro, e qualche dubbio è giustificato. Dubbio che però non toglie l'interesse della "possibilità" di fare un simile discorso di reperimento di strutture.

Mi interessa molto naturalmente anche l'idea della possibilità di portare un simile atteggiamento su composizioni dei nostri giorni. Io credo che sia inutile giocherellare sulla pura visione della partitura. La lettura della partitura ha senso e può rappresentare base di una analisi solo alla condizione che il linguaggio sia fortemente standardizzato e le timbriche siano note e correnti. Ma se ciò non accade l'analisi deve avvenire sul fatto stesso, insomma sul merlo. Naturalmente posso benissimo udire un intervallo con l'orecchio della mente; ma un timbro ignoto....???! E addirittura un impasto di timbri?

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Giovanni Piana

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Sergio Lanza: Qualche osservazione sul cap. XVII ("La musica disumana") dei "Barlumi per una filosofia della musica"

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5 febbraio 2008

     La questione del suono degli strumenti virtuali, programmato fino al dettaglio, e non di un solo strumento ma, al limite, di tutta un’orchestra, questa cosa mi fa venire in mente non tanto il direttore che, nonostante tutta la scrupolosità di un approccio analitico (pensa a Boulez) non potrà mai arrivare a determinare il tipo di emissione di ogni singolo strumento,  quanto il ruolo tipicamente totalizzante del compositore. E’ il compositore che deve prendere infinite microdecisioni (accanto alle macro) per definire la partitura nei dettagli ma –ecco il punto–  quanto posso scendere nel dettaglio? Il sistema notazionale ordinario, sia pure ampliato dalla nuova semiografia stratificatasi nel XX secolo, resta pur sempre un sistema prescrittivo indirizzato ad azioni da compiere: io chiedo all’interprete di emettere un certo suono nei modi e nei tempi che una notazione costitutivamente ambigua mi consente (ricordi il finale del mio lavoro sull’ornamento?). Vi sono nel ‘900 partiture, come quelle di B. Ferneyhough, che addirittura esasperano questa presa del compositore sul dettaglio del farsi del suono; altre, all’opposto, come quelle di L. Nono, che sono così scarne e approssimative che non possono non parlarci del necessario sodalizio umano che ha legato ai vari interpreti il compositore mentre componeva. Noialtri che scriviamo oggi, siamo tutti in mezzo a questi opposti, affrontando, accanto alle infinite microdecisioni, infiniti compromessi: con la capacità tecnica dell’interprete, con i limiti di notazione dell’espressione, e infine anche con la nostra stessa immaginazione musicale. Posso non aver voglia di specificare esattamente da quale tipo di f far partire il diminuendo e a quale tipo di p farlo arrivare, e con che velocità di decadimento del suono. Posso limitarmi a mettere una forcella,  forse perché non è essenziale, forse perché io stesso me lo immagino –ogni volta che ci penso– con infinitesime differenze, o forse ancora perché ritengo il contesto, in cui quel brevissimo diminuendo è inserito, sufficientemente chiaro per l’interprete da potermi senz’altro fidare della sua capacità di scegliere una dinamica perfettamente adeguata, adeguata al mio pensiero ma anche alla sua interpretazione estemporanea –di quell’esecuzione in quel momento. Sentirmi restituire dall’interprete, completo fino a un dettaglio che solo la concretezza della realtà fenemenologica possiede, il mio incompletabile pensiero musicale mi espone certo al rischio di un tradimento ma anche al piacere di una scoperta di me stesso che solo così può avvenire, mediata dall’altro.

Tutto questo – e i suoi problemi e le sue ineludibili contraddizioni– è in un certo senso cancellato, o messo tra parentesi dalla musica elettronica fissata su un supporto (escludendo quindi i live electronics che invece, come sai, prevede l’interazione continua tra i due in tempo reale). Ciò che essa produce, invece, è l’estrinsecazione del pensiero del compositore nei minimi dettagli, senza compromessi, direttamente da lui e definitivamente. Questa è, a mio avviso, la differenza più forte con la musica concepita “per strumenti suonati da interpreti”.

