Giovanni Piana, Mille cetre (2017)(Flac, 69 MB)

 

 


 

Commenti

Luigi De Francesco 

Mauro De Martini

Alessandro Arbo

Sergio Lanza

Giovanni Guanti

Massimo Privitera


 

Presentazione

A differenza delle altre fantasie su versi di Giovanni Pascoli, questa non trae spunto e suggerimento da un verso o da un frammento di essa, ma da un racconto che si trova narrato in versi nei "Poemi Conviviali". Nella poesia "Il cieco di Chio" (una delle leggende che circondano il mitico Omero è che egli fosse nato a Chio e che fosse cieco), si narra che  nei suoi vagabondaggi l'aedo approda nell'isola di Delo. E qui incontra la fanciulla - Deliàs, figlia di Delo - a cui egli vuol fare un dono:

... di qual dono io mai
posso bearti il giovanetto cuore?

Così ha inizio questo splendido poema. Un inizio che lo avvolge di una sensualità che forse è stata troppo poco rilevata nei commenti. Il dono è un tentativo di ricambiare un altro dono: quello del "giovanetto cuore" che ha concesso alle mani dell'aedo cieco di rimirare la sua bellezza.

Ché all'invito de' giovani scotendo
gl'indifferenti riccioli del capo,
gioia t'hai fatto del vegliardo grigio
cui poter falla e desiderio avanza.
E lui su le tue lievi orme adducevi
all'opaca radura ed al giaciglio
delle stridule foglie, in mezzo ai pini
sonanti un fresco brulichio di pioggia
presso la salsa musica del mare.
Ne già la bianca tua beltà celasti
a gli occhi della sua memore mano:
non vista ad altri, che a lui cieco e, forse,
al solitario e tacito alcione.

Certo l'elemento sensuale si spegne completamente se la fanciulla di Delo viene intesa come una sorta di allegoria - ad esempio come la musa che ispira il poeta, o addirittura come se si volesse qui fare un discorso sulla relazione tra la bellezza femminile e la poesia in una vaga generalità. Questo sarebbe un modo di misconoscere proprio la piega simbolica di tutto questo poema. Per coglierla bisogna mantenere quella prossimità all'elemento sensibile-sensuale che circola dappertutto - nei riccioli della fanciulla, nel desiderio del vegliardo, negli occhi della sua memore mano, nell'ambiente sonoro che viene evocato - stridule foglie, pini sonanti, brulichio di pioggia, salsa musica del mare. Questo elemento sensibile-sensuale si trasmette da questo inizio sino al dono dell'aedo con cui il poema si conclude, ed anzi si potenzia insieme alla direzione simbolica  che certo è la trama di tutto il poema. E' soprattutto a questa fine che questo brano musicale ha in qualche modo tratto spunti, per una fantasia musicale che cerca di sottolineare soprattutto l'unità di poesia, musica e natura, a mano a mano che l'aedo con la sua grande cetra si addentra nel bosco, che sempre più assume un senso sacrale, e percepisce le voci  della natura, in cui il canto delle ninfe si mescola allo scrosciare del ruscello ed alle voci misteriose degli uccelli sullo sfondo vicino e lontano delle cicale. Fino a quando arriva alla sorgente ed ingaggia una gara che non potrà che perdere di fronte alle mille cetre della natura tra le quali la sua grande cetra si fonde e confonde. Il dono del poeta alla fanciulla di Delo sarà dunque il racconto di questo cammino, attraverso la natura, verso la grande poesia. 

................. Era un meriggio estivo:
io sentiva negli occhi arsi il barbaglio
della via bianca, e nell’orecchio un vasto
tintinnío di cicale ebbre di sole.
Ed ecco io vidi alla mia destra un folto
bosco d’antiche roveri, che al giogo
parea del monte salir su, cantando
a quando a quando con un improvviso
lancio discorde delle mille braccia.
Entrai nel bosco abbrividendo, e molto
con muto labbro venerai le ninfe,
non forse audace violassi il musco
molle, lambito da’ lor molli piedi.
E giunsi a un fonte che gemea solingo
sotto un gran leccio, dentro una sonora
conca di scabra pomice, che il pianto
già pianto urgea con grappoli di stille
nuove, caduchi, e ne traeva un canto
dolce, infinito. Io là m’assisi, al rezzo.
Poi, non so come, un dio mi vinse: presi
l’eburnea cetra e lungamente, a prova
col sacro fonte, pizzicai le corde.
Cosí scoppiò nel tremulo meriggio
il vario squillo d’un’aerea rissa:
e grande lo stupore era de’ lecci,
ché grande e chiaro tra la cetra arguta
era l’agone, e la vocal fontana.
Ogni voce del fonte, ogni tintinno,
la cava cetra ripetea com’eco;
e due diceva in cuore suo le polle
forse il pastore che pascea non lungi.
Ma tardo, al fine, m’incantai sul giogo
d’oro, con gli occhi, e su le corde mosse
come da un breve anelito; e li chiusi,
vinto; e sentii come il frusciare in tanto
di mille cetre, che piovea nell’ombra;
e sentii come lontanar tra quello
la meraviglia di dedalee storie,
simili a bianche e lunghe vie, fuggenti
all’ombra d’olmi e di tremuli pioppi.
Allora io vidi, o Deliàs, con gli occhi,
l’ultima volta. O Deliàs, la dea
vidi, e la cetra della dea: con fila
sottili e lunghe come strie di pioggia
tessuta in cielo; iridescenti al sole.
E mi parlò, grave, e mi disse: Infante!
qual dio nemico a gareggiar ti spinse,
uomo con dea? Chi con gli dei contese,
non s’ode ai piedi il balbettío dei bimbi,
reduce. Or va, però che mite ho il cuore:
voglio che il male ti germogli un bene.
Sarai felice di sentir tu solo,
tremando in cuore, nella sacra notte,
parole degne de’ silenzi opachi.
Sarai felice di veder tu solo,
non ciò che il volgo víola con gli occhi,
ma delle cose l’ombra lunga, immensa,
nel tuo segreto pallido tramonto.
Disse, e disparve.........

[dicembre 2017. G.P.]