Un altro punto cruciale mi sembra quello relativo all’abbondanza delle possibilità di nuovi timbri (e combinazioni ritmiche e texture etc.) che l’uso dei mezzi tecnologici offre al compositore. Rispetto ad essa mostri assai generosamente il tuo favore, mentre guardi con una certa severità (non priva di sacrosanta ironia) l’uso estremizzato (ab-uso, uso distorto, etc.) degli strumenti tradizionali, a causa del quale l’esecutore verrebbe degradato a “produttore di suoni” parlando addirittura di “indebolimento del concetto di interpretazione”.  Io in realtà condivido pienamente la critica ad un atteggiamento di sperimentalismo esasperato e sostanzialmente deludente sul piano del risultato estetico, tuttavia, quando ti spingi ad affermare: “se lo strumento reale tende a trasformarsi in uno strumento virtuale falso,  tanto vale prendere uno strumento virtuale vero” non riesco ad accogliere questa tua provocazione (so bene che è tale). Ho troppo vivo dentro di me il senso del lavoro fatto inseme all’interprete, teso a raggiungere un certo risultato sonoro all’interno di un’esperienza fattuale reale, di un vissuto che tu stesso, con una espressione di grande pregnanza, hai chiamato “l’attrito del reale”… quest’attrito è, per me, parte integrante del contesto dentro cui prende vita il comporre.

Ricordo bene la voce di Brian Ferneyhough (non quella di Solbiati) che molti anni anni fa mi parlava, dell’importanza dell’esperienza del limite per la composizione: lui che aveva significativamente  intitolato il suo ciclo più importante proprio Carceri d’invenzione: si trattava naturalmente di limiti e costrizioni intesi in senso lato, sia dalla parte dell’organizzazione del materiale, sia da quella delle capacità tecniche strumentali.
 

Del resto sei tu stesso ad aprire la strada al rovescio della medaglia aprendo altri fronti di riflessione molto interessanti, da approfondire.

L’abbondanza si trasforma in sovrabbondanza. Non è qui in gioco tanto un eccesso reale di offerta di possibilità per il compositore contemporaneo, quanto forse piuttosto la percezione di questa abbondanza. Il fatto che quella che tu chiami foresta lussureggiante possa essere intesa come un deserto io tendo a collegarlo ad una sorta di “disagio della civiltà”, qualcosa che ha a che fare con una dimensione di eccesso tipica della nostra società di sovraproduzione-sovraconsumo a ciclo continuo (cosa che mi ricorda certe riflessioni che fa Dorfles nel suo libro “L’intervallo perduto”). E la tecnologia non è evidentemente senza ruolo in tutto ciò: la sua saldatura funzionale col sistema dei media è di gran lunga il fattore di condizionamento più potente e trainante, rispetto al quale non siamo poi in molti a rilevarne l’aspetto “deviato e patologico”….

Molto ci sarebbe poi da dire anche sul problema della “forma concerto”, dei tentativi del suo superamento e dell’esperienza d’ascolto attraverso gli altoparlanti (giustamente tu ricordi che “l’ascolto attraverso altoparlanti è diventato  il mezzo fondamentale su cui poggia la ricezione e la cultura musicale”, ed è proprio così, per non parlare dell’uso degli auricolari (ormai diffusissimo) che consente/forza l’introiezione di una musica che (forse) nascerebbe ancora in un fuori fisico (che le casse acustiche in un certo senso ancora “rappresentano”)…

“Non si dovrebbe forse smettere una volta per tutte di attendersi una ‘rivoluzione musicale’ di cercare una ‘nuova musica’ …. ”. Sono davvero completamente d’accordo: è da tempo che ho dentro di me chiara questa idea che la ricerca linguistica all’interno della musica d’arte (o musica colta contemporanea che dir si voglia) debba senz’altro concentrarsi sull’articolazione di forme di senso, ricche e intelleggibili, mettendo completamente fuori gioco la spasmodica ricerca del “nuovo” come valore in sé! Certo l’orecchio rimarrà sempre teso a cogliere le infinite sfumature sonore di un reale che può andare  dall’esplosione di un missile a lunga gittata al cigolio di un cancello, dal suono elaborato dall’ultimo sintetizzatore al canto di un merlo, ma il grosso del lavoro che ci attende è sui meccanismi di costruzione del senso non più sul materiale! Bisogna reinventare una capacità  narrativa, bisogna tendere a quei supremi traguardi di complessità e ambiguità che la tonalità era riuscita a raggiungere come risultato offerto a una comunità in grado di recepirlo e apprezzarlo…

Sergio Lanza


 

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ANNOTAZIONI SULLE COMPOSIZIONI




 

27 Settembre 2009

Fantasia per sette strumenti -


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Ho sentito la tua fantasia per strumenti, che bella! c'è molta varietà nel rapporto tra gli strumenti, l'introduzione distesa ed "espressiva", la dialettica con i materiali più mossi, l'idea della pulsazione circolante, lo scontro tra ottoni e archi, come di due atteggiamenti opposti, la loro l'integrazione. Un momento forse un poco debole è poco dopo il centro del pezzo: a volte è difficile mantenere la tensione rarefacendo il discorso... Ma c'è un bel gusto nella costruzione formale che parla della tua cultura musicale, della tua memoria storica... Bello ed efficace il finale.
Belli anche i 3 bisticci giocosi dove ho ritrovato molto del tuo appassionato studio del canto degli uccelli, ne primo pezzo soprattutto hai trovato un felicissimo livello di "discorsività". Un poco irrisolti forse i finali del 2° e del 3° pezzo. Di quest'ultimo è felice l'idea di creare un'armonia modale e poi sottoporla a tensione dissonantica introducendo materiali altri...
[...]
Sergio Lanza

 

 


Quintetto per pianoforte, due violini e due violoncelli

19 giugno 2012

[...]

Mi sono preso finalmente il tempo per ascoltare bene il tuo quintetto, un lavoro indubbiamente interessante e io mi chiedo sempre come ti muovi: tecnicamente utilizzi un sequencer tipo Cubase e introduci le note traccia per traccia con la tastiera midi ? o scrivi con un programma tipo Finale o Sibelius ? e sul piano compositivo ti prepari i materiali prima (campi armonici e scale, ritmi, textures, figure, etc.) o procedi "strada facendo" ?
A prima vista osservo un'alternanza di momenti ritmati (con pulsazione in 4 e slittamenti quasi-jazzistici) con momenti caratterizzati da suoni tenuti (dinamicamente orientati), poi il tentativo di far entrare questi due mondi in contatto/conflitto spingendo l'uno dentro l'altro. Ma, ascoltando meglio, ci si accorge che il dualismo non ha sempre queste facce: in altri punti ho più l'impressione di due differenti modi di 'parlare' che cercano di dialogare, di interloquire, senza riuscirci veramente. Questo dialogo mancato o conflitto investe anche l'adozione di aggregati consonanti o dissonanti, che fatalmente rimanda l'ascolto ad aspetti linguistici a volte storicamente individuabili, lacerti tonali, lacerti "atonali", ed è in quei momenti che la tua cultura d'ascolto riflessivo emerge prepotente...  Sento un diffuso tematismo, rafforzato da imitazioni ravvicinate oppure da "riprese", come capita al motivo discendente cromatico del piano che apre il brano e che si riascolta più oltre, o al motivo ricorrente nell'acuto, poche note permutate al vl. poi al piano, più o meno a metà del pezzo. Molto efficace l'uso che fai dei pizzicati, così come il soffermarti su moduli iterativi, con brevi ostinati che però subito scompaiono. Forse, se posso permettermi un affettuoso suggerimento, direi che potresti provare a ridurre il numero delle idee, degli spunti motivici e ritmici, dei cambi di texture, di articolazione, di dinamica, lasciando ai sopravvissuti uno spazio -ovvero una durata- maggiore per svilupparne semi e germogli in modo organico. Ma probabilmente ne verrebbe fuori un "senso della forma" che magari è proprio quello che non vuoi !  
[...]
Sergio Lanza

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29 giugno 2012


Mio carissimo Sergio,

alle tue domande sono costretto a rispondere un po' genericamente. Oltrettutto mi sono sempre proposto di prendere qualche appunto sulla metodologia usata per ogni singolo pezzo, ed ho sempre eluso questo compito che mi sarebbe tornato realmente utile proprio per riflettere meglio sulle problematiche che sorgono quando si sceglie la via, non obbligatoria certo, ma comunque una delle vie che si imporranno largamente da sé in futuro, di composizioni destinate in ultima analisi all'esecuzione a computer (anche se alcune delle mie composizioni sono teoricamente eseguibili - ed anzi un paio sono state eseguite). Tuttavia il primo punto da tener presente è che non ho mai in mente l'esecutore nel progetto compositivo, ma l'ascoltatore. Questo è un punto che cambia parecchio le cose dal momento che ci si sente più liberi di fare quello che si vuole senza preoccuparsi ad esempio della diteggiatura del violinista o dei punti di fiato di una tromba - cose che a mio avviso si possono lasciare allo strumentista aggiungendo una certa libertà di intervento anche sull'eventuale partitura (questo è un punto che mi piacerebbe approfondire come altri a cui accennerò in questa lettera). Ma la mia intenzione è in ogni caso fermamente diretta al risultato sonoro e molte cose - importantissime per l'esecuzione dal vivo - diventano irrilevanti per il mio modo di comporre. Questo vale sia per gli strumenti campionati reali, sia per i suoni di sintesi. Naturalmente i registri vengono comunque rispettati - se non altro per la semplice ragione che i campionamenti la rispettano, e dunque se per errore o disattenzione o ignoranza accadesse di suonare fuori registro, ci si accorge subito dell'errore perché la nota fuori registro semplicemente non suona. Per i suoni sintetici ovviamente questo problema non sussiste.

Ciò premesso, veniamo alle tue domande: talvolta lavoro con un programma di scrittura corrente - ma ciò accade rarissimamente e precisamente solo quando intendo comporre un pezzo sostanzialmente tradizionale, non necessariamente tonale, ma bene organizzato dal punto di vista formale. Ad esempio, ho composto un duetto per due violini strettamente dodecafonico, ed un programma che lavora su righi in casi come questi risulta comodissimo. Lo stesso vale per l'Omaggio a Corelli oppure per la Ninna Nanna per voce, violino, corno inglese. Ma sono casi rarissimi. A me piace lavorare con un sequencer, perché con un sequencer si può fare letteralmente di tutto. Ma la mia risposta avrebbe senso se scendessi nei dettagli e questo è veramente difficile fare. Una delle ragioni è che appunto lavoro con metodi anche molto diversi secondo il pezzo che mi propongo di comporre, l'altra che stupidamente non prendo nota almeno dei momenti più significativi del metodo che sto usando, cosa che tra l'altro sarebbe per me utile anche per una sperimentazione di un determinato metodo su altri pezzi o con delle varianti. Posso dirti però che almeno spesso mi comporto grosso modo come uno "scultore" - l'analogia è per lo più inappropriata, ma lo è se si considera lo scultore come uno che lavora su un materiale molto grezzo, che va via via modificando secondo i suoi intenti. L'analogia è tuttavia troppo povera e non la si può spingere molto oltre. Di fatto spesso io mi procuro un materiale grezzo (grezzissimo) improvvisando sulla tastiera, inizialmente con la sola timbrica pianistica - e poi lavorando nell'editor del sequencer nei tremila modi che puoi immaginare: isolando punti che mi sembrano interessanti e mettendoli da parte (questa possibilità di mettere da parte - l'appunto del compositore tradizionale - è realmente formidabile), operando con gli script che il sequencer consente di fare e quindi operando variazioni su elementi motivici dati - naturalmente avendo in mente un determinato progetto musicale; fa parte dello "sgrezzamento del materiale" la suddivisione delle tracce, e quindi la scelte delle timbriche, che "penso" prima, ma che realizzo in un secondo momento, eventualmente variando il progetto iniziale  - ed a questo punto mi sembra di cominciare realmente a "comporre". E non solo a "sgrezzare" un materiale grezzo. Nota poi che lo stesso materiale grezzo può essere ottenuto anche in altri modi, ad esempio usando atipicamente strumenti (sottoprogrammi) interni al sequencer, ampliando notevolmente le potenzialità dell'improvvisazione che fornisce il materiale primario. Tra l'altro può persino accadere che di questo materiale primario non rimanga alla fine quasi nulla. Insomma io non sono un pensatore che compone - strano doverlo dire! - anche se la mia posizione sui fatti musicali mi aiuta molto, non comunque uno che lavora con matita e gomma sulla carta bianca, ma ho bisogno di un materiale preliminare costruito in funzione di un progetto, ma inizialmente senza preoccupazioni di strutture, e che può presentarsi, anzi che normalmente si presenta musicalmente insostenibile.  Nella elaborazione di questo materiale, ecco apparire le strutture - come tu hai ben notato: richiami interni, varianti di elementi motivici ecc.  - e ci sono in particolare in questo pezzo che è pensato non certo in termini tonalistici, ma - come dire -  "classicistici". Ho esitato molto sulla formazione - in fin dei conti se ne poteva fare un quartetto o un trio - ma poi ho scelto questa formazione atipica per vari motivi (soprattutto timbrici). I violoncelli ad esempio sono due per accentuare l'aspetto percussivo dei pizzicati. Gli accordi consonanti che vi compaiono in fondo  quagliano con tutto il resto, ma come tu dici vi è qualcosa di conflittuale, di irrisolto. (Tra l'altro il brevissimo elemento motivico che apre il terzo tempo era orientato dall'intenzione di scrivere uno scherzo - magari molto breve - cosa che non escludo ancora di fare anche se non mi piace ritornare sul già fatto) per chiudere con il dualismo di dramma/catarsi, tragedia e tentativo di rasserenamento che era lo spirito con cui ho scritto questo brano, lo stato d'animo che mi guidava quando ancora si poteva sperare almeno in una più lunga pausa nella malattia di Marina.

Infine il tuo "affettuoso suggerimento" (" direi che potresti provare a ridurre il numero delle idee, degli spunti motivici e ritmici, dei cambi di texture, di articolazione, di dinamica, lasciando ai sopravvissuti uno spazio -ovvero una durata- maggiore per svilupparne semi e germogli in modo organico. Ma probabilmente ne verrebbe fuori un "senso della forma" che magari è proprio quello che non vuoi ! ) coglie completamente nel segno. Io faccio un vero spreco di idee musicali e dovrei fare uno sforzo per evitarlo - senza necessariamente accentuare più di tanto il "senso della forma". Me lo sono sempre detto, e sono lietissimo che me lo dica anche tu.

 
Giovanni Piana

 

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6 luglio 2012


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"Quello che mi hai scritto riguardo il tuo comporre mi ha molto incuriosito e interessato. Immagino che per "script" tu intenda la possibilità di manipolare altezze e ritmi attraverso filtri logici di vario tipo. Di questo tuo approccio farò senz'altro tesoro sia per il mio prossimo "Laboratorio compositivo" sia per il corso di composizione che devo tenere per la classe di Musica Elettronica, ovvero in due momenti in cui, non avendo di fronte i classici "studenti di composizione", né il classico programma da svolgere, devo ricorrere ad un approccio atipico e stimolante, che intrecci riflessione teorica, analisi e pratica concreta.
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Sergio Lanza

 





Il fiore che restando passa, per coro a cappella

17 gennaio 2013

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E' toccante il tuo coro e mi ha subito meravigliato per le scelte forti, radicali, che hai compiuto: molto forte la scelta omoritmica, quasi gregoriano, rotta a tratti da un discanto più che da una polifonia, un'ambientazione gotica, severa, ma non priva di "dolcezze", mi è venuta in mente la pittura di Cranach e Dürer, ma anche certi momenti della musica di Xenakis. Forte è anche la scelta di coerenza nel mantenimento della texture antifonica (lontana dalla ricerca di ipervarietà del quintetto) ma l'imprevedibilità del passaggio al discanto e della sua durata (questo ispessimento a volte ridotto al bordone) sottrae il pezzo a una iteratività ieratica. Ci sento la condizione che stai vivendo, questa dimensione del ricordo/oblio che mi pare intrecciarsi alla presenza/assenza della voce di Marina, che è presenza/assenza del ricordo del vostro appassionato dialogo. In lontananza sento la dialettica tra la dimensione di solitudine del canto omoritmico e quella del discanto-dialogo ma senza rigidità o automatismi formali: il discanto interviene in entrambe le voci, maschili e femminili, e la tua memoria gioca più ruoli...
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Sergio Lanza

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21 gennaio 2012


Mio caro Sergio,

hai un orecchio semplicemente formidabile, ed io ti sono veramente grato del tempo che mi dedichi e dell'attenzione con cui tu ascolti ciò che io faccio. In un periodo come questo è per me di vitale importanza poter riprendere i miei interessi di una volta - ora concentrati soprattutto sulla composizione perché è in essa che trovo una sorta di ristoro: ma persino questa attività è minacciata dalla mancanza di motivazioni. Ed un commento come il tuo mi aiuta moltissimo nel ritrovarle. Come sai, io non compongo per essere eseguito, ma sento questa attività come una sorta di continuazione e di sviluppo della mia riflessione teorica sulla musica (e su molte altre cose) - e in fondo si tratta ancora di una attività "speculativa" dal momento che non sono tanto interessato a crearmi uno "stile" quanto piuttosto a sperimentare ecletticamente cose anche molto diverse.  Ma è un fatto per così dire intrinseco alla cosa stessa: se produci un brano non lo puoi fare soltanto nel deserto di Pietrabianca - come puoi immaginare a gennaio qui, oltre me, non c'è proprio nessuno! Io sono assediato dal silenzio. Gli unici suoni che posso udire sono quelli che produco io stesso. Ma è evidente che questo non basta.
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Giovanni Piana


Migranti

4 dicembre 2015

"E veniamo al tuo nuovo pezzo. Che poi è fatto di 3 distinti momenti, un inizio con archi gravi, cupo, melodico e contrappuntistico, che mi ha ricordato Bartok. Poi la texture si arricchisce della tromba, di pedali/bordoni e, tra gli spunti tonali di cui è ricco, irrompe (al 3:51) una modulazione da re minore al fa# minore tramite una reinterpretazione del do# !
     Devo dirti che la caratteristica di questa tua scrittura che mi colpisce e mi affascina maggiormente è proprio questo eludere e ritornare di possibili centri tonali, che mi ricorda il primissimo Webern e in generale il primo novecento (un periodo fecondissimo troppo rapidamente archiviato dalla generazione darmstadiana postbellica)... Questo tuo muoverti con spregiudicata disinvoltura tra memorie porta a una continua inversione del rapporto di figura/sfondo tra zone tonali e altre atonali, sfidando la capacità  dell'ascoltatore di "riorientarsi" rapidamente (dove mi sta portando? con quale logica?).
    Il secondo pezzo, pulsante, sembra a un certo punto introdurre quasi un personaggio fortemente caratterizzato: la tromba 'impertinente'...
    Ma la mia preferenza va al primo e, soprattutto, al terzo pezzo, dove si distinguono gesti più definiti, un contrappunto più nitido. E infine "osi" quell'epanalessi... quella figura di ripetizione che duplica o triplica un'espressione o un gesto sottolineandola (da 9:02 ), quindi le scale discendenti,... hai interrotto forse troppo presto questo movimento, proprio mentre stava "prendendo forma"...!
 

Sergio Lanza


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Dilla, dilla la nota d'oro!

12 novembre 2016

"Ho ascoltato il tuo pezzo. Interessante, stratificato, eclettico, rischioso, folle. Non è facile creare un dialogo tra discorsi così lontani come sono quello degli archi tardoromantici e quello della percussione metallica con oscillazioni di frequenza tipo flexaton o strumentini etnici... ricordo anche in altri tuoi pezzi questo tuo gusto per l'intervento "impertinente", di sfacciata estraneità. Difficilissimo ed esteticamente rischioso. L'uso che fai delle percussioni metalliche all'inizio e alla fine, creando un fondo continuo, mi sembra molto efficace e mi fa pensare che potresti lavorare anche con materiali "concreti", registrazioni di suoni reali, eventualmente manipolati. Penso al suono di campane e metalli autentici, o di infinite altre fonti che possono portare con sè quell'espressività che il midi, a mio parere, continua a non avere. Puoi trovare in Internet moltissimi campioni già pronti per l'uso oppure munirti di un buon registratore e metterti tu alla caccia di suoni interessanti, scoprendo o creandoti il tuo "paesaggio sonoro". Forse non ti basterebbe, hai bisogno di lavorare anche con i suoni orchestrali, con bordoni, melodie, cadenze etc. ma credo che, se sei affascinato dal lavoro su una stratificazione di materiali eterogenei, l'immissione di suoni concreti potrebbe darti delle soddisfazioni. Alla fine mi hai fatto pensare ai pezzi orchestrali di Ives, anche lui affascinato da incontri esteticamente impossibili ma "reali" !" [Sergio Lanza]


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Chiù

21 gennaio 2017

"Devo dire che mi è piaciuto molto questo tuo Chiù. Mi è piaciuta sia la scelta parsimoniosa dei materiali (glissati, melodie, arpa, chiù), sia il lavoro "nel tempo" che hai fatto con essi, il loro stratificarsi e il loro tornare. E anche questo elemento misterioso, il chiù, "esterno" ma non estraneo."


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Mille cetre

9 dicembre 1917

[...]

"Può sembrare strano occuparsi, o meglio prendere le vesti, della mitologia classica all'inizio del '900, ma solo ignorando l'opera di Debussy e quanto europeo fosse in realtà  il provinciale Pascoli! Credo di capire il cortocircuito tutto tuo che ti ha portato a mescolare elementi in bizzarra compagnia. Difficile dire chi sia "l'estraneo" in questa multiforme polifonia: quel ricorrente ricordo del sol minore, dagli archi iniziali alle voci finali, i Natur Laute, le sonorità  etniche. Il fatto è che riesci a immergere tutto in una sorprendente circolarità che sentirei di esprimere in questo schema:

In questo pezzo sento anche dei problemi tecnici di bilanciamento (distorsioni, audio troppo forte) e il limite del midi che indubbiamente pesa. Ma se alcuni momenti sono più "duri", altri mi sembrano assai felici, come i flauti che trasfigurano gli uccelli o quello dal minuto 6:47, dove isoli coro flauti e acqua..."

[...]

 


 

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